Le tappe di una disgregazione
Questo articolo è stato già letto1029 volte!
“I bambini hanno bisogno di una mamma e un papà” è il concetto guida che ha guidato tanti di noi nell’opposizione al varo delle unioni civili per le coppie dello stesso sesso, di per sé un matrimonio sotto altro nome, come ha riconosciuto l’onorevole Gasparotto. Tuttavia non renderemmo ragione alla verità se non comprendessimo come il processo di decentramento dei bambini divenuto col matrimonio gay, la stepchild adoption e l’utero in affitto intollerabilmente palese, ha una genesi più lontana nella trasformazione del diritto di famiglia.
La stesura originaria dell’articolo 151 del codice civile prevedeva il diritto di ciascun coniuge di chiedere la separazione personale soltanto «nei casi determinati dalla legge», ovvero: «adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi». A norma del comma 2,
la moglie era legittimata a chiedere la separazione per adulterio del marito soltanto quando la condotta infedele dell’uomo integrava «una ingiuria grave» per la stessa. L’articolo 153 ancora del codice civile stabiliva poi il diritto della moglie alla separazione «quando il marito, senza giusto motivo, non fissa(va) una residenza , o, avendone i mezzi, ricusa(va) di fissarla in modo conveniente alla sua condizione».
Da qui si evince che per il legislatore il matrimonio era un “bene” pubblico degno di massima tutela, il quale giustificava la limitazione della libertà individuale dei coniugi: lo Stato non poteva fare a meno di recepire, sia pure in modo edulcorato, il principio religioso della indissolubilità, ancora molto sentito nella opinione pubblica. In effetti, con la previsione delle cause tassative dette, il legislatore dimostrava di voler «circoscrivere rigorosamente i casi in presenza dei quali l’interesse pubblico alla normalità e sanità del consorzio coniugale poteva cedere innanzi alla pretesa del coniuge di porre fine alla convivenza» (Zatti, Trattato di diritto di famiglia, Giuffré Editore 2002, 1024).
Il primo colpo viene inferto nel 1970 con l’introduzione della legge sul divorzio, la quale, nel prevedere che uno dei presupposti per la sua richiesta è il semplice protrarsi in maniera ininterrotta della separazione dei coniugi per un lasso di tempo determinato, finisce per svuotare di significato il principio di indissolubilità del matrimonio, imponendo così anche di rivedere tutta la disciplina della separazione. Pur ferita irreparabilmente l’indissolubilità, il progressivo accorciamento dei tempi di separazione necessari alla sentenza di divorzio, confermano da un lato il principio della rana bollita, dall’altro evidenziano come il favore dello Stato per assicurare ai minori la sussistenza dell’ambiente familiare con cui sono venuti al mondo è divenuto viepiù evanescente.
La legge n. 898/1970 prevedeva un periodo di cinque anni dalla pronuncia di separazione, allungabile a sette anni in caso in cui il coniuge dichiarato incolpevole dalla sentenza di separazione proponeva opposizione al divorzio; con la legge di modifica, n.74/1887, il periodo è stato ridotto a tre anni; con la recente riforma, L.n. 55/2015, il periodo è di 6 mesi in caso di separazione consensuale e di 12 mesi in caso di separazione giudiziale. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 il legislatore cancella le cause di separazione, rimettendo il diritto di ciascun coniuge a separarsi al verificarsi «indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi» di «fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole».
Dunque dall’elenco tassativo delle cause di separazione (sempre e comunque ricollegabili alla colpa di uno dei coniugi), si passa ad una previsione più generale – intollerabilità della convivenza e grave pregiudizio alla prole- stavolta svincolata dalla imputabilità all’uno o all’altro coniuge: non rileva più chi ha reso intollerabile la convivenza (irrilevanza della condotta) ma rilevano soltanto i fatti e gli eventi che determinano quella intollerabilità (rilevanza della situazione). È questo un passaggio chiave che nel mondo anglosassone viene indicato come no fault divorce (divorzio senza colpa).
Possiamo dire che l’attenzione del legislatore del 1975 si sposta dalla tutela, quasi ad ogni costo, del matrimonio in quanto bene pubblico, alla tutela in primis della persona del coniuge che deve essere libero di poter rompere l’unione, quando vi sia un degrado della convivenza. In altre parole, lo Stato, che decideva quando i coniugi potevano rompere il vincolo, abdica dal ruolo di garante del matrimonio e riduce il suo intervento ad un controllo giudiziario sulla sussistenza di quella intollerabilità. Ma che cosa significa “intollerabilità della convivenza”? Significa che manente matrimonio si sono verificati dei fatti che hanno inciso in maniera negativa sulla unione dei coniugi, ovvero che hanno fatto venire meno la comunione spirituale e di vita che si era instaurata col matrimonio. Comunione che per nessun motivo può essere ricostituita. Il concetto di “intollerabilità” nel tempo è passato da un’interpretazione oggettiva ad una soggettiva.
