Con tutto il cuore
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“Cuore” è una parola molto diffusa nella Bibbia. Ciò vale sia per l’Antico sia per il Nuovo Testamento. All’ampiezza delle ricorrenze corrisponde quella dei significati metaforici. Per rendersene conto basta riferirsi alla traduzione greca dei Settanta la quale ha avuto, per così dire, «problemi di cuore». Infatti i due sinonimi ebraici lev e levav sono stati tradotti con una vasta area di termini spesso legati alla sfera della conoscenza (psyché, nous, phronesis, dianoia ecc.), ma anche con la parola kardia.
Si deve dunque a questa traduzione, che tanto ha inciso sul Nuovo Testamento, l’aver introdotto in greco la metafora legata al cuore, termine che nella lingua classica dell’Ellade era quasi sempre impiegato in un senso anatomico e fisiologico privo di particolari significati simbolici.
L’uso biblico del termine differisce radicalmente da quello occidentale, di ascendenza soprattutto romantica, che assegna al cuore la dimensione sentimentale contrapponendolo così alla mente e alla volontà razionale («al cuor non si comanda»). Nella Bibbia abbiamo una vasta area di significati, tuttavia l’asse di riferimento principale è riconducibile a quella che può definirsi una sfera intellettivo-volitiva collegata anche alla coscienza.
Per comprendere tutto ciò conviene tener conto che l’antropologia biblica è «senza cervello», vale a dire che essa ignora completamente l’organo che per noi costituisce la base organica del pensiero. Tuttavia, per quanto possa suonare paradossale, la diversità non annulla il fatto che l’uso traslato della parola «cuore» rappresenti un’eredità biblica e non greca. Siamo differenti ma nasciamo da lì. Per noi si è però ormai attenuata la centralità riassuntiva e l’ambivalenza antropologica collegata a questa parola.
Il cuore: me stesso
«Ti amo con tutto il cuore» è espressione corrente. Forse si può dire che equivalga a «con tutto me stesso», o in maniera più tenue a «senza riserve». Anche la Bibbia conosce l’espressione «con tutto il cuore». Il passo più decisivo in tal senso lo si trova all’inizio dello Shema‘ Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5).
È dato dunque amare Dio che non si vede e non si tocca (due dimensioni in pratica imprescindibili nell’amore interumano)? Come si può amare colui che è infinitamente al di là di tutte le esperienze che abbiamo nella vita? A lui ci rivolgiamo, ma egli si rapporta con noi in modo del tutto diverso da come noi ci volgiamo a lui. Nessun altro amore vive una bilateralità così scompensata.
Ci può essere un amore umano che si scontra con l’indifferenza e persino con l’odio, ma non ve ne è uno che si misuri con un altro amore del tutto difforme. La centralità assunta nella fede cristiana dall’incarnazione è dovuta anche al fatto che, attraverso la visibilità e la tattilità incarnata dal Figlio di Dio, il divino e l’umano possano amarsi reciprocamente in modo paragonabile. Proprio in ciò si trova il fondamento primo in base al quale l’amore del prossimo è collegato a quello di Dio: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Lo Shema‘ ebraico non conosce l’incarnazione. Amare con tutto il cuore, lì, significa prima di tutto ascoltare, vale a dire obbedire ai precetti (mizwot). Nella sua veste liturgica lo Shema‘ è costituito da tre pericopi bibliche (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41) precedute e seguite da benedizioni, e sono proprio quest’ultime a renderlo una preghiera vera e propria (qualifica più consona della consueta, ma imprecisa, «professione di fede ebraica»).
L’inizio del secondo brano, tradotto alla lettera, suona così: «Se ascoltando ascolterete» (cf. Dt 11,13). Che l’espressione conduca in un’area apparentata all’ubbidire appare ovvio. Del resto, anche l’etimo della parola italiana dipende da «audire». La proclamazione dell’unità del Signore (YHWH) in Israele è affidata perciò non a dogmatiche professioni di fede, bensì alla concreta fedeltà alla Parola che da lui proviene e che viene trasmessa di generazione in generazione.
L’affermazione trova il suo riscontro più preciso proprio nello Shema‘. La preghiera si risolve tutta in un invito ad ascoltare la Parola per comunicarla e metterla in pratica. Un maestro del II secolo d.C., Yehoshua ben Qarcha, s’interrogò sul senso della successione tra la prima sezione dello Shema‘ («Ascolta, Israele…», Dt 6,4-9) e la seconda («Se ascoltando ascolterete… », cf. Dt 11,13-21). La sua conclusione è la seguente: prima occorre prendere su di sé «il giogo del regno dei cieli» (primo brano) e solo in seguito prendere su di sé «il giogo delle mizwot (precetti)» (Mishnah Berakhot, 2,2).
