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Testimonianza di vita cristiana – Conersione . Una storia personale

22 Luglio 2011 | Filed under: Biblioteca
     

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CONVERSIONE
“Una storia personale”

«La vita, per alcuni è cupa, per altri grigia. Per me è radiosa. Ci sono molti elementi che concor­rono alla luminosità della mia esistenza attuale: innanzitutto, un mattino di quattro anni fa ho scoperto, in un colpo solo, di avere un tumore alla tiroide e un carcinoide al pancreas e al fega­to, per cui da allora devo sottopormi ogni giorno alla terapia dell’interferone. Inoltre, svolgo il mio lavoro fra molti contrasti e anche, com’è na­turale, qualche disillusione. Infine, anche per col­pe mie, sono lontano da colei che, malgrado un divorzio, nella prospettiva cristiana resta mia moglie e che mi ha dato una figlia, mentre gli al­tri due figli sono venuti dal mio secondo matri­monio. Eppure, godo di una vita cristiana vi­brante. Ed è questa visione di fede che, malgrado tutto, rende la mia esistenza radiosa.» È con sorpresa – non disgiunta, confesso, da una certa emozione – che lessi queste parole: la malattia, i fallimenti familiari, le difficoltà professionali come causa non di lamento o di de­pressione, bensì di vita «radiosa» perché illumi­nata dalla luce del vangelo… Con espressioni così inconsuete si apriva un manoscritto che un corriere mi aveva recapitato qualche giorno pri­ma del Natale scorso. Era un manoscritto che, subito dopo, dichia­rava – con altrettanta, sorprendente chiarezza – l’intenzione di chi lo aveva redatto: «Vorrei, con queste pagine, essere utile ai tanti che hanno messo da parte la vita cristiana, per i motivi più diversi, e che possono percorrere, alla loro ma­niera, un cammino simile al mio… So che ci sono tante obiezioni alla fede, ma li invito a non tirarsi indietro e a esaminare quanto scrivo per cercare un po’ di luce e, forse, per trovare la spinta per re­cuperare la prospettiva cattolica»….. 


 Le pagine che seguivano precisavano subito di non venire da un credente praticante per tra­dizione e abitudine, bensì da un convertito: «Ho per decenni messo da parte la pratica di vita cri­stiana. Poi, ecco la riscoperta…
Sorpresa e un po’ di emozione, dicevo. E non senza ragione. In effetti, questo testo che comin­ciava, e proseguiva, in modo tanto impegnativo – quasi al limite dell’impudicizia, almeno per un certo ambiente sociale e culturale – non era uno dei molti, opera di ignoti, che giungono a chi si occupi di questioni religiose nei libri e sui gior­nali. Al contrario. L’arrivo del manoscritto mi era stato preannunciato da una serie di telefona­te di segretarie premurose ed efficienti: quelle, per intenderci, che hanno di solito un leggero ac­cento straniero, anglosassone di preferenza. L’autore, insomma, di parole così compromet­tenti era un top manager. Era nientemeno che il presidente di uno dei maggiori gruppi editoriali d’Europa: 3000 miliardi di fatturato, 5100 dipen­denti, impianti tipografici sempre all’avanguar­dia, centinaia di novità librarie ogni anno, com­partecipazioni in mezzo mondo, 49 testate giornalistiche… Ma sì, l’autore era proprio il presidente dell’Arnoldo Mondadori Editore SpA, il colosso che ha superato ogni cambio di regime politico e ogni tempesta economica, mantenendo – anzi, rafforzando – la sua leader­ship indiscussa nel decisivo mercato della cultu­ra e dell’informazione. Era, insomma, Leonardo Mondadori, nipote di Arnoldo, il Grande Vecchio, il mitico fondatore di quell’impero di carta; era il rappresentante attua­le della maggior dinastia editoriale italiana che mi sottoponeva, per un giudizio, il testo con cui aveva saltato la barricata e si era azzardato – per bruciante passione di apostolato – a farsi, da gran­de editore, autore esordiente. Per giunta, aveva abbozzato lì, in pagine ancora in prima stesura, il piano di una sorta di vademecum, di prontuario cattolico, che passasse in rassegna, scriveva, «i dubbi in cui mi sono imbattuto più frequente­mente, conversando di problemi religiosi con le molte persone che il mio lavoro mi porta a fre­quentare». Con ulteriore, sorprendente prova di zelo fer­voroso, Leonardo Mondadori – non fidandosi, da cattolico in fondo neofita, della sua prepara­zione specifica («Non sempre sono riuscito a for­mulare risposte convincenti, per carenza di dot­trina o per inadeguata disposizione dei miei interlocutori») – aveva progettato di rendere espliciti quei dubbi, uno per uno, con parole sue, e di passare poi la palla a un sacerdote, per una trattazione completa. Una trattazione che, sco­persi subito, era – mirabile dictu audituque, di questi tempi in cui, anche fra cattolici, il “secon­do me” di ciascuno pretende di prevalere sul Magistero -, era, dunque, nella più limpida orto­dossia cattolica. Non occorre alcuna preparazione in sociologia religiosa, basta l’esperienza per constatare che, oggi, in tutto l’Occidente, la maggioranza non appartiene né ai praticanti delle comunità cri­stiane storiche – in Italia, la cattolica – né, meno che mai, alle “nuove religioni”, le sette, come le chiamano. Che sono numerose, ma con un se­guito minore di quanto spesso si creda. Così, è pure piuttosto raro il passaggio a culti come l’i­slamico o il buddista, almeno nel senso, per que­st’ultimo, di un’adesione “forte”, che vada al di là di una ricerca di benessere spirituale da ag­giungere a quello materiale. La maggior parte degli europei, ma anche dei nordamericani, appartiene a quella eterogenea e interdassista “comunità religiosa” che è indicata dagli studiosi di queste cose con l’espressione believing without belonging, il credere senza appar­tenere. Dunque, una credenza, più o meno esplici­ta, in un “qualche Dio”, se non in un “Qualcosa”, ma senza frequentazione regolare né adesione ad alcuna istituzione ecclesiale. È questa religione del «Dio sì, ma Chiese no», magari del «Cristo sì, ma preti no», che unisce la gran parte degli occidenta­li odierni, gregari e obbedienti ai persuasori più o meno occulti in tutto il resto, ma allergici a gerar­chie e dogmi e, soprattutto, impegni morali, in materia di fede. Proprio perché consapevole di questa situa­zione, mi sorprendeva, certo, una conversione; ma, forse, ancor più mi stupiva che non avesse portato all’individualismo del “supermarket delle fedi”, bensì a una simile, esplicita adesione al Credo come ufficialmente è proposto dalla Catholica. Un ritorno non solo alla Bibbia, fatto oggi già inconsueto, ma, addirittura, un’adesione ferven­te pure al catechismo! Possibile che davvero, almeno una volta, in una Chiesa sconquassata ormai da decenni dalle scosse telluriche del postconcilio, in una Chiesa dove per molti la ca­rità è declassata a filantropia o a impegno socia­le, dove sono di dubbia ortodossia persino certi insegnamenti di certe università “cattoliche” e, a furia di ossessivi “dialoghi”, sembra svaporare ogni identità, possibile che fosse tornato il tem­po dei Claudel, dei Maritain, dei Péguy, dei Bloy, degli Huysmans, magari dei Papini e dei Rebora, con quei loro integrali e “papisti” ritorni all’ovile? È naturale che, in quelle pagine, con tutto il rispetto per il sacerdote che aveva assicurato la trattazione teologica, il mio interesse non si ac­centrasse tanto sulle sue impeccabili argomen­tazioni, quanto sui “cappelli” a esse apposti dal sorprendente Leonardo. In effetti, persino in questi tempi caotici, che cosa di più consueto di un prete che illustri dottrina e morale tradizio­nali della Chiesa su argomenti come matrimo­nio, rapporti extraconiugali, anticoncezionali, aborto, eutanasia, celibato sacerdotale, diavolo e inferno, e altri temi del genere? E che cosa di più inconsueto che vedere del tutto allineato su simili prospettive, sino al punto di farsene apo­stolo, un manager ben noto anche perché prota­gonista di tante cronache cultural-mondane, di certi servizi giornalistici invernali da Cortina ed estivi da Capri? Sorpresa, dunque. Eppure, alcuni indizi avreb­bero dovuto farmelo presagire. In effetti, con la casa editrice presieduta da Mondadori avevo pubblicato alcuni libri, la cui diffusione non sembrava avere deluso l’editore. Ma, soprattutto, avevo pubblicato “il Libro”, quello per antonomasia, come lo si intendeva tra dirigenti e redattori. Alludo a quel mio colloquio con Giovanni Paolo Il, cui l’intervistato stesso aveva voluto apporre come titolo Varcare la soglia della Speranza e che, stando a chi tiene i conti di simili cose, aveva costituito l’opera di cui si ven­dettero, in 53 lingue, più copie in meno tempo. Confesso, però, che il mio temperamento di solitario – che non appena ha potuto ha lasciato Milano ed è andato ad appartarsi in provincia, e non per ossessioni ecologiste, nulla curandosi di pubbliche relazioni né di frequentazioni eccel­lenti non tende, d’istinto, a trasformare in ami­cizia i rapporti di lavoro. Per quanto importa, quello di cui sono vittima è un carattere di ironi­ca se non beffarda anarchia che mi ha portato a privilegiare, in giornali e case editrici, i contatti rilassati, magari un po’ goliardici, con i quadri intermedi, piuttosto che quelli, ingessati e for­mali, con i vertici. Nel mondo dei libri, le amici­zie che più mi sono care sono quelle con sempli­ci redattori e magari venditori, piuttosto che con dirigenti e capi. Così, nonostante ripetuti inviti, in cui mi sem­brava risuonare una cordialità sincera, di rado sa­livo nell’ufficio del presidente della grande, forse sin troppo grande per me, Mondadori SpA. Da tanti anni, ormai, uscito dalla tangenziale Est, supero l’aeroporto di Linate, costeggio l’Idrosca­lo e punto su quella sorta di astronave che Oscar Niemeyer, l’architetto di Brasilia, ha ancorato sulle brumose marcite di Segrate. La mia frequenta­zione di quest’angolo di banlieu milanese è antica; qui già venivo come giornalista, come intervista­tore, ben prima che come autore, sin da quando i muratori se n’erano appena andati. Eppure, non mi sono ancora rassegnato: ogni volta, impreco fra me e me contro il celebrato costruttore – o chi per lui – che ha sistemato le garitte per la sorveglianza sulla destra di chi en­tra nel grande recinto verde che circonda lo spettacolare dinosauro. Qui non siamo in In­ghilterra, qui il volante è a sinistra e occorrono acrobazie per consegnare i documenti che i guardiani fotocopiano. Gli autori, in genere, non sono giovanissimi, quell’allungarsi, quel divin­colarsi non è per i loro reumatismi, per le loro artrosi cervicali; e nemmeno Per la pinguedine cui dà diritto l’età. Il malumore, puntualmente, aumenta non solo per i parcheggi lontanissimi dagli ingressi, ma anche per la sadica trovata del celebrato brasiliano di costringere i visitatori a percorrere una lunga passerella che attraversa uno stagno dove si aggirano grossi pesci, scuri e inquietanti. Nessun riparo è previsto contro le piogge o il solleone estivo: così ha voluto l’ar­chitetto. Un percorso iniziatico, una purificazio­ne penitenziale per accedere ai penetrali del Ca­stello sacro alla Cultura? È l’ipotesi indulgente di alcuni amici scrittori… Giunto finalmente alle portinerie e sbrigate al­tre formalità (consegne di pass, telefonate di conferma), se appena possibile limitavo le mie visite ai formicai umani del quarto piano, tra re­dazioni e uffici grafici. Qui, l’istinto di sopravvi­venza contro le disumane teorie open space degli architetti “democratici” – quelli che, nei bei pa­lazzi d’epoca del centro storico dove hanno stu­di ovattati e inaccessibili, stabiliscono che gli al­tri, non certo loro, devono fare tutto “insieme” – ha spinto alla creazione di nicchie e rifugi di for­tuna, utilizzando armadi, schedari, paraventi. Di solito, non salivo al quinto piano, dove il pri­vilegio di vere pareti che diano forma a vere stanze è stato salvaguardato. Qui, uscendo dal­l’ascensore e svoltando a sinistra, voici le calme, le luxe, la volupté: moquette, silenzio (se non attuti­te suonerie telefoniche dietro le porte imbottite), bei quadri, fattorini in divisa che ti sfilano il cap­potto e lo sistemano in luoghi invisibili, chieden­doti se gradisci bere qualcosa. Ecco le segretarie che si scusano se per caso devi attendere qual­che minuto su divani che sanno di buon vecchio cuoio con, a portata di mano, l’ultimo numero delle tante riviste del gruppo. Ecco, infine, aprirsi la porta della stanza più panoramica, quella d’angolo, comunicante con la saletta dove, per le riunioni più esclusive, un cameriere apparecchia e serve il pranzo. Da quella porta, ecco lui – il Signor Presidente, por­tatore di tanto nome – farsi incontro sorridente e cordiale. Un amico comune mi diceva che, se vuoi sapere quali tendenze avrà la moda nella prossima stagione, ti converrà osservarne con attenzione le cravatte. Probabilmente, la solita leggenda metropolitana. Ma forse non del tutto: il suo sar­to è eccellente (niente abiti confezionati) e l’uo­mo, collezionista e intenditore di arte, oltre che regista di grandi mostre internazionali, sa bene come assortire colori e accordare accessori. A questo, si aggiungano un portamento natural­mente spigliato, come si addice al rampollo di una grande dinastia, e la fama, che l’ha accom­pagnato a lungo, di galante (per usare un eufe­mismo) e di bon vivant. Comunque, giustizia esige che venga subito dissolto un facile equivoco: poiché la famiglia ha venduto da tempo tutte le sue azioni, Mondadori occupa il posto al vertice non in virtù del nome (che pure, è innegabile, accresce il prestigio, dan­do il segno della continuità di una tradizione) bensì per la fiducia, più volte rinnovata, dell’azio­nista di maggioranza. Azionista che – ben noto per il suo agire in sintonia con le necessarie, eppur spietate, leggi del mercato – non avrebbe di certo mantenuto in quell’incarico chi non avesse dimo­strato buone qualità manageriali. Si aggiunga che, come non ci sono ragioni “dinastiche”, non d sono neppure ragioni politiche: l’amicizia di Leo­nardo Mondadori con Silvio Berlusconi non si­gnifica identità completa di prospettive, visto che quelle dell’editore, espresse liberamente e ben note nel giro, hanno accentuazioni talvolta diver­se rispetto a quelle dell’attuale presidente del Consiglio. Questo, sia subito ben chiaro, è l’unico, fugace cenno che, qui, dedicheremo alla politica. Su di essa non ho fatto alcuna domanda al mio inter­locutore. E, ciò, per una scelta esplicita: è da un paio di secoli che cercano di deviare il nostro in­teresse dall’Alto al Basso, dal Cielo alla Terra, per usare termini desueti ma comprensibili. Ma sì, è dai tempi delle ideologie sette e ottocente­sche che tentano di convincerci che la sola di­mensione degna, la prima se non l’unica che debba importare all’uomo è quella sociale ed economica, è quella di quando siamo in piazza o al mercato o al dibattito pubblico. Sulla politica, dunque, l’uomo adulto e consapevole dovrebbe investire non solo la sua attenzione ma anche la sua passione, addirittura la sua speranza. E invece – come ben sa chiunque si interroghi con sincerità – non è affatto così. L’impegno nel­la polis non va certo demonizzato, anche se ha provocato disastri terribili, con le sue ideologie rosse, nere e di ogni colore, elevate a religioni se­colari e produttrici di cataste di morti e di sofferenze inenarrabili. Non va demonizzato; ma, con altrettanta certezza, va demitizzato. In effetti, ogni sia pur sofisticato schema poli­tico è in grado di fornire qualche risposta, per giunta sempre contestabile e contestata (non c’è governo senza opposizione…)alle domande penultime. In queste pagine, invece, è con do­mande “ultime” che ci piacerebbe confrontarci: un possibile significato per il vivere e per il mo­rire, una risposta adeguata al nostro bisogno di bontà, di felicità, di eternità. Cose che solo nella dimensione religiosa, non certo in quella politica, trovano proposte di solu­zione. Accettabili o no che siano, tali proposte non possono avere diritto di cittadinanza nella prospettiva di chi pensa che la sua salvezza, la sua gioia, la sua speranza, il suo desiderio di amare e di essere amato abbiano come strumen­to un partito, quale che sia, passino attraverso riforme o rivoluzioni. Trascorsi un giorno, tanti anni fa, con Eugène Ionesco. Mi disse: «La donna che nessuno ama, l’uomo cui diagnosticano un cancro, il pensiona­to solitario sulla panchina, colui che – nella luci­dità spietata del risveglio – guarda allo specchio sul suo volto i segni del tempo e si chiede che ci fa lì, che sarà di lui… Nessuno di costoro sarà mai consolato dal politico, dal sindacalista, dal sociologo, che – per quel che davvero conta – non sono, per usare la parola del vangelo, che ciechi che guidano altri ciechi». Ciò che qui interessa è soltanto una “storia personale”: una dimensione in cui le preferenze per un governo o per un altro hanno un ruolo marginale ed effimero. Per tornare, dunque, a quel Leonardo, cui tutto ho domandato tranne le sue scelte elettorali delle quali nulla m’importa, ricordavo, divertito, un viaggio con lui a Pamplona. Mi ci recavo per un’inchiesta sull’Opus Dei – che ha una sua pre­stigiosa università in quella capitale della Na­varra dalla esplosiva fiesta cara a Hemingway -, inchiesta che proprio la Mondadori avrebbe pub­blicato. Viaggiammo, noi tre o quattro, su un jet privato, un aereo del gruppo di Berlusconi, il qua­le aveva conquistato la casa editrice dopo una fa­mosa battaglia dagli aggrovigliati strascichi giu­diziari che proseguono tuttora e che rientrano, essi pure, tra le cose cui non riesco ad appassio­narmi. Sul nostro aereo erano dipinte, vistose, le in­segne berlusconiane: il drago, il “biscione” dei Visconti con un quadrifoglio in bocca. Così, nel provinciale aeroporto di Pamplona, fummo de­stinatari di larghi sorrisi da parte del personale. In effetti, ci scambiarono per gente di spettaco­lo, per protagonisti della popolarissima televi­sione che Berlusconi possiede in Spagna e che inalbera lo stesso stemma che stava sul nostro aereo. Elegante, disinvolto, come al solito “uomo di mondo”, vestito nel modo giusto in ogni occasione (notai con qualche soggezione i suoi bagagli dall’aspetto studiatamente “vissuto”), Mondado­ri mi sembrava favorire benissimo l’equivoco che ci voleva showmen, con quel suo look da regista, da scenografo alla moda, magari da attore. Quanto agli interessi “religiosi” che, per me cu­riosamente, quel mio editore ogni tanto sembra­va manifestare: be’, forse sospettavo – in modo colpevolmente temerario – che, con fiuto eredi­tato dal grandissimo Arnoldo, il nipote avesse intuito come, con la fine delle ideologie atee o razionaliste, il tema ricominciasse a “tirare” e fosse dunque opportuno mettere in catalogo qualche libro del genere. E poi, per un uomo che credevo non indiffe­rente alle mode, non era forse trendy riscoprire il mondo delle religioni, magari con preferenza per qualche sincretismo orientaleggiante? Per continuare nella brutale franchezza: quan­do circolò qualche notizia imprecisa su suoi pro­blemi di salute (si sussurrava la parola terribile: cancro) ci fu chi pensò, con il cinismo che non difetta nel milieu culturale, che quel ricorso al “reli­gioso” fosse la consueta reazione di chi di simili cose comincia, trepidante, a interessarsi solo al­lorché la salute lo abbandona. Mi resi conto che sbagliavo, che in ogni caso rischiavo di essere ingiusto, in certe sere in cui ci trovavamo a cena, nella casa a ridosso della cer­chia dei navigli e dove, entrando, ti accoglie una ceramica, una crocifissione di Luca Della Rob­bia, preludio ad altre sceltissime opere d’arte. Di solito, al tavolo eravamo noi due soli, serviti da Franca, la fedele governante caprese (la mancan­za di donne accanto a lui mi incuriosiva, ma non sino al punto di informarmi), ed eravamo poi raggiunti da un gruppo di amici, spesso membri del Gotha milanese della finanza e dell’indu­stria, con i quali conversavo sui temi religiosi a cui avevo dedicato il mio ultimo libro. Quei “do­pocena teologici” erano parte di una sorta di programma privato di conferenze cui Leonardo invitava autori della casa editrice e no, convo­cando gli amici nel suo salotto. Forse il solo, a Milano, dove ci si occupasse di simili argomenti. Eppure, nonostante la sua cordialità e la gene­rosa proposta di amicizia, la confidenza piena, tra noi, non sembrava scattare. Sicuramente per inconscia resistenza mia, anche per i motivi cui accennavo. Ci ho comunque ripensato, accingendomi a scrivere queste pagine, e sono giunto a sospettare di essere stato vittima pure di una certa soggezio­ne. D’accordo, la lunga esperienza di giornalista, con la frequentazione di tanti “grandi” veri o pre­sunti che comporta, mi ha reso impermeabile a ogni timidezza. Confortato anche dall’indicazio­ne datami una volta da Giulio Andreotti, con il suo disincantato realismo così cattolico, mi sfor­zo di essere sempre consapevole, sino in fondo, dei miei limiti. Ma mi sforzo di non scordare mai, al contempo, che non vivo circondato da titani, in un mondo popolato da giganti. Mediocrità, mise­rie, ignavia accomunano noi a tutti gli altri: per­ché, dunque, nutrire complessi nei riguardi di chi anche in questa piccolezza ci è fratello? E invece, contraddicendomi, rischiavo probabil­mente la soggezione davanti all’erede di Arnol­do, davanti a colui che occupava ora il posto di presidente che era stato di quell’uomo entrato nel mito. Mito del quale faceva parte, fra l’altro, l’impresa giudicata impossibile per eccellenza: ancor giovane e semi-ignoto, l’essere riuscito, a suon di fascino, di tenacia – e di milioni presi co­raggiosamente in prestito -, a strappare Gabriele d’Annunzio al colosso editoriale dell’epoca, la gloriosa Treves. Non solo: riuscendo anche a editare l’opera omnia del poeta con tale perizia ed eleganza grafica da carpire a quell’inconten­tabile per principio una dedica ammirata su una sua fotografia: «Allo stampatore inimitabile e al­l’amico fedelissimo…». Con d’Annunzio, Piran­dello e poi, via via, tutti (o quasi) gli altri, che non occorse più blandire, ma che facevano anti­camera Per pubblicare col marchio della rosa e le orgogliose parole dantesche: «In su la cima». Bambino, adolescente, poi giovane, da sem­pre e inguaribilmente avido di carta stampata, Mondadori aveva significato per me «Topoli­no», gli «Albi d’Oro» (Pecos Bill!), l’Enciclopedia dei ragazzi, i tanti libri illustrati, poi gli infiniti periodici («Epoca» prima, in seguito «Panora­ma», persino «Grazia», il femminile che adoc­chiavo quando mi capitava a tiro, curioso del mondo delle donne e dei loro piccoli misteri), gli innumerevoli testi di saggistica e di narrati­va, gli encomiabili Oscar, che per poche lire ave­vano popolato di classici la mia bibliotechina di studente. La serietà ma anche lo svago: i polizie­schi così diffusi da essere entrati nel dizionario, dando il nome a tutto il genere caratterizzato dal colore scelto per le copertine, i «Gialli»; la fantascienza di classe di «Urania»; le spy stories intriganti di «Segretissimo»… Quante volte, nella mia casa di Torino, ignaro di Milano, avevo fantasticato su quell’indirizzo magico – via Bianca di Savoia 20–, che non sape­vo in che quartiere fosse, a che edificio corrispon­desse, ma dove tutta quella ghiottissima carta era pensata e confezionata! Ma sì, quel cognome era per me una sorta di leggenda, il suono stesso di quelle quattro sillabe significava infinite ore di distensione, di informazione, di formazione. Un mito, comunque, quello di Arnoldo, non illusorio, con delle basi ben concrete. Racconta la figlia, la madre di Leonardo, nella sua piace­vole autobiografia Una tipografia in paradiso, che, il giorno dopo la morte del Grande Vecchio, le occorsero quasi tre ore per leggere tutti i nomi delle necrologie sul «Corriere della Sera». I fu­nerali, poi, bloccarono per un pomeriggio il cen­tro di Milano. Il presidente della Repubblica – era allora Giuseppe Saragat -, non potendo in­tervenire per impegni di Stato, mandò un drap­pello di corazzieri a reggere la sua corona. An­che quel fuoruscito dal fascismo riconosceva la statura dell’imprenditore di cultura che, dopo essere divenuto grande trescando, necessaria­mente, con Mussolini e gerarchi (ma pubblican­do pure autori “proibiti” come Thomas Mann), aveva saputo ricominciare, diventando ancora più grande nell’Italia repubblicana, cui aveva fornito strumenti di crescita per le masse come per gli intellettuali. Insomma, anche se ormai alcuni miei libri stavano in quel leggendario catalogo, l’amicizia esi­geva di sentirsi alla pari: e come mi sarebbe stato possibile sentirmi tale, con questo signore che portava lo stesso nome che stava su tante indi­menticate copertine? Persino il “tu”, che subito mi aveva proposto, mi causava qualche disagio. E poi, forse ero anche prigioniero di un certo schematismo. Sospettavo, cioè, che ci fosse in­compatibilità fra un manager di quel tipo, pur editore del papa, e il cattolicesimo cui vanno le mie preferenze: esplicito e ortodosso (nulla, nel­la Chiesa d’oggi, è più anticonformista dell’ob­bedienza al Magistero; nulla è più banale e age­vole della contestazione…), anche se remoto da ogni angustia e ampiamente tollerante. E non certo per adeguamento a quella political correct­ness per la quale ho un orrore