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Storie di Santi – S.Giuseppina Bakita

22 Luglio 2011 | Filed under: Biblioteca
     

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BAKHITA

(Santa Giuseppina Bakhita)




Bakhita racconta

Prima parte

Primo dolore

La mia famiglia abitava proprio nel cen­tro dell’Africa, in un sobborgo del Darfur, chiama­to Olgossa, vicino al monte Agilere. Era formata dal padre, dalla madre, tre fratelli e tre sorelle. Io ero gemella di una sorella, della quale, come dei genitori, io più nulla seppi da quando fui rubata. Vivevo allora pienamente felice, senza sapere co­sa fosse dolore.

Un giorno, mia madre pensò di portarsi nei campi dove (avevamo) molte piantagioni e bestiame, per vedere se tutti i lavoratori attendevano al loro do­vere, e voleva che la seguissimo tutti noi figli. La maggiore, che si sentiva indisposta, chiese e otten­ne di fermarsi a casa con la sorella minore.

Se non che, mentre noi eravamo nei campi, sen­timmo un parapiglia, un gridare e un correre, ognuno immaginò subito essere i negrieri entrati nel paese e derubare.

Tornammo subito a casa e quale non fu il nostro do­lore nel sentire dalla piccina, tutta spaventata e tremante, come i razziatori avessero portata via la sorella (maggiore), ed ella avesse appena fatto in tempo a nascondersi dietro il muro di una casa di­roccata, altrimenti sarebbe stata rapita anche lei. Ricordo quanto pianse la mamma, e quanto pian­gemmo noi pure.

La sera, tornato il padre dal lavoro, sente dell’ac­caduto. Monta sulle furie e subito, con i suoi lavo­ratori, armati di lance, com’è loro costume, fanno indagini per tutta la notte e parte del giorno se­guente. Ma inutilmente.

Non si seppe più nulla della povera sorella.

Questo fu il mio primo dolore e oh! quanti e quanti me ne aspettavano di poi! ……..


Strappata alla famiglia

……..Avevo nove anni circa quando un matti­no, dopo colazione, andai con una mia compagna di dodici o tredici anni, a passeggio nei nostri campi, un po’ discosti da casa. Interrotti i nostri giuochi, eravamo intente a raccogliere erbe. Ad un tratto vediamo sbucare da una siepe due stranieri. Uno di loro disse alla mia compagna: «Lascia che questa piccina vada là presso quel bo­sco a prendermi un involto, tornerà presto, tu pro­segui per la tua strada e ti raggiungerà subito». È evidente che il loro piano era di allontanare l’a­mica, perché, se fosse stata presente alla cattura, avrebbe gettato l’allarme.

Io non dubitavo di nulla. Mi prestai a ubbidire co­me sempre facevo con mia mamma.

Ma, come mi ero internata nel bosco per cercare l’involto che non trovavo, mi vidi quei due alle spalle…

Uno mi prende bruscamente con una mano, con l’altra estrae un grosso coltello dalla cintura, me lo punta sul fianco e con una voce imperiosa, «Se gridi, sei morta, avanti seguici!» mi dice, mentre l’altro mi spingeva puntandomi le canne di un fu­cile alla schiena.

Io rimasi impietrita dalla paura. Gli occhi spalan­cati e tremante da capo a piedi, faccio per gridare, ma un nodo alla gola me lo impedisce: non riesco né a parlare, né a piangere.

«Spinta con violenza nel fitto del bosco, per sentie­ri mai battuti, attraverso campi, sempre a passo svelto, mi fecero camminare fino alla sera.

Ero stanca morta, avevo i piedi e le gambe sangui­nanti, causa le schegge dei sassi e le punture di piante spinose.

Scoppiai in pianto, ma quei cuori duri non sentiva­no nessuna pietà.

Lungo questa marcia forzata, ci imbattemmo in un campo di cocomeri. I due ne colsero, si misero a mangiarli e ne offersero anche a me.

Ma io non potevo proprio inghiottire niente, eppu­re era dal mattino che non mangiavo.

Non avevo in mente che la mia famiglia: chiamavo mamma e papà, con un’angoscia d’animo da non dire. Ma nessuno là mi udiva.

Di più: mi si intimava silenzio con terribili minac­ce, mentre così, stanca e digiuna, mi facevano ri­prendere il viaggio che durò senza soste tutta la notte.

Al primo albeggiare, entrammo nel loro paese. Non ne potevo proprio più. Uno di essi mi afferrò per una mano e mi trascinò nella sua abitazione, mi introdusse in un bugigattolo pieno di arnesi e di rottami, ma non vi erano né sacchi né letto, so­lo il nudo terreno. Mi diede un pezzo di pan nero e mi disse: «Stai qui», e uscendo chiuse la porta a chiave.

Stetti colà più di un mese. Un piccolo foro in alto era la mia finestra, l’uscio veniva aperto per brevi istanti per darmi un magro cibo.

