Tempo di crisi, tempo di discernimento
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- L’irruzione della Parola generativa di Dio
Il Vangelo di Luca si apre con la presentazione di una coppia sterile. Si tratta del sacerdote Zaccaria e della moglie Elisabetta, di cui è detto che “ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni” (Lc 1,6-7). Posta in apertura del Vangelo questa coppia diventa simbolo di una società, che nonostante la sua osservanza e religiosità è incapace di generare un futuro, di generare un nuovo inizio, che possa dare un senso al presente che si sta vivendo.
Il mutismo di Zaccaria di fronte all’annuncio dell’angelo di una possibile gravidanza è quanto mai eloquente, perché esprime visivamente l’incapacità di questa coppia/comunità di guardare oltre. La novità annunciata dal Vangelo è proprio questa: dentro quest’orizzonte chiuso e ripetitivo Dio irrompe con la sua Parola generativa, per cui l’impossibile di Elisabetta e, per altro verso, della stessa verginità di Maria è reso possibile da questo suo fare generativo.
Tutta la Scrittura Santa, del resto, sta a testimoniare come la storia degli uomini è continuamente visitata da Dio. L’umanità è capace di grandi imprese, ma allo stesso tempo è condizionata da quella tentazione originale, che è data da quell’hybris, da quella superbia, che tende a corrompere le relazioni umane, riducendo l’altro in schiavitù.
Da questo punto di vista è quanto mai emblematica la storia di Caino, che ridotto allo stato di vagabondo è spinto a dare vita alla città, come luogo di cooperazione tra gli uomini e di accrescimento del sapere e del saper fare, ma questa città finisce per considerare le persone umane funzionali al raggiungimento e al consolidamento del proprio progetto di potenza. Eppure questa storia, che sembra inesorabilmente avviata verso il non-senso e la perdizione, conosce l’irrompere di Dio, che è capace di tramutarla in storia di salvezza.
La storia della salvezza non corre parallela a quella portata avanti dagli uomini, ma emerge dalle oscurità di quest’ultima. Non ci desta, allora, grande stupore se il libro della Genesi si presenti come il libro delle “Toledot”, delle generazioni, perché il mistero di un nuovo inizio si rende possibile dove un uomo ed una donna si rendono docili strumenti della trasmissione della vita.
- Il nostro presente a confronto con Amoris Laetitia (= AL)
Il capitolo IV dell’esortazione post-sinodale AL ci offre lo spunto per riflettere sulla sterilità della nostra società di oggi, che si presenta come una società fatta di vecchi, incapace di fare figli e di aprire nuovi spiragli di futuro. Il primo e grande pericolo, che l’esortazione mette in rilievo, è costituito “da un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto” (AL.33).
L’esortazione apostolica coglie nell’ “individualismo esasperato” la nota che meglio esprime il clima esistenziale, che stiamo vivendo. Dalla tentazione di questo individualismo non è esente la famiglia stessa, per cui afferma l’esortazione: “L’individualismo di questi tempi a volte conduce a rinchiudersi nella sicurezza di un piccolo nido ed a percepire gli altri come un pericolo molesto. Tuttavia tale isolamento non offre più pace e felicità, ma chiude il cuore della famiglia e la priva dell’orizzonte ampio dell’esistenza” (AL 187).
Accettare questa lettura, che ci viene offerta dall’esortazione, significa prendere atto che la società in cui siamo immersi tende a rifiutare ogni legame di qualsiasi genere, in quanto si è convinti che l’accoglienza di un possibile vincolo possa mortificare quella libertà, a cui ognuno si sente chiamato e che il diffuso benessere permette a tanti di poterla sperimentare a suo modo.
Bisogna riconoscere che la libertà è una grande conquista dei nostri giorni e che trova il suo grande punto di partenza nei cosiddetti movimenti studenteschi del 1968. Ma resta il grande problema di intendersi sul significato che vogliamo dare a questa parola, che è tanto suggestiva, ma che può indurci ad ingannare noi stessi.