religioso, scorgen­dovi la maschera, mutevole con i tempi e insie­me eterna, del vizio più esecrato e condannato da Gesù: l’ipocrisia di scribi e farisei, anch’essi figure immortali. Una fede tollerante e aperta, dunque, non per adeguamento al conformismo corrente, ma per­ché rispettosa del piano enigmatico di un Dio che non ha voluto per Sé l’evidenza ma il chiaroscuro. Un Dio che non si rivela apparendo clamorosa­mente dietro le nuvole, ma che vuole essere cerca­to “tra ombre ed enigmi”. Un Dio che ha dunque stabilito che la fede non sia un dovere ma un do­no; e che il non credere non sia una colpa ma, sem­mai, una disgrazia. Il Leitmotiv del Nuovo Testamento, più che un “tu devi”, e un se vuoi : se vuoi, cioè, puoi scoprire di essere amato da un Dio che è più che un padre, è un “paparino”, un “babbino” – abbà -, come lo chiama Gesù stesso. Un cattolicesimo indulgente e paziente, aller­gico a rigori e fanatismi, ma al contempo saldo nella convinzione di avere dalla sua parte le chan­ces migliori per vincere quella scommessa col Mi­stero cui ci sfidano la vita e la morte. Un cattolicesimo, oltretutto, che – magari in modo un po’ provocatorio – non tema neppure di far posto a quelle “devozioni” (il rosario, il culto della Ma­donna e dei santi, le giaculatorie, le immaginette, le processioni, le reliquie, il pellegrinaggio, i san­tuari, gli ex voto, l’angelo custode…) che hanno contrassegnato e sorretto la catena di generazioni dei credenti, ma che sono bollate come irrimedia­bilmente kitsch dai laici e provocano il furore de­gli odierni “cristiani adulti”. Insomma per dirla con una parola tra le infi­nite possibili: potevo forse pensare di trovarmi un Mondadori accanto, con una corona di rosa­rio in mano, nelle mie visite alla grotta dei Pire­nei dove “la Signora” – sulla quale ho letto tutti i libri, in tutte le lingue, e altri ne ho scritti, ma ostinandomi a restare innanzitutto un pellegrino e un devoto – apparve a un’analfabeta asmatica? Niente da fare: la cosa mi sembrava incongrua. E invece… Invece, eccomi sul tavolo la sorpresa di un testo come quello consegnatomi dal corrie­re giunto da Milano. Sorpresa che fu ancor mag­giore perché, da qualche anno, i già sporadici in­contri con il presidente si erano interrotti e non avevo avuto notizia dell’evolversi della situazio­ne. Erano venute meno, in effetti, le occasioni di rivedersi determinate dai contatti di lavoro. Gli ultimi libri li avevo pubblicati presso altri editori, e non perché avessi da lamentarmi della gran macchina di Segrate, o perché si fosse incri­nata l’amicizia con lo staff dell’azienda. Neppure avevano contato quegli aspetti economici (gli an­ticipi, i diritti d’autore, le condizioni contrattuali) che hanno la loro parte, doverosa, ma per alcuni autori prioritaria se non esclusiva, in quella che non a caso si chiama “industria culturale”. Semplicemente, avevo affidato ad altri i miei ultimi testi perché i percorsi di uno scrittore sono complessi, e sul sentiero della sua vita le motiva­zioni professionali si intrecciano con quelle per­sonali, quando non casuali. Ovviamente il mio passaggio – peraltro non programmato né defi­nitivo – ad altri marchi editoriali non era stato gradito nell’astronave di Segrate, dove non si ama che gli autori fornichino, neanche una tan­tum, con la concorrenza, cui si guarda un po’ dal­l’alto in basso: «Qui hai il meglio, che vai cercan­do altrove?». Così, da parte mia, evitavo i contatti per una sorta di ritegno, per non dover dare spiegazioni a redattori e dirigenti che restavano degli amici, alla cui professionalità e liberalità nulla avevo da imputare, e che non escludevo affatto di rin­contrare per altre avventure editoriali. Sta di fatto che di Leonardo sapevo qualcosa solo dalle cronache culturali, soprattutto per certe grandi mostre d’arte da lui organizzate; o, talvolta, dalle cronache mondane, magari per qualche flirt attribuitogli sulla base di una foto scattata per strada o al ristorante con qualche bella donna. Pur ben conoscendo il grado di at­tendibilità dei media (che giornalista sarei, se prendessi sul serio i giornali?), quei pettegolezzi non contribuivano a rassicurarmi sulla conti­nuazione del suo percorso religioso. Dunque, dicevo, fui colto di sorpresa da quel te­sto inviatomi poco prima dell’ultimo Natale. Un testo dove, nelle pagine iniziali da cui ho già ci­tato qualche brano, Leonardo dava al lettore quelli che chiamava ”avvisi ai naviganti”. Uno suonava così: «Un altro avviso, che a me è servito moltissimo, è che il rapporto con il Sal­vatore si sostanzia e cresce solo attraverso atti, discipline, regole quotidiane e non unicamente con il semplice colloquio diretto: bisogna parla­re, cioè pregare il nostro Padre e la nostra Madre Maria almeno una volta al giorno, andare a mes­sa almeno alla domenica e alle feste comandate, perché, al di là della possibile noiosità delle pre­diche, incontriamo personalmente Gesù; biso­gna leggere ogni giorno qualche pagina del Nuovo Testamento; confessarsi e accostarsi alla comunione il più spesso possibile». A questi “avvisi” seguiva l’esortazione: «Pro­vate e vedrete che, attraverso tutto questo, per vie impensate e inaspettate, le domande e i dubbi co­minceranno a ottenere risposte, e una sottile e di­versa gioia, come quella che ci avvolge dopo una vera confessione, comincerà a permeare la vostra realtà quotidiana». Insomma, insisteva Leonar­do, «provate e vedrete che i sacrifici delle rinunce, l’imparare a dire di no alle tentazioni saranno più lievi e quindi più facili da affrontare». Leggevo. Trasecolavo. E – perché nasconder­lo? – un poco mi intenerivo nel ritrovare un pro­fumo di catechismo in questo protagonista di pagine di giornali economici oltre che di rubri­che di gossip. Quel vecchio, caro catechismo, più sapiente e moderno di certi testi che gli sono succeduti, spes­so attenti alle precarie ideologie del “mondo” più che all’esigenza eterna del cuore dell’uomo, con la sua sete di Mistero e di Sacro e, insieme, di in­dicazioni concrete per aderirvi. Il vecchio, sempre attuale catechismo, con le domande e le risposte, ma anche con i consigli e l’esortazione ai buoni principi e ai sani propositi. Tutto ciò, insomma, che alcuni, nella Chiesa, più non fanno, che non vogliono più fare e che, a sor­presa, questo neofita, temprato dalla vita, dagli studi, dagli amori, dagli affari, e che non esitava a “mettersi in piazza”, riproponeva con la sempli­cità di chi ha scoperto il monito del vangelo. Lad­dove, cioè, Gesù ammonisce: «Se non vi farete, co­me bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli». I sapienti scuotano pure il capo, beffardi, ma la comprensione di ciò che davvero conta è donata solo a chi non tema di ritrovare la semplicità e lo stupore dell’infanzia. Proprio ciò che mi sembra­va di scorgere in questo testo così imprevisto. Poche settimane dopo, Leonardo e io ci incontra­vamo all’aeroporto di Bari: lui proveniente da Cortina, dove aveva passato le vacanze di Nata­le con i figli, io da Verona, lo scalo più vicino alla mia casa sul Garda. Entrambi salimmo sul fur­goncino guidato da Ibrahim, muratore giunto dal Marocco con la giovane moglie e divenuto custode, autista, tuttofare di Leonardo che, nelle campagne di Ostuni, ha riportato a nuova vita un’antica masseria, completa di settecentesca cappella consacrata alla Vergine del Rosario. In lontananza, la distesa dell’Adriatico; attorno, qualche decina di ettari a oliveto, frutteto, mac­chia mediterranea, pascolo per qualche cavallo e un paio di asini. Festosi e rumorosi i cinque cani di razze esotiche. Sparite, invece, le anatre e le oche che popolavano lo stagno: vittime, a una a una, delle insidiose fame e volpi che prosperano nella zona. Per tre giorni – assistiti unicamente da una donna che ogni mattina giungeva dal paese vici­no per i pasti e per riordinare le molte stanze ar­redate da un architetto dalla mano sicura – edi­tore e autore sono rimasti soli in quel luogo isolato, nato per il sole mediterraneo e flagellato invece, in quell’inizio di gennaio, da neve e ven­to gelido proveniente dai Balcani. Se eravamo lì, fra quegli ulivi e agrumi coper­ti da un’insolita coltre bianca, è perché alcune cose erano successe. Il manoscritto mi era stato inviato per un pa­rere. Mi fu subito chiaro che non sembrava adeguata la formula scelta. Quella, cioè, di una sor­ta di prontuario per rispondere alle obiezioni più diffuse nell’ambiente borghese, e in cui Leo­nardo si limitava a una presentazione iniziale e a un breve “cappello” ai vari temi. I testi del teologo erano eccellenti: seriamente informati, di sicura ortodossia. Ma proprio per questo me­ritavano di essere raccolti in un testo a sé, che arricchisse la serie di pubblicazioni – mai come oggi necessarie – che spieghino quale sia la “ve­ra” prospettiva cattolica sui temi che più sem­brano coinvolgere l’uomo attuale. Ne sarebbe venuto un ottimo libro: ma – come dire? – nella più prevedibile normalità. E, invece, non era af­fatto prevedibile né “normale”, già vi accenna­vo, che fosse il presidente della Mondadori a sollecitare un teologo di stretta obbedienza “pa­pista” perché venisse in aiuto della sua passion de convaincre (per dirla con Pascal); del suo desi­derio di ricordare a tutti – a cominciare da quelli a lui più omogenei sul piano sociale e cultura­le – che la sola, vera Speranza, oggi più che mai, è riscoprire il Cristo e, per giunta, così come è annunciato e vive nella Chiesa romana. C’era, in quelle sue pagine, una testimonianza ditale sincerità e forza da vincere ogni “rispetto umano”, da spingersi sino ad accenti di convin­zione e di fervore inconsueti persino in tanto milieu ecclesiale. Il cardinal Joseph Ratzinger, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, al termine di un’in­tervista che ci tenne impegnati (anche lì, soli) per alcuni giorni e divenuta un libro che mise a rumore la Chiesa intera, si lasciò andare a una sorta di bilancio, espresso in una frase dal sapo­re inquietante che non ho dimenticato: «Ciò che mi stupisce, oggi soprattutto, non è l’incredulità ma la fede. Quel che mi sorprende non è l’agno­stico ma il cristiano». Non può non essere d’accordo chi rifiuti certa facile retorica semplicista o certi slogan superfi­ciali (“il ritorno del religioso”…) e constati nella sua carne come l’accettazione del vangelo, vis­suto per giunta nella fedeltà alla Chiesa, esiga uno sforzo continuo di anticonformismo, richie­da di porsi in rotta di collisione con tutto l’am­biente circostante. Come ignorare, allora, quella sorta di “miraco­lo” – la fede lo è sempre, e lo è tanto più se giunge così inaspettata e così totale portando a una con­versione – quel “miracolo”, dunque, che il ma­noscritto di Mondadori mi testimoniava? Qui, per giunta, non si trattava del ritorno alla fede intesa come impegno filantropico, come mi­litanza sociopolitica, come “solidarietà” buonista, oggi così frequente. Al contrario, il testo di Leonardo si chiudeva con tre capitoletti dai titoli significativi: «Incontro personale con Dio», e poi – addirittura – «Il diavolo e l’inferno», nonché «E dopo?». Dove il “dopo” era da intendere co­me riferito al passaggio dalla vita terrena a quel­la eterna. Chi sappia quanto stretto sia il silenzio su questi temi in molti ambienti clericali poteva su­bito apprezzare la novità di una simile accetta­zione del cristianesimo “totale”, non declassato a strumento di mera “promozione umana”, di manuale da “operatore sociale” con l’hobby del­la citazione biblica. C’era davvero di che affret­tarsi per cercare di comprendere che cosa (e co­me) fosse successo. Naturalmente, in quel periodo meno che mai me ne stavo annoiato e ozioso, aspettando un qualche lavoro: il mio problema non era certo trovare un progetto che mi aiutasse a passare il tempo. Oltre alla già gravosa routine delle colla­borazioni giornalistiche e editoriali, proprio al­lora ero impegnato nella stesura di un saggio complesso, nato da anni di ricerche e per la cui consegna in tempi ragionevoli mi ero in qualche modo impegnato. Eppure, senza esitare proposi a Leonardo di mettere alla prova la pazienza di quei suoi colle­ghi della “concorrenza”, rinviando i miei impe­gni con loro per incontrarci, per confrontarci, per capire (già lo dicevo) “com’era andata”. Invece che al trattatello che progettava, di eti­ca cattolica in pillole, mi sembrava ben altro ciò cui doveva applicarsi quel suo desiderio di “fare del bene”, di indurre chi era ancora come lui era stato a riflettere, a scoprire la prospettiva che aveva dato nuovo sapore alla sua vita. Ma sì, era davvero altro ciò che interessava conoscere e ca­pire: per dirla in una parola, era lui stesso. Prima di ascoltare il suo rifiuto dei rapporti pre ed extramatrimoniali o degli anticonceziona­li o dell’aborto o la sua difesa del celibato sacer­dotale o della confessione sacramentale o tutte le altre cose che elencava, c’era una domanda che premeva. Com’era giunto, cioè, a convinzioni così “stravaganti” non soltanto per il suo am­biente ma per lui stesso, almeno in tutta la prima parte della sua vita? Una “conversione”, certo. Ma attraverso quali percorsi – quelli, almeno, ricostruibili a viste umane – la Grazia lo aveva raggiunto, e con un’intensità da dargli calore di convinzione e fervore di apostolato tali da ricordare certi con­vertis della Parigi culturale dei primi decenni del Novecento? Perché non raccontare un itinerario tanto più prezioso in quanto oggi apparente­mente così raro? La risposta di Leonardo fu immediata e convinta: con coraggio (quanti, nella sua condizione professionale, così esposta, avrebbero accettato?) mi diceva che era ben lieto di mettersi in gioco, pur prevedendo l’incomprensione, magari i sar­castici commenti di molti, a cominciare da certu­ni del suo ambiente. Ma quei “molti”, aggiunge­va, erano in realtà ben pochi rispetto alla folla di coloro che sperava di aiutare, sacrificando la sua intimità, la sua privacy, sfidando ogni naturale rispetto umano affinché, per citare Paolo di Tar­so, «la salvezza offerta a ciascun uomo sia an­nunciata». Era ben consapevole, insomma, che la “carità della verità”, la carità del “pane spirituale” è, per chi creda nel Cristo, più preziosa di quella del pane materiale. Vidi in quella consapevolez­za della giusta gerarchia evangelica un altro se­gno positivo che mi confermò nel desiderio di parlare con lui dell’esperienza che stava viven­do. Da qui, il nostro appuntamento nella masse­ria pugliese nel primo periodo disponibile Per entrambi.
…. e l’avanzare sem­pre più – e sempre più con convinzione e gioia – in questa strada evangelica ritrovata…».
 
II
L’ultimo giorno, mentre facevamo colazione nella grande cucina, prima che Ibrahim mi ri­portasse all’aeroporto per tornare al Nord, il mio interlocutore di quei tre giorni passati in­sieme come per un ritiro spirituale (o una “con­fessione generale”) mi disse di sentirsi un po’ mortificato: «Ci ho pensato, stanotte, e temo di averti deluso, non sapendo dare risposte origi­nali o profonde – malgrado la mia laurea in fi­losofia – quando mi chiedevi quali fossero le ra­gioni intellettuali su cui baso la mia fede. Non ho saputo far quasi altro che raccontarti una storia: la mia». Lo rassicurai subito, e non per consolarlo: pro­prio questo mi era stato prezioso. In effetti, da più di trent’anni m’interrogo proprio sull’enig­ma della conversione religiosa, intesa come il passaggio dall’ateismo (Deus non est) o dall’a­gnosticismo (Ignoramus et ignorabimus) alla fede (Deus est) e, più specificamente, a quella cristia­na (Jesus est Dominus). Se m’interrogo, è per un fatto personale, es­sendo stato coinvolto io stesso in una simile esperienza. Alla fede, almeno inizialmente, non giunsi come risultato di un progressivo ap­profondimento, come punto di arrivo di una ri­flessione intellettuale. Preparavo i miei esami di scienze politiche, allievo fedele e diligente dei maestri del laicismo subalpino e formato in un ambiente familiare refrattario al religioso, quan­do – senza che l’avessi previsto né, almeno con­sciamente, desiderato – fui sospinto in una sorta di dimensione “altra”, dalla quale mutò in modo radicale il punto di vista del mio guardare alla vita e al mondo. Da lì, la fede mi apparve, con mia totale sorpresa, come un’evidenza. Anche perché segnato da un’educazione dura­mente razionalista, da allora non ho fatto altro che cercare le possibili ragioni che giustifichino l’ac­cettazione di quella intuizione o (per usare un ter­mine ambiguo, perché troppo impegnativo) ri­velazione che mi fu data in un’ormai lontana, caldissima estate, in una Torino deserta. Avevo – e ho – bisogno di rassicurarmi (quasi accumulando prove) che ciò che mi è stato dato di scorgere non è un’illusione. Tutti i libri che ho scritto – e tutti quelli che mi riuscirà di scrivere – partono dal presupposto che la fede è un dono di Dio; ma che, pur nei suoi li­miti, lo è anche la ragione. La fede, dunque, è sì un misterioso regalo divino: ma è un regalo che è ragionevole accettare. Per dirla con Pascal – gran­de credente e al contempo grande scienziato e, dunque, grande ragionatore -, proprio la ragione usata al meglio e al limite delle sue possibilità porta a riconoscere che vi è una realtà enigmatica che la supera. La famosa “scommessa” non è cie­ca, come vorrebbe il protestantesimo, per il quale più la fede è “ingiustificata” più è autentica e, lu­teranamente, la ragione è la prostituta del diavo­lo. Per il cattolico, la “scommessa” sulla verità del vangelo non contrasta ma travalica la ragio­ne. Il credere, dunque, è un mistero: che, però, può essere accettato senza sacrificio dell’intellet­to perché ha le sue buone ragioni. Discorsi apparentemente complicati per dire una cosa, in fondo, semplice: ciò che mi ha sem­pre interessato è la ricerca “apologetica”, cioè la ricerca delle “ragioni per credere” (come s’intito­la, non a caso, un mio libro pubblicato proprio dalla Mondadori). Così com’è pubblicata dalla stessa casa editrice una mia “inchiesta sul cri­stianesimo”: per anni, sono andato in giro per il mondo, interrogando persone sulle motivazioni che sostengono la loro fede o la loro incredulità. Per questa indagine, non ho potuto che scegliere gente “di pensiero”: professori, intellettuali, scienziati. Con loro, ho sovente spezzato il ca­pello in quattro, opponendo argomento ad argo­mento, obiezione a obiezione. E così ho fatto in tutto ciò che ho scritto. Un lavoro, il mio, che mi è sembrato e continua a sembrarmi necessario, ma di cui vedo anche il rischio di parzialità: forse è la giovanile deforma­zione voltairiana che mi porta a dare il primato al­l’aspetto intellettuale della dimensione religiosa, con il pericolo (della cui gravità sono ben conscio) di fare di essa un’ideologia accanto alle altre. In realtà, so bene che non c’è solo il ragiona­mento del filosofo, del teologo, dell’esegeta, del­lo storico; o, nel mio caso, del cronista che inve­stiga sulle tracce, i segni, gli indizi di un Dio che vuole essere cercato. C’è anche il sentire, l’avver­tire, l’intuire, lo sperimentare: c’è, dunque, l’e­sperienza del Dio di Cristo, non solo l’indagare con la mente sulla sua esistenza e verità. Esperienza che è, poi, la “scienza del mistico”: colui, cioè, che vede, tocca, constata e, in questo modo, attinge una certezza di fede superiore a quella di ogni ragionamento. Il cristianesimo è una vita, non una dottrina: anche questa è neces­saria, certo, ma a servizio di quella vita, per illu­minarla e guidarla. Quando, all’inizio del vangelo di Giovanni, lo stesso evangelista e il giovane Andrea, affascinati dal Nazareno, gli chiedono come fare per unirsi a lui, la risposta di Gesù non è né un sermone né una lezione, bensì un lapidario: «Venite e ve­drete». Vedranno, cioè, tutti coloro che nei secoli accetteranno di andare dietro di lui, che la fede èun incontro, un evento, una constatazione. Dunque, il cristianesimo non è affatto una “re­ligione del Libro” come oggi alcuni vorrebbero farci credere, quasi che il Verbo non si fosse fatto carne ma carta. Centro di questa fede non è af­fatto il prodotto del lavoro del tipografo, cioè un grosso e vecchio libro accanto ai molti, ai troppi altri. Centro e cuore della fede non è la carta ma, appunto, la carne e il sangue dell’eucaristia, nel significato scandalosamente (e sanamente) “ma­terialista” che le dà il dogma cattolico della tran­sustanziazione. Ecco, dunque, perché ascoltavo con interesse singolare il mio interlocutore che – a precisa do­manda – escludeva la possibilità che quella sua fede fosse un’illusione. Ma lo escludeva non ba­sandosi innanzitutto su pagine di libri apologe­tici (anche se, in questi anni, ha praticato pure questo tipo di lettura). La sua certezza, mi diceva con semplicità, si basa sull’esperienza: «Come può essere illusoria una credenza che mi conferma ogni giorno, in ogni situazione, anche la più difficile e dolorosa, la sua capacità di darmi serenità, pace, gioia, for­za morale?». L’esperienza della preghiera, poi: «Ormai, non riuscirei più a chiudere la giornata senza rivol­germi a Dio: ne ricavo la certezza, sempre confer­mata, che non si tratta di parole al vento ma del dialogo fruttuoso con un Padre che ascolta i suoi figli. In effetti, ogni volta che mi sono rivolto a Lui Per ottenere qualcosa che mi fosse spiritual­mente utile ho ottenuto pronta, piena risposta». Preghiera, mi precisava, a Dio Padre e al Cri­sto; ma anche alla Madre, a Maria. Lo so, lo so bene: quando si parla di Colei che gli italiani chiamano “Madonna”, mia Signora, il disagio (oggi anche fra molti credenti) sembra diventare palpabile, quasi che il solo accennarne sia un cedimento a certa melassa devozionale, a un anacronistico kitsch da vecchio oratorio. Spi­ritualismi dolciastri, intollerabili per orecchie colte ed eleganti. Parlo, anche qui, per diretta esperienza: quan­do fui costretto, da una forza interiore cui non potei sottrarmi, a riconoscere che la Verità stava nei vangeli, cercai almeno di ridurre il prezzo da pagare per i miei complessi da piccolo intellet­tuale: che vada, se proprio deve, per il cristiano, ma che almeno mi fosse risparmiato di diventare persino “mariano”!