L’eutanasia
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L’eutanasia è quell’atto, cosciente e perfettamente intenzionale, con cui si pone fine alla vita di un malato. Questo a prescindere dalle modalità con cui si realizza e dalla persona che lo richiede.
Alcuni fanno differenza tra eutanasia “attiva” ed eutanasia “passiva” ma è un errore perché non c’è alcuna differenza tra l’uccisione diretta (tipo: staccare una spina) e la sospensione delle cure fondamentali. Particolarmente grave, poi, è la privazione dell’alimentazione e dell’idratazione al malato.
Alcuni fanno differenza tra eutanasia “attiva” ed eutanasia “passiva” ma è un errore perché non c’è alcuna differenza tra l’uccisione diretta (tipo: staccare una spina) e la sospensione delle cure fondamentali. Particolarmente grave, poi, è la privazione dell’alimentazione e dell’idratazione al malato.
Ciò detto, si comprende che l’eutanasia è una pratica assolutamente contraria all’etica professionale (codice deontologico) dei medici e degli altri operatori sanitari. Alcuni “progressisti” (in genere non credenti) sostengono che l’eutanasia rappresenti l’unica strada percorribile per offrire al malato un termine alle sue “insopportabili” sofferenze. In realtà questa decisione consiste “sic et simpliciter” nell’uccisione del malato prima che sia giunta la sua ora, e questo in nome dell’esercizio “dell’autonomia individuale”. Ma tale autonomia non possiede alcun diritto a sopprimere una persona malata. Il vero diritto di una persona gravemente malata non è quello di vedersi o sapersi sopprimere ma di essere accompagnato verso una morte dignitosa e meno dolorosa che sia possibile.
Per queste ragioni, le strutture sanitarie, la famiglia, il volontariato ospedaliero non possono e non devono abbandonare o “ghettizzare” il malato ma, piuttosto, sono tenuti ad impegnarsi per creargli un ambiente (un’atmosfera) che sia il più accogliente possibile. Ovviamente, tutto ciò sia sostenuto dalle terapie necessarie e, in particolar modo dalle cure palliative e dalla “terapia del dolore” che gli specialisti ben conoscono e sanno praticare.
Risulta chiaramente che molti infermi, da lungo tempo “allettati” perché oppressi da gravi malattie, possano giungere alla richiesta: “Fatemi morire!” non tanto (e non solo) per la paura di dover sopportare il dolore fisico (a cui – sostengono alcuni psicologi – ci si potrebbe anche, in qualche modo “abituare”) ma specialmente perché si sentono incapaci di affrontare la sofferenza esistenziale , che appare sempre crescente e che può portare alla disperazione.
Ecco l’importanza enorme delle cure palliative che riducendo le sofferenze rendono più sopportabile la malattia all’infermo e che, grazie al palese interessamento di medici, paramedici ed altri operatori, gli forniscono il supporto psicologico e umano di cui ha bisogno per affrontare una situazione che sarebbe realmente gravosa ed insopportabile. A questo punto si rende necessario un “distinguo” tra la terapie del dolore e l’accanimento Terapeutico.
Don Manlio
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