Una predica troppo lunga
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Pochi sanno che Jonathan Swift, il celebre autore dei Viaggi di Gulliver (1726), fu prete anglicano e scrisse, con una buona dose di sarcasmo, un sermone sul modo di far addormentare i fedeli durante una predica pomeridiana. Ebbene, proprio in quel testo iniziava con l’evocazione di un episodio degli Atti degli apostoli nel quale san Paolo aveva pronunziato un discorso così lungo durante una celebrazione eucaristica serale da aver causato una specie di tragedia.
È una scenetta abbastanza curiosa che ha per protagonista un neanías, termine usato solo tre volte negli Atti: la prima per l’allora Saulo che assisteva al linciaggio di Stefano (7,58); la seconda nel brano che ora stiamo per citare, e l’ultima in 23,17, applicato a un giovane nipote dello stesso Paolo. Il ragazzo che presentiamo si chiamava Eutico.
Negli Atti degli apostoli, la seconda opera di Luca, oltre ai due protagonisti Pietro e Paolo, è presente una folla di personaggi minori, noti e meno noti, dagli apostoli e da Maria fino a figure modeste e secondarie come Agabo, Anania, Aquila, Aristarco, Blasto, Enea, Damaris, Dionigi, Dorcade, Lidia, Lucio di Cirene, Manaen, Priscilla, Secondo, Simone il cuoiaio, Sopatro, Tichico, Tromo, e così via. Tra costoro c’era il ragazzo di nome Eutico, che in greco signica “buona fortuna”, un nome che, vedremo, ben gli si adattava.
A lui, infatti, capitò un fatto sensazionale, narrato in modo molto vivace, anche perché Luca ne era stato spettatore (infatti usa la prima persona). Paolo era partito con una nave da Filippi, la città greca macedone ove aveva fondato la prima comunità cristiana europea, alla quale indirizzerà una famosa e affettuosa lettera. Dopo cinque giorni di navigazione era approdato a Troade, città dell’Asia Minore, nell’attuale Turchia, sulla costa settentrionale dell’Egeo. Qui si era fermato una settimana.
A Troade l’Apostolo era già approdato durante un altro suo viaggio missionario e proprio in questa città aveva visto in sogno «un Macedone» che lo supplicava: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (Atti 16,8-9). Ora è di nuovo in questo luogo ed ecco l’episodio che coinvolge Eutico e che Luca data al «primo giorno della settimana», cioè di domenica. Si deve, quindi, celebrare l’Eucaristia, «lo spezzare il pane», rito che si compiva durante la cena. Paolo si abbandona a un lungo discorso anche perché l’indomani sarebbe partito. Le ore passano e siamo già a mezzanotte.
Ma lasciamo la parola a Luca: «C’era un buon numero di lampade nella stanza al piano superiore, dove eravamo riuniti. Ora, un ragazzo chiamato Eutico, che stava seduto sulla finestra, fu preso da un sonno profondo mentre Paolo continuava a conversare e, sopraffatto dal sonno, cadde dal terzo piano e venne raccolto morto. Paolo, allora, scese giù, si gettò su di lui, l’abbracciò e disse: Non spaventatevi! È ancora vivo! Poi risalì, spezzò il pane e ne mangiò e, dopo aver ancora parlato molto fino all’alba, partì.
Intanto si era ricondotto vivo il ragazzo e ci si sentiva tutti molto consolati» (20, 7-12). Veramente fortunato questo Eutico dal nome benaugurante, nonostante la sua stanchezza e la sua distrazione rispetto all’omelia – troppo lunga – dell’apostolo Paolo! Un monito, allora, permane – come ha suggerito anche papa Francesco – a non allungare troppo il brodo delle prediche. Un importante studioso cattolico, Carlo Bo, le aveva bollate come «il tormento dei fedeli» e non certo nel senso positivo dello scotimento delle coscienze. In questo senso sono un campanello d’allarme per il predicatore non solo il chiacchiericcio dei ragazzi ma anche il dondolare di alcune teste più mature e non solo giovanili, come in quella sera a Troade.
Gianfranco Ravasi
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