… Così, nel primo libro che scrissi, si parlava di Gesù, sin dal titolo, seppur esorcizzando il disagio con le parole stesse di apertura, che scandalizzaro­no qualche devoto ma che furono capite da chi co­nosceva la cultura da cui venivo: «Di Gesù non si parla fra persone educate. Con il sesso, il denaro, la morte, Gesù è fra gli argomenti che mettono a disagio in una conversazione civile. Troppi i secoli di devozionalismo. Troppe le immagini di senti­mentali Nazareni con i capelli biondi e gli occhi azzurri: il Signore delle signore. Troppe quelle pri­me comunioni presentate come “Gesù che viene nel tuo cuoricino”. Non a torto fra persone di gu­sto quel nome suona dolciastro. È irrimediabil­mente tabù». Parlavo di Gesù, dunque, ma non di Maria. Anzi, il suo nome non compariva neppure, in quelle pagine, se non incidentalmente, quale personaggio storico. Fu solo dopo anni, avan­zando nella ricerca, che mi resi conto che il Fi­glio non poteva stare senza la Madre; che, senza quella radice terrena che è il corpo tutto umano della Vergine di Nazareth, la storia del Cristo fi­niva fatalmente per trasformarsi in mito. Senza quell’aggancio alla carne che fu l’utero verginale di Maria, la fede si trasforma in mongolfiera che svanisce nei cieli del leggendario, dello gnostico. Come venti secoli di storia cristiana dimostrano. Ma si, mi ci volle tempo per comprendere che far posto a Maria non significava affatto togliere spazio a Gesù: al contrario, significava assicurar­ne l’umanità che non è distrutta dalla divinità, ribadire che l’Incarnazione non è un simbolo ma una realtà concreta. E non sono parole vuote quelle di un antico inno liturgico che proclama Maria «avversaria di ogni eresia». Come ho cer­cato di mostrare (innanzitutto a me stesso) nelle centinaia e centinaia di pagine di un “taccuino mariano” che pubblicai per anni su un mensile, il giusto posto dato alla Vergine è garanzia di or­todossia, assicura la stabilità della dottrina della fede, impedendole di deragliare. Proprio perché ho sperimentato a lungo quale possa essere, soprattutto per chi venga “da fuo­ri”, il disagio del riferimento “mariano” – e do­po avere impiegato anni di riflessione e di stu­dio per superarlo -, non potevo non essere impressionato dalla semplicità con cui Leonar­do me ne parlava: «Due matrimoni, altrettanti divorzi, nonché qualche convivenza, non mi avevano dissuaso a sufficienza dall’attrazione per la donna. Il peccato di “lussuria”, come di­cevano i vecchi moralisti. Ma anche qualcosa di più profondo e di non ignobile: senza una don­na accanto, senza la sua presenza e il suo sostegno affettivo, la vita mi sembrava impossibile. Eppure, nella mia condizione di divorziato non me lo potevo, né me lo posso, permettere. C’era dunque, in me, un “pungiglione nella carne”, per usare il linguaggio paolino, dal quale, uma­namente, disperavo di potermi liberare. Un giorno, su suggerimento del direttore spirituale, mi sono rivolto alla Madonna, con quella bella preghiera di san Bernardo: “Ricordati, o Vergine potente, che non si è mai udito al mondo che qualcuno si sia rivolto con fiducia a te e sia stato abbandonato…”. Puntualmente, la grazia che chiedevo mi è stata concessa: certo, so di cam­minare sul filo del rasoio della tentazione, potrò cadere ancora, ma sarà tutta colpa mia, non mancanza di un suo aiuto». Un’esperienza, dunque, anche qui. L’esperien­za della forza concreta, tangibile, della Grazia: una prova irrefutabile, che permette di superare ogni dubbio sulla verità oggettiva della fede. Co­sì, quando gli ho chiesto se non lo mettessero in difficoltà i professionisti del dubbio – quei bibli­sti, ad esempio, per i quali nei vangeli nulla è da prendere alla lettera, tranne le loro note, quegli specialisti Per fronteggiare i quali, contrappo­nendo documento a documento, ho pubblicato testi laboriosi -, quando, dunque, gli ho chiesto questo, ha sorriso ironico: «Io sono un ragazzo di campagna, anche se mi sono laureato alla Statale di Milano. Dicano quel che vogliono. A me basta constatare, nella mia vita stessa, che, se lo pren­diamo sul serio e cerchiamo di viverlo, il vangelo “funziona”. Quindi, è vero». Insomma, il pragmatico, sano realismo del contra facta non valent argumenta: a che valgono le argomentazioni degli scettici, gli schemi dei miscredenti, le presunte verità dei professori, quando è l’esperienza stessa, quotidianamente verificata, che ci dice il contrario? Gli raccontai di quella volta in cui chiesero a Jean-Marie Baptiste Vianney, il santo Curato d’Ars, come sarebbe rimasto se, varcando la por­ta dell’aldilà, avesse scoperto che di tutto quel suo cristianesimo non era vero niente. Famosa la risposta del patrono universale dei parroci: «An­che se fosse, non mi pentirò mai di avere creduto in un Dio che è Amore». Un sorriso di Leonardo, ma anche il suo ribadire immediato: «La battuta è buona ed esprime una verità: è san Giovanni stesso che ricorda ai cristiani che, per loro, Dio e Amore sono sinonimi. Comunque, il problema non si pone, perché non solo so ma sperimento, in concreto, che è tutto vero…». E allora, per confermarlo in quella sua convin­zione, gli raccontai dell’altro: della decisione, che presi anni fa, di scrivere la vita di un santo. Non tanto per ricostruire un’epoca storica, quanto per studiare – in corpore vivo – che cosa succedesse in un uomo risoluto a prendere sul serio, sino in fondo, il vangelo. Non a caso, alla biografia che poi pubblicai, apposi come motto un detto di Evagrio Pontico, il monaco del IV secolo: «A una teoria si può sempre rispondere con un’altra teo­ria. Ma chi mai potrà confutare una vita?». Si, la verità della fede trova conferma pure nei libri di apologetica che ha suscitato, ma soprat­tutto nelle esistenze che ha plasmato. È facendo­si carne di uomini vivi che l’Incarnazione divina mostra di non essere un’illusione. Altro motivo di credibilità è, per Leonardo, il fatto che nella dottrina, come nella morale, cat­toliche tout se tient, tutto è coerente e legato a tut­to il resto: «È qui che ho trovato le risposte alle mie domande. Risposte che, per me, appagano sia la mente che il cuore». Ma c’è un altro aspetto della sua esperienza sul quale ha richiamato la mia attenzione un amico comune: «Quest’uomo è, per temperamento, cor­diale, di compagnia, non un solitario introverso. Anche in ciò ha preso dal nonno, per il quale cor­dialità, estroversione, apertura all’altro erano va­lori supremi. Non c’è foto di Arnoldo che non lo mostri con un sorriso affabile, sottobraccio a qualcuno. Credo che, fra quel che più ha colpito Leonardo e lo ha indotto a riflettere, ci sia il fatto che si è sentito accolto e amato in quegli ambienti cristiani, per lui nuovi, che ha cominciato a fre­quentare. Penso che la fede l’abbia contagiato an­che perché ne ha constatato gli effetti benefici su coloro che scopriva accanto a sé. Deve avere fat­to, così, una sorta di verifica sul campo della dif­ferenza di clima fra le persone che cercano di vi­vere la fede e le persone del giro borghese che ha frequentato e che frequenta». Insomma, stando a quanto mi suggeriva que­sto amico, quasi un riproporsi della domanda ansiosa di Agostino, ancora pagano, nelle sue prime frequentazioni cristiane: «Si isti et istae, cur non ego?», se questi e quelle, perché non io pure? Che cosa desiderava per sé quel grande santo? Semplicemente (eppure, era una pretesa impossibile, con le sole forze umane) un viso co­me quello dei credenti da lui incontrati nella pri­mavera del cristianesimo: un viso dal quale trasparisse la gioia. La gioia, appunto. «Che ti è successo? Ti sei fat­to una plastica alla faccia?» Questa, mi dice, la do­manda che gli pose la prima moglie vedendolo un giorno. Solo un’operazione chirurgica, sospetta­va la donna, poteva avergli atteggiato i lineamen­ti in quel largo, costante sorriso che ora gli scopri­va e che non aveva negli anni precedenti. La soluzione dell’enigma stava nella risposta che diede a Paola: «Sì, ho fatto la plastica: ma all’ani­ma». Addirittura, aggiunge ridendo, a un certo punto si era diffuso, tra Milano e Roma, il sospet­to che si drogasse oche bevesse: come spiegare al­trimenti che “il Mondadori” fosse sempre così al­legro, cordiale, sorridente? Gioioso, per dirla in una parola. Gli sta molto a cuore comunicare quest’altro aspetto, per lui decisivo, della sua esperienza quotidiana, che sempre più lo conferma di essere sulla strada giusta: «Mettersi sulle orme del Cri­sto significa scoprire una dimensione che, basta guardarsi attorno, è scomparsa ovunque altrove, almeno nel mondo che più frequento, quello del­l’economia, della cultura, dell’arte. È la dimen­sione, meravigliosa e unica, della gioia». Non a caso, mi dice, aveva pensato di dare al libro che progettava un titolo che riassumesse il suo intento: Perché sei triste, fratello? Io stesso, sentendolo parlare – e così gioiosamente! – del­l’esperienza della gioia, pensai d’istinto a un al­tro titolo, non a caso utilizzato da Clive Staples Lewis per dar conto della sua conversione al cri­stianesimo, di cui divenne appassionato apolo­geta: Surprised by Joy. Ma sì, come io stesso in qualche modo posso testimoniare (alla pari di chiunque abbia avuto il dono di varcare l’enigmatico, eppur concreto, cerchio della fede), l’essere “sorpresi dalla gioia”, pur nella pesantezza della vita ordinaria, è l’e­sperienza più sorprendente, perché più scono­sciuta al “mondo”, di chi trova “il tesoro nasco­sto”, per usare l’espressione di Gesù. Questa gioia, me l’ha testimoniata pure con il suo modo di fare, di comportarsi, di muoversi nei giorni della nostra solitaria convivenza nella masseria pugliese. Osservandolo, e ripensando anche agli incontri precedenti, quando non so­spettavo fino a che punto stesse inoltrandosi sul­la via della fede, mi rendevo conto di come que­st’uomo smentisse Nietzsche e il suo sarcasmo verso tanti cristiani, con le loro facce da funerale piuttosto che da candidati a un’eternità gioiosa. No, non era soltanto frutto di un tempera­mento felice quella sorta di allegrezza che, già animi prima, avevo notato in lui, senza rifletterci più di tanto. Me lo ha confermato, confidandomi quale sia ormai, per lui, la radice di ogni gioia: «Quella di una confessione fatta bene. Quando ti rialzi, dalla sedia o dall’inginocchiatoio, ti viene voglia di andartene via fischiettando». Naturalmente, una confessione sacramentale non come episodio isolato, bensì come scansione periodica di una vita che abbia ritrovato un sen­so, un ordine, un significato in una prospettiva unificante, che congiunga tempo ed eterno. Gioia, dunque. Eppure, come già so e come egli stesso mi ricorda, a viste umane non ce ne sa­rebbero affatto le premesse. Al contrario. A par­te la disastrata (l’aggettivo è suo) vita affettiva, quest’uomo di cinquantacinque anni gira per il mondo, da un aeroporto all’altro, portando con sé una borsa termica: dentro c e una siringa, il cui contenuto deve iniettarsi ogni sera per bloc­care l’avanzata del tumore endocrino. Quello alla tiroide è stato asportato, ma incombe sem­pre l’incognita del carcinoide al fegato e al pan­creas. Una vita, la sua, al contempo privilegiata e travagliata. Ha voluto raccontarmela con la stes­sa, disarmante semplicità con cui si è messo a nudo in tutto il resto. È nel 1951, quando aveva cinque anni, che, con un decreto del presidente della Repubblica, ha assunto il cognome del nonno, dalla cui figlia Laura (da tutti chiamata Mimma) è nato nel set­tembre 1946, a Milano. Fu Arnoldo stesso a volere, con fermezza, che quel nipotino portasse il suo nome, puntando da subito su di lui come erede, un giorno, del patrimonio almeno professionale, come conti­nuatore di quella sua bruciante passione per la carta stampata. Una scommessa che non è an­data a vuoto. Scriverà Mimma nelle sue memorie, nel 1985: «Ho un figlio che non ha mai pensato ad altro che a mettersi sulla strada del nonno e fare l’e­ditore, l’editore di carta stampata». Vocazione precoce, dunque. Il padre di Leonar­do, Giorgio Forneròn, di famiglia valdese, entrato nel dan mondadoriano in romantiche circostanze mentre faceva il comandante partigiano, scom­parve presto dalla vita del bambino. Mi dice Leo­nardo: «E una figura, quella paterna, che ho do­vuto completamente rimuovere». Già nel 1948, quando il figlio non aveva che due anni, giunse il divorzio: all’estero, in Austria, come allora usava per la mancanza di una legge italiana. L’infanzia nell’immenso alloggio milanese – 650 metri quadri – del patriarca della dinastia, nell’esclusiva piazza Duse; le vacanze a Cortina o nella villa di Portofino o in quella, entrata nella storia della letteratura, di Meina, sul lago Mag­giore, dove sono passati i più grandi scrittori del mondo, sedotti dal carisma del piccolo tipografo di provincia divenuto il re degli editori e lieti di affidare a lui i loro testi. Ricorda, Leonardo, di essere stato, bambino, sulle ginocchia di Thomas Mann e a tavola con Walt Disney. Se suonavano alla porta, poteva essere Ungaretti o Buzzati o Montale. «Vivere in casa, ogni giorno, con quel nonno straordinario – che presto1 devo confermarlo, sembrò puntare su di me perché un giorno continuassi la sua opera – ha significato assorbire una lezione di fortissima etica del lavoro. Il suo segreto era una sorta di ossessione, di straordi­naria monomania: essere, nel suo mestiere, il primo, il migliore, il più affidabile. Non uno stampatore, non un tipografo improvvisatosi editore, ma un amico per gli autori, un padre per i lavoratori, un concorrente implacabile e al con­tempo leale per i colleghi. Ogni energia e ogni li­ra dovevano essere investite nell’azienda: a tal punto che anche quella nostra grandissima casa milanese era in affitto, per non immobilizzare capitali che dovevano servire per macchinari sempre più moderni.» Inesistente, in casa Mondadori, la religiosità, almeno esplicita. Nessuna ostilità ma nessuna pratica, neppur domenicale, nessun discorso al proposito, nessun desiderio di affrontare simili questioni. Frugando nella memoria, tutto ciò che ricorda è un sospiro del nonno, ormai anziano: «Spero che Dio mi dia ancora tempo, perché ho ancora molte cose da fare». O espressioni forse so­lo colloquiali, come quella entrando nella splen­dida villa di Portofino, a picco sul mare: «Ringra­zio Dio che, per riposarmi dal lavoro, mi ha dato un posto così bello». Non va dimenticato che, giovane, il futuro editore fu militante di un socialismo allora pole­micamente anticlericale. Andreina, la moglie di Arnoldo, si accostò alla sua prima comunione a sessantadue anni, in occasione della messa per le nozze d’oro. Non ci fu fretta neanche per il bat­tesimo di Leonardo, amministratogli quando aveva già quasi cinque anni. Per lui, poi, tutte scuole pubbliche, dunque lai­che, laicissime. Al liceo, il celebre Berchet di Milano, ebbe per insegnante di religione un giovane sacerdote che proprio in quel periodo stava rac­cogliendo attorno a sé dei giovani che avrebbero fatto un cammino sorprendente. Quel prete era don Luigi Giussani, fondatore della Gioventù Studentesca, divenuta poi Comu­nione e Liberazione. Ma, evidentemente, il tem­po di Leonardo non era ancora venuto. Dice: «Non ricordo che don Giussani mi abbia fatto un’impressione particolare; non sentii il deside­rio, a differenza di tanti miei compagni, di ap­profondire la sua conoscenza, di partecipare alle iniziative che proponeva. In verità, al di là di que­sto, era la religione, era il cristianesimo che non mi attraevano». Poi, la facoltà di filosofia (non alla Cattolica, ovviamente), anche per creare una base culturale al lavoro editoriale che stava nel suo futuro. Intanto, il nonno – con la pedagogia consueta del grande imprenditore venuto dalla gavetta – spediva in libreria come commesso o nelle ti­pografie di Verona, a capire come funzionava un’impresa, quel suo nipote alla cui formazione molto teneva. A diciotto anni, a Cortina, il primo incontro sentimentale i cui effetti, malgrado infinite vicis­situdini, perdurano ancora oggi. Nel branco del­la jeunesse dorée di quel luogo sin troppo celebra­to (e dove, fra l’altro, la dinastia è a tal punto di casa che il maggior appuntamento culturale del­l’estate è tuttora “il mese Mondadori”), Leonar­do conosce Paola. È la figlia primogenita di Lino Zanussi, uno straordinario imprenditore di provincia diven­tato in pochi anni uno dei maggiori produttori europei di elettrodomestici. Nel 1968, la trage­dia: l’ormai famoso industriale muore in un in­cidente aereo e Leonardo, che ha ventidue anni, sente come un dovere stare accanto ai membri della famiglia, trascorrendo quasi tutto il suo tempo nella loro villa di Pordenone. La cosa sfo­ciò, quasi inevitabilmente, nel matrimonio con Paola. Durò sette anni e finì in così malo modo da far mormorare persino la pur indifferente, se non ci­nica, Milano bene. Mi racconta: «Proprio nelle settimane in cui ci separammo, Paola si era tro­vata incinta di colei che avremmo chiamata Mar­tina. Fra la mia prima figlia. La tensione fra noi era arrivata a tal punto che un giorno capii, con dolorosa chiarezza, che, per il bene di entrambi, era necessario interrompere la convivenza. Così me ne uscii di casa, per sempre». La cosa, si diceva, fu giudicata imbarazzante persino nel giro, dalla morale così elastica, delle amicizie dell’allora mondano Leonardo: non si trovò di bon ton un distacco tanto clamoroso pro­prio all’inizio di una prima gravidanza. «Il fatto è» continua «che soltanto pochi anni fa la luce della fede mi ha fatto capire che cosa sia un matrimonio vero, che cosa realmente signifi­chi celebrarlo in chiesa. Per noi, come per tutti quelli del nostro ambiente, non era che il punto d’arrivo (e, più o meno consciamente, anche se non si osava confessarlo, non definitivo) di un percorso mondano. Né in me, né in mia moglie, né in quelli del mio ambiente c’era neppure il so­spetto di che cosa fosse un sacramento, anche se ufficialmente eravamo cattolici e ci tenevamo -per rispettare le regole e per ragioni di fasto – a sposarci davanti a un altare e a un sacerdote. In realtà, il valore della indissolubilità sembra oggi divenuto ancora più incomprensibile: si crede che l’amore fra coniugi consista nel “sentire qual­cosa”, nel “volersi bene” a livello sentimentale. Quando si pensa di non “sentire” più niente, quando è finito l’incanto dello “stato affettivo na­scente”, si giudica addirittura doveroso andare ciascuno per la propria strada, alla ricerca di un nuovo “sentimento”. Il dono di sé, il sacrificio, il perdono, la comprensione, la pazienza, la fedeltà sempre e comunque: tutto questo, che permette all’incontro fra uomo e donna di resistere all’usu­ra del tempo e alle tempeste della vita, non rien­tra più nel piano di vita. E, tutto questo, spesso, per la perdita di ogni prospettiva cristiana, non per cattiva volontà.» In effetti, aggiunge con un’espressione che colpisce per la sua amara verità, «di fronte alle difficoltà crescenti del nostro matrimonio, Paola e io non avevamo alcuno strumento per tentare di rimettere insieme i cocci. Non disponevamo di alcun “libretto di istruzioni” per raddrizzare le nostre vite e per permettere a noi di riscoprire le ragioni del nostro incontro e a quella creatura che aveva iniziato il viaggio nel ventre della ma­dre di trovare una famiglia al suo ingresso nel mondo». Per Leonardo, comunque, la scoperta delle “istru­zioni per l’uso della vita” era ancora lontana, ed erano ancora in agguato, per lui, molti errori: pa­rola che ha la medesima etimologia di “errare”, cioè “l’andare vagando senza conoscere la meta”. Proprio ciò che contrassegnava allora il suo per­corso umano. Infatti, venne il tempo della seconda moglie. Nacquero, dall’unione, altri due figli. «Fortunatamente» dice Leonardo. Ma finì, come troppo spesso accade, con un nuovo divorzio. Proprio in quel tempo stava morendo Mim­ma, amata e stimata per umanità e intelligenza nella Milano “che conta”: «Le sono sempre stato molto legato ma, in fondo, non c’era mai stata confidenza tra noi: una specie di pudore sem­brava impedire che ci aprissimo l’una all’altro. Poi – mancava poco tempo alla fine – un giorno mi sedetti vicino al suo letto. Eravamo soli. Riu­scimmo a vincere il complesso che aveva impe­dito l’intimità vera tra noi. Parlammo per delle ore. Alla fine ci abbracciammo. Piangevamo tutti e due. Un colloquio catartico, purificatore, che mi liberò dall’angoscia che provavo di fronte al­la prospettiva della sua morte, che sopravvenne poco dopo». Restavano, però, altre angosce: «Un Natale mi trovai solo, con due matrimoni falliti alle spalle, con tre figli divisi tra due madri diverse, con la mamma appena morta, con gravi proble­mi in casa editrice, dove perdurava l’instabilità conseguente a quella che fu chiamata dai gior­nali “la guerra di Segrate” e che era riuscita, per qualche tempo, a estromettermi dall’azienda. Se guardavo alla mia vita, non vi vedevo che di­sordine, qualche successo sul piano professio­nale ma una serie di fallimenti sul piano perso­nale. Quanto agli amici, sapevo bene che, nel mio ambiente, l’amicizia è spesso formale e pre­caria e che, quando l’aura del successo ti abban­dona, ti lasciano anche quelli che pur ti sembra­vano più vicini. Mi chiedevo che senso avesse tutto questo». Non era bastato, per trovare un significato, che, dopo il secondo fallimento matrimoniale, si gettasse in convivenze con altre donne o in “dis­sipatezze” inutilmente costose, come comprare un aereo personale o trasformare in una vera, di­spendiosa ossessione il gusto per il collezioni­smo di oggetti d’arte. La scoperta di quel “senso” attorno al quale si arrovellava avvenne nel 1992: dunque, giusto dieci anni prima che ci incontrassimo per co­struire insieme queste pagine. Se preciso le date è per rassicurare il lettore: il viaggio di quest’uo­mo verso una fede tanto esplicita da farsi mis­sionaria è stato lungo. Quindi, le sue convinzio­ni hanno avuto tutto il tempo per consolidarsi e per essere messe alla prova della vita. Le cose certamente “stravaganti”, secondo il mondo, che qui Leonardo racconta non sono il frutto dell’esaltazione di chi sia appena caduto da cavallo, andando verso Damasco. Toccato da qualche delusione, diffido io pure di certe “conversioni” subito gridate, ma che non reggono all’urto della durezza della vita, riportando pre­sto alla luce quello che san Paolo chiama “il vecchio uomo”. All’inizio della svolta c’è (poteva essere diver­samente per un editore?) un libro scivolatogli, un po’ a sorpresa, nel catalogo. Un piccolo libro, pubblicato per la prima volta, in edizione defini­tiva, nel 1939 e da allora continuamente ristam­pato in tutte le lingue, tanto da essere ormai uno dei maggiori best e long seller mondiali. Sono i 999 frammenti che compongono Cammi­no, scritto dal beato (e presto santo) Josemaria Escrivà de Balaguer non soltanto per i membri della sua “Opera di Dio”, l’Opus Dei, ma per chiunque – laico, soprattutto – sia attratto da un percorso spirituale che non esige grandi gesti, scelte spettacolari, bensì la ricerca della santità at­traverso il proprio lavoro, continuando nella vita ordinaria. Cammino, in Italia, era pubblicato in esclusiva da una editrice cattolica, l’Ares. Nonostante le grandi tirature, i membri della Prelatura (questa la figura canonica, finora medita nella Chiesa, nella quale è inquadrata l’Opus Dei) desiderava­no raggiungere in modo ancor più ampio gli ambienti lontani dal cattolicesimo. Da qui l’idea di un accordo con la maggiore casa editrice laica, la Mondadori appunto, per la stampa e la distri­buzione di quel celeberrimo breviario spirituale di monsignor Escrivà. Fu così che Leonardo venne in contatto con un “numerano” (un membro fuli time, tanto per in­tenderci, dell’Opera) che io pure conosco e del quale apprezzo quanto meritano le capacità pro­fessionali e le virtù cristiane, rivestite peraltro da una leggerezza discreta. Qualità che, conferma Leonardo, l’ottimo ingegnere – questo il titolo di studio di quel numerano – non smentì neppure nell’amicizia che seguì gli incontri di lavoro per la pubblicazione di Cammino: «Ho trovato, nelle persone dell’Opera che ho avvicinato, grande apertura e generosità nel comprendere i miei pro­blemi ma, al contempo, delicatezza e astensione da ogni proselitismo indiscreto. Sostanzialmente, oltre alle conversazioni amichevoli, il numerano con cui ero entrato in contatto si limitò a presen­tarmi un sacerdote a cui potevo rivolgermi – se davvero lo desideravo, è chiaro – per la confessio­ne e la direzione spirituale. Di recente, ho avuto l’onore, e la gioia, di un incontro con il Prelato, il secondo successore del beato Escrivà, ma non fac­cio parte dell’Opus Dei e, probabilmente, data la mia situazione familiare, non potrei neppure. A me, perfezionista nella professione, è particolar­mente congeniale l’insistenza del mio confessore sulla necessità di cercare l’eccellenza nell’impe­gno quotidiano. “Qualunque cosa tu faccia, falla al meglio”: questa esortazione del Padre, come tutti nell’Opera chiamano il beato Escrivà, riassu­me una prospettiva fattiva, ottimista, nella quale mi riconosco. Un cristianesimo al contempo mo­derno e tradizionale, aperto e rigoroso, libero e fe­dele. Vi ho trovato la sintesi vitale tra l’impegno nelle realtà terrestri e la tensione verso l’aldilà». Il direttore spirituale, dice, gli ha inculcato an­che quell’altro aspetto concreto, pragmatico del­l’Opus Dei (lontana da ogni utopismo velleitario, da ogni fumisteria ideologica) che è la necessità di un metodo, e seriamente ordinato, nella vita reli­giosa: «Ho imparato la necessità della preghiera il mattino e la sera, la lettura quotidiana del vangelo e di qualche testo nutriente per l’anima. Ho impa­rato, naturalmente, che la messa almeno domeni­cale non è un obbligo ma un bisogno, una gioia, una festa. Una messa però non ascoltata stando negli ultimi banchi, bensì partecipata, mettendosi nelle prime file, vicino all’altare. E senza temere di annoiarsi alla predica». Può sembrare curioso, per chi non abbia pratica di simili cose, ma questa faccenda delle omelie tediose, irrilevanti quando non incomprensibili, è tra le lagnanze più ricorrenti in quegli ambien­ti alle cui obiezioni Mondadori intendeva repli­care, associandosi a un teologo. Tanto da farne addirittura il primo capitolo del manoscritto da cui siamo partiti. Qui, subito in apertura, osser­va: «Nei molti incontri con amici e persone di tutti i ceti e di diversa formazione culturale che ho il privilegio di incontrare grazie al mio me­stiere di editore, una delle prime domande che mi sono sentito rivolgere riguarda la messa del­la domenica. “Ci andrei volentieri” mi dicono “ma la predica è così noiosa che penso ad altro. Ho l’impressione che il prete viaggi per conto suo: lui con la sua teologia, noi con la mente al­trove”». Ma, osserva Leonardo: «Devo ammettere che queste obiezioni mi lasciano perplesso». In effet­ti, ha buon gioco nel ricordare che «il fine della messa non è l’omelia ma l’eucaristia, il rivivere il miracolo del sacrificio di Gesù che, sotto le spo­glie del pane e del vino, si offre sull’altare. Que­sto è il centro, questo è l’essenziale. Si va alla li­turgia domenicale per nutrirsi di quel Mistero, non, innanzitutto, per ascoltare la predica: se es­sa è interessante e proficua, tanto meglio, perché così ci rinvigorisce nel cammino della fede. Ma se non è così, questo non deve appannare il Fat­to, quello con la maiuscola: Gesù risorto, presen­te nelle specie eucaristiche, dà un significato nuovo alla vita di ciascuno di noi». Insomma, c’è in lui (e cerca di comunicarla ad altri) la consapevolezza che la messa cattolica non è il “culto domenicale” di molte comunità protestanti, dove un signore – o, da qualche tem­po, una signora – partendo da un versetto bibli­co fa una sorta di conferenza sui temi d’attualità. Qui, dunque, la “predica” è tutto. Non così nel­l’eucaristia cattolica, dove il sacerdote non è che uno strumento perché il mistero della Consacra­zione si rinnovi. Se, poi, il prete è anche buon oratore, tanto meglio. Ma se non lo è, pazienza: non ci si è radunati innanzitutto per ascoltare le sue parole, che altro non sono che un mezzo per richiamare l’attenzione sulla Parola. «Quanto a me» continua Leonardo «non solo il “precetto” non mi pesa, ma non lo sento affatto come un obbligo, bensì come quel dono che è. Ma sì, godo davvero nel “santificare le feste”, come dice il comandamento, perché sento che la messa mi dà speranza e forza. È il centro della vita reli­giosa: ci ricorda che la morte è stata sconfitta, che Gesù è davvero risorto, che le tenebre non avran­no dunque l’ultima parola, che, al di là di ciò che i nostri sensi limitati vedono, c’è una Realtà mera­vigliosa della quale noi pure faremo parte. E per tutta l’eternità.» Non a caso l’Opus Dei ha per fondatore un sacer­dote spagnolo: il suo “papismo”, la sua fedeltà al­la Tradizione romana sono granitici. Qualche dif­ficoltà, nella direzione spirituale, per uno come lui il cui padre era valdese,’ una delle mogli epi­scopaliana e la cui formazione è stata interamen­te laica? Anche qui, la sua risposta è netta: «Non riu­scirei mai a non essere cattolico: il papato, la Ma­donna, i santi, l’eucaristia nel suo senso più pie­no, la confessione personale, il rapporto con Dio mediato da un’istituzione ecclesiale con un cle­ro… Tutto questo, per me, è tanto logico da esse­re istintivo. Ma poi, anche qui, più che le teorie dei manuali o i dibattiti fra i teologi, seguo la mia esperienza: più cerco di seguire la strada tracciatami dal Magistero cattolico, più trovo le risposte convincenti che cerco e gli aiuti spiritua­li di cui ho bisogno». Nessun desiderio in lui, dunque, di andare al­la ricerca di un presunto cristianesimo “miglio­re”, al di fuori di quello della Chiesa di Roma, in qualche confessione evangelica o in qualche setta. Ma, neppure, alcuna attrazione per religioni altre dal cristianesimo. Anche su questo, natu­ralmente, quelli a cui parla delle sue convinzioni gli rivolgono domande: «Di solito mi apostrofa­no con un’aria di sfida: “Ma chi ti dice che la tua religione sia l’unica vera?”