Quanto io abbia sofferto in quel luogo, non si può dire a parole.

Ricordo ancora quelle ore angosciose quando, stanca dal piangere, cadevo sfinita al suolo in un leggero torpore, mentre la mia fantasia mi porta­va fra i miei cari lontano lontano…

Lì, vedevo i miei amati genitori, fratelli e sorelle e tutti abbracciavo con trasporto di tenerezza, nar­rando come mi avevano rapita e quanto avevo sof­ferto.

Altre volte mi sembrava di giuocare con le mie amiche nei nostri campi, mi sentivo felice, ma ahimé, tornata alla cruda realtà dell’orrida solitudi­ne, mi pigliava un senso di scoramento che mi pa­reva mi si spezzasse il cuore.

Al mercato degli schiavi

Ua mattina mi viene aperto l’uscio pri­ma del consueto. Il padrone mi presenta a un mer­cante di schiavi che mi compera e mi unisce a degli altri suoi schiavi, erano: tre uomini, tre donne, fra cui una fanciulla di poco maggiore di me. Tosto ci mettemmo in viaggio. Il vedere la campa­gna, il cielo, l’acqua, il poter respirare l’aria libe­ra, mi ridiede un po’ di vita, quantunque non sa­pessi dove andavo a finire.

Il viaggio durò otto giorni di seguito, sempre a pie­di: per boschi, per monti, per valli e deserti. Pas­sando per i paesi, la carovana si ingrossava sem­pre più, la quale era così disposta: prima gli uo­mini, poi le donne, (i primi) venivano legati al col­lo con grossa catena, serrata da lucchetti a chia­ve, infila a due o a tre, guai se qualcuno si piega­va o si fermava, povero collo suo e quello del com­pagno! Si vedevano attorno al collo di ciascuno grosse e affondate piaghe che facevano pietà. Po­verini! Come fossero bestie da soma, ai più robusti legavano sulle spalle grossi fardelli che dovevano portare per miglia e miglia. Noi più piccole non avevamo la catena, camminavamo in ultima fila in mezzo ai padroni. Ci fermavamo solo qualche ora a riposare o a prendere cibo. Allora veniva tolta la catena dal collo e posta al piede a distan­za di un passo l’uno dall’altro, onde impedire la fuga. Questo si faceva anche a noi piccole, però di notte solo.

Finalmente sostammo al mercato degli schiavi.

Fummo introdotti tutti in un camerone, in attesa del turno di vendita. I primi smerciati furono i più deboli e malaticci, per timore che peggiorando, ne andasse perduto il guadagno.

Mentre andava avanti la scelta, l’intesa e la ven­dita di ciascuno, noi due più piccole, trovandoci sempre vicine, perché legate ai piedi dalla stessa catena, nei momenti in cui non eravamo osservate, ci raccontavamo l’un l’altra come eravamo state rubate. Parlavamo dei nostri cari e sempre più si accendeva in noi il desiderio di ritornare in fami­glia. Mentre si piangeva sulla nostra infelice sor­te, si andava progettando qualche piano di fuga. Il buon Dio che vegliava su di noi, senza che pur lo conoscessimo, ce ne offerse l’occasione. Ecco come.

Attimi di libertà

Il padrone aveva messo me e la mia compa­gna in una camera separata che egli chiudeva sem­pre, specie quando doveva allontanarsi da casa. Una sera torna dal mercato con un mulotto carico di pannocchie di mais. Entra nella nostra tana, ci toglie la catena dai piedi e ci ordina di scartoccia­re le spighe e di darne da mangiare al mulo. Eravamo sole, senza catena!

Provvidenza di Dio: era il momento buono. Un’occhiata d’intesa, una stretta di mano, uno sguardo all’intorno e, non vedendo nessuno, via di tutta corsa verso l’aperta campagna, senza saper dove, con la sola velocità delle nostre povere gam­be. Tutta la notte fu una continua e trepidante cor­sa dentro ai boschi e fuori per il deserto. Ansanti e trafelate sentivamo nel buio i ruggiti delle fiere. Al loro approssimarsi, saltavamo sugli alberi per sal­varci.

Infatti, come camminavamo ormai in pieno giorno, facendoci strada fra sterpi ed erbe selvatiche, sen­timmo il brusio tipico delle carovane che s’av­vicinava.

Più spaventate che mai, ci nascondemmo dietro cespugli irti di spine; per ben due ore un gruppo seguì l’altro, passando proprio davanti a noi, ma nessuno ci scorse.

Era il buon Dio che ci proteggeva, non altri.

Io mi credevo che, scongiurati i pericoli, avrei di poi subito trovato i miei cari: tutto soffrivo volen­tieri e mi davo animo.

Verso l’alba ci fermammo a prendere fiato; come eravamo stanche! Il cuore ci martellava in petto, grosse gocce di sudore ci cadevano da ogni parte, una fame acuta ci lacerava lo stomaco: non aveva­mo nulla…

Il desiderio vivo di rivedere i nostri cari e il timore di essere inseguite ci somministravano

Ancora la forza di continuare la corsa, mai però come prima. Ma dove andavamo a finire?

