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Non chiamateci preti di strada

12 Dicembre 2014 | Filed under: Chiesa, Clero, Testimonianze di Vita
     

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Siamo preti e basta. Ogni ulteriore qualifica – preti antimafia, preti antidroga, ecc… – è di troppo. Dire poi “preti di strada” non ha senso perché il Vangelo e la strada sono inseparabili. Nella parola prete è implicita la parola strada! «Preparate la strada del Signore» dice il Vangelo di Marco. La strada è incontro con Dio e incontro con le persone, è la saldatura di terra e cielo. Vivere il Vangelo non vuol dire soltanto insegnare e osservare la dottrina. Vuol dire prima di tutto incontrare e accogliere, avendo come unico criterio i bisogni e le speranze delle persone.

Io lo intendo così il Vangelo, e non posso che gioire del fatto che papa Francesco abbia voluto caratterizzare la “sua” Chiesa come una Chiesa in cammino, sulla strada, diretta nei luoghi più poveri e dimenticati, poveri di risorse ma anche poveri di senso, le periferie geografiche e quelle dell’anima. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade – ha scritto nella Evangelii Guadium – che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».

La strada maestra

Ma la strada è anche un incessante cammino di crescita, di formazione. Quando mi ordinò prete e affidò come parrocchia la strada, Padre Michele Pellegrino aggiunse: «ci andrai a imparare, non a insegnare!».

Come aveva ragione! La strada mi è stata maestra di vita, mi ha tenuto coi piedi per terra, mi ha protetto dal pericolo di sentirmi “arrivato”. Mi ha insegnato l’umiltà, il non dare nulla per scontato e il non giudicare mai, mi ha reso solidale con le umane debolezze e contraddizioni, a partire dalle mie. Sulla strada siamo piccole persone di fronte al grande mistero della vita.

Un prosciutto utile alla causa…

Con Gino e Virginio ci conosciamo da tempo. Gino lo ricordo nei primissimi anni ’70, da poco diventato cappellano del Beccaria. C’incontrammo perché a Torino, col Gruppo Abele, avevamo realizzato delle iniziative al Ferrante Aporti, il carcere minorile, per creare un ponte fra il carcere e la città, tra cui una tenda allestita davanti alla stazione di Porta Nuova. Sui cartelli, sul materiale distribuito, c’era questa frase: “delinquenti e disadattati non si nasce, si diventa”. Gino Rigoldi voleva capire, informarsi, documentarsi, era uno di quei preti che il Vangelo lo calavano concretamente nella storia, nei problemi del tempo.

Poi ricordo un altro episodio, pochi anni dopo. Ero in Emilia, in un posto famoso per i suoi prosciutti, e proprio dei prosciutti mi regalarono alla fine di un incontro. Mi ricordai che Gino stava cercando risorse per aprire la prima comunità. Beh allora – come adesso… – di risorse economiche ce n’erano poche, ci si doveva inventare di tutto per realizzare e mandare avanti i nostri progetti, e io pensai che anche un prosciutto per l’amico Gino sarebbe stato utile alla causa. C’è sempre stato questo spirito di condivisione e collaborazione, fra noi!

Solidarietà ma anche diritti!

Lo stesso vale per don Virginio Colmegna, con cui ho condiviso e condivido tante cose. La nostra amicizia è iniziata negli anni ’80 . L’arrivo a Milano di Carlo Maria Martini come Arcivescovo aveva creato un forte fermento e promosso iniziative importanti come la Cooperativa Lotta contro l’emarginazione, nella quale don Virginio si spendeva con generosità. Fu quello il nostro primo contatto.

Poi c’è stata l’esperienza nel Cnca – il coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza – l’impegno perché la solidarietà non diventi un alibi al vuoto dei diritti; le attività con la Caritas, di cui è stato direttore a Milano negli anni 90; tanti progetti tra il Gruppo Abele e la Casa della carità e la speranza, sentita da entrambi fortemente, di una Chiesa povera per i poveri, una Chiesa che vive il Vangelo nella sua intransigenza etica e nella sua ricchezza spirituale. Insomma non ci siamo mai persi di vista.

La chiave del “noi”

Il “noi”, del resto, è la chiave del cambiamento. “Noi” non solo predicato ma praticato, vissuto. C’è autentico “noi” dove si accantonano egoismi e individualismi, dove gli altri – il bene comune – diventano la bussola e lo scopo della nostra esistenza. Nel mio piccolo è stato il principio che mi ha ispirato e al quale ho cercato di restare fedele.

L’impegno con gli altri e per gli altri, per costruire su questa terra un po’ di giustizia, di uguaglianza, di dignità. Di conseguenza di libertà, perché la libertà è l’insieme di queste cose. Le stagioni della mia vita sono state segnate da esperienze collettive come il Gruppo Abele e Libera, dall’idea che l’incontro delle diversità, fuori e dentro i nostri contesti, fosse la chiave per crescere, per non accomodarsi nelle certezze, per lasciare un segno.

No al “gigantismo”

L’esperienza del Cnca lo dimostra. Il Cnca nasce nell’ottobre del 1980 a Torino, a Villa Lascaris. Avremmo potuto, come altri all’epoca, lasciarci tentare dalla strada del gigantismo, ingrandirci ciascuno per suo conto aprendo realtà e succursali in tutta Italia, e invece come Gruppo Abele abbiamo scelto la strada della collaborazione e della condivisione, nel rispetto dei ruoli, delle competenze, delle storie e dei contesti. Mi piace chiamarla l’etica del servizio: ti metti al servizio di un progetto, non metti il progetto al tuo servizio.

Una rivoluzione dei comportamenti

Lo stesso è valso per la Lila, negli anni tragici dell’aids (ma attenzione i dati ci dicono che il numero dei contagi è ancora altissimo. Abbiamo abbassato la guardia dell’educazione e della prevenzione!).

E lo stesso vale per Libera. La libertà dalle mafie – un problema secolare del nostro Paese, radicato in certi usi e costumi, nel nostro essere cittadini occasionali, a intermittenza – non poteva essere affrontato solo con generici appelli alla legalità. Occorreva una rivoluzione delle coscienze e dei comportamenti, un impegno caratterizzato da continuità, condivisione, corresponsabilità.

Essere al servizio del servizio

Ma “noi” significa anche coscienza dei propri limiti, sapere che senza gli altri non si va da nessuna parte. Significa lasciar da parte i personalismi, la presunzione di essere indispensabili. Significa stimolare il coinvolgimento, la responsabilità, e al momento giusto cedere il testimone: siamo al servizio del servizio.

L’etica della comunicazione

Coscienza dei limiti che provo forte anche in questo momento, in quest’aula, dove mi viene data laurea, a me che dico di me stesso che l’unica laurea che posso vantare è in “scienze confuse”… Però due considerazioni su questa laurea in “comunicazione pubblica” credo di poterle fare. La prima è che la comunicazione è una cosa importante anche per noi che ci occupiamo di problemi sociali, ma è pur sempre un mezzo, non un fine. Oggi c’è una grande enfasi sul comunicare – legittimata dalla potenza degli strumenti a disposizione – spesso però direttamente proporzionale alla povertà dei contenuti.

La seconda, è che il fine della comunicazione sono le persone. Non però le persone come potenziali clienti, consumatori o proseliti. Le persone come domande di sapere, come bisogni inespressi, come diritti non tutelati. Come soggetti di dignità e di libertà. Qui sta l’etica della comunicazione e qui sta anche il futuro della nostra democrazia. 

don Luigi Ciotti


     

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