. Io mi considero un semplice, certamente non sono un teologo e quindi non ho che una risposta: ho scelto di vi­vere da cristiano perché ritengo che quella di Gesù sia l’unica religione fondata su un grandis­simo atto d’amore, del quale gli uomini stessi so­no stati testimoni. Certo, in un modo che Lui solo conosce, Dio è presente anche in altre fedi. Ma con una differenza che cambia tutto: ovunque, altrove, è l’uomo costretto ad andare alla ricerca di Lui. Le strade sono molteplici, gli atti di fede straordinari, le preghiere bellissime. Ma Dio re­sta lontano, irraggiungibile, imperscrutabile. So­lo nel cristianesimo succede l’opposto: non è l’uomo che cerca ansiosamente il volto di Dio, ma è Dio che va alla ricerca dell’uomo. Anzi, che si rivela a lui proprio come uomo, in una storia vissuta della quale abbiamo testimonianza stori­ca nei vangeli. Dio esce dal mistero che lo circon­da e svela il Suo vero volto. E, attraverso Gesù, ci chiede una cosa soltanto: di rispondere al Suo amore. Che cosa dobbiamo desiderare di più? Certo, Gesù non è un guru e, quindi, non ci inse­gna l’illuminazione, lo star bene con noi stessi tramite le tecniche del respiro o i modi per pla­care la mente ed essere più rilassati e soddisfatti. No, Gesù ci rivela l’amore del Padre che sta nei Cieli e ci insegna il modo per vivere questo amo­re. È, davvero, “la lieta Novella”. Insomma, perché dovrei andare a cercare l’acqua di altri pozzi quando ho la fortuna di avere accanto a me, sin dalla nascita, questa mia, di sorgente?». Una scelta consapevole e ferma, dunque, la sua per un cattolicesimo cui, se dovesse rimpro­verare qualcosa, contesterebbe una certa man­canza di fierezza, che pur potrebbe convivere bene con la doverosa umiltà: «Dobbiamo ren­derci conto di nuovo, e sino in fondo, che il dono che ci è stato fatto è grande. Noi non ne abbiamo merito, certo, ma, oggettivamente, siamo testi­moni di un Messaggio incomparabile, di una pienezza di Verità che è unica, pur nel rispetto di chi ha parti di verità ma non tutta la Verità inte­ra. Credo, poi, che dobbiamo guardarci da una certa problematicità, dalla tentazione di compli­care il vangelo, che è al contempo profondissimo e semplice». Per riprendere il racconto del suo cammino: nel 1993, dopo una lunga preparazione con il diretto­re spirituale, la confessione. A quarantasei anni è, in fondo, la prima della sua vita dopo quelle fatte da ragazzo, senza alcuna consapevolezza. «L’ho già detto ma mi preme ripeterlo: la con­fessione ben fatta, sincera, completa, è tra le mag­giori fonti di gioia che un uomo possa sperimen­tare. Hai la certezza di essere riaccolto nella casa del Padre: riconciliato con Lui, con te stesso, con gli altri. Anche, forse soprattutto in questo, mi sento profondamente cattolico: non mi basta fare i conti a tu per tu con Dio, come vogliono i prote­stanti. Ho bisogno di quello strumento umano, che mi testimonia il perdono e la misericordia di­vina, che è il sacerdote. Non è stato Gesù stesso a dare ai suoi apostoli il potere di legare e di scio­gliere e di farci annunciare da loro, a suo nome, il condono dei peccati? Naturalmente è una gioia che nasce dalla sofferenza che costa il mettersi co­sì a nudo, nella propria miseria. Quella prima volta, poi, mi è costato molto anche perché ho scoperto una quantità di colpe e di miserie che nemmeno immaginavo.» Tra i peccati della cui gravità non si rendeva conto, in quella superficiale eppure spesso pre­suntuosa prospettiva “mondana” che era stata la sua, c e il gioco della maldicenza che, mi dice, «è lo sport più praticato nei salotti alla moda». Un continuo, ossessivo spettegolare, in una sor­ta di diabolica schermaglia per attentare gli uni alla reputazione degli altri. Ciascuno, in effetti, ne è bersaglio, naturalmente quando quella sera è assente dalla compagnia o, quella volta, non fa parte del gruppo in vacanza nelle solite località esclusive. Un nefasto malignare che è fatto con apparente innocenza, come fosse un gioco inno­cuo, e chiamato ora – per farlo apparire ancor più lieve – con il nome anglosassone di gossip. «Una sera, in un salotto, la maldicenza sugli as­senti sembrava la pallina impazzita di un flip­per, rimbalzando da un divano all’altro. A un certo punto non ne ho potuto più: mi sono alza­to e me ne sono andato, inventando un aereo da prendere all’alba. È in queste situazioni che mi rendo conto di come la prospettiva di fede dia, fra l’altro, la consapevolezza – sconosciuta an­che a me, “prima” – del dovere di rispettare i fratelli, obbedendo al comando di Gesù di non giudicare.» A quella “prima” confessione segui la “pri-ma” comunione: «Fu a New York, alla vigilia di Natale, nella cattedrale di San Patrizio. Provai un’emozione fortissima, da brividi nella schiena e lucciconi agli occhi, per la gioia e la ricono­scenza per un simile, sconvolgente dono di quel Cristo che ha promesso di essere con noi – e al punto di farsi cibo! – sino alla fine dei giorni». La confessione, osserva, intesa nel suo vero sen­so, ha anche una funzione di pedagogia sociale, oltre che religiosa: «Esaminarci sulle nostre col­pe, assumercene l’onere, ci aiuta a recuperare quel senso di responsabilità che rischiamo di perdere; ci confronta beneficamente con la verità su noi stessi, senza alibi e senza scuse ideologi­che e sociologiche. Se guardo a me stesso, con­stato che sono figlio unico, che non ho pratica­mente avuto un padre, che sono stato viziato in una famiglia ricca e influente. Se avessi voluto trovare degli alibi ai miei errori, alle mie man­canze, non avevo che da scegliere. È stato il rea­lismo cattolico, il suo richiamo alle responsabi­lità di ognuno, che mi ha aiutato e mi aiuta a stare lontano da ogni vittimismo, da ogni giusti­ficazionismo da sociologo “alla Rousseau” o da psicologo “progressista”, per il quale ogni colpa è della società, dell’educazione, delle circostan­ze, magari del governo. In ogni caso, degli altri». Accettare sino in fondo la propria responsabi­lità significa rifare posto alla verità. E della ve­rità fa parte un’altra realtà ineluttabile che ten­diamo a nascondere, a rimuovere, a ignorare: ogni vita, prima o poi, è segnata dal dolore, dalla malattia e, infine, dalla morte. Non esistono soltanto “problemi” che, per de­finizione, possono trovare una soluzione, come vorrebbero indurci a credere. Ci sono cose, tante cose – troppe, se guardiamo al nostro desiderio di felicità terrena – che sono irrimediabili, alle quali non si può sfuggire e che possono essere non solo sopportate ma trasfigurate guardando a quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini, non è venuto a distruggere la croce ma a prenderla sulle spalle e, alla fine, a stendervisi sopra. Chi le ha prese sul serio può testimoniare (è il valore irrefutabile, anche qui, dell’esperienza) che non sono vana promessa le parole che Mat­teo attribuisce a quel Messia: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi risto­rerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e impa­rate da me, che sono mite e umile di cuore, e tro­verete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero>>. Leonardo ci tiene a dirsi più che mai d’accor­do con Giovanni Paolo Il, il quale nella sua enci­clica Evangelium Vitae ha scritto: «Quando si ap­prezza la vita solo come misura del piacere e del benessere, la sofferenza appare come uno scacco di cui dobbiamo liberarci a ogni costo». E gli sta a cuore ribadire il rifiuto di quella eu­tanasia che è reclamata sempre di più come un “diritto” e che – come già è stato per divorzio e aborto – si vorrebbe legalizzare. Ma che mostra in realtà, in modo tragico, come l’evento della morte sia divenuto intollerabile e che, senza pro­spettiva religiosa, anzi esplicitamente cristiana, l’unica in cui Dio prenda su di Sé tutte le pene umane, fisiche come spirituali, la sofferenza non è che un’oscenità da nascondere e abbreviare in ogni modo.
III
Il dolore, il confronto con la morte, il valore dei sacramenti, capaci di dare serenità se non gioia pure nei momenti più duri: anche qui, quest’uo­mo precisa di non fare della teoria, ma di basarsi su ciò che nella sua carne ha vissuto. Mi parla di una sua confessione generale, seguita da quella che ora chiamano “unzione degli infermi” e che la Tradizione della Chiesa indicava con il nome, gravido di accenti inquietanti, di “estrema un­zione”. Fu a New York, nel gennaio del 1998, nella parrocchia di Rìchard Neuhaus, già pastore pro­testante, divenuto sacerdote cattolico e autore di best seller religiosi internazionali, stampati in italiano dalla Mondadori. È suo, fra l’altro, quel Solidarietà e profitto che è tra i manifesti di una prospettiva cristiana liberale, affrancata dalle demagogie da “teologia della liberazione”, con le sue tossiche scorie marxiste. Un autore, padre Neuhaus, divenuto un amico, un consigliere spi­rituale che Leonardo va a trovare ogni volta che si reca a Manhattan per lavoro e per i controlli sanitari. Quella volta andò da lui per un bilancio della vita intera, prima di sottoporsi a un’operazione chirurgica il cui esito era tutt’altro che scontato e nella quale, malgrado i bisturi altamente profes­sionali dei chirurghi americani, avrebbe potuto essere troncato l’esile filo che lega ciascuno di noi alla vita. «Come penitenza, dopo quel lungo esame di tutta l’esistenza, padre Neuhaus mi impose di rileggere il prologo del vangelo di Giovanni. Quei diciotto versetti straordinari, dalla profondità inesauribile: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…”. Naturalmente, per me non fu una peni­tenza ma un premio, un viatico corroborante per affrontare il futuro, a viste umane così incerto, che cominciava, per me, il giorno dopo.» Tutto era iniziato nel 1997, con alcuni dolori, inconsueti per un uomo abituato a contare su un fisico vigoroso, su una salute eccellente. Come d’obbligo nel milieu, aveva fatto, e faceva, molto sport: tennis, nuoto, per un periodo giovanile an­che la più costosa, forse, delle attività sportive, quella dei rally automobilistici. Messo in allarme da quei disturbi imprevisti, un check-up, ed ecco la rivelazione sconvolgente: tumore alla tiroide e carcinoidi in organi vitali come il fegato e il pan­creas. Erano passati cinque anni dal suo ritorno pieno alla fede. Ora, questa veniva messa brutal­mente alla prova. Ebbene, non solo ha retto – mi dice con umiltà pari alla convinzione -, ma gli ha confermato quale sia il suo potere di dare un sen­so a ogni evento, per traumatico che appaia. Al Memorial Hospital («quattordici piani di cancro nel cuore di New York», come lo defini­sce, con una battuta amara) la tiroide è stata asportata con successo, dopo che i medici aveva­no accertato che non aveva provocato metastasi. Quanto al fegato e al pancreas, il responso fu tranquillizzante: una forma tumorale dall’evolu­zione lentissima, tale da poter essere tenuta sot­to controllo dai farmaci, che da allora, ogni gior­no, assume. Con periodicità stagionale – dunque, quattro volte l’anno – si sottopone alla verifica di quei medici americani che apprezza anche per la sin­cerità con cui informano il paziente, spiattellan­dogli diagnosi, prognosi, possibili rimedi (se ce ne sono) e percentuali statistiche di esiti fausti e infausti. Almeno qui, le ipocrisie del politically correct che infetta soprattutto gli Stati Uniti (giu­sta punizione per averlo inventato), gli eufemi­smi buonisti e le reticenze farisaiche lasciano il posto alla cruda professionalità: pane al pane e cancro al cancro. Mi dice: «Ricordo il risveglio dopo l’interven­to chirurgico: tutti gli operati del giorno vengo­no portati, sui loro letti a ruote, in un unico stan­zone. Un ambiente gelido e rumoroso perché, stando alle tecniche del Memorial Hospital, il freddo e il frastuono favorirebbero il ritorno alla sensibilità normale dopo le potenti anestesie». Eccolo, il privilegiato per nascita, l’erede di un grande nome, “il Dottore” per le zelanti segreta­rie, il manager cui autisti ossequiosi aprono la portiera di berline adeguate al rango presidenzia­le. Eccolo, dunque, sofferente tra i sofferenti, tra i suoni inquietanti, i lamenti, le voci babeliche di una sala di risveglio dove la malattia riduce a nul­la ogni differenza sociale e rimette tutti di fronte alla comune miseria umana. «Una miseria in cui non c’è altro significato e altra risposta che la cro­ce di Cristo»: ci tiene a sottolinearlo, ancora una volta senza alcuna unzione devota ma con la con­sueta, disarmante semplicità. «Forse, la mia tentazione maggiore, il vizio che più mi minacciava era la superbia. Il sentirsi – quando si è sani, benestanti, riveriti – quasi invulnerabili e al centro dell’universo. E invece, eccomi lì, un emigrante della salute come tanti altri, come tanti anonimi agli occhi del mondo. Ridotto, io pure, a una cartella clinica, guardata con fredda professionalità da medici per i quali non ero che uno dei cancerosi da operare ogni giorno, secondo un programma di lavoro impla­cabile come una macchina. Ebbene, proprio lì, al Memorial Hospital, ho riprovato, con evidenza drammatica, e al contempo consolante, come la fede non sia un’idea filosofica, una semplice prospettiva ideale o una sapienza, un’etica, ben­sì una Presenza che spezza la tua solitudine e ti fa dono di una grande serenità, contro tutte le circostanze avverse. Insomma: ancora una volta un Dio “sentito” come esperienza tangibile e concreta, ben più che come risultato di un ragio­namento. È in simili circostanze che ti accorgi, davvero, che dipendi da Qualcuno che ti vuol bene e non da un destino anonimo e cieco. Metti in conto, in quei momenti, anche l’eventualità della morte: ma senza angoscia, senza quella ri­mozione nevrotica di una cultura come la no­stra, dove è obbligatorio far finta di niente, dove si deve parlare e comportarsi come se non esi­stesse una fine ineluttabile per ciascuno di noi.» Una serenità che, aggiunge, anche in quel luo­go di ansie e di sofferenze contribuiva a conser­vargli il gusto per la vita: «Non mi sentivo affat­to sperso, così lontano dalla mia casa milanese. E non era soltanto l’abitudine ai viaggi, la buona conoscenza che avevo dell’America, la padro­nanza della lingua. Mi faceva piacere pensare che, quando fossi uscito da li, mi sarei trovato in Madison Avenue, nel cuore della più stimolante città del mondo. Quell’esperienza di Presenza cacciava ogni tristezza, ogni rassegnazione, e mi permetteva di continuare ad amare ciò che ho sempre amato: la vita pulsante delle metropoli, con le loro infinite possibilità umane. Ma la fede mi dava anche la certezza della presenza accanto a me di coloro che “sono andati avanti”, che so­no morti – a cominciare da mia madre -, ma che continuano, misteriosamente, a essere vivi in una dimensione invisibile, eppure non separata dalla nostra». Questa, gli ricordo, è ciò che il cristiano chiama “comunione dei santi”: una delle verità più con­solanti della fede, una certezza che spezza i vinco-li del tempo e dello spazio e distrugge la barriera (disperante e impenetrabile per il “mondo”) della morte stessa. È l’unione misteriosa e insieme salda di tutti con tutti, dei lontani come dei vicini, dei vivi co­me dei morti. Una comunione propria di tutti i battezzati (i “santi”, in linguaggio biblico), che già facciano parte della “Chiesa trionfante” o di quella “purgante” o che fatichino ancora nella “Chiesa militante”. Una unione profonda, per la quale chi ha raggiunto la meta della vita eterna può intercedere presso Dio per chi è in cammi­ no; e questi può intercedere per i defunti, se an­cora si trovano nell’enigmatico stato della purifi­cazione prima di meritare di accedere alla vista senza veli dell’Altissimo. Sapeva tutto questo, mi disse, dalla lettura di quel catechismo che non aveva frequentato da bambino ma che era stato la sua scoperta di adul­to. Conosceva la teoria: però aggiunse che, come al solito, la conoscenza vera di quel mistero, la consapevolezza che sfida ogni smentita, gli veni­va dall’esperienza concreta fatta nel suo letto di ricoverato in un ospedale americano. In quei giorni di New York, c’erano accanto a lui entrambe le madri dei suoi figli. Proprio a quei tre giovani (peraltro legatissi­mi fra loro) e alla situazione che si sono trovati a vivere va, mi dice, la sua preoccupazione maggiore: «Ora lo vedo con molta chiarezza. E inutile che cerchino di banalizzare il divorzio, di teorizzare famiglie allargate o plurime sem­pre e comunque serene. In realtà, qui c e un dramma che ha costi insondabili per tutti coloro che ne sono coinvolti. Sofferenze, per giunta, quasi sempre rimosse e negate, perché questo esige la mentalità da liberai cui occorre adeguar­si per avere diritto di cittadinanza fra i “moder­ni”. So bene di toccare un tema impopolare, so­prattutto nel mio ambiente. In un’epoca in cui ècrollato il valore della indissolubilità dell’incon­tro fra un uomo e una donna e in cui è venuta meno la consapevolezza che la famiglia è in­nanzitutto un’istituzione finalizzata al dono della vita, parlare di prospettiva cristiana del matrimonio è diventata un’impresa temeraria. Eppure, la fedeltà, la comprensione, l’accetta­zione, il perdono reciproci, l’apertura alla fecon­dità restano degli ideali che, se fossero vissuti nella pratica, ridarebbero a molti una gioia in­sperata. Quando qualcuno si stupisce che parli in questo modo uno come me, che di famiglie sfasciate ne ha due alle spalle, non ho difficoltà a replicare: è proprio per questo che parlo, ora che ho capito – anche se tardi – quale sia la na­tura, quali siano i fini dell’unione matrimoniale in quella prospettiva religiosa che non è affatto anacronistica come pensano molti e della quale, sulla base di ciò che ho patito e fatto patire, ve­do la saggezza». Mi dice di avere, al proposito, una domanda irrisolta: «Perché la Chiesa che, in pratica, obbli­ga i ragazzini ad anni di catechismo prima di ammetterli alla comunione, non ha sentito il dovere, in un passato abbastanza recente, di dare una solida formazione sociale e umana agli spo­si? Per coloro che chiedevano di sposarsi in chie­sa, fino a qualche tempo fa non c’era alcun obbli­go di frequenza dei corsi prematrimoniali. Ora, non voglio arrivare all’estremismo di un amico sacerdote che mi diceva: “Se le coppie non pre­parate capissero quello che stanno per fare, scapperebbero dall’altare…”. Tuttavia è impor­tante insistere sul fatto che il matrimonio è un sacramento che richiede, da parte degli sposi, una formazione e una preparazione specifiche». Qui, però, gli oppongo, sono perplesso. Ammi­ro, naturalmente, il suo fervore di convertito, che getta nella sua nuova prospettiva la “voglia di fare” di quel manager che è. Un uomo d’azio­ne, un pragmatico che esorta tutti nella Chiesa, a cominciare dai preti, a rimboccarsi le maniche, in un grande sforzo di catechesi, di informazio­ne e di formazione. Mi sembra però di dovergli ricordare che ab­biamo a che fare con il mistero della fede. Non c’è “corso” o “ciclo di lezioni” che valga, se quel dono non ci è stato dato: o, meglio, poiché sap­piamo che esso è offerto a tutti, se ne abbiamo ri­fiutato la proposta. È la fede il prius indispen­sabile e irrinunciabile per poter trarre delle conseguenze morali: ovunque, anche nel matri­monio. Solo l’accettazione previa della verità del vangelo può darci la certezza che le “istruzioni per l’uso dell’uomo” indicate dal Nazareno sono le sole “che funzionino”, perché (come il vange­lo stesso dice) «Egli sapeva quel che c’è nel cuo­re dell’uomo». Oggi, soprattutto, quando i presupposti stessi del sentire comune sono spesso antitetici a quelli cristiani, un “annuncio” della morale che pre­scinda dalla fede può far scambiare quell’etica per una prigione, per una violenza intollerabile o, nel caso migliore, per un’utopia impraticabile. E impraticabile, in effetti, lo è davvero, stando a Gesù stesso: «Senza di me, non potete far nulla». Tentare di imporre, o anche solo proporre, una prospettiva morale a tutti o quasi (perché tutti o quasi – o, almeno da noi, la maggioranza – scel­gono per le nozze i fasti della chiesa) non provo­cherebbe fastidio se non rivolta, come mostra, fra l’altro, l’esito disastroso del referendum sul divorzio? Certo, i cattolici affermano l’esistenza di una “morale naturale” con la quale coinciderebbero i precetti dell’etica evangelica, e proprio così co­me la Chiesa li ha codificati. Dunque, la neces­sità di seguire quei precetti potrebbe essere giu­stificata dalla sola ragione e, pertanto, essere riconosciuta da chiunque, anche se agnostico o ateo. È su queste basi, fra l’altro, che fu imposta­ta in Italia la campagna referendaria contro la legge sul divorzio: nel comitato promotore non c’erano ecclesiastici ma filosofi, studiosi, politici, laici, e non tutti di fede cattolica; nei comizi non si parlò di fede ma si volle restare sul piano del­l’argomentazione razionale. Non a caso, l’inizia­tiva e il peso della campagna per abrogare quel­la legge furono lasciati a un partito, mentre la Chiesa apparve piuttosto defilata. Anzi, proprio in essa, persone di rilievo manifestarono la loro perplessità, se non il loro dissenso. I risultati del­le urne, comunque, confermarono quanto già noto a chi non si facesse illusioni: nella maggio­ranza delle persone, la consapevolezza di quella “morale naturale” cui ci si appellava era non so­lo attutita, ma come cancellata, da un clima cul­turale e vitale segnato da almeno due secoli di predicazione contraria. Non era lui, Leonardo stesso, a dirmi la sua gioiosa sorpresa, scoprendo che la prospettiva cattolica è un complesso armonico e unitario, dove tout se tient, perché tutto è legato a tutto? Dunque, non ci sono, non possono esserci “pezzi di morale” da applicare, ad esempio, alla vita matrimoniale, dopo avere diligentemente segui­to i corsi organizzati dal parroco. Mi venne in mente la frase famosa di quel tem­pestoso personaggio della sinistra radicale fran­cese, tra Belle Époque e Grande Guerra, che fu Georges Clemenceau. Costui mise in guardia i giacobini come lui dalla tentazione di scegliere nella loro ideologia aspetti da accettare e altri da rifiutare a seconda dello spirito dei tempi. «Quel­la Rivoluzione francese di cui siamo figli è un blocco unico: prendere o lasciare!» ruggì colui che i francesi non a caso chiamavano le Tigre. Il tutto prendere o il tutto lasciare vale ancor più per quella prospettiva totale sull’uomo, la storia, il mondo che è il cristianesimo, il quale non a caso ha saputo costruire le sue Summae teologiche che hanno la solidità e la coerenza di immense catte­drali, in un gioco straordinario di spinte e contro-spinte, dipesi e contrappesi. Un blocco unico, do­ve ogni pietra sorregge l’altra e ne e sorretta, dove non sono isolabili frammenti di un’etica che può essere accettata e che rivela sapienza e positi­vità solo nella sua totalità. Totalità che ha per in­dispensabile fondamento la fede, senza la quale ciò che noi credenti sappiamo essere ammirevole appare assurdo se non disumano. Uomo ragionevole, Leonardo fu d’accordo con me, visto che altro non facevo che richiamare l’attenzione sulla logica cristiana, le cui vie non passano attraverso le tecniche della propaganda. Ma insistette – e su questo non potei che dar­gli piena ragione – sulla necessità di “ricomin­ciare da capo”, di prendere sul serio gli appelli continui di Giovanni Paolo Il a «una nuova evangelizzazione». La quale, a dispetto delle ap­parenze, è forse proprio ciò che il mondo cerca, seppure «a tentoni, come nelle tenebre», per dir­la con san Paolo. Nell’Ottocento, gli ricordo, un