Verso il tramonto vedemmo una casupola. Il cuore allora prese a battere più forte. Aguzzammo gli oc­chi per vedere se era la nostra (casa): non lo era! Oh, quanta amarezza, quale disinganno!

Ancora in catene

Mntre sfiduciate, stavamo lì su due piedi a pensare, ci appare davanti un uomo. Spaventate, facciamo per fuggire; ma egli ferman­doci il passo, con buone maniere ci chiede:

«Dove andate?». E noi, silenzio. «Su dite: dove andate?». «Dai nostri genitori».

«E dove sono i vostri genitori?».

«Là», rispondemmo, indicando confuse una parte, senza saper dove.

Egli allora si accorse che eravamo fuggiasche. «Ebbene, disse, venite a riposare un poco, poi vi condurrò io dai vostri genitori».

Noi, credendo alle sue parole, lo seguimmo nella casupola.

Appena entrate, ci sdraiammo per terra come morte. Ci diede da bere un po’ d’acqua, ma erava­mo così sfinite, che non potemmo ritenerla. Allora ci lasciò sole e, quiete, ci addormentammo.

Dopo un’ora circa, ci condusse nella sua casa, ci diede da mangiare e da bere e poi ci introdusse in un ovile pieno di pecore e di agnelli; fece ivi posto per mettervi un angareb poi legandoci assieme per il piede con una grossa catena, ci comandò di sta­re in quell’ovile fino ad altro avviso. Bel condurci dai genitori! Quanto piangere! Quanto soffrire!

Ci lasciò là, tra pecore e montoni per più giorni, finché passando di là un mercante di schiavi, ci trasse dall’ovile e ci vendette a quell’uomo. Camminammo a lungo prima di raggiungere la ca­rovana.

Quale non fu la nostra sorpresa nel vedere tra gli schiavi alcuni di quelli che appartenevano al pa­drone dal quale noi eravamo fuggite. Ci descrisse­ro l’ira, il furore suo quando non ci trovò (al lavo­ro), dando nelle smanie minacciava di farci a pezzi quando ci avesse trovate. «Ora sempre più cono­sco la bontà del Signore che mi salvò anche allora quasi miracolosamente».

Si viaggiò per due settimane e mezzo sempre con lo stesso metodo descritto più sopra.

In tal viaggio mi toccò di vedere un povero schiavo che aveva tanto male e non poteva reggersi in pie­di. Pregò il padrone di lasciarlo sedere a riposare un poco. Ma questi, non credendo, lo percuoteva come fosse una bestia; lo vidi cadere a terra la­mentandosi: «Mi sento morire, non ne posso più!». Ma quell’inumano, senza nessuna considerazione, lo percuoteva ancora perché si alzasse. (Vedendo però che) non si poteva più muovere, gli dovette le­vare la catena che lo legava al compagno. Il pove­rino gemeva da far pietà. Il padrone allora pieno di rabbia ordinò a noi di proseguire e si fermò con quell’infelice.

Che ne fece? Nessuno lo vide più.

Punizione crudele

Giunti finalmente in città, fummo con­dotti nella residenza del capo.

Era un uomo ricchissimo, aveva già un gran nume­ro di schiavi, tutti nel fior della gioventù.

La mia compagna e io fummo destinate come an­celle delle signorine sue figlie, che presero subito a volerci bene.

Era intenzione del padrone di regalarci a suo figlio quando si sarebbe sposato. In quella casa fui trat­tata bene e non mi mancava nulla.

Senonché, un giorno commisi non so quale sba­glio, proprio nei riguardi del figlio del padrone. Egli subito diede mano allo scudiscio per percuo­termi. Io fuggii nell’altra stanza per nascondermi dietro le sue sorelle.

Non l’avessi mai fatto!

Montò sulle furie, mi strappò a forza di là e mi buttò a terra, e con lo staffile e coi piedi me ne die­de tante e poi tante e infine con un calcio al fianco sinistro mi lasciò come morta.

Più nulla seppi di me. Priva di sensi, devo essere stata trasportata, dalle schiave, sul mio giaciglio dove rimasi più di un mese…

Due nuove padrone

Entrambe assai inumane verso i poveri schiavi, che erano impiegati nei lavori più faticosi in cucina, in lavanderia e nei campi.

Quanto a noi due, non potevamo lasciare le nostre padrone neppure un momento. Fra vestirle, profu­marle e ventilarle, non avevamo posa. E guai a noi se, per sbaglio o per il sonno, toccavamo anche so­lo un capello delle signore… Le frustate ci piomba­vano addosso senza misericordia; di modo che in tre anni che stetti al loro servizio, non ricordo d’a­ver passato un giorno solo senza piaghe, perché non ancora guarita dai colpi ricevuti, altri me ne piombavano addosso senza sapere il perché.

