PER LA «GENERAZIONE ALZHEIMER» SERVE UN PIANO D’EMERGENZA
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Riceviamo e pubblichiamo
PER LA «GENERAZIONE ALZHEIMER» SERVE UN PIANO D’EMERGENZA
di Riccardo Renzi
Se il costo delle cure per la demenza fosse il bilancio di una nazione, questa sarebbe la 18esima al mondo per valore economico, 604 mi-liardi di dollari, pari all’1% del Pil mondiale. Secondo il Rapporto mondiale di Alzheimer Disease’s International, pubblicato a settembre 2010, oggi nel mon-do le persone affette da demen-za sono 35,6 milioni: ebbene questo numero è destinato a raddoppiare nel 2030 e triplica-re nel 2050. In Europa è previ-sto un aumento del 34% in que-sto decennio. Negli Stati Uniti hanno fatti i loro conti e hanno pubblicato, a gennaio, un’analisi chiamata Generation Alzheimer report: calcola, per esempio, che dei 10 milioni americani che quest’anno compiono 65 anni uno su 8 si ammalerà di demeNza e che, tra quelli che supere-ranno gli 85 anni, i malati saran-no 1 su 2. Risultato: oggi negli Usa si spendono 172 miliardi di dollari, nel 2050 serviranno più di mille miliardi.
Queste sono le cifre che giustifi-cano il termine emergenza, senza timore di essere accusati di allarmismo. Meno di un mese dopo il rapporto sulla Genera-zione Alzheimer, Obama ha avviato una legge (National Alzheimer’s Project Act) per coordinare ricerca, cure e assistenza pubblica e privata. In altri Paesi europei (Danimarca, Scozia e Inghilterra, Finlandia e Portogallo) sono partiti piani governativi per affrontare l’e-mergenza e strutture evolute sono presenti in Francia, Spa-gna e Germania. E in Italia? Noi in verità eravamo partiti bene, con il progetto Cronos, avviato nel 2000, che prevede-va l’istituzione sul territorio di circa 700 Uva (Unità di valuta-zione Alzheimer) che avevano il compito di individuare i malati, valutarne il grado di compromissione, mettere a punto le tera-pie possibili e fornire i farmaci per i primi mesi, collaborando poi con i medici di famiglia. L’o-biettivo era quello di creare una rete di centri di riferimento spe-cialistici.
Il progetto Cronos è stato sicu-ramente un passo avanti per i malati e le loro famiglie», dice Gabriella Salvini Porro, presi-dente della federazione Alzheimer Italia, la principale associa-zione che si occupa delle de-menze. «È stata una reale op-portunità anche se l’integrazio-ne tra assistenza e terapia non è stata sufficiente. In pratica si è troppo spesso prescritto solo farmaci e non ci si è presi cura in modo globale del malato». Ora però, compiuti dieci anni, il Progetto appare indebolito, sfaldato: attualmente le Uva dovrebbero essere 503, ma mo-strano una grande disomoge-neità.
E non si sa nemmeno esattamente quali e dove sono, anche perché in alcune regioni hanno cambiato nome e funzio-ni e spesso mancano elenchi ufficiali. «Non si capisce come le famiglie possono individuare il centro di cura dove portare il congiunto», ha denunciato in un recente convegno Nicola Vanacore dell’Istituto superiore di Sanità. Anche per questo in Lombardia è stato condotto un censimento (e una valutazione) delle strutture che si occupano dei malati con demenza, con-dotto dall’Istituto Mario Negri e dalla federazione Alzheimer Italia, con l’obbiettivo di realiz-zare una banca dati online. Inol-tre, ha aggiunto Vanacore, «accanto a realtà d’avanguardia c’è un 25 per cento di Uva che sono aperte un solo giorno alla settimana e un 8 per cento in cui è presente, quando può, un solo medico».
È il tipico ritratto della sanità italiana: da una parte centri di vera eccellenza (e alcuni lo erano già da prima del progetto), che hanno cerca-to di sviluppare i propri compiti verso l’assistenza ai malati e alle loro famiglie, dall’altra strut-ture burocratiche e vaste aree del Paese scoperte. «I finanzia-menti con cui sono nate le Uva servivano praticamente solo per i farmaci, tranne una piccola parte per la ricerca», ricorda Giuseppe Magnani del dipartimento dei disturbi della memoria dell’Istituto di neurologia del San Raf-faele di Milano. «Per il resto hanno dovuto ar-rangiarsi con le strutture e il personale esistente, tenendo conto che i pa-zienti con demenza ri-chiedono molto impegno e molto tempo. E che serve personale specia-lizzato, per esempio gli psicologi. E così ci sono quelli che si sono dati da fare, soprattutto per trovare le risorse, altri che si sono limitati al minimo. Ora servirà ben altro: è necessario rifinanziare, potenziare i centri, dare loro maggiori risorse». Perché anche i migliori oggi sono ricompensati con un enorme carico di lavoro e una domanda crescente, che resta spesso insoddisfatta. Serviranno dunque, di fronte all’emergenza della «generazione Alz-heimer», nuove risorse per ridare vigore ed estendere la rete di orientamento. Serviran-no più soldi per la ricerca specifica, anche se l’e-mergenza arriverà pro-babilmente troppo presto per i tempi lunghi della scienza. Serviranno quindi soprattutto mas-sicce risorse per un pia-no nazionale di assistenza. In Italia il costo dei pazienti non autosuffi-cienti, in generale, ricade per la maggior parte sulle famiglie, perché, rispetto all’Europa, sono meno diffusi i servizi di assistenza domiciliare e residenziale. I circa 600mila pazienti italiani affetti da demenza, per i quali servono, si calcola, circa 60mila euro all’an-no ciascuno (calcolando anche i mancati guada-gni sia dei malati sia di chi li assiste), sono ancora più «abbandonati» degli altri. Sono i malati più scomodi, e saranno sempre di più, di cui nessuno vuole farsi carico.
Antonino Guarnaccia
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