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Vita pastorale – Una rilettura del sesto comandamento

4 Novembre 2013 | Filed under: Catechesi and tagged with: Catechesi, cettina militello, sesto comandamento
     

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Donna-adultera

“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicaria? IlCatechismo della Chiesa cattolica dice che queste per­sone non devono essere discrimina­te ma accolte. Il problema non è ave­re queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby… Questo èil problema più grave”. Così, secondo gli organi di stampa, Papa France­sco avrebbe risposto alla domanda di un giornalista nel viaggio di ritor­no da Rio de Janeiro.

L’intervista apparsa su La Civiltà Cattolica conferma questo suo atteg­giamento: «Se una persona omoses­suale è di buona volontà ed è in cer­ca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo, io ho detto ciò che dice il Catechismo. Una volta una persona mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi: “Secondo te Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a par­tire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia».

Abbiamo preso in esame la pedofi­lia, il peccato di pedofilia, passiamo ora alla spinosa questione dell’omo­sessualità. Non di rado vengono stabi­liti stretti legami tra le due cose, ma non è su questa pista, per altro offen­siva in partenza, che vogliamo metter­ci, quanto sul problema più generale: l’essere attratti da persone del pro­prio stesso sesso, l’essere caratterizza­ti da un orientamento sessuale che co­glie soltanto questi/e come propri “naturali” partner. La questione è molto complessa. Investe infatti il te­ma dell’identità di genere e il collocar­la o meno sul piano della sola costru­zione sociale. Cose queste su cui più volte si è riflettuto sulla rivista.

Senza nessuna pretesa esaustiva provo a richiamare che dell’omoses­sualità, nella storia, non è stata data una lettura univoca, ma – ci piaccia o no – ogni cultura si è regolata di­versamente. La storia registra posi­zioni assolute di condanna, con legi­slazioni severissime, e, d’altra parte,

posizioni permissive, soprattutto al maschile, senza remore di sorta. Va­rio anche l’atteggiamento religioso. Tuttavia ebraismo, cristianesimo e isiam da sempre si sono schierati su posizioni contrarie. Nei momenti storici di maggiore collusione tra po­tere politico e potere religioso, l’omosessualità è stata considerata un crimine passibile di morte.

Dalla condanna all’approccio

Dalle Scritture ebraico-cristiane -Antico e Nuovo Testamento – emerge una condanna senza appello. Sulla stessa linea i Padri della Chiesa. Non mancano, tuttavia, riletture attuali del­le Scritture, come dei Padri, volte a di­mostrare l’infondatezza degli approc­ci. Di fatto, una crepa nell’impianto so­cio-religioso si è aperta a partire dal se­colo XIX. Diciamo, approssimativa­mente, che la stagione della rivendica­zione dei diritti è andata enucleando­ne sempre di nuovi, sulla linea delle li­bertà personali e della propria autode­terminazione. Una cosa è certa: dietro la condanna dell’omosessualità c’è il ri­fiuto di ogni uso della sessualità non diretto alla procreazione. La sessuali­tà, l’esercizio della sessualità è legitti­mo solo nell’ambito di una struttura

sociale, la famiglia, risultante di due soggetti umani di sesso diverso, giuri­dicamente uniti al fine di procreare, perpetuando la comunità umana.

Ovviamente, stando così le cose, l’omosessualità è apparsa un attenta­to alla stabilità sociale. La coppia omosessuale ostenterebbe una simu­lazione della famiglia e pretendereb­be d’esservi equiparata. Chi sono io per giudicare i gay? Se così si è espresso Papa Francesco, figurarsi la sottoscritta. E tuttavia occorre far­lo il discorso, non certo per chiude­re le porte e rinnovare condanne, ma per chiedersi cosa c’è dietro al fe­nomeno così come lo viviamo.

La nostra cultura a ragione o a tor­to nella sua valorizzazione ossessiva della sessualità e dei presunti diritti a essa inerenti ha finito, io credo, con il confondere il rispetto dovuto all’orientamento con la giustificazio­ne, a partire dall’orientamento, di fa­miglie fittizie. Una cosa, infatti, è il ri­spetto verso i singoli e le coppie che vi­vono situazioni affettive stabili, ben­ché diverse dai cliché istituzionali, una cosa è l’estendere i medesimi di­ritti sino al matrimonio (sacramento) e alla procreazione (assistita o surro­gata), a persone dello stesso sesso. In altre parole, dinanzi al rapporto tra omosessuali è lungimirante non precipitarsi a giudicare, tanta e tale è la gamma delle situazioni personali. Bisogna mettere in atto un’attitudine di sincero rispetto e offrire compren­sione e accoglienza vera. Altro, inve­ce, è reagire alla pressione esercitata, facendo lobby, per imporre come di­ritto umano qualcosa che è oggettiva-mente difficile leggere come tale. En­triamo così nella questione spinosa delle lobby, dei gruppi di pressione socioeconomica e culturale. Non cre­do che l’orientamento sessuale sia in­differente. Accetto – non posso nega­re l’evidenza – che si diano forme di­verse di orientamento omosessuale. Ma i nodi non possono essere sciolti con la logica dei diritti di una mino­ranza; né la minoranza può imporre il suo punto di vista alla collettività.