Un giorno, io stavo raccontando alla mia (nuova) compagna come ero fuggita dal primo padrone. Inavvertita, la figlia del generale aveva tutto ascoltato; temendo quindi che tentassimo una fu­ga, mi fece porre una grossa catena ai piedi che dovetti portare per più di un mese. Mi fu tolta nel­l’occasione di una grande festa musulmana, quando era d’obbligo sciogliere i ceppi a tutti gli schiavi.

Vita degli schiavi

Al primo albeggiare gli schiavi doveva­no alzarsi. La signora, moglie del generale, era co­sì zelante, che a volte si alzava prima di tutti pe­r osservare se qualcuno ritardava anche di un sol minuto. Allora gli era sopra con lo staffile e lo fa­ceva saltare dal dolore, senza tener presente che il poverino, e ciò succedeva spesso, aveva faticato fino a tarda notte.

Gli schiavi dormivano tutti in un camerone. Ave­vano assoluto digiuno fino a mezzodì, quando ve­niva dato a ciascuno una porzione di carne in umi­do, polenta, pane e frutta. Alla sera, una meschina cena e poi a riposo sulla nuda terra. Guai a chi non zittisse!

Quelli che si ammalavano non erano degnati nem­meno di uno sguardo, lasciati in abbandono non c’era chi pensasse a medicarli o a soccorrerli; quando stavano per morire, erano gettati nei cam­pi o sul letamaio.

Quanti maltrattamenti gli schiavi ricevono senza, alcun motivo.

Per esempio, un giorno ci trovammo presenti per caso, quando il padrone altercava con la moglie. Questi per sfogarsi, ordina a noi due di scendere in corte e comanda a due soldati di buttarci a terra per subire la flagellazione. Quei due con quanta avevano di forza cominciano il supplizio e ci la­sciano tutte e due immerse nel nostro sangue. Ri­cordo come la verga mirata a più riprese sulla co­scia mi portò via pelle e carne, mi procurò un lun­go canaletto che mi fece stare immobile sul giaci­glio per più mesi.

Bisognava sopportare tutto in silenzio, perché nessuno veniva a medicare (le nostre ferite) né a dirci una parola di conforto. Quante mie compagne di sventura morirono per i colpi sofferti.

Il tatuaggio

Io fino allora non ne avevo alcuno e le mie compagne ne portavano tanti anche sul viso. Ebbene la nostra signora s’incapricciò di fare que­sto regalo a quelle che non erano tatuate. Erava­mo in tre.

Viene una donna esperta in questa crudele arte. Ci conduce sotto il portico e la padrona dietro con lo scudiscio in mano. La donna si fa portare un piatto di farina bianca, uno di sale e un rasoio. Ordina al­la prima di noi tre di distendersi per terra e a due schiave delle più forti di tenerla una per le braccia e l’altra per le gambe.

(L’aguzzina) allora si curva su di lei e comincia con la farina a fare sul ventre di quella disgrazia­ta una sessantina di segnifini. Io ero lì con tanto d’occhi a osservare, pensando che dopo sarebbe toccato anche a me quella sorte crudele.

Finiti i segni, prende il rasoio e giù tagli su ogni se­gno che aveva tracciato. La poverina gemeva e il sangue stillava da ogni taglio.

Non basta. Finita questa operazione, prende il sa­le e con tutta forza stropiccia ogni ferita, perché vi entri a ingrossare il taglio (onde tenerne i labbri aperti). Che spasimo! Che tormento! Tremava tut­ta l’infelice, e io pure tremavo, aspettandomi pur­troppo altrettanto. Infatti, portata la prima sul suo giaciglio, viene il mio turno.

Non avevo fiato di muovermi, ma uno sguardo ful­mineo della padrona e lo scudiscio alzato, mi fece­ro piegare immediatamente a terra. La donna, avuto ordine di risparmiarmi la fatica, comincia a farmi sei tagli sul petto, e poi sul ventre fino a ses­santa, sul braccio destro quarantotto. Come mi sentissi non lo potrei dire. Mi pareva di morire ad ogni momento, specie quando mi stropicciò con il sale.

Immersa in un lago di sangue, fui portata sul gia­ciglio, ove per più ore non seppi nulla di me… Quando rinvenni, mi vidi accanto le mie compagne che, al par di me, soffrivano atrocemente.

Per più di un mese tutte e tre fummo condannate a stare là, distese sulla stuoia, senza poterci muo­vere, senza una pezzuola con cui asciugare l’ac­qua che continuamente usciva dalle piaghe semia­perte per il sale.

Posso proprio dire che non sono morta per un mi­racolo del Signore che mi destinava a MIGLIORI COSE.

Segni di speranza

Dopo vari mesi di lontananza, il genera­le era ritornato nel Kordofan, con la decisa volon­tà di recarsi ai suoi paesi in Turchia. Fece dunque i preparativi per la partenza e siccome aveva una quantità di schiavi, ne scelse dieci, tra i quali an­che me, gli altri furono venduti.