Magatti e Giaccardi, autori di un libro-manifesto, intitolato “Generativi di tutto il mondo unitevi”, si esprimono così a proposito della libertà: “La nostra idea di libertà si fonda sul principio dell’autonomia. Divenuti liberi, siamo insofferenti nei confronti di ogni forma di dipendenza e persino di legame, convinti che la libertà significhi essere legislatori di se stessi.
E’ la soggettività emancipata e post-edipica, affermatasi in questi decenni. Abbiamo ucciso i padri, ed ora? Che cosa vuol dire essere autonomi? (…) Forse dovremmo riconoscere che nessuno può vivere se non in rapporto alla realtà che lo circonda: che lo limita, certo, ma al tempo stesso lo abilita” (pp. 30-31).
Il crollo del muro di Berlino e la forte spinta innovativa delle tecniche digitali ci hanno portato a sperimentare il mondo in modo diverso dal secolo passato. Grazie ai mezzi di comunicazione e all’abbattimento delle barriere per quanto riguarda il movimento dei capitali e dei mezzi di produzione il mondo ci appare nel suo aspetto globalizzato, ma dove l’elemento unificatore è dato dalla libertà di consumo. La spinta unificatrice, che avvolge il pianeta, si riduce a stimolare una omologazione di gusti e di aspettative, superando le barriere culturali e dando la sensazione di accedere al regno della vera libertà.
E’ innegabile che oggi il luogo preferito per assaporare la propria libertà è data proprio dai centri commerciali, dove ognuno in modo individuale può sperimentare la propria capacità di scelta, davanti ad una pluralità di prodotti. Annotano Magatti-Giaccardi: “Se dunque al di là dei suoi eccessi, il consumo costituisce un’esperienza umana fondamentale, il problema non è indire una crociata per combatterlo. Ciò che va combattuto è piuttosto la sua unilaterale identificazione con la nostra condizione di liberi, quasi che la libertà non abbia altre modalità per entrare in contatto con la realtà” (p. 42).
- L’amore dà sempre vita (AL 165): ovvero il superamento della “stagnazione” adolescenziale
Con il termine “stagnazione adolescenziale” lo psicologo sociale Erik Erikson intende far riferimento al quel blocco del camino adolescenziale, che, invece di portare ad un pieno contatto con la realtà e quindi con le possibilità e con i limiti, che essa porta con sé, porta a chiudere il soggetto nella propria autoreferenzialità.
Riportando tutto questo alla condizione della nostra società di oggi, si ha davvero l’impressione che essa si sia avvitata in un vero vicolo cieco. Il rifiuto di tante persone di investire su un rapporto duraturo è motivato, non soltanto dalla precarietà del lavoro, ma dal presentimento che ogni legame possa costituire la fine della propria libertà.
L’idea di dover appagare ogni proprio desiderio, la pretesa di aver diritto a sperimentare ogni cosa senza limitazione alcuna, l’aver ridotto la sessualità ad un bisogno che va soddisfatto, perché ne potrebbe risentire la salute, costituiscono in un certo senso un sentire condiviso, che impedisce alla nostra società di compiere quell’ulteriore passo verso la piena maturità.
Scrivono i coniugi Magatti-Giaccardi: “L’alternativa alla stagnazione, per Erikson, è la generatività. Nel percorso della crescita personale la generatività caratterizza l’ingresso nella fase della maturità (…) Solo il generare può avere la forza di contenere il delirio consumistico verso cui siamo continuamente sospinti. (…) Attraverso la nostra capacità di generare, non solo biologicamente, ma anche simbolicamente, noi stabiliamo un diverso, ma ugualmente fondamentale rapporto con la realtà, sulla quale possiamo lasciare una traccia di valore, che esprime profondamente il nostro essere” (pp. 38-42).
