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Nulla è impossibile a Dio

25 Giugno 2014 | Filed under: Riflessioni
     

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“Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10)
L’evangelista Luca al termine della sezione dedicata all’infanzia di Gesù, presenta la persona e l’opera di Giovanni il Battista. Descrive la sua comparizione, dà diversi riferimenti della sua predicazione, rivelando in fine la sua carcerazione; solo in seguito narra il battesimo di Gesù. Giovanni aveva sollecitato i suoi uditori a fare “opere degne della conversione”, (v. 8) specificando in che cosa consistono questi frutti. Il Battista indica tre categorie di persone che presentano la stessa domanda. In primo luogo è la folla, alla quale rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.  (v. 10) Giovanni in prospettiva della salvezza domanda a tutti la disponibilità a condividere i propri beni con gli altri. La stessa domanda viene proposta  dai pubblicani che andavano da lui per farsi battezzare: “Maestro, che cosa dobbiamo fare?” rispose loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. (vv. 12-13) I pubblicani poiché esattori della tasse, venivano considerati peccatori e questo per due motivi: in quanto dipendenti dei romani erano da loro contaminati, sia perché la loro attività era possibilità di iniquità e estorsione. Giovanni non prescrive loro di cambiare il lavoro, ma li esorta ad esercitarlo con onestà, esigendo solo il dovuto. Infine lo interrogano alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Rispose loro: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe”. (v. 14) È evidente che la predicazione del Battista era intrisa da una vigorosa esigenza sociale, condivisa secondo Luca anche da Gesù.

“Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10)
In questa domanda è nascosta la provocazione da parte di quanti vanno da lui. Giovanni è l’uomo che Dio ha scelto per indicare agli altri Cristo Gesù. Egli è la persona disponibile ad accogliere il Signore, ha provocato con la sua testimonianza quanti si rivolgevano a lui, a comprendere che la fede è un adesione concreta, e che le opere sono una conseguenza spontanea della fede.

Egli è proteso verso il futuro di Dio e chiama ogni uomo a volgersi verso di esso. Il suo cuore è pervaso dalla nostalgia di Dio per questo è tutto proteso verso la promessa di Dio. Avere nostalgia significa possedere in sé un desiderio intenso e struggente di una persona.  Chiediamoci allora se in noi c’è questo desiderio struggente di lui? La nostalgia di Dio è già per il credente certezza che l’attesa è premiata. “Dodici dicembre 1945. La guerra è finalmente finita. A Kolyshkino, un villaggio russo sul Volga, giunge notizia del ritorno dei soldati dal fronte: “Domani, alle 9.15, sul terzo binario della stazione, arriveranno i reduci”. La notizia vola di casa in casa. Ovunque fervono i preparativi. All’indomani, il piccolo scalo ferroviario è gremito. C’è anche una vedova, che vive appena fuori paese. Attende il figlio Nicolaj, partito tre anni prima per il fronte, e del quale non ha notizie da tempo. Finalmente arriva il treno, salutato da applausi e lacrime di commozione. Seguono spintoni e abbracci. Quella vedova si guarda intorno con ansia, ma senza successo. Allora sale sul treno passando da uan carrozza all’altra, ma di Nicolaj neppure l’ombra. Chiede notizie del figlio ai soldati. Soltanto una giovane recluta afferma di averlo visto, ma qualche mese addietro sul fronte tedesco. Mentre torna mestamente a casa, la donna prende una decisione: tutte  le sere, all’imbrunire, metterà una lanterna alla finestra, in segno di attesa. Ogni sera rinnova il gesto. Scorrono le notti, molte delle quali insonni. Dopo dieci mesi e 9 giorni, una notte di ottobre dell’anno successivo sente bussare alla porta. Non è il vento, non sono le foglie. È Nicolaj, finalmente tornato a casa”. Nostalgia di Dio è riconoscere i suoi passi, il battito delle sue mani alla porta del nostro cuore, la sua voce e aprire con gioia la porta. È gridare a squarciagola non tanto o solo con le parole ma con la vita che siamo dimora di Dio.

“Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10)
È uscire dalle nostre comodità, dal nostro modo di pensare, parlare, agire per annunziare il Messia. È cercare il vero volto della vita che solo Gesù sa donarci. È spogliarci completamente dalla scorie del mondo, per assumere i sentimenti di Cristo, fino al punto che i nostri lineamenti sono i suoi lineamenti. È gettarci a capofitto nel mondo, nella consapevolezza di non essere di questo mondo. “Un giorno, in una delle marce, che sembra siano oggi la caratteristica per dire dei no a tutte le forme che uccidono l’uomo, mi venne vicina, e non riesco a capire perché, una ragazza che mi chiese di viaggiare vicino “per una maggiore tranquillità”, mi disse. Mi accorsi presto che era una tossicodipendente ed era in stato veramente pietoso: ma il suo volto ispirava tanta, ma tanta tenerezza. “Perché lo fai?” Le chiesi ingenuamente, alludendo alla droga. Con una risposta rabbiosa mi disse: “Perché lo faccio? perché è bello. Cosa mai ci avete insegnato voi preti di bello? Ma chi è mai poi il Cristo che voi dite sia la felicità? Se veramente lo è, perché non si fa vedere? Perché non ce lo fate vedere?” Uscivano domande ed imprecazioni a getto continuo che avevano l’aria della disperazione. Faceva veramente compassione quel volto sfregiato dal dolore. Non aveva vergogna di buttarti in faccia tutta l’amarezza del suo animo, che forse aveva sognato “Cieli meravigliosi” e si era trovato, senza sapere lei neppure perché, in una palude che non offriva uscite. Io non osavo neppure rispondere. Mi lasciavo sommergere da tutta quella rabbia e maledizione. L’unica mia risposta era lo sguardo, che non distoglievo dai suoi occhi. “Cosa posso fare, mi disse, cosa posso fare?” furono le ultime parole, come per cercare una uscita dalla disperazione. Ci appartammo e chinammo il capo tutti e due come in cerca di una risposta. Nel silenzio mi passavano davanti agli occhi i tantissimi come lei, fino a confondermi. Presi un foglio di carta e scrissi questa preghiera: “Signore, questa sera non ho più voce, se non per dire parole vuote: insegnami a pregare, Signore in questa sera piena di voci che tradiscono: a trovare una voce che giunga a chi soffre, insegnami la voce della preghiera. Signore, ti sto gridando che la vita di tanti e forse mia è così vuota di senso da non riuscire a volte a credere che il senso della vita sei proprio Tu: insegnami a pregare Signore, a volte ci rammarichiamo di non saper più cosa sia la gioia dell’amore e non ci ricordiamo che proprio tu sei l’Amore: insegnami a pregare. Padre, mio dolce Padre, stasera vorrei mostrare il tuo volto a questa mia sorella Nadia, che si è fatta una vita sbagliata ed il mio volto è diventato un frantume di ghiaccio per il dolore che vivo con lei: insegnami la preghiera che scioglie questo ghiaccio che fa morire il cuore. Signore, sono confuso al punto che la mia parola è solo un balbettio non sapendo più che dire: insegnami a pregare. Signore, dolcissimo Papà, vorrei regalare a questa sorella e a tane altre come lei un sorriso che sia come dire dal profondo del cuore,

come fai Tu: “Dio ti ama teneramente come la pupilla degli occhi” ed invece ho gli occhi pieni di lacrime: “insegnami ad amare”. Non mi ero accorto che quella ragazza, Nadia, incuriosita seguiva la mia preghiera. Salutandomi mi disse solo: “Le avevo chiesto di tenermi compagnia perché mi sentivo insicura. Lei l’ha accettato di cuore e io l’ho ricambiata, sommergendola della mia rabbia e della voglia di uscire da quella rabbia. Ma ora so che l’amore esiste ed è il bello della vita. Le ho fatto male?” “Non importa, quello che conta è che tu abbia intravisto la speranza”. E Nadia il duro cammino verso la speranza lo ha fatto”.  (Mons. Antonio Riboldi)

“Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10)
È la domanda che come Piccoli Apostoli e non solo ci poniamo. Evitiamo di corre, di fare, senza sapere dove andiamo, cosa facciamo. Siamo chiamati ad essere testimoni dentro questo mondo. E un testimone ha il coraggio di pagare il prezzo della verità. Non teme il martirio del rifiuto, in quanto forte di un incontro. Il testimone sa di aver ricevuto la grazia necessaria per essere tale, e la sua testimonianza nasce dal Signore, che ha riscaldato il suo cuore. Nella misura in cui restiamo con lo sguardo fisso su Gesù adagiato nella mangiatoia, seduto in croce suo trono, possiamo anche noi e con lui riscaldare l’umanità. È tempo di congiungere le mani, per evitare il pericolo di fare senza Cristo e con le proprie forze. Lasciamo scendere Gesù nel nostro cuore, perché solo così abbiamo la certezza del cosa dobbiamo fare: fare spazio alla santità.

E, allora, “Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10) ……..

Don Stefano Tardani


     

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