Partiti dal Kordofan sui cammelli, dopo vari giorni di viaggio, si fece sosta a Khartum in un albergo. Lì, mandò fuori la voce a chi volesse comperare schiavi.

Si presentò l’agente consolare italiano di nome Callisto (Legnami). Si volle che io gli portassi un caffè; lo vidi squadrarmi da capo a piedi, ma non pensavo che progettasse di comperarmi. Lo compresi solo il mattino seguente, quando il generale turco mi ordinò di seguire la cameriera del conso­le, aiutandola a portare un involto».

Questa volta, fui davvero fortunata, perché il nuo­vo padrone era assai buono e prese a volermi bene tanto. Mia occupazione era di aiutare la camerie­ra nelle domestiche faccende; non ebbi rimbrotti, né castighi, né percosse, sicché non mi pareva ve­ro di godere tanta pace e tranquillità.

Verso l’Italia

Due anni e più passarono senza alcun cambiamento. Quand’ecco il console venne chia­mato in Italia per gravi affari.

Non so il perché: quando sentii nominare l’Italia, della quale ignoravo la bellezza e gli incanti, mi nacque in cuore un vivissimo desiderio di seguire il padrone. Egli mi voleva bene sicché osai pregar­lo di condurmi in Italia con lui.

Egli mi spiegò come il viaggio fosse molto lungo e costoso. Ma io tanto insistetti, che mi accontentò. Era Iddio che lo voleva, lo conobbi di poi… Ancora gusto la gioia che provai allora.

Si partì. Eravamo: il console e un suo amico, un moretto e io. Uniti tutti in una carovana, dopo al­cuni giorni di viaggio, portati dai cammelli, si giunse a Suakin. Ivi il console, in un col suo amico, si ebbe dopo un mese circa, la triste notizia che una masnada di corsari era entrata nel paese (cit­tà) di Khartum, aveva devastato ogni cosa e invo­lato tutti gli schiavi. Se fossi rimasta là, sarei cer­tamente stata rubata anch’io, e che sarebbe av­venuto di me? Quanto vi ringrazio, Signore, di avermi salvata una volta di più. Tanto il console quanto l’altro signore furono derubati di tutto e ne erano spiacentissimi.

A Suakin ci fermammo un mese e poi si fece il viag­gio in bastimento, passando il Mar Rosso ed altri mari fino a Genova. Ivi si prese alloggio in un al­bergo il cui padrone era ben noto all’amico del console il quale lo aveva pregato di acquistargli un moretto, per cui gli fu ceduto subito quello che era stato mio compagno di viaggio. La moglie del­l’amico (sig.ra Maria Turina Michieli) che era ve­nuta ad incontrarlo, vedendo noi moretti, se ne in­vogliò e chiese al marito perché non ne avesse condotta una per lei e per la tanto desiderata fi­glioletta.

Il console per far piacere all’amico e a sua moglie, mi regala a loro e dopo poco tempo si continuò il viaggio.

Il console si diresse a Padova e nulla più seppi di lui.

Io con i miei padroni ci avviammo a Mirano Vene­to, dove fui poi per tre anni bambinaia della loro figliuolina. Questa prese a volermi bene e io natu­ralmente ero portata a ricambiarla di pari affetto. Scorsi tre anni, tornai con la padrona in Africa a Suakin, dove suo marito teneva un grande hotel. Si restò colà circa nove mesi dopo i quali il padro­ne decise che tutta la famiglia dovesse stabilirvisi. La signora però doveva tornare in Italia per ven­dere gli stabili e fare imballaggio del mobilio, in­tanto io sarei stata in albergo con la piccina; ma la signora non voleva partire sola e ottenne che en­trambe la seguissimo».

Diedi allora in cuor mio un eterno addio all’Africa. Una voce interna mi diceva che non l’avrei più ri­veduta.

Catecumena

Ritornata a Mirano, la signora vi stette con noi due anni circa, ma dovendo ripartire per tornare un’altra volta (a Suakin), pensò di affida­re la sua piccola e me a qualche collegio per avere un po’ d’istruzione. Fu passata parola alla Con­gregazione di Carità di Venezia che volentieri si sarebbe prestata a ospitarmi nel Catecumenato, diretto dalle Suore Canossiane, e lì avrei potuto istruirmi. Ma la bimba era già battezzata, come e per che scopo lasciarla nel Catecumenato?

La signora non voleva assolutamente dividerci, sicché per più di un mese durò la lotta senza veni­re a una conclusione.

Intervenne allora il fattore della signora, il signor Illuminato Checchini, uomo dal cuor d’oro e di illu­minata coscienza che ebbe poi fin che visse un amore paterno verso di me.