altro convertito, un inquietante scrittore france­se, Léon Bloy, usci in una sorta di profezia: «Verrà il giorno in cui gli uomini saranno così stanchi degli uomini, che basterà parlar loro di Dio per vederli piangere». Sono sempre più con­vinto che quasi ci siamo. Me lo conferma pure lui, e rifacendosi non ai sociologi o ai “pastoralisti”, come chiamano gli esperti di queste cose, ma – al solito – alla sua esperienza: «L’ho constatato anche di recente, organizzando nella mia parrocchia milanese, quella di San Babila, una veglia di preghiera al posto della cena, seguendo l’invito del papa a un digiuno per impetrare la pace in tempi così peri­colosi. Ebbene, non solo hanno aderito persone insospettabili, lontane di solito dalle iniziative cattoliche, ma alla fine ho potuto constatare che erano contente, che mi ringraziavano perché si erano loro aperte prospettive dimenticate ospi­te che aspettavano solo di essere risvegliate. Ep­pure, si chiedeva loro una privazione, come la ri­nuncia a un pasto, che può sembrare piccola e che pure, per alcuni, non è irrilevante: ma forse erano contente proprio per questo. Abbiamo bi­sogno di ritrovare almeno qualche segno simbo­lico di un sacrificio, di una penitenza che, im­mersi nel nostro benessere, abbiamo ormai dimenticato. D’altronde, se ho progettato un li­bro che rispondesse a domande sulla fede e sulla morale che ne deriva, è proprio perché constato che mi basta accennare alle mie scelte cristiane per svegliare l’interesse degli interlocutori, per essere bersagliato da questioni. Come editore, ho seguito la diffusione di massa, non solo in Italia ma in tutto l’Occidente, del Nuovo Cate­chismo della Chiesa cattolica, quel grosso tomo di quasi ottocento pagine. È troppo facile l’ironia di chi ha sentenziato che ben pochi degli acqui­renti l’avrebbero poi davvero letto. In fondo, non è questo che importa: sono convinto che molti l’hanno comprato per avere in casa un punto di riferimento, una garanzia, una risorsa, una sorta di àncora alla quale aggrapparsi, un giorno o l’altro. Dunque, la spia di una nostal­gia, della consapevolezza, magari confusa e me­spressa, che prima o poi viene per tutti il mo­mento in cui la fede rappresenta un significato da ritrovare. Ne sono sempre più convinto: c’è molta gente disposta ad ascoltare un riannuncio religioso. Forse più di quanto noi stessi immagi­niamo. Se sto alla mia impressione, mi pare che nella mia città le chiese, alla domenica, siano più affollate di dieci anni fa, quando ho cominciato a frequentarle. Dobbiamo avere più coraggio, noi credenti, nel riproporre la nostra prospettiva che, essendo quella “giusta”, non può che fare del bene e dare gioia a questi nostri fratelli. E dobbiamo avere il coraggio di mostrare la gioia e l’orgoglio di essere cattolici». Devo riconoscergli una coerenza indubbia: esor­ta al coraggio; ma c’è stato coraggio, da parte sua, nel proporsi per pagine come queste che cerchiamo di costruire insieme e che, nella sua intenzione, hanno innanzitutto un compito di apostolato. Di «nuova evangelizzazione», ap­punto. Penso a quanto costò a me, giovane redattore del sofisticato «Tuttolibri», inserto culturale del­la laicissima «Stampa» di Torino, mettermi in piazza con un libro dal titolo Ipotesi su Gesù, per giunta neppure “coperto” da qualche marchio editoriale elegante ma pubblicato da una casa religiosa. Addirittura, quella fondata da san Giovanni Bosco, che, per la schizzinosa intelli­ghenzia subalpina, richiama la subcultura degli oratòri e dei loro preti provinciali, con le loro fa­cezie e le loro chitarre. Ricordo ancora gli sguar­di perplessi, quando non ironici, di molti colleghi che pure erano, e restarono, degli amici, ma imbarazzati da quella che giudicavano, quanto­meno, una sorta di impudicizia: mettere nero su bianco le ragioni della propria fede! Cose che non si fanno… Un disagio, il loro, aggravato dal fatto che ben sapevano che ero stato allievo di quei venerati professori che, sulle colonne del nostro autore­vole quotidiano, impartivano le loro laiche pre­diche, in cui era impensabile anche solo un cen­no alla dimensione religiosa. Questa, se per bizzarria c’era, doveva restare strettamente pri­vata. Soprattutto, poi, se aveva il pessimo gusto di presentarsi sotto le forme della dogmatica “superstizione cattolica”. Coraggio, dunque, quello del nostro Leonar­do. Ma, precisa, meno di quanto io possa sospet­tare giudicando dalla mia esperienza: «Forse stenterai a crederlo, ma tra le cose che faccio più volentieri, anzi, che più mi piacciono, c’è quella di dare un po’ di testimonianza in certi salotti o in certi ambienti professionali che sembrano an­titetici alle mie prospettive attuali». In questo entusiasmo è sorretto, sospetto, an­che dall’ammonimento del beato Escrivà: «Quan­do ti lanci nell’apostolato, convinciti che si tratta sempre di rendere felice, molto felice la gente: la verità è inseparabile dalla gioia». Persona, com’è, di temperamento istintivamente generoso (tutti coloro che lo frequentano, dagli uscieri ai diri­genti, hanno tenuto a confermarmelo), poteva for­se rifiutare agli altri ciò che ha reso lui, senza re­torica, “felice”? Ma è tempo di tornare alle madri dei suoi figli, che si alternavano nella sua stanza di ricoverato al Memorial Hospital. Dice: «Ci sono voluti tempo, pazienza, buona volontà da parte di tutti, ma l’obiettivo ne vale­va la pena: recuperare, cioè, un buon rapporto fra noi tre genitori per dare ai figli il senso di una continui  Così, ai ragazzi non dedico soltanto parte delle va nze estive o invernali, com’è purtroppo costretto fare chi, dopo un divorzio, si sia risposato. La mia i    affettiva, dovuta alla rinuncia a crearmi una nuova famiglia, mi consente di essere sempre a disposizione: per i miei figli cerco di essere un punto di riferimento quotidiano, continuo». Che così davvero sia, me ne diede conferma diretta pure un piccolo, curioso incidente. Era verso mezzanotte. Coperto di piumoni per con­trastare il gelo del vento balcanico che spazzava quella piatta campagna, rivedevo gli appunti della giornata nel letto di un’elegante, conforte­vole camera per gli ospiti. Squillò il telefono: una voce giovanile chiese del dottor Mondadori. Spiegai che non era quella la sua camera e che non sapevo come fare per passargli l’interno. Né potevo andare ad avvertirlo, l’ala degli ospiti es­sendo separata dall’edificio padronale. Delusio­ne dall’altra parte: era il figlio minore, mi disse. Evidentemente doveva esserci un contatto, a quel numero di solito rispondeva papà. Al mattino lo dissi a Leonardo, scoprendo che a quell’ora già dormiva, ma che non sarebbe stato un problema, per lui, parlare con il figlio: «Siamo abituati, tutti e quattro, a chiamarci a ogni ora del giorno e della notte. Quando sono all’estero, con lo sfasamento dei fusi orari mi capita di ricevere le loro telefonate nei momenti più impensati. Il “mestiere di padre” io lo intendo così: disponibi­lità totale e priorità per loro. Che non significa, intendiamoci, indulgenza totale. Anzi, cerco di contrastare uno dei più perniciosi errori della cultura moderna: pensare, cioè, che tutto sia leci­to e che ogni desiderio debba essere subito esau­dito, magari senza fatica. Di recente, come regalo ho fatto confezionare per loro un bel cofanetto e dentro ho messo libri sicuri, di formazione reli­giosa. Ho scelto i vangeli, ovviamente, cui ho ag­giunto le lettere di san Paolo e una copia di Cam­mino: li considero il miglior antidoto ai rischi di lassismo e di tiepidezza spirituale». Mi allarmai un poco: con questo zelo non c e il rischio di esser considerato (affettuosamente, s’intende…) u rompiscatole un po’ fissato? Sap­piamo be  com’è, oggi, con i giovani e gli adole­scenti. Lo so persino io, che non ho figli e che ho un unico nipote, per giunta in una città lontana, dove vado di rado… Sorrise: «Parliamo molto tra noi, nulla cala dall’alto, cerco di chiarire ai ragaz­zi la prospettiva cristiana nella quale mi metto e cerco di dare, come mi è possibile, un esempio. Penso che sia un privilegio: quando avevo la loro età, nessuno in famiglia era in grado di propormi gli strumenti per affrontare una vita che sia dav­vero umana, quella che io ho scoperto tardi, dopo essere finito in tanti vicoli ciechi». A un certo punto, mi chiese di sospendere per qualche ora il nostro colloquio. Doveva andare nella vicina Ostuni, che ha un mercato famoso nella regione. Quello era il giorno, non intende­va perderlo. Volli accompagnarlo, per spiare le sue intenzioni: in effetti, ero sorpreso che questo presidente d’azienda si mostrasse preoccupato di far personalmente scorta di verdura e di ali­mentari in genere, invece di lasciare l’incomben­za ai dipendenti. Andammo, dunque E, per prima cosa, scoper­si quanto alta fosse la sua popolarità presso quei simpatici ambulanti pugliesi: tutti sembravano conoscerlo, molti lo salutavano per nome, ad alta voce, da dietro i banchi, altri gli proponevano di assaggiare certe loro olive, certe acciughe, certi mandarini. Ne nascevano dialoghi che mi confer­marono il suo carattere di cordialone lombardo, di uomo gioviale e senza fisime “classiste”, pur lontano da una demagogia paternalista. Un dono di natura, certo; ma, mi disse, affina­to dalla fede che in ciascuno porta a vedere, sempre e comunque, il fratello. Anche quando, come capita a tutti, si è di cattivo umore o quan­do l’altro non è simpatico. L’uomo (a comincia­re, s’intende, da ciascuno di noi) spesso non è affatto amabile; anzi, non di rado è, oggettiva­mente, esecrabile. Eppure, nella prospettiva evangelica, ogni persona è da amare: non tanto per se stessa, quanto per amore di Dio, che è Pa­dre comune. E questo che differenzia la carità cristiana dalla filantropia “laica”, così fragile e, in fondo, così irragionevole, quando si confron­ta con l’uomo concreto, che spesso, invece di stringerla, morde la mano del suo soccorritore. In effetti, sappiamo bene come molti di coloro che declamano di “amare l’umanità” non sop­portino poi l’uomo in carne e ossa, con un nome e un cognome. Al di fuori della prospettiva reli­giosa (che dà un senso, dà una ragione, all’amo­re per il prossimo, sempre e comunque) è ben duro il passaggio dall’ideale teorico alla realtà, così spesso deludente e irritante. Ma ebbi un’altra conferma, in quel mercato me­ridionale che proprio in quei giorni, in una confu­sa allegria, cercava di familiarizzare con la nuova moneta decisa da un’Europa nordica che, da qui, appariva davvero remota. In effetti, scopersi che Leonardo era venuto a comprare un centinaio dei famosi carciofi della zona che avrebbe portato a Milano, suddividendoli fra casa sua e le case dei suoi figli. Una concreta conferma, insomma, del suo sforzo per «assicurare una continuità familiare, pure attraverso i carciofi», come mi diceva serio e al contempo sorridendo: il pater familias che fa la spesa per i figli, anche se questi hanno madri diverse. Quando è a Milano, praticamente tutte le sere è a cena dagli uni o dagli altri. Se non è possibile, riscopre il gusto di starsene solo, con un buon libro, nel suo alloggio di via Mozart, non lontano dalla piazza Duse dell’infanzia con i nonni: «Mi godo una solitudine che, un tem­po, era impensabile per me. Impensabile era, soprattutto (mi pare di averlo già ricordato), l’i­dea di poter vivere senza avere una donna ac­canto». Questa sua scelta di ritrovato celibato provoca incredulità e, forse, qualche sarcasmo, in un am­biente dove, dice, «quando due uomini si incon­trano non si chiedono a vicenda: “Come stai?”, bensì: “Con chi stai?”. Nessuno pensa che si pos­sa frequentare una donna senza che ci sia dietro una qualche storia. Se parli di castità, i più edu­cati ti guardano increduli, gli altri si mettono a ridere». Per molto tempo, anch’egli è stato sulla stessa lunghezza d’onda. All’influenza dell’ambiente già – come dire? – “surriscaldato”, si aggiungeva forse una sorta di DNA trasmessogli dal nonno. Racconta, con schiettezza, la mamma in quel suo libro di memorie da cui già citammo: «Tanto va­le dirlo subito: mio padre Arnoldo era un marito infedele». Allora, però (è sempre Mimma che lo ricorda), le amanti non mettevano in discussione «la sacra­lità della famiglia e la venerazione per la madre dei propri figli». Oggi, si preferisce andare dal­l’avvocato per il divorzio, a proposito del quale già riferimmo che ne pensi Leonardo, nel suo cattolicesimo estraneo a ogni velleità di revisio­nismo etico. Quando lo richiese, per il matrimo­nio con Paola (l’unico esistente, secondo la Chie­sa, che non riconosce le nozze solo civili), era ben lontano da preoccupazioni religiose. Ora che “ha visto”, ora che la sua prospettiva è così cambiata, si è convinto che quel divorzio “non conta”; che, malgrado la sentenza di un tri­bunale e la non convivenza, è ancora sposato al­la madre della figlia, Paola. Tanto da arrivare a una sorta di paradosso: «Vedo con chiarezza che, se andassi con un’altra donna, commetterei adulterio verso di lei. Ebbene, Paola stessa non riesce a capire, sorride di questa che considera una stranezza…». Già vi facemmo cenno: c’è stato anche – anzi, soprattutto, stando alla sua personale convinzio­ne – quell’appello alla Madonna, che può provo­care un’estrema ironia “laica” (della quale, pe­raltro, mi conferma che non si cura), per ridurre alla ragione ciò che Paolo, scrivendo ai Corinti, chiama «spina» o «pungiglione nella carne». Il ricorso all’aiuto dall’Alto è un consiglio che non dimenticava di dare nel suo manoscritto a coloro che – come lui -, scoprendo la fede dopo un divorzio e un nuovo matrimonio, non voles­sero essere privati dell’eucaristia. Certo, una pri­vazione risibile e irrilevante, per il “mondo”. Ma chi ha esperienza di fede sa quale sacrificio que­sta privazione possa rappresentare. Com’è noto, in tali casi la Chiesa addita una sola possibilità: trasformare il rapporto da nuziale in fraterno, escludendo dunque quello che non a caso i mo­ralisti chiamano “atto coniugale”. Commenta, nel suo scritto, Leonardo: «È pra­ticabile questa via? Non è un impegno impossi­bile chiedere a un uomo e a una donna che si amano di condividere la stessa vita, astenendosi però dal rapporto sessuale? Mi rendo conto di quanto sia scomodo e impopolare un simile di­scorso in una società come la nostra, così impre­gnata di eros». Per lui, comunque, non è in discussione il va­lore di quella che, vista da fuori, può apparire una severità crudele che lo spirito dei tempi at­tuali e il rinnovamento conciliare dovrebbero, se non superare, almeno attenuare. Dunque, repli­ca così alle obiezioni che tante volte gli vengono rivolte al proposito: «Perché la Chiesa nega l’eu­caristia ai divorziati che si sono risposati? Non è, questa, una prova di mancanza di carità e di per­dono per quei fratelli che, già colpiti nella loro vita dal dramma della separazione e del divor­zio, hanno cercato serenità in un’altra unione? Credo che, per rispondere alla domanda, dob­biamo tenere presenti i due concetti cardine del cristianesimo: la carità, certo, ma anche la verità. Questi due valori, come ricorda san Paolo, deb­bono andare sempre insieme. Ebbene, la verità cristiana insegna che, nel disegno di Dio, il ma­trimonio è perenne e indissolubile. La Chiesa lo ha sempre considerato come un’istituzione divi­na che risale alla creazione stessa dell’uomo e della donna. I termini del progetto divino non possono cambiare. Né noi possiamo pretendere che la Chiesa regoli il proprio comportamento e modifichi le leggi morali – di cui è semplice cu­stode e non padrona – a seconda dei casi singoli e dei cambiamenti della società e del costume. Dall’insegnamento divino, la fede ha tratto con­seguenze precise: il matrimonio cristiano rap­presenta l’alleanza fra il Cristo e la sua Chiesa. Coloro che sono venuti meno all’impegno con un nuovo matrimonio non possono accedere al­l’eucaristia, segno per eccellenza dell’alleanza tra Gesù e l’uomo». Al “che fare?”, per coloro che si trovano in si­tuazioni “irregolari , non esita a rispondere così: «La preghiera – così ci insegna la Chiesa e così dimostra l’esperienza di tanti – può dare un vali­do aiuto. C’è chi lo chiede con sincerità al Signo­re, pur continuando a tormentarsi. E chi, sapen­do che la castità può essere una croce, accetta di caricarsela sulle spalle, perché così ha insegnato Gesù e perché sa che percorrendo questo cam­mino si sentirà più vicino a lui». Drastica, ma giustificata, date simili premesse, la sua conclusione: «Altra strada non c’è!». Naturalmente, ci rendiamo ben conto che un argomentare del genere provoca in molti, oggi, più ripulsa che ammirazione. Non siamo così in­genui da ignorare (ci basta, del resto, riandare alla nostra giovinezza agnostica) la reazione di incomprensione, per usare un eufemismo, che può provocare questo che, dal di fuori, appare un mix di elucubrazioni biblico-teologiche e di moralismo anacronistico, con l’aggiunta, maga­ri, di un pizzico di sadismo clericale. Sappiamo bene. E, altrettanto bene, comprendiamo: è pro­prio in simili situazioni, in fondo estreme, che la prospettiva di fede sembra elevare tra gli uomini – pur di buona volontà e in buona fede da en­trambe le parti – una sorta di barriera invalicabi­le. Ci torneremo sopra fra poco. Giustizia vuole, però, che non si dimentichi un fatto: il mio interlocutore, che si esprime in modi così inaccettabili per tanti nostri contem­poranei, non si limita a esortazioni fideistiche e a parole moraleggianti. A quelle esortazioni e a quelle parole ha fatto seguire i fatti, ricomincian­do ogni giorno nello sforzo di vivere un ideale difficile (è occorso, testimonia con indubbia umiltà, l’aiuto stesso del Cielo), ma che accresce la gioia. Che è il maggior dono della fede, come ha sperimentato. Una domanda, tuttavia, si impone. Ha mai pen­sato di ricorrere ai tribunali ecclesiastici, per sondare la possibilità non dell'”annullamento” (come erroneamente si dice), ma dell’eventuale “riconoscimento di nullità” di quelle sue nozze giovanili, certamente condizionate da elementi che possono avere influito sulla loro validità? Se da qualche tempo la Chiesa sembra largheggia­re in simili riconoscimenti, non è – come pensa­no i laici maliziosi o certi cattolici, feroci nel ri­gorismo moralistico – per fare una sorta di concorrenza un po’ ipocrita al divorzio. Come più volte mi hanno confermato avvocati e giudi­ci di quei tribunali, occorre prendere atto della realtà: l’incomprensione dei significati e dei fini del matrimonio sacramentale è oggi tale che molte unioni, pur celebrate in chiesa, sono dav­vero invalide. Scuote il capo: «Sì, ci ho pensato, ma è una stra­da che ho escluso: mi sembrerebbe di rinnegare la mia storia personale, con questo far riconoscere e dichiarare dalla Chiesa che, in realtà, Paola e io eravamo solo apparentemente sposati. Ma no: sto così, in fondo un equilibrio è stato ristabilito, mi bastano i miei figli, il mio lavoro e, soprattutto, sapere che questo ha un significato. Certo, anche se non vai in cerca di occasioni, loro spesso cerca­no te, specialmente se hai una vita pubblica come la mia, piena di contatti e di incontri in mezzo mondo, e sei, per la natura delle cose, al centro dell’attenzione. È successo qualche tempo fa, ad esempio, con un’altra americana, conosciuta per lavoro. Poiché lei, poi, è venuta in Italia e, essendo libera, mi ha fatto chiaramente capire che un rap­porto con me poteva interessarle, con molta sem­plicità e altrettanta verità le ho ricordato che, io, libero non mi consideravo. Naturalmente, non giu­dico in alcun modo nessuno, ciascuno ha la sua vita, che spesso non conosciamo affatto, e ciascu­no ha le sue ragioni, che Dio solo può valutare. Parlo per me, dunque: e a me, come credente, non riconosco il diritto di “rifarmi una vita”, come si dice con un’espressione stereotipata». Di solito, gli dico, quelli come lui finiscono nel più scontato dei classici: il rapporto con la segre­taria che, da professionale, si fa affettivo e, non di rado, matrimoniale. Reagisce d’istinto: «Per carità, questo è il peg­gio! E, lo ribadisco ancora, non perché voglia giudicare qualcuno, ma perché è così, oggettiva­mente. Ne ho grande, e tristissima, esperienza: non diretta, stavolta, ma attraverso tante vicen­de aziendali cui ho assistito. C’è qui la prevari­cazione, anche se magari inconscia, dell’uomo che, dalla posizione prestigiosa in cui si trova, esercita un potere emotivo sulla donna. Poi c’è il rischio gravissimo per il lavoro di lei: se la storia finisce, come spesso capita, e se (come capita al­trettanto spesso) finisce malamente, chi deve andarsene è ancora una volta il più debole. Dun­que, la donna. Questi rapporti nascono, fra l’al­tro, su un grosso equivoco: sul non capire, cioè, che il tempo del lavoro è in fondo irreale, fittizio, artificioso. “Questa donna mi capisce, a differen­za di mia moglie” pensa il manager della segre­taria. Quando, però, i due decidono di passare dalla vita aziendale a quella familiare, si rendo­no conto della differenza. Ma ormai è troppo tar­di: la famiglia di lui e, se ce l’ha, quella di lei sono già state sfasciate. Proprio perché ho combinato tutti i pasticci che ho confessato e confesso e di cui mi rammarico, ho diritto di dirlo: stiamoci at­tenti, l’infelicità aumenta proprio quando ci si il­lude di trovare la felicità a spese della fedeltà. Forse vale davvero il vecchio adagio: “Meglio la donna accanto alla quale ti svegli che quella con cui vai a letto”…» Vuole ritornare sul tema del divorzio. Fra l’altro, per notare come sia curioso che i nostri contem­poranei pensino di essere “moderni e adulti” scandalizzandosi della rigidità della Chiesa al proposito. Ma sì, è curioso, perché, essendo or­mai all’oscuro di un vangelo che spesso rifiuta­no senza averlo mai letto, non sanno che le loro reazioni, che giudicano così aggiornate, sono in realtà le stesse dei pescatori e degli artigiani del­l’antica Galilea. A beneficio degli ignari, dunque, ecco il brano del diciannovesimo capitolo di Matteo: «Gesù disse: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio”. Gli dissero i discepoli: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, allora non conviene sposarsi”». Come si vede, le reazioni scandalizzate del­l”‘opinione pubblica” non mancarono neppure la prima volta in cui l’insegnamento cristiano fu enunciato. È comunque istruttiva anche la replica di Ge­sù: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso». È una conferma di quan­to sopra si diceva: senza la misteriosa prospettiva della fede, la morale cristiana appare incompren­sibile, se non crudele e dannosa. E ogni ricorren­te tentazione clericale di rovesciare l’ordine logi­co (che impone prima l’annuncio della fede e poi le conseguenze morali) non provoca adesione ma rivolta, giustificata in qualche modo da Gesù stesso: «Non tutti possono capirlo…». Leonardo, cui è stato “concesso di capire” (sen­za alcun suo particolare merito, s’intende, come avviene per tutti: « Wir sind nur Bettler», siamo so­lo dei mendicanti, diceva Lutero che – almeno qui – vedeva giusto), Leonardo, dunque, non so­lo non si scandalizza, ma vede la positività anche di ciò che, nella morale cattolica, è oggi più in­compreso. Si spinge, addirittura, a difendere la valuta­zione negativa che la Chiesa dà dei rapporti pre­matrimoniali. In verità, è consapevole del rischio che corre, visto che inizia così il testo che ha scritto come “cappello” alla trattazione del pro­blema fatta dall’amico teologo: «Il solo mettere in discussione un argomento come questo [i rap­porti prematrimoniali, appunto in una società che fa della prestazione sessuale la misura della valutazione di un individuo, significa tirarsi ad­dosso l’etichetta di oscurantista. Si dà infatti il caso che, se un ragazzo o una ragazza a diciotto anni non hanno già avuto un rapporto sessuale completo, corrono il rischio di esser bollati come complessati o repressi. Perché basta accennare a un discorso sulla castità prematrimoniale per su­scitare reazioni ironiche? Perché il parlare di un gesto di donazione totale e reciproca da parte dell’uomo e della donna provoca una reazione di ilarità, se non di scherno?». A questi perché, una risposta lui l’ha trovata. Dunque, non esita a suscitare la perplessità, for­se, degli stessi figli, parlando loro della bellezza di un ideale che così, testualmente, definisce: «L’amore consiste anche nel non consegnare il corpo ai capricci dell’eros ma nel donarlo alla persona con cui si dividerà la vita». E, sempre a quei suoi ragazzi, ricorda una verità oggettiva, difficilmente confutabile anche al di fuori della prospettiva di fede: i molti, crescenti guai del tri­bolato rapporto tra maschio e femmina vengono dalla dissociazione tra sesso e amore, tra eros e agape, per dirla alla greca. Se qualcuno pensava che simili convinzioni fossero ormai appannaggio soltanto di anziani frati fuori dal mondo o di professori di etica sen­za esperienza di vita, eccolo servito: possono an­che venire da chi il “mondo”, pure nel senso più esplicito, l’ha conosciuto bene. E forse, come di­ce egli stesso, proprio per questo può permetter­si di parlare così. Naturalmente, poiché neppure noi siamo nati ieri, ancora una volta ne siamo del tutto consape­voli e ancora una volta lo ribadiamo: discorsi del genere