In altre parole, l’osservanza dei comandamenti consegue all’accoglimento della signoria di YHWH. Una successiva amplificazione narrativa propone al riguardo il paragone con un re che dapprima liberò un popolo da un giogo straniero e poi gli chiese se lo voleva come sovrano; avendo avuto una risposta positiva, aggiunse che, poiché il popolo aveva accolto su di sé la sua signoria, ora doveva comportarsi allo stesso modo anche riguardo alle sue leggi (cf. Midrash, Mekhiltà de Rabbi Ishma‘el a Es 20,2). Amare il Signore significa dunque eseguire la sua volontà. Ma cosa significa allora metterla in pratica con «tutto il tuo cuore»?
Le due inclinazioni
Una risposta rabbinica a questa domanda ci fa entrare appieno nell’ambivalenza della condizione umana. «Con tutto il tuo cuore» significa «con tutte e due le inclinazioni, con l’inclinazione buona e con quella cattiva» (Sifrè Devarim, 32). «Inclinazione» (o «indole») in ebraico si dice yezer, termine derivato dal verbo yazar, «plasmare».
«Ed ecco era molto buono, questa è l’inclinazione cattiva. Forse l’inclinazione cattiva è buona? Ma se non ci fosse l’inclinazione cattiva, l’uomo non costruirebbe case, non prenderebbe moglie, non genererebbe e non commercerebbe» (Bereshit Rabbah, 9,7). Rifacendosi alla storia delle origini, la tradizionale ermeneutica ebraica fa notare un’anomalia nel modo in cui è scritto wayiyzar, «plasmò», riferito all’atto compiuto dal Signore Dio quando impastò la polvere del suolo per fare l’uomo (cf. Gen 2,7).
Che senso hanno quelle due yod visto che, secondo le regole grammaticali, ne bastava una sola? Nella Scrittura nulla è a caso. Esse stanno proprio a simboleggiare le due inclinazioni presenti nell’uomo. L’ambiguità antropologica è propria della condizione umana; l’ottimismo della visione rabbinica sta nel fatto che questa duplicità non comporti né insanabili lacerazioni né la resa a una concezione in base alla quale le azioni da me compiute sono, in definitiva, ascrivibili al peccato che abita in me (cf. Rm 7,17).
L’«inclinazione buona» è la disposizione d’animo volta a obbedire ai comandamenti di Dio. Essa è quindi orientata a fare ciò che è giusto agli occhi del Signore. Dal canto suo l’«inclinazione cattiva» non è la malvagità, non è la volontà distorta indirizzata alla trasgressione, non è la forza del peccato, è semplicemente l’istinto vitale che vuole affermare se stesso a prescindere dalle regole; si tratta cioè di quella base vitalistica che ci è indispensabile per sopravvivere. Nel libro di Geremia vi è una lettera inviata dal profeta celibe alla parte della popolazione già deportata in Babilonia. Egli era consapevole che il ritorno in patria non sarebbe stato prossimo. Scrive perciò agli esiliati. Non lo fa per raccomandare loro di osservare la legge del Signore anche in terra straniera.
Il suo linguaggio richiama invece da vicino le caratteristiche che i successivi rabbi avrebbero assegnato all’«inclinazione cattiva»: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figli e figlie. Lì moltiplicatevi e non diminuite» (Ger 29,5-6). Nel versetto successivo Geremia evoca, in effetti, la dimensione della preghiera, ma lo fa in relazione soprattutto allo shalom degli altri: «Cercate il benessere [loshalom] del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere [shalom] suo dipende il vostro» (Ger 29,7).
I rabbi affermavano che se non ci fosse l’inclinazione cattiva nessuno genererebbe, nessuno costruirebbe case, nessuno commercerebbe e così via. Se le cose stanno così, amare Dio con tutto il cuore significa amarlo nella vita e con la vita, essendo nel contempo consapevoli delle irrisolte ambiguità inscritte nella condizione umana.
La metafora di un esilio in cui non ci si arrende alla fatalità, né si cede alla disperazione, non vale solo per chi si trova lontano dalla propria terra; essa diviene un simbolo di tutta la condizione umana. Bisogna cioè testimoniare che questa vita viene dal Dio che ci ha plasmati lasciando in noi una traccia indelebile della polvere del suolo con cui ci ha fatti.
Piero Stefani – Il Regno
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