Nel darmelo (il crocifisso) lo baciò con devozione, poi mi spiegò chi Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo che fosse, ma spinta da una forza misteriosa, lo nascosi per paura che la signora me lo prendesse. Prima non avevo mai nascosto nulla, perché non ero attaccata a niente. Ricordo che nascostamente lo guardavo e sentivo una cosa in me che non sapevo spiegare.

Così fummo entrambe ricevute nel Catecumenato. Io venni affidata con la piccola a una suora addet­ta all’istruzione dei catecumeni, non posso ricor­dare senza piangere, la cura ch’ella ebbe di me. Volle sapere se avessi desiderio di farmi cristiana e, sentito che lo desideravo e che anzi venivo con quella intenzione, giubilò di gioia.

Allora quelle sante Madri con una eroica pazien­za mi istruirono e mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina sentivo in cuore senza sapere chi fosse.

Ricordavo come, vedendo il sole, la luna e le stelle, le bellezze della natura, dicevo tra me: «Chi è mai il padrone di queste belle cose?». E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestar­gli omaggio.

E ora lo conosco. «Grazie, grazie, mio Dio!».

La buona M. Fabretti diceva che «io bevevo le veri­tà della fede».

Ho trovato una casa!

Quando la signora (Turina) mi accompa­gnò in collegio, (già) sulla soglia della porta, vol­tandosi per darmi il saluto, mi disse: «Ecco qui, questa è la tua casa!».

Disse così senza penetrare il vero senso delle pa­role.

Oh, se avesse immaginato quanto poi avvenne, non mi ci avrebbe condotta!».

Circa nove mesi dopo, la signora Turina venne a reclamare i suoi diritti su di me.

Io mi rifiutai di seguirla in Africa, perché non an­cora ben istruita per il battesimo. Pensavo pure che, qualora fossi battezzata, non avrei ugualmen­te potuto professare la nuova religione, e che per­ciò mi conveniva meglio stare con le suore.

Ella montò sulle furie, tacciandomi d’ingrata nel lasciarla partire sola, mentre mi aveva fatto tanto bene. Ma io, ferma nel mio pensiero.

Mi disse tante e tante ragioni, ma per nessuna mi piegò.

Eppure soffrivo nel vederla meco disgustata, per­ché le volevo bene davvero.

Era il Signore che mi infondeva tanta fermezza, perché voleva farmi tutta sua. Oh, bontà!

Il giorno seguente ritornò in compagnia di una si­gnora e ritentò la prova con le più aspre minacce, ma inutilmente. Partirono indispettite.

Il Rev. Superiore della casa scrisse a sua Em. Il Patriarca sul da farsi. Questi ricorse al Procurato­re del Re il quale mandò a dire che, essendo io in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, restavo affatto libera. Anche la signora Turina si portò dal Procuratore del Re credendo di ottenere che la se­guissi, ma ebbe l’uguale risposta.

Il terzo dì, eccola di nuovo all’istituto con la stes­sa signora e un suo cognato, graduato militare. Vi erano pure S. Em. Il Patriarca Domenico Agostini, il presidente della congregazione della carità, il superiore della casa e alcune suore del catecume­nato.

Parlò prima il Patriarca, ne seguì una lunga di­scussione terminata in mio favore.

La signora Turina, piangendo dalla collera e dal dispiacere, prese la bambina che non voleva stac­carsi da me, forzandomi a seguirla. Io ero tanto commossa che non riuscivo a dir parola. Le lasciai piangendo… E mi ritirai contenta di non aver ce­duto. Era il 29 novembre 1889.

La vita nuova

Rientrata nel catecumenato, trascorso il tempo dell’istruzione ricevetti, con una gioia che solo gli angeli potrebbero descrivere, il santo bat­tesimo, il 9 gennaio 1890. Mi fu posto il nome di

Giuseppina Margherita e Fortunata, che in arabo si interpreta Bakhita. Il giorno stesso ricevetti la cresima e la comunione. Oh, che indimenticabile data!».

Mi fermai in catecumenato quattro anni, durante i quali mi si schiariva sempre più infondo all’ani­ma una voce soave che mi faceva desiderare di es­sere anch’io religiosa. Alla fine ne parlai al mio confessore. Egli mi suggerì di dirlo alla superiora della Casa, Sr Luigia Bottesella, la quale ne scris­se alla superiora della Casa Madre di Verona, M. Anna Previtali.

La buona Madre non solo accordò la domanda, ma aggiunse ch’ella stessa voleva avere la soddisfa­zione di vestirmi del santo abito e, a suo tempo, di accogliere la mia professione.

Il 7 dicembre 1893, entrai in noviziato, proprio nella Casa dei Catecumeni a Venezia. Passato un anno e mezzo, fui chiamata a Verona per la s. ve­stizione. Qualche mese prima che spirassero i tre anni, ritornai (a Verona) per pronunciare i santi voti (8.12.1896).

Dio permise (così) di far pago il desiderio della M. Previtali che, un mese dopo, l’l1 gennaio 1897, passava all’altra vita».