possono sembrare, prima ancora che mora­listici, visibilmente naìfs. Ma la naìveté, l’ingenuità, non potrebbe stare, per caso, dalla parte di chi fos­se ancora convinto che la cosiddetta rivoluzione sessuale (la sola rivoluzione degli ultimi due seco­li – ha osservato qualcuno – che abbia avuto suc­cesso) ha davvero aumentato la felicità degli uo­mini e delle donne? Ancora una volta, guardando ai risultati, non potrebbero essere i “semplici”, in senso evangelico, a vedere meglio e più in profon­do di certi maestri secondo il mondo? A chi, comunque, indulga ancora ai soliti, ripe­titivi, ormai consunti slogan, Leonardo è pronto a replicare così: «C’è un laicismo disinformato – lo incontro di continuo – che dà del cristianesi­mo un’immagine caricaturale. È quello che sostiene che questa religione sarebbe la nemica implacabile della sessualità e dell’eros. Be’, io dico che basterebbe leggere, nell’Antico Testa­mento, il Cantico dei Cantici, o le molte rifles­sioni che Giovanni Paolo Il ha dedicato all’amo­re, pure a quello umano, per rendersi conto di che cosa sia la fede vera, anche in materia ses­suale». È chiaro che, in un uomo del genere, la possi­bilità dell’aborto non trova nemmeno uno spira­glio. Anche se, pure qui, nel doveroso rispetto per il mistero delle coscienze: «La scienza gene­tica ha dimostrato in modo inequivocabile che nell’uovo fecondato c’è l’intero codice del futuro uomo, dal colore degli occhi alla forma delle lab­bra: dunque, il mistero della vita ha inizio sin dalla fecondazione. Ecco allora spiegato anche razionalmente il no fermo della Chiesa all’inter­ruzione di ogni gravidanza. Ogni embrione è una creatura, che va trattata e rispettata come ta­le. Sono anche convinto che è da respingere ogni tentativo di giustificare la soppressione di futuri nati perché malati o handicappati. Non possia­mo essere noi a decidere chi è adatto a vivere eli­minando chi, a nostro parere, non lo sarebbe. La Chiesa ha ragione nel ricordare che non solo la fede ma, innanzitutto, la ragione sta dalla parte della difesa della vita». Neppure queste sono cose facili da dire in un mondo come il suo. Anzi, nel mondo di noi tutti, ché ovunque è penetrata la mentalità che ben sappiamo. Dice, comunque: «Naturalmente, non manca chi mi dà del bigotto integralista. Ma io osservo un fenomeno contraddittorio: chi protesta sde­gnato ogni volta che la Chiesa alza la voce per deprecare una legislazione come quella attuale, che è contro la vita, è anche il primo a scendere in piazza per protestare altrettanto sdegnato contro la pena di morte negli Stati Uniti o ovun­que altrove… Dunque, sarebbe intollerabile dare la morte all’assassino e invece civile e progressi­sta uccidere l’innocente per eccellenza come èquel feto che già contiene l’uomo tutto intero?». Come al solito, però, fa appello a quell’ottimi­smo che lo contrassegna e che rientra, in fondo, nel suo temperamento positivo di imprenditore, di uomo d’azione. È, infatti, convinto che stia pian piano facendosi strada una mentalità di­versa rispetto a quelli che furono gli “anni di piombo” anche per l’etica: «Qualche tempo fa, a Cortina, degli amici mi fecero una confidenza significativa. Mi dissero: “Noi, nel referendum del 1981, avevamo votato senza esitazione a fa­vore dell’interruzione di gravidanza legalizzata. In totale buona fede pensavamo davvero che fosse una conquista di civiltà, un segno di modernità. Eppure, da qualche tempo sospettiamo che in quella nostra sicurezza ci fosse qualcosa di sbagliato”. Mi è sembrata un’autocritica sin­cera e, in fondo, non sorprendente. Sarebbe sta­ta inconcepibile sino a una decina di anni fa, ma non oggi. Eravamo infatti convinti, sino a tempi recenti, di avere tutte le risposte per tutte le do­mande. Adesso, se non altro, si comincia a capi­re che molte di quelle risposte non funzionano più: e, magari, che era sbagliato persino il modo con cui ponevamo le domande. C’è da aspettar­si che, prima o poi, si finisca con lo scoprire che il presunto “oscurantismo” della Chiesa su que­sti temi etici era in realtà una difesa preveggen­te, anzi profetica, del vero bene dell’uomo. Del resto, non sarebbe la prima volta». Eccolo, dunque, scommettere ancora una volta sulla verità dell’insegnamento di una Chiesa che – ne è convinto – è quella che vede giusto, quella che trae le conseguenze più coerenti dall’inse­gnamento evangelico. Già, del resto, me l’aveva detto, e senza esitazione: non riuscirebbe a non essere cristiano; ma non riuscirebbe neppure a non essere cattolico. Se, ancora una volta, confronto la mia espe­rienza con la sua, mi pare che le cose siano state per lui – come dire? – più agevoli, più sponta­nee. Nella quindicina di pagine che premisi a Varcare la soglia della Speranza, mi venne di scri­vere, sin dalle prime righe, qualcosa che non piacque a molti, in certi ambienti di Chiesa. In effetti, dicevo della mia scelta di starmene ap­partato in un angolo, «lontano da ogni palazzo importante: politico, culturale; e pure religioso». E aggiungevo: «Non fu l’insospettabile Jacques Maritain, carissimo a Paolo VI, che – scherzan­do, ma forse non del tutto – raccomandò a chi voglia continuare ad amare, e magari a difende­re, il cattolicesimo una frequentazione parca, mi­surata di certo “mondo cattolico”?». Qualcuno si offese, e me lo fece anche sapere. Ma non dovette essere così per il papa, che lesse, con ovvia attenzione, il manoscritto e non mi chiese di togliere quelle parole. Anzi, magari sbaglio, ma mi piace pensare che abbia sorriso, comprendendo ciò che volevo dire. Non era sempre Maritain (ben noto a Karol Wojtyla, vec­chio docente di filosofia) che distingueva tra il mistero fascinoso e di insondabile ricchezza della “Persona” della Chiesa e la quotidianità, tal­volta non entusiasmante, del “personale” della Chiesa? Quel che intendevo dire lo capisce bene, ov­viamente, anche Mondadori, ma ci tiene a preci­sare: «Sai, è indubbio che, pure qui, sono stato un privilegiato. Mi è stato dato di frequentare subito i “piani alti” della Chiesa. Non vorrei, s’intende, essere frainteso e sembrare elitario o schizzinoso: voglio dire che la Provvidenza mi ha permesso di venire in contatto con persone che, alla grande levatura spirituale, univano un’ottima cultura e anche un gusto coltivato. So anch’io, naturalmente, che c’è una sorta di kitsch cattolico che nulla ha a che fare con la sacrosanta semplicità evangelica; che c’è, talvolta, una me­lassa sentimentale che è una caricatura dello sti­le del Cristo, virile nel senso più alto e remoto da retoriche sdolcinate. O c’è, talvolta, un perbeni­smo, un buonismo conformista ben lontano dal vigore della carità autentica. E so anch’io, come te, che ciò è ben poco attraente per chi viene da fuori. Ma io, questo, non l’ho sperimentato diret­tamente. Ti dirò di più: mi sembra che, proprio all’interno della Chiesa, il livello umano, sul pia­no qualitativo, sia nettamente superiore a quello che si riscontra fuori. In questo spesso miscono­sciuto mondo cattolico ho incontrato, e incontro, persone di prim’ordine, con le quali riscopro il piacere d’imparare. Ti accorgi che hanno una fi­nestra aperta su una dimensione che non esiste da nessun’altra parte. Dall’incontro con certi cardinali, con certi vescovi, anche con certi sacerdoti o laici cattolici si esce più ricchi e ritem­prati: ti aprono prospettive ben più ampie di quelle di una cultura laica che, peraltro, quasi non esiste più. Ricordo, da ragazzo, che cosa fos­sero certe cene o certi ricevimenti nella casa mi­lanese del nonno o nella villa sul lago: c’erano persone straordinarie che non sembrano avere avuto eredi». Dunque, stando alla sua esperienza, la crisi delle vocazioni che ha stornato tanti giovani dall’im­pegno totale nella Chiesa, nonché la crisi della formazione in noviziati e seminari che hanno subito certamente degli sbandamenti, non han­no ridotto a un ricordo la buona qualità del “personale” cattolico? «A me non pare. Per dirla con una battuta, forse lo si deve al fatto che, a differenza degli altri, questi cattolici di giorno lavorano ma poi, di sera e magari di notte, stu­diano… » A che ora lo facciano, non lo so. Sta di fatto che io stesso l’ho constatato: divenire cristiano significa raddoppiare l’impegno, almeno sul piano culturale. In effetti, alla pari dei miei col­leghi “laici”, leggo – e quando ne val la pena, studio – i loro stessi libri, i loro stessi giornali, sui quali, del resto, rni sono formato, e che, ov­viamente, mai ho pensato di rinnegare o anche solo di trascurare. Poi, a differenza di loro, per i quali esiste un’unica prospettiva, leggo e studio anche i libri e i giornali che giungono dal vasto mondo religioso, spesso ignorato come se fosse irrilevante, ma dove non è affatto vero che tutto sia sempre e solo subcultura. Anche se tanti col­leghi e amici non lo sanno; né nulla fanno per saperlo. Comunque, se non lesino tempo e denaro per impinguare una già troppo ingombrante biblio­teca con opere sia “sacre” sia “profane”, questo faccio non dimenticando mai, naturalmente, che non è affatto la “cultura” – in senso accademico, illuministico – il bene supremo. Sono, anzi, sem­pre consapevole che proprio una simile cultura può essere talvolta più un ostacolo che un aiuto per quella “salvezza” – e “salvezza eterna” – che è, essa sì, il bene supremo, summum bonum, in una prospettiva di fede. Leggo e studio, dunque. Eppure, sempre con­sapevole che, ogni volta che il Cielo ha voluto comunicarci qualcosa di importante, non ha scelto come strumento un intellettuale o un no­tabile, ma qualcuno come l’analfabeta Bernadet­te Soubirous, quella di Lourdes, che è il paradig­ma dei 1‘senza cultura” secondo il mondo e dei veri esperti della scientia salutis, la scienza della salvezza. Scienza sulla quale ogni vecchina (se ancora ne esistono) delle prime messe del matti­no sa ben di più del corpo accademico di tutte le università d’Europa e delle Americhe. Naturalmente, da lettore quotidiano del van­gelo qual è ormai da una decina d’anni, nemme­no Leonardo dimentica che Gesù ha ringraziato il Padre perché «ha nascosto ciò che davvero im­porta agli intellettuali e lo ha rivelato agli igno­ranti». Sa bene come nella storia della santità ci sia gente di ogni tipo, fra cui geni, dotti ed eru­diti straordinari; con, però, una netta prevalenza di uomini e di donne a cui nessun salotto cultu­rale avrebbe aperto le porte. Fra i “dottori della Chiesa”, canone supremo della cultura cattolica, c’è anche santa Caterina da Siena, che a stento sapeva leggere e che solo verso la fine della vita imparò a scrivere. In effetti, Leonardo mi precisa che la sua sor­presa per il “livello qualitativo” di molti che in­contra nella Chiesa non comprende soltanto le persone del giro elevato, ma si estende anche a certe figure di missionari, di religiosi, di parroci di provincia, come il suo amico don Cosimo, di Ostuni. Mi parla pure, ammirato, di suore e di suorine. Come le tre che, ogni anno, incontra a Cortina e delle quali ammira non solo le virtù umane ma anche la “sapienza”. Che non si basa su diplomi e lauree (che pure spesso non manca­no) ma, innanzitutto, su quella enigmatica e al contempo tangibile conoscenza di ciò che davve­ro conta e che la Tradizione chiama sensusfidei. I convertiti di qualche decennio fa, gli ricordo, bussavano alle porte di una Chiesa che dava davvero l’impressione di una munita cittadella, di una rocca inespugnabile perché immutabile sulle sue fondamenta teologiche, liturgiche, mo­rali, devozionali. Un mondo, quello cattolico, davvero “diverso”, con una sua lingua, un suo codice, una sua prospettiva separati da ogni al­tro. Il motto dei Certosini – il più stabile, forse, e il più austero tra gli ordini religiosi – ricordava, con secchezza orgogliosa e, al contempo, umile: Stat crux dum volvitur orbis, la croce sta ferma mentre il mondo gira. Un motto che, in fondo, poteva applicarsi alla Chiesa intera. Convertirsi, allora, significava davvero varcare una soglia, entrare in una dimensione “altra”, essere am­messi in una comunità separata e parallela, spes­so e volentieri antagonista rispetto al mondo. A Leonardo, invece, è toccata l’esperienza del­l’ingresso in una Chiesa postconciliare dove molte cose sono mutate, dove è stato operato ogni genere di cambiamento e di apertura e che ha conosciuto rilanci e al contempo crisi, incer­tezze, travagli fra antico e nuovo. Una Chiesa che, in pochi anni, ha conosciuto fra l’altro la più grave emorragia di sacerdoti e di religiose della sua storia due volte millenaria. Se i pareri diffe­riscono e i bilanci degli effetti del Vaticano Il non sembrano ancora praticabili, una cosa almeno ècerta: nel bene o nel male che sia, è una Chiesa assai diversa da quella in cui anche Leonardo èstato battezzato. Un problema, per lui? No, non è affatto un problema, mi dice deci­so. Come a ogni convertito, non gli interessano quelle dispute clericali, quelle contrapposizioni su come riformare l’istituzione ecclesiale che in questi decenni hanno dilaniato chi già era “den­tro” e poteva permettersi di gettare tempo ed energie per simili problemi. Nella Chiesa, lui cercava innanzitutto i sacramenti: il perdono dei peccati, il nutrimento dell’eucaristia; qui, si attendeva di sperimentare la testimonianza del­la carità fraterna. Questo l’essenziale che, grazie a Dio, non è venuto meno. In ogni caso, la sua reazione alla situazione che ha trovato nella Chiesa, entrandoci, è tipica della prospettiva cattolica, con la sua fiducia nel successore di Pietro, vicario di Cristo stesso in terra: «Con un papa come quello che abbiamo, come si può parlare di crisi? A me basta seguirlo, mi fido del suo Magistero e lascio agli specialisti tante teorie e interpretazioni. Te lo dicevo: rifug­go dalle complicazioni, non amo tutte le proble­matiche sollevate da certuni. Il vangelo, ai fedeli come me, appare chiaro e semplice, almeno per ciò che considero essenziale. A proposito del pa­pa: ricordo quando sui giornali capitava di rado di leggere qualche informazione che riguardasse la Chiesa. E invece, ora non c’è parola o iniziati­va di Giovanni Paolo Il che non sia rilanciata e commentata dai media: la Buona Notizia è tor­nata a fare notizia. Che crisi è, allora? Ma poi, se ho qualche problema mi rileggo il Catechismo che proprio questo pontefice ha voluto e che conferma, seppure in un linguaggio adeguato all’oggi, la Tradizione di sempre. Non dimenti­cando mai che, nella Chiesa, nessuno è solo, non si vive una fede individualista: la direzione spi­rituale da parte di un sacerdote “sicuro” serve anche ad aiutarci per seguire senza errori né de­viazioni la rotta della fede». ·  Quella sua direzione spirituale, non lo dimenti­co, è affidata a un’Opus Dei di cui mi sono ben note la solidità e la stabilità. In questa mitica Obra non c’è mai stato posto non si dice per una impensabile “contestazione”, ma nemmeno per quegli esperimenti spericolati, per quelle inter­pretazioni azzardate dei documenti conciliari che hanno segnato i primi vent’anni dopo il Vaticano Il e che hanno portato non pochi istituti religiosi a rischio di estinzione. Tra le scoperte che feci, quando indagavo sul­la Prelatura, ci fu pure questa. Negli anni Settan­ta e Ottanta si succedettero vari catechismi ad ex­perimentum: ogni Conferenza episcopale, cioè, pubblicava dei testi, dichiaratamente provvisori, che tentavano nuove sintesi della dottrina catto­lica alla luce del rinnovamento conciliare. Sol­tanto nel 1992 la Santa Sede diede alle stampe il testo, definitivo e normativo per le varie edizio­ni nazionali, del Nuovo Catechismo. Ebbene, da quanto scopersi, solo allora nell’Opus Dei si ces­sò di fare riferimento ai catechismi preconciliari: quello di Trento e quello detto di san Pio X. Si era lasciato, cioè, che si esaurisse la stagione con­fusa degli “esperimenti”, continuando a basarsi, in attesa di documenti ufficiali della Chiesa ro­mana, su un testo “vecchio” ma che il Concilio non aveva certo abrogato. Insomma, in mani come quelle dei discepoli di monsignor Escrivà de Balaguer neppure un convertito della fine del ventesimo secolo ri­schiava di entrare nel vortice dell’insicurezza anche dogmatica che per qualche tempo è sem­brata contrassegnare (e, forse, ancora contrasse­gna) taluni ambienti cattolici. Quelli per i quali il Vaticano Il non fu semplicemente il ventunesi­mo concilio ecumenico della storia della Chiesa ma un nuovo, mitico inizio, una frattura nella continuità della storia ecclesiale. Viene da una formazione alla fede come quel­la che ha avuto la ventura di incontrare la tran­quillità che constato in Leonardo, il quale, fra l’altro, giusto a proposito ditemi contestati, pre­vedeva di dedicare un capitolo del suo “vade­mecum” addirittura al celibato sacerdotale. Pun­tualizza: «Il sacerdozio è in crisi, mi dicono in tanti, perché il prete non sa più rispondere alle sfide del mondo contemporaneo. Il motivo? Non essendo sposato, non ha l’esperienza di vita fa­miliare e sociale che gli permetterebbe di cono­scere meglio le esigenze dei fedeli e quindi di esercitare in modo più efficace il suo ministero». Anche qui, invece che a considerazioni teori­che, fa appello alla sua concreta esperienza di vi­ta cristiana: «Per quanto constato, questa è un’o­biezione che non trova conferma. Conosco molti sacerdoti che vivono liberamente e serenamente il loro celibato. E che, avendolo scelto come voca­zione, si sentono, e appaiono, pienamente realiz­zati sia come uomini sia come ministri di Cristo. Mi rendo conto che vivere una simile chiamata nella nostra società non è facile. Tutto sembra congiurare contro il celibato: dalla vita sempre più secolarizzata e edonista, al bombardamento mediatico, alle analisi di quei sessuologi e antro­pologi secondo i quali la scelta della castità sareb­be addirittura una sorta di masochismo dannoso alla salute, sia fisica che psichica. Quando affron­to questo tema con dei preti amici, di solito mi sento rispondere senza analisi sociologiche né citazioni scientifiche: “Ci siamo dedicati intera­mente a Cristo, ‘scandalo e follia secondo il mon­do’, come dice san Paolo e, sulla sua parola, cer­chiamo di vivere la nostra chiamata, celibato compreso, nel modo più positivo possibile”. E, cioè, come testimonianza a Dio e come disponibi­lità totale per gli uomini». Parole semplici, come si vede. Ma importanti, perché frutto di incontri positivi. Lo confesso, vi trovo conforto. Mi confermano che, malgrado tutto, ci sono ancora persone e ambiti che non deludono le attese, in questa vecchia Catholica, apparentemente così acciaccata, ma, per chi la conosca davvero – e dall’interno -, ricca di una vita che sempre si rinnova. Comunque, pure Leonardo fa parte della schiera numerosa di quei laici che non riescono a capire perché certi sacerdoti, oggi, pretendano di essere “come tutti gli altri”, a cominciare dai mo­di, dalle espressioni, dal vestito. Anch’egli – co­me tanti, fra noi – li vuole, al contrario, “diver­si”, testimoni subito riconoscibili del mistero del Cristo che è entrato nella storia, che l’ha presa interamente su di sé, ma che ha raccomandato ai suoi di essere «nel mondo ma non del mondo». Di gente come noi, ne abbiamo fin troppa. Ciò di cui abbiamo bisogno è di qualcuno che, segnato dall’enigma dell’ordinazione sacerdotale, non sia come noi ma sia strumento (seppur sempre inadeguato, com’è di ogni condizione umana) attraverso il quale passi l’amore, il perdono, il conforto del vangelo. La Chiesa, secondo lui, dovrebbe utilizzare meglio le sue risorse, a cominciare da quelle me­diatiche. L’«Osservatore Romano», ad esempio: «È il quotidiano della Santa Sede, dunque della “multinazionale” più antica e ancor oggi più estesa e ramificata del mondo, con occhi e orec­chie ben aperti in ogni angolo della terra. Quel giornale, che avrebbe potenzialità immense, che potrebbe sbaragliare qualunque “Herald Tribu­ne”, il quotidiano attualmente più diffuso a livel­lo internazionale, continua ad avere una circola­zione limitata, quasi solo fra addetti ai lavori. Lo confesso: mi piacerebbe mettere la mia esperien­za di editore al servizio di un progetto del ge­nere». Ma non è soltanto editore, è anche fortunato organizzatore di importanti mostre d’arte, alcu­ne delle quali hanno fatto epoca, in sedi presti­giose e con clamorosi riscontri di pubblico. Ecco allora che quella sua voglia di fare, di “rendersi utile”, si indirizza pure in questa direzione: «Da tempo sto cercando di convincere alti prelati, funzionari vaticani, autorevoli laici cattolici del­l’opportunità di organizzare una grande mostra sulla Bibbia. L’idea è questa: far vedere come i maggiori artisti dell’umanità abbiano illustrato il Nuovo Testamento, dall’Annunciazione all’A­scensione di Gesù al cielo, sino alla Pentecoste. Una simile esposizione, che dovrebbe chiedere collaborazione ai maggiori musei del mondo, confermerebbe come, per oltre mille anni, il van­gelo sia stato il perno, il cuore, il motore della cultura. Altro che cristianesimo oscurantista! Un ulteriore obiettivo dell’iniziativa sarebbe aiutare il Santo Padre a realizzare il suo desiderio di rendere più stretti i rapporti con l’Oriente cri­stiano, così che la Chiesa – come dice – possa tornare a “respirare con entrambi i polmoni”. Nella mostra, infatti, sarebbe ben presente l’ap­porto straordinario dato alla storia della cultura non solo dal cattolicesimo ma anche dall’arte greco-slava». A proposito di cose da fare (o da non fare), c’è chi èconvinto che l’indirizzo delle strategie culturali sia determinato, oltre che dal mercato, pure dalla pressione di lobbies piùo meno occulte. I dietrolo­ gi ne sussurrano i nomi: massonica, ebraica, per­sino omosessuale… Ebbene: la Mondadori, mas­simo gruppo editoriale italiano, uno dei maggiori in Europa, dovrebbe essere tra i luoghi preferiti per simili, segrete manovre. ta risposta è netta: «Anch’io, ovviamente, ne ho sentito parlare. Ti do però la mia parola che, in trent’anni di lavoro, non me ne sono mai accorto, che mai mi è sembrato che qualcuno fosse influenzato occultamente da qualcun altro». Parole che confermano anche la mia convin­zione, nata da un’ormai lunga esperienza: i miei testi, anche talvolta “cattolici” sino alla provoca­zione, non sono stati mai rifiutati da laicissimi editori. Al contrario, sono questi che, sempre, li hanno sollecitati per i loro cataloghi. Né, una volta pubblicati, hanno mai subito boicottaggi o altre forme di ostilità, nella complessa e delicata catena che va dalla redazione, alla stampa, alla distribuzione, alla libreria, sino al lettore. E que­sto, ne sono certo, non per edificanti motivazio­ni di tolleranza, di rispetto, di pluralismo ma, vivaddio, per il sano interesse concreto di cia­scuno. In effetti, il rètore che si scandalizza che il libro sia considerato come un “prodotto” fra gli altri, e che fa il moralista verso quella che chiama 1′ “in­dustria culturale”, non tiene conto di un vantag­gio non irrilevante. Quando le ragioni economi­che sono prevalenti (com’è doveroso per un’im­presa privata qual è una grande casa editrice) scompaiono le preclusioni ideologiche. Dunque, la sacrosanta attenzione ai bilanci fa si che, quale che sia il contenuto di un libro – foss’anche intol­lerabilmente cattolico -‘ esso sarà pubblicato, purché abbia una ragionevole possibilità di ven­dere un numero di copie sufficiente a ripagare le spese e, magari, a portare qualche utile. Ogni titolo, al pari di ogni oggetto posto in vendita, non è che un’offerta che deve intercetta­re una domanda. Proprio perché ben conscio di questo, mai mi sono illuso che quanto sostengo nei miei libri susciti l’adesione convinta dei miei editori, né metto in conto ragioni di simpatia umana che li spingano a offrirmi ospitalità nelle loro collane. So bene, da realista, che le ragioni che prevalgono sono quelle di bilancio; che ciò a cui si mira, cui si deve mirare per non chiudere, è il superamento della soglia critica fra spese e ricavi. Dunque, l’ingresso della “cultura” nel de­precato mercato può rivelarsi un fattore di li­bertà: the open society, la società aperta cara a Karl Popper (e, per quanto conta, cara anche a noi due che in masseria conversavamo), passa anche dal libro, considerato come prodotto dal quale ricavare un giusto utile. Se questo mancas­se, ecco mtervenire i politici e altri “mecenati” e “finanziatori”, sospetti e inquietanti. È proprio con i bilanci in rosso, e non con un’industria edi­toriale con i conti a posto, che la libertà culturale è in grave pericolo. Naturalmente, però, queste considerazioni che facemmo tra noi accrebbero lo sconforto per certa irrilevanza, nel “giro” che conta, della presenza cristiana. Se questa, da tempo, non appare, o ap­pare in modo episodico, sul grande palcoscenico del mondo, non è per qualche “congiura”, come spesso si sospetta, a fini consolatori, in ambiente cattolico. La colpa non è di inesistenti gruppi di cattivissimi “complottardi”, ma della debolezza, della timidezza, spesso della inadeguatezza di quella proposta. Un’offerta debole, insomma, in­capace di suscitare un’attenzione tale da non mandare in perdita lo sventurato editore. In ogni caso, ne convenimmo, c e qui un moti­vo in più per dedicarsi a un esercizio di cui i cre­denti dovrebbero avere qualche pratica: l’esame di coscienza.