Nel primo caso per la Cassazione «l’intollerabilità (…) va ravvisata in circostanze obbiettive, non predeterminate nominativamente dalla legge e rimesse all’attenta e prudente valutazione del giudice, commisurata alle regole di comportamento proprie dell’ambiente sociale in cui la famiglia è inserita e desumibile secondo razionali criteri di comune esperienza» (C. Cass. n.1304/1986). Con la conseguenza che, ancora per la Cassazione «a seguito della riforma del diritto di famiglia, la separazione giudiziale dei coniugi, pur svincolata dalle situazioni tipiche previste dal testo originario dell’articolo 151 del codice civile, non può essere pronunciata per il mero atteggiamento soggettivo di rifiuto della convivenza da parte di uno dei coniugi, ma solo in presenza di circostanze che rendano oggettivamente apprezzabile, e, quindi, giudiziariamente controllabile, una situazione di intollerabilità nella sua essenza e nella sua dinamica causale» (C. Cass. n. 67/1987).
Tale orientamento basato ancora sulla convinzione che il matrimonio e l’unità familiare sono un bene superiore degno di maggiore tutela rispetto all’interesse e alla libertà individuale dei coniugi di separarsi,di fatto nel tempo è stato abbandonato in favore della interpretazione soggettiva della intollerabilità, rinvenibile addirittura ogni qual volta sia venuto meno l’affetto di un coniuge verso l’altro. Ed in effetti, molte sono le pronunce della Suprema Corte in tal senso: «La situazione di intollerabilità della convivenza va intesa in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo comportamento processuale, (e, in particolare alle negative risultanze del tentativo di conciliazione), dovendosi ritenere, in tali evenienze, venuto meno quel principio del consenso che, con la riforma attuata attraverso la legge 19 maggio 1975, n. 151, caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale» (C. Cass. n.1164/2014).
E quando la frattura dipende «dalla condizione di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti, (…) la intollerabilità della convivenza non può ritenersi esclusa per il solo fatto che uno dei coniugi assume un atteggiamento di accettazione e di disponibilità, potendo tale atteggiamento trovare spiegazione in motivi pratici e nella prevalenza di concezioni etiche, ovvero in prospettive di recupero del rapporto, che rendono quel coniuge eccezionalmente tollerante rispetto ad una situazione obiettivamente priva dei contenuti minimi di reciproca affectio della comunione coniugale» (C. Cass. 7148/1992).
E a proposito della irrilevanza della disponibilità di un coniuge a tollerare la condotta illegittima dell’altro: «la disponibilità unilaterale della moglie a sopportare l’esistenza di una stabile convivenza more uxorio del marito con altra donna non impedisce la sussistenza della intollerabilità della convivenza tra i coniugi, risultando strettamente collegata all’esistenza di una nuova famiglia, quale indice sicuro della disaffezione del marito alla convivenza matrimoniale» (C. Cass. 2274/2012).
Tutto questo si è verificato grazie ad una innovativa interpretazione dell’art. l’art.151 codice civile che prevedeva la presenza di “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole”. Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, la norma non conferisce al giudice il potere di stabilire se i fatti siano oggettivamente idonei a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, bensì quello di valutare se, nella percezione soggettiva di almeno uno dei coniugi, determinati fatti creino intollerabilità della convivenza: dunque, se un coniuge vuole separarsi tout court , anche per motivi futili, nessuno può imporgli di continuare la convivenza. In nome di una «visione evolutiva del rapporto coniugale» (C. Cass. n.7125/2011), possiamo quindi concludere che per integrare la fattispecie della intollerabilità è sufficiente che la convivenza sia soggettivamente percepita come intollerabile dal coniuge che chiede la separazione.
Ma se la disaffezione, come abbiamo visto, è divenuta per i giudici giusta e bastevole causa di divorzio, a prescindere dall’interesse del minore, è difficile contraddire chi afferma che l’affezione è l’elemento fondante del matrimonio e della famiglia, esattamente quello che dicono i proponenti del matrimonio gay.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.