«Da quel dì passarono quattordici anni di vita re­ligiosa, durante i quali sempre più ho conosciuto la bontà di Dio verso di me.

Prego le care Sorelle che (mi) leggeranno di porge­re perenne tributo di gratitudine a questo prov­vido Signore e a supplicarlo che mi dia grazia di sempre meglio corrispondergli.

Casa Canossiana

Via Fusinato, 51

Schio, 1910

Il racconto di madre Bakhita è ripreso integralmente da DAGNINO, Bak­hita, Roma 1989, p. 31-56, cambiando solamente le suddivisioni del testo e i titoli.

… di Bakhita si racconta

Seconda parte

«Chi sarà Colui che accende tutti quei lumi in cielo?»

Ogni storia ha un suo inizio… La storia di Bakhita comincia molto lontano: nei ricordi di una bambina che giocando nella prateria si ritrovava a lodare Colui che aveva fatto il sole e la luna… Da questa presenza, a lungo senza nome, si sentì sempre misteriosamente accompagnata durante tutta la sua giovinezza…

«Se guardo il tuo cielo opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate: che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (dal Salmo 8).

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli»

Chi ha conosciuto Bakhita racconta che essa amava la povertà, secondo lo spirito di France­sco d’Assisi chiamandola sua sposa e raccoman­dando d’essere sepolta con l’abito più logoro, per­ché sarebbe stato un peccato sciuparne uno nuovo. La sua povertà rispetto alle cose e alle persone le derivava da un sentimento di estrema fiducia in quel Dio che chiamava confidenzialmente «el Pa­ron».

Rivolgendosi alla superiora, un giorno dichiarò con semplicità: «Possiedo solo la corona e il Croci­fisso, ma se vuole le consegno anche questi». Non voleva toccare denaro né chiedeva mai nulla per sé, anche se ammalata; si sentiva ricca al pun­to di esclamare: «Oh, se i poveri avessero quello che ho io!».

Anche rispetto alle persone viveva lo stesso distac­co: se la Superiora cambiava e Bakhita vedeva le consorelle turbate, diceva con semplicità e chia­rezza: «Cambia una, cambia l’altra, Gesù resta!». Quando a sua volta le si chiedeva di cambiare casa, accettava con serenità: «Non c’è Dio anche in quella casa? Non c’è la Santa Regola?». Persino di fronte al pensiero della morte era solita dire: «Tan­to… andare o stare, siamo sempre nei suoi posse­dimenti!».

Aveva compreso la ricchezza del Regno.

«Il Regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose: trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compera» (Mt 13,45-46).

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati»

Sono note le sofferenze che Bakhita do­vette patire durante la sua schiavitù.

A chi, sentendo la sua storia, diceva «Poveretta», replicava: «Io non sono poveretta, perché sono del Padrone e nella sua casa. Quelli che non sono tutti del Signore sono dei poveretti!».

Se di qualcosa si rammaricava, era, invece, di non aver conosciuto prima il Signore: «Se lo avessi co­nosciuto, quanto meno avrei sofferto: avrei potuto offrire tutto a Lui e guadagnare tanti meriti». Anche nelle molte malattie era sempre serena. Nei momenti di maggiore sofferenza non si lamen­tava, ma diceva: «Ho perso tanto tempo e tanti me­riti e bisogna che li guadagni ora!».

Faceva continuo riferimento alla passione del Si­gnore. Una volta, da ammalata, rimase una notte intera nella stessa posizione senza lamentarsi: a chi lo scoprì, semplicemente commentò: «Nostro Signore in croce non ha chiesto d’essere cambiato di posto».

Non negava di sentire dolore, se la si interrogava: «Madre Giuseppina soffre tanto?». «Un pochetto sì, ma ho tanti peccati da scontare e poi… ci sono gli africani da salvare, i peccatori da aiutare…».

«Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo» (Col 1,24).

«Beati i miti, perché erediteranno la terra»

La santità di Bakhita non aveva nulla di straordinario: non si imponeva, ma traspariva da tutta la sua vita.

Era fatta anche di molta sapienza pratica, che le faceva trovare una parola per tutti: per i soldati che, senza mezzi termini invitava ad andarsi a «confessare», per i seminaristi ai quali raccoman­dava la santità, per le donne che si attardavano in chiacchiere, alle quali raccomandava: «Andate presto a casa a preparare da mangiare, altrimenti vostro marito si impazienta».

Tutti coloro che la incontravano rimanevano colpi­ti, piccoli e grandi.

Durante i giorni di propaganda missionaria Bak­hita accompagnava una sorella che teneva le conferenze. La gente però era tutta tesa verso di lei che, salita sul palco, con poche, povere parole riu­sciva a toccare il cuore di tutti: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che ancora non lo co­noscono!». Poi si faceva il segno della croce e velo­cemente se ne andava.

«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mieto­no, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro li nutre. Non contate voi forse più di loro?» (Mt 6,26).

«Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia»

Amava ardentemente il prossimo, senza preferenze, solo per amore di Dio.