Sia chiaro, a me personalmente è capitato di dovermi fermare davanti a un rapporto nobile, vero, tra perso­ne omosessuali. Ho dovuto, confes­so mio malgrado, scansare ogni par­venza di pregiudizio. Ma questa ri­spettosa empatia non può tradursi -né questo è l’unico caso – in forme le­gislative di tipo matrimoniale. Le pa­role hanno pure una loro ragion d’essere. Questo – anche se ci sono indi­cazioni ecclesiali severe – non vieta una regolamentazione civile dei rap­porti delle coppie omosessuali, in vi­ta e in morte. Non supponiamola né chiamiamola però “matrimonio”: manca la materia prima.

Domande vere e ricorrenti

Una domanda tuttavia vorrei far­mi, senza con ciò incorrere nell’accu­sa di omofobia. Abbiamo scoperto adesso il fenomeno dell’omosessuali­tà? Esso ha davvero i numeri che gli vengono attribuiti? Essere gay o le­sbiche nasce davvero da un orienta­mento sessuale o non è piuttosto un atteggiamento posticcio, un essere al­la page, nel perverso gioco della pre­sunta “indifferenza” di genere? E in particolare, se è vero storicamente che i rapporti omosessuali hanno un incremento nei luoghi selettivi a par­tire dal sesso (caserme, carceri, colle­gi, seminari), questo dato, come Chiesa, non ha niente da dirci?

Qualche anno fa a Gerusalemme un’amica di pellegrinaggio ebbe la pessima idea di sorreggere un ebreo osservante che salivate scale. Ne eb­be insulti, a lei incomprensibili ma evidenti: ne aveva inficiato la purità come donna e, visibil­mente, come non ebrea. Prendo le mosse da lon­tano per chiedermi se l’omofilia, ben celata dietro atteggiamenti ufficiali omofobi di tanti uomini di Chiesa, non nasca tanto da un orien­tamento sessuale, quanto piuttosto da un dispositivo intellettuale che guarda con disprezzo le donne e le esclude dalla propria vita e soprat­tutto dalla Chiesa.

Ricordo con orrore la tranquillità con cui, a proposito di un ecclesiasti­co pescato a “fornicare” con prostituti dello stesso sesso, mi si fece notare – più di trent’anni fa – che, però, non era stato sorpreso con una donna. Se­gno evidente che nella scala della de­pravazione quello era il livello infimo, intollerabile. Non mi pare che le cose siano mutate. L’emofilia ecclesiastica sceglie pizzi e merletti; sceglie l’intransigenza della condanna; sceglie la pro­fessione pubblica di misoginia.

Ma tutto ciò è intollerabile nella misura in cui diventa lobby, corda­ta che all’infinito genera una seque­la affine, un atteggiamento univoco in quelli che detengono il potere o che vi aspirano. Basta con il sacro, con i suoi teoremi deliranti; basta con una comprensione di sé smisu­rata e infondata; basta con la pre­sunzione d’essere non uomini di Dio, ma Dio stesso, oltre il bene e il male. Basta con un’educazione ses-suofoba; basta con la misoginia qua­le scudo unico e valevole, come stre­nua difesa dei valori del celibato.

Sono questi i luoghi di coltura dell’emofilia ecclesiastica. Il che feri­sce il corpo della Chiesa e soprattut­to impedisce il riconoscimento in pienezza dei battezzati come tali, senza discriminazioni di sesso, raz­za, cultura. Nessuna riforma è possi­bile se non si accetta la sfida della di­versità, la stima della diversità. Non ci si può condannare al ghetto, al gruppo chiuso. La Chiesa è di tutti.

E, guardando alla società, mi chie­do anche se nel dichiararsi lesbiche di tante donne non ci sia il bisogno di trovare un antidoto alla violenza ma­schile e se nel professarsi  gay di tanti maschi non ci sia la paura e lo sconcerto verso un modello di donna, davanti a cui si teme d’essere inadeguati. Mi chiedo insomma se alle spalle del fenome­no nella sua esplosione culturale non ci siano carenze forti a livello formativo; se dietro la cosid­detta scelta del proprio orientamento sessuale non ci sia la difficoltà di ac­cettare o elaborare nuovi modelli di mascolinità e femminilità.

Ma i problemi posti non toccano ovviamente quelli che davvero e sen­za alibi, e pagando di persona, si di­chiarano omosessuali: sono nostri/e fratelli/sorelle, nostri/e compagni/e di cammino, talora anche di fede. Bi­sogna accettarli/e come tali; aiutarli/e e accompagnarli/e, senza fobie, verso la migliore comprensione di sé e della loro vocazione umana e cristiana.

Cettìna Militello


     

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