IV
E poi, a un certo punto, ci mettemmo a parlare di soldi. Era inevitabile: dovevamo pur farlo, prima o poi. In effetti, stando all’immaginario corrente, a ogni conversione dovrebbe seguire, immancabi­le, 1′ “effetto san Francesco”: una spettacolare ri­nuncia ai beni, la vendita di ogni avere a favore, di preferenza, di cause in quel momento politi­camente corrette, infine tutto il resto della vita in povertà. Come l’uomo d’Assisi, ma anche come l’albanese di Calcutta, madre Teresa: non solo poveri, e meglio ancora se mendichi, ma anche dedicati interamente a cause benefiche. E invece, eccoci qua a parlare di Gesù Cristo seduti su confortevoli divani, nel grande sog­giorno di un’antica masseria signorile ristruttu­rata con molta cura. E, ovviamente, con altret­tanta spesa. Nessuno di noi due, poi, indossa tele di sacco né ha sandali sui piedi scalzi, in questo inverno impietoso. E neppure, terminato di parlare, ci affaccenderemo attorno a un paio-lo per prepararci una zuppa di erbe, ma atten­deremo di essere convocati da una domestica che, mentre noi conversiamo, sta cucinando semplici ma sapidi piatti pugliesi. Tornati poi, tra qualche giorno, alle nostre case padane, non fasceremo piaghe, né ci aggireremo nottetempo per salvare dal racket mafioso schiave del sesso, ma continueremo il nostro lavoro tra libri e gior­nali. Oddio, non si pensi, per questo nipote di Ar­noldo, a un re Creso. Resta però il fatto che non è per nulla indigente, grazie anche a uno stipen­dio adeguato alla responsabilità della presiden­za di un grande gruppo industriale. Ma allora, Leonardo, come la mettiamo con questa faccenda di fede e di denaro? La sua risposta non è quella di chi sia tormen­tato da un complesso; anzi, è una risposta serena e sicura, pur priva di arroganza: «Naturalmente, mi interrogo con sincerità, per essere sicuro di non crearmi degli alibi o delle scuse. Sono però convinto che il problema non sia quello della ric­chezza ma quello della libertà davanti a essa. C’è chi ha come scopo il far soldi. E c’è chi, pur fa­cendo bene il suo mestiere – e, dunque, ricavan­done, legittimamente, un guadagno -, non li considera il fine della sua vita. E non dimentica mai che, di per sé, il denaro è – come dire? – neu­tro: può servire a compiere del gran male ma an­che del gran bene. Può essere impiegato per fini egoistici o può essere messo, per quanto è giu­sto, a servizio degli altri. In ogni caso è necessa­rio il distacco: farsene un servo, non un padrone. Poiché mi sforzo affinché sia così, non ho proble­mi di coscienza, non mi propongo di cambiare mestiere né di rinunciare all’emolumento che vi corrisponde. Il mio confessore me lo ripete spes­so: “Sei in una condizione privilegiata, tuo dove­re non è rinunciarci, bensì utilizzarla al meglio per il bene”». Il fatto è che Leonardo Mondadori è guidato sui sentieri della fede da un direttore spirituale di quell’Opus Dei il cui fondatore ripeteva: «Di cento anime, a noi ne interessano cento: quella del campesino delle Ande come quella del ban­chiere di Wall Street». Anche a quest’ultimo – al finanziere, cioè – monsignor Escrivà era pronto a raccomandare di pensare a tutto, tranne che a la­sciare la sua banca. Anzi, se accettava il vangelo, diventava per lui un dovere anche spirituale tendere alla santità non fuggendo dalla sua pro­fessione ma, al contrario, sforzandosi di diventa­re il migliore, il più stimato dei banchieri. E dun­que, come logica conseguenza, probabilmente pure il più ricco. Propositi e raccomandazioni, questi del santo aragonese, che dovrebbero essere ovvi per qua­lunque cristiano. Il Nuovo Testamento stesso in­dica il programma per coloro che hanno beni in questo mondo. È nel finale della prima lettera di Paolo a Timoteo: «Ai ricchi raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sul­l’incertezza delle ricchezze ma in Dio… di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per ac­quistarsi la vita vera». Siamo, come si vede, ben lontani dal dovere (almeno per tutti, salvo particolari chiamate) di lasciare ogni cosa, ma ci troviamo davanti all’e­sortazione a usare quelle “cose” per i fini benefici che l’apostolo indica con chiarezza. E, invece, la non esclusione di alcuno dalla vita cristiana, nep­pure dei banchieri, da parte di maestri di spirito alla Escrivà de Balaguer, pur elevati dalla Chiesa all’onore degli altari, suscita resistenza se non ad­dirittura scandalo in vasti settori cristiani, toccati da un sospetto di demagogia che sembra avere poco a che fare con il vangelo. Quello autentico, non quello rivestito, magari inconsciamente, da categorie comunisteggianti, con il loro materiali­smo, secondo il quale non ci sarebbe altra povertà se non quella economica. Di questo, dunque, Leonardo e io abbiamo parla­to piuttosto a lungo: era opportuno, vista l’incro­stazione, qui, di equivoci sentimentali e di pre­giudizi ideologici, se non di letture incomplete della Scrittura stessa. Mi è sembrato che valesse la pena di annotare almeno qualcosa di quei no­stri discorsi, non irrilevanti per chi si interroga sulla fede e le sue conseguenze. In effetti, come il mio interlocutore mi confermava, davanti a una predicazione populistica che ancora oggi – e da molto tempo – viene anche da certi settori cattoli­ci, sono molti coloro che esitano sulla porta, chie­dendosi se e come la loro condizione sociale non indigente possa accordarsi con lo status di cre­denti. Più di un secolo di propaganda marxista ha lasciato le sue tracce inquinanti anche su non poca pastorale corrente. I muri di tutte le Berlino sarebbero crollati in­vano e la memoria di decine di milioni di martiri disprezzata, se non si procedesse a far pulizia. Non si tratta, naturalmente, di mettere d’accor­do in modo furbesco Dio e Mammona, ma di cercare di fare verità sul significato della Rive­lazione, così come fu intesa e praticata nella Chiesa per diciotto secoli prima delle ideologie collettiviste. Di riscoprire, cioè, la prospettiva cristiana di quando il clero non metteva al ban­do nessuno, quale che fosse quella che oggi chia­meremmo dichiarazione dei redditi; né praticava “opzioni preferenziali” per alcuna categoria sociale ed economica, tutti considerando figli dello stesso Dio e tutti esortando al distacco, alla libertà dalle cose, alla generosità verso i fratelli più bisognosi. In ogni caso, chiunque legga il Nuovo Testa­mento senza paraocchi ideologici, non può non essere d’accordo con Oscar Cullmann, uno dei più grandi biblisti e teologi protestanti del seco­lo ventesimo (e del tutto insospettabile perché classificato di “area progressista”, se proprio si vogliono usare questi schematismi di origine po­litica): «Gesù non chiama i poveri alla rivolta bensì i ricchi alla solidarietà». Il delirio marx-leninista, del quale parteciparono settori clericali ingannati dalle sue apparenze “evangeliche”, fu il più disastroso e sanguinano, ma non fu il primo. Nei secoli, la Chiesa cattolica ha dovuto fronteggiare di continuo movimenti ereticali invasati dall’ossessione pauperista. Se in passato, però, quell’ossessione aveva motiva­zioni ascetiche, spirituali, a partire dall’Ottocen­to, sino a noi, è mossa da ragioni politiche, come mostrano certe teologie dove – più che l’amore per i poveri – sembrano risuonare l’odio e l’invi­dia per i ricchi. Sempre il Magistero ha dovuto combattere utopie di estremisti o propagande di ideologi di­mentichi della complessità cristiana, dove tutto va accordato con tutto e dove la caratteristica che ovunque domina è l’equilibrio dell’et-et, mai la disarmonia dell’aut-aut. Per stare al denaro, esso può essere sia un pericolo sia un’opportu­nità, sia un ostacolo alla salvezza sia un mezzo per procurarsi grandi meriti. In effetti, la vita cri­stiana altro non è che seguire il Cristo, sforzan­dosi di imitarlo: «Quello che ho fatto io, fatelo anche voi» è il programma che ha lasciato ai suoi. Ebbene, rileggendo il vangelo, si scopre che non hanno alcuna base le rappresentazioni troppo frequenti di un Gesù indigente se non miserabile. Un proletario, per dirla, appunto, al­la marxista. In realtà, colui che per i credenti è il Messia annunciato dai profeti d’Israele non appartene­va ai ceti più bassi ma alla classe media, certo non disagiata. Il termine greco con cui i vangeli indicano la professione di Giuseppe, tékton, è tradotto quasi sempre con “falegname”, ma (tut­ti i biblisti sono d’accordo) significa in realtà qualcosa come  l’imprenditore, ti­tolare di un’azienda per la costruzione, più che di mobili, di serramenti e di attrezzi in legno. Da san Giustino martire, palestinese e lontano pa­rente di Giuseppe, sappiamo che il laboratorio di costui era rinomato, non solo a Nazaret ma in tutta la Galilea, soprattutto per la costruzione di aratri in legno e gioghi per buoi. Produzione specializzata, dunque, con conseguenti buoni ri­cavi. È in questo ambiente sottratto alla povertà da un’operosità intelligente che Gesù trascorse i suoi primi trent’anni. Quanto alla pur nobilissima poesia pauperista del presepe (non a caso “inventato” da Francesco d’Assisi, con la sua personale vocazione all’in­digenza: una chiamata preziosa, questa sua allo spogliamento radicale, ma che sarebbe erroneo generalizzare), quanto, dunque, alla nascita a Be­tlemme in una grotta, per mancanza di mezzi economici: be’, questo è certo commovente per bambini, anime belle e predicatori popolari. Una simile lettura, però, ignora la precisazione di Lu­ca: se Maria e Giuseppe erano lì, probabilmente in una stalla (si parla di «mangiatoia») che servi­va, in emergenza, da dépendance del caravanser­raglio, è perché «non c’era posto per loro nell’al­bergo». E non c’era posto non perché la coppia venuta dalla Galilea non avesse denaro, ma per­ché – è lo stesso evangelista che lo precisa – la pic­cola Betlemme era affollatissima da gente venuta per il censimento. Neppure dovette essere miserabile l’esilio in Egitto, per sfuggire a Erode. Qui siamo informati da Matteo, che ci racconta degli enigmatici «Magi venuti dall’Oriente» per venerare il bam­bino e che «aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra». Poiché non si dice che quei regali principeschi siano stati rifiutati dai genitori di Gesù (da qùelle parti e in quel tempo, fra l’altro, un rifiuto sarebbe stato offen­sivo) né che siano stati dati ai poveri, è ovvio pensare che il denaro ricavato dalla loro vendita abbia sorretto con larghezza il soggiorno sulle ri­ve del Nilo. Sono sempre i vangeli che si premurano di infor­mare che il loro Protagonista non fu un misera­bile, e nemmeno un povero, neppure durante la vita pubblica. Ecco in Luca una precisazione spesso taciuta dalle letture demagogiche: «In se­guito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale era­no usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cu­sa, amministratore di Erode, Susanna e molte al­tre, che li assistevano con i loro beni». Facoltose, devote signore, dunque, che al Pro­feta che le aveva affascinate e beneficate non fa­cevano di certo mancare nulla, grazie a quei «lo­ro beni» che dovevano essere cospicui (si noti, fra le altre, la moglie dell’intendente, una sorta di primo ministro, del ricchissimo tetrarca Erode Antipa). Sta di fatto che la comunità dei dodici apostoli e dei settantadue discepoli non mendi­cava né viveva giorno per giorno, ma aveva un’amministrazione, di cui Giuda Iscariota era il cassiere. Quella cassa, precisa Giovanni, serviva per le spese delle feste religiose come la Pasqua e per far elemosina a quelli che – loro sì – davve­ro non avevano nulla. Quanto al lamento duran­te quella predicazione itinerante («Le volpi han­no le loro tane e gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»), va letto come testimonianza dello sradicamento, disu­mano in Oriente, dalla famiglia, dal dan, dal vil­laggio, e non come segno di penuria di denaro, vista l’assistenza delle benestanti benefattrici. Quanto agli apostoli, a parte ricchi esattori co­me Matteo, prevalenti fra loro erano gli artigiani e gli appartenenti a cooperative di pesca sul lago di Tiberiade, rinomato per l’abbondanza di pesce e dove buoni erano quindi i guadagni. Anche i di­scepoli, dunque, come osserva il grande biblista Giuseppe Ricciotti nella sua celebre Vita di Gesù (uno, fra l’altro, dei maggiori best seller monda­doriani), «dovevano appartenere alla classe me­dia e non certo al ceto del proletariato». Al momento di spogliare Gesù per la crocifis­sione, i carnefici si stupiscono dell’eleganza di quel condannato, che indossava un abito che oggi diremmo “firmato” e che, da fonti antiche, sappiamo essere un’apprezzata specialità della sua Galilea: «una tunica senza cucitura, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo». Un capo tan­to bello, certamente non da bisognoso, che, nota l’evangelista, i soldati non vollero rovinarlo, ta­gliandolo per spartirsi la stoffa, ma se lo giocaro­no ai dadi. Un abbigliamento consono, del resto, al prestigio sociale del Nazareno: tutti gli danno il titolo, altamente onorifico, di Rabbi, Maestro, e considerano un onore averlo ospite in casa, mentre i notabili stessi vanno da lui per consul­tarlo. Non miserabile, dunque, ma neanche di­sprezzato (come vorrebbe, qui pure, una certa predicazione), almeno sino alla catastrofe finale: quando, però, è proprio la sua condizione so­cialmente rilevante che porta il sinedrio a proce­dere solo per lui a un’eccezionale seduta nottur­na, presieduta dalla massima autorità religiosa in Israele. Giuseppe d’Arimatea, che mette a disposizio­ne la sua tomba di famiglia per il cadavere di quel suppliziato, era, dice Matteo, «un uomo ric­co», eppure «era divenuto anch’egli discepolo di Gesù». Marco aggiunge che non solo era ricco ma era anche una persona assai importante: «un membro autorevole del sinedrio». Luca defini­sce questo dovizioso notabile «persona buona e giusta». Non a caso, la tradizione cristiana ne fe­ce subito un santo. Al facoltoso Giuseppe d’Ari­matea si affianca, nell’opera pietosa della sepol­tura, un suo collega in autorevolezza sociale e potenza economica, quel Nicodemo che Giovan­ni dice «un capo dei giudei» e che, per onorare il Crocifisso, porta «una mistura di mirra ed abe di cento libbre»: sono quasi trentatré chilogram­mi di sostanze rare e costosissime che solo un vero benestante si poteva permettere. Del resto, le frequentazioni di Gesù con i ric­chi (naturalmente non soltanto con loro: non lo si dimentichi mai, per non cadere nella lettura opposta, e altrettanto sbagliata, a quella paupe­rista) erano cominciate sin dall’inizio della vita pubblica. In effetti, certo non era di indigenti, giudicando dai servi e dalla quantità di vino pregiato, il matrimonio di Cana a cui prese parte con la madre e che dovette svolgersi presso ami­ci o parenti. C’è, qui, un altro indizio del suo am­biente sociale benestante. L’atteggiamento non ostile, ma anzi amichevo­le verso tutti, ricchi compresi, è confermato con nettezza dall’episodio di Zaccheo, che Luca defi­nisce «il ricco capo dei pubblicani di Gerico». Pro­prio perché colpito dall’apertura di spirito di quel giovane profeta, che non lo tratta con la solita demagogia degli invasati religiosi, Zaccheo escla­ma: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri». L’altra metà, però, la conserva per sé; e doveva essere una somma ragguardevole, tale certamente da mantenerlo tra i più facoltosi di quella città, considerata una delle più agiate di Palestina. Eppure, Gesù non esita: «Oggi la sal­vezza è entrata in questa casa, perché anche Zac­cheo è figlio di Abramo». Così Luca. Miglior amico di Gesù, al di fuori della cerchia degli apostoli, è senza dubbio Lazzaro, al quale, dice Giovanni, «voleva molto bene», così come alle sorelle, Marta e Maria. Tanto il Cristo «lo amava» (così ancora l’evangelista) da fare per lui il più strepitoso dei miracoli: risuscitarlo a quat­tro giorni dalla deposizione nel sepolcro. Ora, Lazzaro era certamente di elevata condizione e la sua casa, dove il Maestro era spesso ospite, era a Betania, il sobborgo più elegante di Geru­salemme, essendo considerato una vera oasi di verde e di frescura nell’aspra Giudea. Se poi passassimo ai discepoli di questo Cristo amico sincero e benefattore pietoso dei poveri -ma che non maledice e neppure prende le di­stanze dai ricchi -‘ vedremmo (a parte gli apo­stoli, cui già abbiamo accennato) un Paolo che, davanti ai fedeli di Corinto, deve difendersi dai biasimi «per questa abbondanza che viene da noi amministrata». Si tratta probabilmente del ricavato delle elemosine: un’«abbondanza» che non può provenire da fedeli tutti miserabili. Nei saluti che chiudono le lettere dello stesso Paolo, appaiono spesso, accanto ad anonimi probabil­mente indigenti, nomi di facoltosi notabili. Il primo battezzato al di fuori della cerchia apo­stolica (e che viene designato per il battesimo ad­dirittura da una speciale apparizione angelica) èun ricchissimo etiope, «un eunuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori», come dicono gli Atti degli Apostoli. Nell’Oriente antico, “eunuco” non significava ne­cessariamente “evirato”, ma spesso indicava l’uo­mo di fiducia del re, anche se fisicamente integro. Sempre straricco, in ogni caso: questo, in effetti, se ne tornava in Etiopia non a piedi, da comune pel­legrino, e neppure su un asino o un cavallo, ma sul carro da viaggio personale, come voleva il suo alto rango. Carro lussuoso, sul quale non ha alcu­na remora a salire Filippo, l’apostolo “precettato” dall’angelo. Il primo battezzato tra i pagani è, in­vece, Cornelio, alto ufficiale della coorte Italica, ricco di servi e di attendenti e in grado di fare vi­stose elemosine. Ma, allora, come la mettiamo con il «cammel­lo» (o, forse, la gomena della nave: probabilmen­te c’è stato un equivoco nella trascrizione dei co­dici), il famoso cammello che più facilmente en­trerebbe nella «cruna dell’ago» (o la piccola por­ta per gli animali: forse anche qui non manca l’equivoco di traduzione) piuttosto che un ricco nel Regno dei Cieli? Tutta la Bibbia contiene cose apparentemente contraddittorie (è la legge dell’et-et) che vanno accordate tra loro: compito difficile, che non a caso il cattolico delega al Magistero. Come di­mostra la storia, ogni lettura solitaria, individualista della Scrittura porta fuori strada e, spesso, al disastro. Comunque, bisogna guardarsi dall’a­nacronismo, dal pensare cioè che i termini origi­nari del vangelo, vecchi di duemila anni e ritra­dotti dall’aramaico al greco, da questo al latino e infine alle nostre lingue volgari, avessero lo stes­so significato che hanno oggi per noi. Pur risparmiandoci le disquisizioni filologi­che, dobbiamo ripetere che non certo lo spiri­tualismo ma, al contrario, il nostro materialismo lega i concetti di povertà e di ricchezza innanzi­tutto alla carenza o al possesso di beni, appunto, materiali. Invece, in una prospettiva biblica, “povero” e “ricco” sono tali in una dimensione di cui noi, chiusi nella grettezza di chi non pen­sa che al denaro, non abbiamo neppure più il sospetto. Per la Scrittura (sia nell’Antico che nel. Nuovo Testamento) il termine “povertà” espri­me in primo luogo l’atteggiamento di indigenza spirituale e di umiltà davanti a Dio: “povero” e colui che ricorre al Creatore senza attribuirsi al­cun merito e confida solo nella Sua misericordia per essere salvato. “Povero” è colui che non si ritiene autosufficiente e che ha fiducia in Dio so­lo. È un atteggiamento spirituale che può convi­vere, purché ci si sorvegli (da qui le messe in guardia, gli avvertimenti severi di Gesù), anche con il possesso di beni materiali. Certo, occorre scegliere tra Dio e Mammona. Pu­re qui, peraltro, non cadendo nell’equivoco di una lettura ignara del fatto che Mammona non era (come molti credono) un sinonimo di “soldi” ma il nome di un idolo cananeo, cui andava l’a­dorazione dei pagani. L’ammonimento di Gesù, dunque, più che una condanna del denaro (che per lui è, lo dicevamo, da trattare con prudente diffidenza solo in quanto ambiguo, potendo ser­vire al meglio e al peggio) è un avvertimento se­vero contro l’idolatria dei beni terreni, un appello a recuperare la libertà e a riservare l’adorazione al Creatore, non al creato, foss’anche luccicante come i feticci d’oro. È comunque un altro, grave equivoco, favorito e strumentalizzato in questi decenni da certi set­tori clericali, la convinzione che la Chiesa primiti­va, quella di Gerusalemme, fosse “comunista”. Certo, nel quarto capitolo degli Atti degli Apo­stoli è scritto: «La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Basta, però, pro­seguire la lettura ed ecco, nel capitolo successivo, l’episodio di Anania e della moglie Saffira, rim­proverati e puniti da Pietro per avere ipocritamente frodato gli apostoli nella vendita di un ter­reno. Il capo degli apostoli ricorda il carattere del tutto volontario, e riservato solo a chi ne avesse la speciale chiamata, di quella messa in comune dei beni: «Prima che lo vendeste, il campo era vostro e anche dopo averlo venduto potevate benissimo tenere il denaro per voi». Senza per questo, ag­giungiamo noi, essere seguaci meno fedeli di quel Gesù che disse si «Beati i poveri», ma ag­giungendo (cosa che oggi raramente si ricorda) «in ispirito». Beati coloro, cioè, che possono avere anche dei beni – il vangelo stesso, lo vedemmo, ne ricorda molti e assai cari al suo Protagonista -ma che ne sono distaccati, non ripongono in essi la loro fiducia. Nella prospettiva davvero religio­sa, non inquinata da categorie politiche moderne, vero miserabile è il peccatore, colui che meno èricco di una Grazia divina che, per giunta, nem­meno desidera e cerca. Solo nelle favole edificanti che si raccontano tra loro quelli che vorrebbero fare del vangelo un manuale del rivoluzionario o del sindacali­sta, il “povero” di beni materiali è sempre buo­no, generoso, solidale, accetto comunque a Dio per il semplice fatto che la sua borsa è vuota. In realtà, nella prospettiva evangelica, ci sono po­veri “cattivi”: quelli, ad esempio, della folla che al Nazareno preferì Barabba o i servi del Sommo Sacerdote che lo sputacchiarono e schiaffeggia­rono o gli anonimi passanti che lo insultarono già sulla croce. E ci sono ricchi “buoni”, come i tanti che beneficarono Gesù stesso, di cui egli fu amico, e i tanti che la Chiesa iscriverà nel suo ca­none dei beafi e dei santi, molti dei quali furono addirittura re e principi o comunque “grandi” anche secondo il mondo. Il peccato, cioè la miseria vera, minaccia tutti, quali che siano le condizioni economiche. Dun­que, sempre in questa prospettiva che travalica le moderne e superficiali categorie sociologiche, ci sono poveri che sono ricchi e ricchi che sono po­veri, povertà e ricchezza non essendo misurabili secondo le categorie grossolane degli ideologi. Il Dio cristiano non guarda al portafoglio, che può essere pieno o vuoto, ma al cuore, che può essere aperto o chiuso, indipendentemente dalle dimen­sioni del borsellino. E un cuore (mi pare di poterlo dire senza violare la sua riservatezza che, qui, egli vorrebbe che si facesse impenetrabile), è un cuore che non sem­bra mancare nell’interlocutore che ho di fronte. Quando gli ho chiesto quale fosse il “vizio capi­tale” da cui meno si sentisse minacciato, non ha esitato: «Credo proprio che sia l’avarizia!». Co­me non lesinava il denaro, prima, per capricci e piaceri, pare che non lo lesini, adesso, per altri, ben diversi scopi. Comunque, solo incalzato dalle mie doman­de, attenuerà un poco il riserbo, indicandomi al­cune cause verso le quali si indirizza il suo aiuto anche economico. Non farò nomi, anzi non ag­giungerò altro, fedele alla consegna di essere di­screto. Mi limiterò a confermare che non manca, nell’ormai cristiano Mondadori, l’intenzione di prendere sul serio tutte le parole di Gesù, com­presa questa: «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano. Accumulate invece tesori nel Cielo, perché dove è il tuo tesoro, là sarà pu­re il tuo cuore». Al di là del benessere di cui gode, insomma, in­crementare il patrimonio non è la sua ossessione, pur pensando (e sembra giustizia) all’avvenire di quei tre figli che le sue peripezie familiari hanno messo in una condizione particolare. Anche qui, soccorre la parola equilibrata di Gesù che, alla gente che gli chiede: «Che cosa dobbiamo fare per salvarci?», risponde: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha». Una, dunque: non tutte e due. Come fu, lo ricordammo, anche per Zaccheo. Mi dice, poi, di prendere sul serio la direttiva del confessore («Utilizza per il bene la tua condi­zione privilegiata»), mettendo le sue conoscenze facoltose e il prestigio del suo nome a servizio di cause meritevoli. Uno sforzo, dunque, per mobi­litare non solo le sue possibilità economiche ma anche quelle di altri imprenditori e grandi pro­fessionisti. Mi raccontano in proposito, in una certa Milano, ma anche in una certa Roma, che gli è riuscito, e gli riesce, una sorta di miracolo: ottenere, cioè, di far aprire pingui portafogli per gli obiettivi che gli stanno a cuore, senza farsi per questo (anche grazie a quei modi tanto tena­ci quanto affabili che furono pure del nonno) la fama di seccatore da sfuggire… Negli impegni benefici, peraltro, porta la con­cretezza dell’imprenditore, preferendo dunque i fini precisi, limitati, a quelli tanto vasti da risul­tare gratificanti nei dibattiti ma impraticabili nella realtà. Mi parla, fra le ultime mobilitazioni di cui si è fatto strumento, di una grossa forni­tura di siringhe monouso per il Mozambico: «Si è scoperto che, tra le cause dello spaventoso diffondersi di epidemie in quel paese africano (e, purtroppo, non in quello soltanto), c’è l’impiego della stessa siringa per più pazienti: la mancanza di mezzi non permette di fare diver­samente. Venuti a conoscenza di ciò, stiamo cer­cando di provvedere». Scopi concreti e controllabili, dunque. Anche perché, come si sa, certe cause “buoniste” di oggi provocano più guai di quanti non ne risolvano. · Gli ricordo una frase che ho sentito ripetere ne­gli ambienti dell’Opus Dei, dove la lingua franca