Ritornando all’esortazione post-sinodale mi sembra opportuno dare il giusto risalto alla breve affermazione, che di fatto introduce il capitolo IV: “L’amore dà sempre vita”. Si tratta di un movimento eccedente, che spinge la persona ad uscire dalla propria auto-centratura, per aprirsi all’incontro con l’altro e con gli altri. Qui non si tratta di prendere qualcosa dall’esterno per incorporarlo in sé, ma di poter mettere al mondo qualcosa o qualcuno che dia bellezza e che costituisca, comunque, un nuovo inizio.
Leggiamo in AL: “L’amore dà sempre vita. Per questo l’amore coniugale non si esaurisce all’interno della coppia (…) I coniugi mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore” (AL 165) Questo amore eccedente, se vissuto con maturità, si fa gesto di responsabilità “nell’accogliere il figlio con apertura e affetto”, accoglienza che prosegue con la custodia lungo la vita terrena” (AL 166).
Mettere al mondo non è soltanto un processo biologico, ma deve tradursi in un gesto umano, che costituisce per i soggetti che lo compiono un accrescimento di se stessi. Ci possono essere genitori biologici che fanno fatica a diventare “padri” e “madri”, portati come sono a considerare il proprio figlio o l’opera a cui si è dato vita come una proprietà esclusiva, che possa soddisfare le proprie attese o compensare le proprie frustrazioni.
Leggiamo ancora in AL: “E’ importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale. E’ un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, se
possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi sogni. Perché i figli sono un dono” (AL 170).
Farsi “amore che dà vita” significa innanzitutto lasciarsi attraversare da quella vita, che non ha origine in noi, ma che a noi chiede una piena disponibilità perché il passaggio sia reso possibile. Annotano i coniugi Magatti-Giaccardi: “Generare è dunque mettere al mondo facendosi inizio, senza pretendere di essere origine assoluta; è ricevere e restituire in forma nuova.
E’ farsi tramite; ma un tramite insostituibile e originale e non “pura funzione trasmissiva”, strumento per un fine. Mettere al mondo significa saper attingere ad una tradizione, ricevere un seme da far crescere, un punto di vista da sviluppare, una sensibilità da poter condividere con altri” (pp. 76-77).
Questo atteggiamento, che fa di una persona o di una coppia una realtà che non si oppone al fluire della vita, può essere considerato, ben a ragione, come realmente generativo. L’esortazione post-sinodale AL ci tiene a precisare che “la procreazione e l’adozione non sono gli unici modi di vivere la fecondità dell’amore. Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta nella società, dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità, che sono come il prolungamento dell’amore che le sostiene (AL 181).
Generare vita attorno a sé significa, innanzitutto, prendere coscienza di quanto si è ricevuto dal passato, ma vuol dire anche impegno a far nascere qualcosa di nuovo, che spinga avanti la storia degli uomini. Dice ancora l’esortazione: Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo” ( AL 183).
- Quando generare è narrare
Il dinamismo generativo non si limita unicamente al mettere al mondo un nuovo inizio, ma esso richiede la cura, la custodia ed anche il saper lasciare andare. Si tratta di una serie di modalità, che impegnano i soggetti in una crescita reciproca, perché nella realtà nessuno dà senza ricevere un’aggiunta di essere.
Nella Bibbia la funzione generativa del padre è vista in modo particolare nella sua vocazione al racconto. E’ il padre che, sollecitato dalla domanda del figlio, si fa carico di aiutarlo a sapersi collocare all’interno di una storia, di una cultura, di una tradizione, che lo precedono e che costituiscono il patrimonio essenziale per sviluppare la sua identità. In questa visione della paternità si può ben dire che ogni padre diventa tale nel momento in cui viene interpellato dal figlio.
Il dire “una parola” da parte del padre diventa il gesto generativo, che permette al figlio di nascere come membro di una comunità. Nel libro del Deuteronomio si legge: “Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha dato? Tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi del faraone in Egitto ed il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili (…) Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci.
Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi” (Dt 6,20-24). Commentando questo modello di paternità che la Bibbia ci propone J.P. Sonnet dice: “Il figlio chiede al padre di dire la cosa più vera, più essenziale della sua stessa esperienza e lo mette, così, in condizione di essere padre. A differenza del legame di carne e di sangue, che è il legame materno, la paternità è in effetti un legame simbolico, che si stringe nella parola”.
L’esortazione AL affida il compito del narrare alla presenza dei “nonni”: “I racconti degli anziani fanno molto bene ai bambini ed ai giovani, poiché li mettono in collegamento con la storia vissuta sia della famiglia, sia del quartiere e del paese. (…) Il fenomeno contemporaneo del sentirsi orfani, in termini di discontinuità, sradicamento e caduta delle certezze che danno forma alla vita, ci sfida a fare delle nostre famiglie un luogo in cui i bambini possano radicarsi nel terreno di una storia collettiva” (AL 193).
- L’assenza dei padri e lo spezzarsi della trasmissione generazionale
L’amara costatazione, di cui si fa portavoce la stessa AL, consiste soprattutto nel dovere prendere atto che oggi né la famiglia, né la scuola, né altri luoghi di socializzazione sono in grado di assumersi la responsabilità di un racconto, che permetta alle nuove generazioni di avere dei solidi punti di riferimento.
Così leggiamo in AL: “Si dice che la nostra società è una società senza padri. Nella cultura occidentale la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione, perché in un primo momento la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. (…)
Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali da dimenticare anche la famiglia” (AL 176).
Quello che oggi sembra diventare uno stile condiviso è proprio questo ritrarsi degli adulti, siano essi genitori, insegnanti o semplicemente delle guide, dall’atto di trasmissione a vantaggio della libertà di scelta e della sperimentazione individuale, tenendo anche conto che sul piano delle nuove tecnologie il giovane è molto più addentrato rispetto all’adulto.
Leggiamo ancora in AL: “Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti” (AL 177). La trasmissione, in effetti, non riguarda tanto le conoscenze pratiche, quanto piuttosto l’esperienza di vita, che consenta al figlio di trovare un valido orientamento, una grande fiducia nella vita, nonostante i limiti che essa presenti.
Nella Bibbia è emblematica l’esperienza del re Davide così come è presentata nel secondo libro di Samuele. Egli scopre la sua vera chiamata alla paternità, proprio quando questa è contestata dal figlio Assalonne, che organizza contro di lui una congiura di palazzo. Giunti allo scontro finale, Davide raccomanda ai suoi di avere riguardo del “suo figlio” e, quando gli recano la notizia che i suoi hanno avuto la meglio sui congiurati e che anche Assalonne è stato ucciso, egli non smette di ripetere: “Figlio mio Assalonne, figlio mio, figlio mio Assalonne. Fossi morto io, invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio” (1Sm 19,1).
Questa è l’esperienza che vale la pena trasmettere: tra le ragioni del potere e la vita di un figlio non ci può essere dubbio di sorta, perché il valore del figlio è un bene incommensurabile. L’esperienza dolorosa della ribellione del figlio Assalonne ha fatto maturare in lui il vero senso della sua paternità e paradossalmente della sua stessa regalità.
Il salmo 78 è quello che più di tutti dice chiaramente che nessun padre può sottrarsi al “comando” del raccontare, perché soltanto in questo modo il figlio scopre di entrare in una storia che lo precede, ma che tocca a lui saper prendere nelle sue mani e rilanciarla in avanti verso le generazioni che seguiranno.
Esso parla di questa catena di trasmissione che dai padri passa ai figli, una trasmissione che deve avvenire nonostante “la disfatta”, il peccato dei padri: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto ed i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto” (Sal 78,3-4).
Annota Sonnet: “la narrazione s’impone a tutti, poiché va di pari passo con il dono della vita: è il dono della vita prolungato, così come è la rivelazione continuata. Il Dio che ha intimato all’uomo “siate fecondi e moltiplicatevi” è quello che intima al padre di famiglia “ti alzerai a raccontarlo a tuo figlio”.
Gregorio Battaglia R.S.
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