Con la stessa tenerezza soccorreva i soldati duran­te la guerra del 1915-18 o riscaldava, da cuciniera, le scodelle delle sue consorelle «Le Spose del Si­gnore» oppure intratteneva le alunne della scuola durante l’attesa in portineria.

Ai poveri avrebbe dato anche le sue vesti.

Una sposa ricorda: «Quando avevo fame e lo dice­vo a Madre Bakhita, ottenevo due scodelle di mine­stra e a volte anche tre».

La sua misericordia era fatta di silenziosa attenzio­ne e grande delicatezza. Durante le recite al ricrea­torio le bambine erano solite avere delle arance o caramelle: Madre Bakhita, accortasi che una delle bambine per vergogna della propria povertà si for­niva di bucce di arance, senza farsi notare le passò un frutto.

«Ogni cosa che avete fatto ad uno di questi piccoli, l’a­vete fatto a me» (Mt 25,40).

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio»

Ricordando le vicissitudini sopportate durante la sua schiavitù, Bakhita era solita attri­buire alla protezione di Dio il fatto che, pur essen­do stata a lungo a contatto col «fango», non ne era mai stata imbrattata.

Ma la sua purezza andava ben oltre: era la sempli­cità e la trasparenza di un cuore indiviso che si af­fidava con confidenza filiale al Dio della misericor­dia.

All’approssimarsi della morte diceva: «… io ho da­to tutto al mio Padrone, Lui penserà a me, ne è ob­bligato». E poi: «Mi presenterò con due valigie: quella con i meriti di Gesù e la mia brutta, piena di debiti. Presenterò quella dei meriti di Gesù e dirò: adesso paga e poi dammi di ritorno quello che avanza».

Pensava che sarebbe stata accolta dalla Madonna e da Maddalena una volta entrata, poi, S. Pietro avrebbe potuto chiudere pure la porta del cielo, tanto lei non se ne sarebbe andata di certo.

«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, per­ché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli in­telligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»

Madre Bakhita non si lamentava mai, né notava i difetti degli altri. Quando in una Sorella qualche mancanza era evidente, la scusava dicen­do: «Si sarà dimenticata… non si sarà accorta… sarà stato per un impulso di natura».

Per amore di pace, a volte, accettava anche rim­proveri non meritati.

Ma soprattutto era rappacificata con la sua storia: pregava per i suoi persecutori in Africa e non ebbe mai per loro parole di risentimento: «Poveretti, non sapevano il male che facevano».

Durante un giro missionario, ad una studente di Bologna che le chiedeva cosa avrebbe fatto, se avesse incontrato quei negrieri che l’avevano rapi­ta e trattata tanto barbaramente, rispose con pron­tezza: «Mi inginocchierei a baciare le loro mani, perché se ciò non fosse accaduto, io non sarei ora cristiana e religiosa».

«Ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vo­stri persecutori, perché siate figli del Padre vostro cele­ste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni…» (Mt 5,44-45).

«Beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno»

Bakhita ricordava con commozione il giorno del suo Battesimo. Quando aveva occasione di rivedere la Chiesa del Catecumenato, si inginoc­chiava davanti al fonte battesimale dicendo: «Qui, proprio qui sono diventata figlia di Dio… Qui mi hanno versato l’acqua che mi ha aperto il Paradi­so» e baciava la terra.

La sua fede era profonda.

Aveva una devozione particolare per l’Eucaristia: uno dei cappellani era solito chiamarla il «mosco­ne di Gesù» alludendo alla sua presenza nera e si­lenziosa sempre intorno al tabernacolo.

Quando ormai malata chiedeva di essere condotta a fare una visita in chiesa, succedeva a volte che, per dimenticanza, vi rimanesse alcune ore. Alle scuse dell’infermiera rispondeva con candore: «Mi ha fatto un regalo, perché ho tenuto compagnia a Gesù!».

Se infine la malattia non le permetteva di parteci­pare alla Messa diceva con serenità alle sorelle: «L’ho sempre con me il Signore: se viene, bene, se no, l’ho dentro di me e lo adoro!».

Oppure: «Pazienza, mando il mio angelo custode per me, perché poi mi riferisca!».

Ogni suo gesto, piccolo o grande, era per far con­tento «el Paron».

Durante una visita del Vescovo al convento, Madre Bakhita, ormai costretta in carrozzella, a una do­manda del Prelato che le chiedeva quello che stava facendo, candidamente rispose: «Quello che sta fa­cendo lei: la volontà di Dio!».

La fede di Madre Bakhita usciva dal convento e rassicurava gli abitanti di Schio durante la paura dei bombardamenti.

«Lasciateli scoppiettare, diceva bonariamente, et Paron comanda lui!».

La gente fiduciosa diceva: «Non temiamo, abbiamo con noi la Madre moretta: è una santa ci salverà dai pericoli!».

«Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tut­ti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!» (Mt 10,30-31).


     

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