è lo spagnolo, ai tempi in cui raccoglievo il mate­riale per l’inchiesta: «Sin beneficio, no hay benefi­ciencia», se non ci sono i beni, non si può far be­neficenza. Dunque, senza qualcosa che vada al di là delle primarie necessità economiche non c’è nulla da donare. Fra i massimi esempi di carità “materiale” proposti da Gesù per avere la vita eterna, c’è il buon samaritano della parabola ce­leberrima riportata da Luca. Ebbene, quell’uomo misericordioso nulla avrebbe potuto fare per il rapinato e ferito dai briganti se non fosse stato benestante e, dunque, se non avesse avuto una cavalcatura su cui caricarlo e poi i soldi («due denari», e non era poco, ma ne promette altri al ritorno) da dare all’albergatore per la cura e il ri­covero. Francesco si spogliò si, e radicalmente, di ogni avere, ma poi da lui nacque un ordine di frati detti, ufficialmente, “mendicanti” perché il loro sostentamento era assicurato dalle elemosine. E queste da dove sarebbero venute, se non da gente che non ebbe la particolare vocazione di France­sco e che, con il suo lavoro, guadagnò a sufficien­za non solo per mantenere se stessa e i suoi, ma anche per sostenere coloro che avevano fatto la scelta della povertà, contando sulla carità altrui? Nella logica cristiana, ciascuno è tenuto a ob­bedire, sino in fondo, alla sua chiamata. C’è quella che la Chiesa chiama ”vocazione alla per­fezione”: cioè un appello, riservato a pochi, a se­guire i cosiddetti “consigli evangelici”, codificati di solito come “castità, povertà, obbedienza”. Ma non è certo il solo modo per salvarsi: ogni cristiano che non si faccia religioso è tenuto a tendere alla santità vivendo il vangelo nella sua normale condizione, familiare e professionale. Proprio su questo insisteva Escrivà de Bala­guer, chiedendo ai suoi di testimoniare ciò che chiamava lo raro de no ser raro, la stranezza di non essere strani. Non, dunque, scelte e modi da stili­ta, da eremita o anche solo da frate o monaco per chi, come il dottor Leonardo Mondadori, sia un manager dalla cui attività dipende fra l’altro il destino lavorativo di migliaia di persone. Non di­menticando mai, peraltro, il doveroso distacco dai beni imposto dalla fede e del quale mi raccon­ta un esempio per tutti: «Già ti dicevo che la mia passione per il collezionismo a un certo punto ri­schiava di farsi ossessiva. Era diventata una sorta di cupidigia, soprattutto, per le stampe antiche. Vi gettavo molto tempo per la ricerca e altrettanto denaro per l’acquisto. Dunque, quando mi sono reso conto che, in questo modo, era in pericolo la mia libertà dalle cose, il mio distacco dai beni, non ho esitato: ho venduto tutto. Mai sarei potuto arrivare a una decisione così drastica – e così lace­rante: i collezionisti d’arte mi sapranno capire – se non per obbedire al precetto evangelico di es­sere liberi, poveri in ispirito e, dunque, di non mettere il nostro cuore nelle ricchezze e, in gene­re, nelle cose». Questa bella tenuta in cui siamo, mi dice, gli dà anche problemi pratici, oltre che spese. Se la con­serva, è perché la usa come luogo per attirarvi e radunarvi i figli (cosa che considera preziosa, ol­tre che doverosa), ma anche come strumento di apostolato. Ancora una volta mi ripete di augurarsi che i suoi non siano degli alibi, dei tentativi di giustifi­cazione. «I miei ospiti sono persone abituate al comfort e sensibili alla bellezza. L’accoglienza non può ignorare queste loro attese. Il mio confessore insiste su un principio che, nell’apostola­to, ho visto rivelarsi particolarmente efficace: è il simile che, con più efficacia, può evangelizzare il suo simile. Per i miei “simili” questo è un luogo adeguato. Poi, quando vengono qui (e qui si tro­vano a loro agio, in un ambiente a loro consono, quasi familiare) posso metterli in crisi, portando il discorso su quei temi religiosi che di solito non possono o non vogliono affrontare quando, in città, sono tutti presi dalle loro occupazioni e preoccupazioni. E sorrido un po’ ironico tra me, la domenica mattina, annunciando a tutti che va­do a Ostuni, in parrocchia, per la messa, e chie­dendo loro se, per caso, vogliono accompagnar­mi. Be’, devo dire che, se sulle prime sembrano sorpresi e un po’ sulle spine, non potendo non accettare, anche se io metto subito in chiaro che devono sentirsi completamente liberi… dopo, spesso, mi ringraziano, per un’esperienza che per molti di loro è nuova o, quantomeno, dimen­ticata e che provoca salutari riflessioni. Qui, sai, fra l’altro, la messa domenicale è davvero ancora una festa di popolo. S’intende, non sono tutti dei santi neppure a Ostuni, ci mancherebbe. Ma, in questo bel duomo (che, fra l’altro, con la splen­dida facciata gotica testimonia della bellezza che la fede ha ovunque ispirato), in questo duomo, dunque, pieno di uomini e donne di tutte le classi sociali, di tutte le età, si avverte una partecipazio­ ne, un calore, una spontaneità nella fede che col­piscono i miei ospiti, favorendo ancor più quelle riflessioni che ti dicevo.» Per citare ancora una volta una frase di Cam­mino: «Le mortificazioni devono mortificare noi, non gli altri». Dove c’è da notare quel «noi» che invece si può, che anzi si deve, mortificare. E a tal punto che, nel dossier di accuse contro l’Opus Dei, da parte di ambienti liberal e comunisti, spintisi sino a un’interrogazione al Parlamento italiano, ci fu il sospetto che si esagerasse in penitenze, affer­mando che l’Opera consigliava ai suoi pratiche “medievali” come il cilicio. Non si capi, in ve­rità, che cosa dovesse importare a quei politici, che costrinsero il governo a un’inchiesta, che delle persone adulte e responsabili facessero le penitenze che volevano. Checché ne sia di simili mortificazioni, resta indubbio che tra membri e simpatizzanti dell’O­pus Dei è seguito fedelmente, in materia, un al­tro ammonimento del vangelo: «E quando di­giunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti… tu, invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo che vede nel segreto». Non, dunque, spettacolare rinuncia ai beni ma distacco; una salvaguardia della propria libertà di fronte alle cose; non stile di vita eccentrico ma normale, nel rispetto del proprio status sociale: questa, mi fa capire Leonardo, la prospettiva cui cerca di adeguarsi nel suo percorso cristiano. Aggiunge: «Almeno per ora, sento che la mia vocazione è cercare di dare testimonianza so­prattutto all’interno del mio ambiente, con lo stile di vita che esso comporta. Resto però del tutto aperto al futuro e, dunque, a ispirazioni diverse che mi fossero donate. Ecco: per adesso credo in coscienza di dover continuare a vivere come vivo. Ma, se Dio mi darà tempo, tra qual­che anno potrei fare – che so? – come il dottor Schweitzer, che lasciò tutto e andò a curare la lebbra degli africani in un ospedale di capanne di fango. Per ora, coloro che praticano simili scelte cerco di aiutarli con il frutto del mio lavo­ro. Se un giorno la chiamata sarà diversa, prego per avere la forza di obbedire». Proprio parlando di uno schematismo ideologi­co che, oggi, continua a mietere vittime anche tra persone stimabili, di ottima volontà, ma che sembrano avere perso la virtù del realismo, gli parlai di un episodio recente, di cui era stato protagonista un parroco di mia conoscenza. Questi non perdeva occasione di tuonare dal pulpito, o dalle colonne del suo giornalino, con­tro il consumismo, esortando i suoi fedeli a una vita austera, che contrastasse il peccaminoso mercato con l’astensione, almeno, dai «bisogni superflui indotti dal capitalismo». Che i cristia­ni, tutti quanti, dessero un esempio di austerità severa nella vita quotidiana! Un giorno, però, la fabbrica di prodotti cosme­tici che sorgeva nel comune, e che da decenni garantiva il salario a decine di persone, annun­ciò di voler trasferirsi in un paese dell’Est, dove la manodopera è assai meno cara. Ecco, allora, che si vide quel pur ottimo prete ricominciare a tuonare: questa volta, però, contro i cattivi pa­droni che, con cinismo, senza cercare altre solu­zioni, volevano togliere il pane a tanti padri e madri di famiglia. Tutti addetti, peraltro, a fab­bricare costosi (nonché inutili e dannosi, stando al moralismo) prodotti di bellezza, tra creme, rossetti, profumi, ciprie e deodoranti. Quanto di più lontano, dunque, dall’essenzialità da pove­ro, dalla contestazione dei bisogni superflui pre­dicata dal parroco e quanto di più vicino, invece, al condannato ed esecrato consumismo… La vita, ne convenimmo, è più complessa di ogni schema. Il profetismo, pur necessario, del credente nel vangelo, la sua sacrosanta denuncia dei mali anche sociali, devono convivere con il realismo e con la consapevolezza che il Cristo ci ha promesso un mondo finalmente liberato da ogni contraddizione, sempre e comunque frater­no, senza più disuguaglianze, in pace perfetta. Ce lo ha promesso, sì, ma non per questa esi­stenza. Come dimostra l’esperienza tragica dei due ultimi secoli, ogni tentativo politico di co­struire il paradiso in terra si trasforma puntual­mente in un terribile inferno. E ogni tentativo re­ligioso di spingere tutti a vivere come monaci, dimenticando che a quella vocazione pochi sono i chiamati, non porta alla pratica della virtù ma, semmai, a quella dell’ipocrisia e poi della rivol­ta, o almeno dell’allontanamento da predicatori che pretendono ciò che Gesù stesso non ha pre­teso. Come dimostra anche qui, implacabile, l’e­sperienza della storia, dai Calvino ai Savonarola. Di questo parlammo mentre, in una pausa, sfidando il vento gelido, ci azzardavamo in una passeggiata nella proprietà, circondati dai cani che abbaiavano, pazzi di gioia per il padrone ri­trovato, mentre asini e cavalli tendevano il muso cercando una carota o, almeno, una carezza. Forse fu banale. O, forse, fu solo un impiego di quel common sense, di quel buon senso che è il vol­to umile, quotidiano – e prezioso – della ragione e che pure è troppo spesso dimenticato o spregiato. Ma, guardandoci attorno, riflettevamo tra noi: quella sua tenuta garantisce lavoro stabile ad al­cune persone e impegno periodico, ma ben retri­buito, a operai e artigiani necessari alla continua manutenzione; valorizza – con le sue colture di qualità ripristinate e curate – l’agricoltura locale; il va e vieni degli ospiti, pur nel suo piccolo, si­gnifica movimento di denaro per molte catego­rie: dai commercianti del caratteristico mercato al rigattiere, divenuto antiquario giusto per i fore­stieri, agli addetti agli aeroporti e alle autostrade; inoltre, proprio l’esempio di Leonardo Monda­dori, cui molti guardano considerando sicuro il suo gusto, ha lanciato in un certo “giro” una sorta di moda per la masseria pugliese, sino ad allora trascurata, mettendo in moto attività di ogni tipo e contribuendo così a un colpo di volano per una zona del Sud. Le briciole di Epulone per il povero Lazzaro? In coscienza, a me, vaccinato da tempo contro ogni cedimento agli estremismi del giansenismo (condannato, non a caso, come eresia proprio perché un aut-aut e non un et-et, come tutto ciò che è cattolico), a me non parve così. Lui, poi, ne era rassicurato dal pur austero e non certo lassi­sta direttore di coscienza, che gli ripeteva che il privilegio dello status economico e sociale non èuna colpa da rinnegare ed espiare, bensì un’op­portunità da far fruttare, in vista di quel rendi­conto finale chè scruterà «i cuori e le reni». Questa scuola di spiritualità che lo ha riportato al­la vita cristiana gli ha fatto dunque comprendere quale sia, davanti al denaro, l’atteggiamento del cristiano “normale”, non chiamato a una vocazio­ne particolare, da religioso con i voti. Dunque, non la demonizzazione bensì la libertà, il distac­co, la presa di distanza da ogni idolatria, l’obbligo di sovvenire non soltanto a sé ma anche ai biso­gnosi. Quelli veri, s’intende, essendo oggi dive­nuto difficile persino stabilire quali siano le po­vertà e i bisogni meritevoli di soccorso. Già lo osservavamo, a proposito dei disastri, o delle in­tollerabili ipocrisie, di tanti “buonismi” da cam­pagna pubblicitaria o da appello televisivo. Oltre a tutto questo, però, la prospettiva cui si ispira il suo confessore gli ha anche insegnato che il credente non deve avere paura neppure di accettare il successo professionale, il prestigio personale, se a questo (come quasi inevitabil­mente capita) lo porta il suo lavoro preso radi­calmente sul serio, in quanto visto come modo di santificazione. Anche su ciò, il beato Escrivà non aveva esitazioni: «Il tuo prestigio professio­nale è il tuo amo di pescatore di uomini». O, an­cora: «Devi essere consapevole che ti occorre l’ascendente del prestigio professionale per at­trarre e aiutare i fratelli in umanità». Aggiungen­do, addirittura, un drastico: «E Dio a volerlo!». Il prestigio, quindi, non come fine a se stesso o co­me motivo di vanità, ma come strumento di apostolato. Va subito precisato che il «prestigio», ottenuto con un impegno e una serietà che soltanto la mo­tivazione religiosa può dare, nguarda ogni lavo­ro, nessuno escluso: dunque, non solo quelli “importanti” secondo il mondo, di dirigente, im­prenditore, professionista, artista. Ci si può, ci si deve proporre di essere il migliore presidente di una grande casa editrice, ma anche il migliore dei tassisti, dei vigili urbani, degli operai, dei contadini, delle casalinghe o delle domestiche. Durante l’inchiesta che mi portò a scrivere il li­bro sull’Opus Dei, ebbi la sorpresa di constatare (grazie a incontri diretti, ma grazie anche alle sta­tistiche sulla condizione sociale degli aderenti) che la maggioranza, in questa “organizzazione disordinata” – come la chiamava il fondatore -, appartiene ai ceti medio-bassi. L’obiettivo, quale che sia il ruolo sociale, è uno solo, unica è la voca­zione: proporsi la meta della santità attraverso l’impegno temporale in cui ci sorprende la voca­zione a vivere integralmente il vangelo. Per dirla con il beato Escrivà: «Il lavoro più importante non è quello che occupa i primi posti nella classi­fica mondana, ma è quello svolto con più amore di Dio». Mi confessa, Leonardo, che, anche grazie a una simile prospettiva, la riscoperta della fede ha significato per lui un ulteriore motivo di gioia: «Ho sempre amato il mio lavoro. Ma ora so perché 10 faccio, so che spendervi tutte le mie energie ha uno scopo. So che il passare dei gior­ni non è un procedere verso la triste meta della pensione che, prima o poi, costringe tutti al riti­ro, macerandosi di nostalgia per il tempo ormai trascorso, per le occasioni che non torneranno più. So che cosa significhi una simile emargina­zione soprattutto per un dirigente, per un mana­ger, per chi, per professione, invece di subire de­cisioni, è chiamato a prenderne; con i rischi, la fatica, ma anche con la soddisfazione di agire sul mondo che ciò comporta. Ci vogliono decenni per fare un uomo, ed ecco che, quando – per esperienza, per conoscenze, per equilibrio con­quistati in tanti giorni di fatica – sarebbe davve­ro pronto a vivere, è ora di lasciare il posto ad al­tri. Ecco che è ora di ritirarsi, avendo come prospettiva soltanto il disperante buco nero del­la morte. “Buco” che invece, nella luce della fe­de, si riempie di una Speranza gioiosa». Gioia, d’accordo. Ma, con essa, pure efficacia concreta. Dice: «Mi baso, anche qui, non su teo­rie ma sulla mia esperienza precisa, in questi dieci anni: ho constatato che il calore, la serenità, il significato profondo irradiati su tutto ciò che si fa da un rapporto personale con Dio portano pu­re a risultati concreti». Insomma, un’ulteriore smentita (semmai ce ne fosse bisogno) alle sciocchezze marxiste – ri­sibili se non avessero portato alla tragedia che sappiamo – sulla “religione come oppio dei po­poli”, sul credente bloccato nel suo slancio per trasformare il mondo perché “alienato nei Cie­li”. Ma una smentita (per passare alla “destra”, dopo la “sinistra”) anche alle farneticazioni di un Nietzsche, «quel signore» come osservò Mal­colm Muggeridge, lo scrittore cattolico inglese, «che considerava i cristiani dei pazzi, ma che fu lui a finire nel reparto furiosi di un manicomio». Nietzsche, dunque, con le sue teorie – che il na­zismo prese sul serio – sul cristianesimo come «consolazione per i deboli, i falliti, gli impoten­ti», con le sue grida su un Gesù accettabile solo da frustrati, evirati, fanciulli e donnicciole. La replica sta non nei libri ma nell’esperienza, e non solo, ovviamente, di un Mondadori. Chi conosce davvero, e dall’interno, gli ambienti di religiosità autentica sa bene come la fede non spenga le energie ma le potenzi. La storia della santità ne è una conferma impressionante, piena com’è di uomini e donne che furono al contem­po mistici e gente d’azione, contemplativi e con­quistadores, persone di carità e di dolcezza e in­sieme coriacei avventurieri del bene. Ma, gli chiedo, come se la cava uno tanto cre­dente come lui, uno così desideroso di calare nella vita le convinzioni della fede, sulla poltro­na di presidente di una editrice che porta il no­me di famiglia, ma i cui libri e i cui periodici sembrano non di rado in collisione con le sue prospettive religiose? Sul suo tavolo si accumu­lano ogni giorno le novità editoriali e le copie appena stampate di settimanali e mensili: molti di quei titoli, tante di quelle copertine, non gli creano forse qualche problema di coscienza? «La nostra casa editrice» mi dice «non è mai stata e non vorrà mai essere di nicchia, che ospiti cioè pubblicazioni orientate in una precisa dire­zione politica o ideale. Ne discorro spesso con Maurizio Costa, il nostro amministratore delega­to, e concordiamo nella stessa prospettiva.» In effetti, ricordavo come la mamma di Leo­nardo, nelle memorie, rilevasse che il sogno di Arnoldo era fare della sua editrice quella di tutti gli italiani, così come sono, non di una parte sola di essi. Quell’uomo volle essere un editore di massa, un grande industriale della cultura al contempo “alta” e “bassa” (i Meridiani, cioè la Pléiade italiana, e i «Gialli», le riviste sofisticate e quelle di cucina), non un intellettuale elitario; un realista che fa i conti con il mondo così com’è, non un utopista che vuole cambiarlo secondo un suo schema. Mi conferma il nipote: «Proprio così: per tra­dizione siamo, e vogliamo restare, un’azienda davvero “ecumenica”, di informazione, aperta a 360 gradi, che faccia posto a tutte le idee e a tutti coloro che sanno esprimerle. A parte questo, non solo non ho alcuna velleità di censura ma, anche se per assurdo volessi esercitarla, non potrei nemmeno: come nel caso di tutti i presidenti, i miei poteri sono quasi esclusivamente di ester­nazione». In effetti, per limitarsi al campo religioso, nel catalogo Mondadori convivono, a parità di condi­zioni, testi di credenti e di increduli, di devoti e di mangiapreti. Com e giusto che sia, per un’azien­da come questa, chiamata – per storia e dimensio­ni – a informare, non a giudicare. La presenza di Leonardo, chiedo, ha comun­que un ruolo nella programmazione editoriale? «La mia funzione non è certo quella di bloccare fitoli, ma cercare piuttosto di suggerirne altri, da ospitare accanto a quelli che possono non con-vincermi. Una convinzione che, peraltro, resta a livello personale. Una sola volta sono intervenu­to: fu a proposito di una presunta inchiesta, do­ve il giornalista aveva ingannato la buona fede di preti ignari, andando a confessare peccati in­ventati per registrare le loro reazioni. Non io sol­tanto, ma anche i miei laicissimi dirigenti giu­dicarono la cosa non come un’interessante e simpatica trQvata, bensì come una canagliata in­degna di qualunque editore rispettoso del suo marchio. Non solo un oltraggio ai credenti e ai sacerdoti nell’esercizio del loro ministero, ma anche un precedente pericoloso per la libertà e la riservatezza di tutti. Così, anche su mio inter­vento, il libro fu bloccato. E l’autore dovette ri­volgersi altrove. Ma, ripeto, fu l’unico caso, e non penso affatto che si sia trattato di una censu­ra, quanto di un intervento del tutto “laico”, per­ché imposto dalla serietà e dall’onestà, oltre che dal buon gusto. Malgrado questo, non mancò in certi giornali qualche attacco velenoso, quasi che avessi attentato alla cultura, magari per tenermi buoni i preti… Poi, certo, sono talvolta infastidi­to dal dilagare, nei giornali, del pettegolezzo o dal nudo messo sempre e dovunque, con o sen­za pretesto. Ma pare che queste, oggi, siano le tristi regole del gioco.» Dunque, non ha mai pensato di lasciare la gran­de astronave di Segrate per creare una casa editri­ce secondo le sue convinzioni? «In questo mestie­re, se scendi dalla grande giostra non ci risali più. Quando, per un periodo, fui estromesso dalla Mondadori per la guerra in corso sul controllo azionario, fondai un’editrice cui diedi il mio no­me di battesimo: Leonardo, appunto. Mi resi con­to allora della difficoltà, se non dell’impossibilità, di incidere in qualche modo utilizzando strumen­ti inadeguati. Una volta, parlavo di quella mia fa­ticosa esperienza con Gianni Agnelli. L’Avvocato sorrise, dicendomi: “Capisco bene: se io lasciassi la Fiat, non sarebbe per aprire un garage, fosse pure elegante…”. Fino a quando me lo permet­terà la fiducia della proprietà starò al mio posto, convinto che gli aspetti positivi prevalgono su quelli negativi. Come dicevo, non intervengo mai – almeno per bloccare, qualche volta solo per pro­porre, e più come amico che come presidente -sulle scelte professionali dei direttori delle aree li­brarie o dei giornali. Ma sono convinto – ne ho avuto più volte esperienza – che sia positivo il fat­to che tutti sappiano che in casa editrice c’è, mal­grado tutto, un punto critico.» Realismo cattolico, insomma, anche qui: il pragmatico rispetto di una situazione che la pro­pria presenza può migliorare; lo scegliere il bene possibile, non nutrendo il sogno di un utopico meglio. Il bilancio ragionato dell’attivo e del pas­sivo, pure nella dimensione spirituale. Ma, come insegna la dottrina, il realismo è un dono della fede intesa correttamente. Anzi, con il nome tradizionale di “prudenza”, è la prima delle virtù cardinali che il cristiano deve sforzar­si di esercitare. Il catechismo a domande e risposte, quello che studiavano i ragazzini, andava dritto al nocciolo anche del problema cui vorremmo ora accenna­re. Andava dritto, senza giri di parole; e senza complimenti per nessuno. Del tutto diverso, dunque, da certi documenti di oggi che, prima di giungere al tema, srotolano pagine e pagine di sociologia, di teologia, di notazioni di cronaca e di riferimenti alla storia. Giunti poi alla questio­ne che dovrebbero trattare, accumulano spesso altre pagine, fitte di richiami in nota, dove si di­ce e non si dice, si afferma e si nega, e magari si finisce non con una risposta, ma con l’auspicio di “ulteriori approfondimenti” e rinviando a un documento successivo… Esasperiamo un poco, s’intende, ma è indubbio che anche nella Chiesa, come ovunque altrove, al­l’aumento delle parole si accompagna una paral­lela minore efficacia. Sono lontani i tempi in cui il Sant’Uffizio conosceva due sole espressioni per rispondere alle questioni di fede e di morale che gli venivano sottoposte dai vescovi di tutto il mondo: Licet e Non licet, è lecito, non è lecito. Così, semplicemente, senza spiegazioni, che ogni cre­dente avrebbe potuto scoprire da sé, rifacendosi alle due fonti della Rivelazione: la Scrittura e la Tradizione. Con quei lapidari verdetti la questio­ne era chiusa: Roma locuta, con ciò che segue… Il vecchio catechismo, dunque, aveva una ri­sposta di meno di venti parole a quella doman­da sul senso della vita cui solo la dimensione re­ligiosa può dare una risposta. Quel significato che è la vera, grande questione attorno alla qua­le gira da sempre, e sempre girerà, la ricerca in­quieta dell’uomo. Dunque, allorché si chiedeva: «Perché Dio ci ha creati?», la replica, secca ma a ben pensarci completa, era: «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita e go­derlo poi nell’altra, in paradiso». Il paradiso: dunque il doveroso richiamo alle cose ultime, all’aldilà. Quando Giovanni Paolo Il mi chiese di fargli qualche domanda, lasciandole alla mia iniziati­va, senza suggerirmi alcuno schema, sentii il bi­sogno di chiedergli perché la Chiesa, oggi «tanto loquace» su tutto, sembrasse spesso tacere «sul­l’essenziale: la vita eterna». Chiedevo allora, per venire al dunque: «Santità, paradiso, purgatorio, inferno esistono ancora?». Il papa neanche qui si scandalizzò, non si sottrasse alla provocazione: mi diede ragione sull’eccessiva “discrezione” (chiamiamola così) di certa pastorale, cercò di spiegarne le motivazioni, e alla fine confermò a chiare lettere che, sì, «paradiso, purgatorio, in­ferno esistono ancora, fanno ancora parte decisi­va di una fede che, senza la credenza in queste realtà, non sarebbe più tale». Leonardo Mondadori è tornato alla fede sotto la guida di chi – lo dicevamo -, in attesa di quel­lo definitivo, e garantito dalla Santa Sede, ha usato anche dopo il Concilio il catechismo tri­dentino. Quindi, la sua non è, non poteva essere una fede amputata, come spesso è oggi: tutta proiettata, dunque, sulla storia e dimentica del­l’eterno. In effetti, pure lui è stringato come il catechi­smo, e altrettanto efficace, quando mi riassume ciò che considera il “fine della vita”: «Vivere in pace con Dio amandolo con gioia e, avendolo amato, morire in pace in Lui». E si stupisce per­ché, attorno a sé, nel lavoro, vede «tanti che fan­no continue scelte nella prospettiva del loro in­teresse momentaneo e non si preoccupano dell’interesse vero, quello finale, quello eterno». Tra le parabole evangeliche che più ha presenti e che più lo inducono alla riflessione, c’è quella del padrone di casa il quale, partendo per un viaggio, dà a ciascun servo un compito da assol­vere. Con la morale che ne trae Gesù: «Vigilate, dunque, perché non sapete quando il padrone ritornerà! Vegliate, perché non torni all’improv­viso e vi trovi addormentati!». Gli ricordo che la sua stessa sorpresa fu e­spressa da Pascal in un pensiero famoso: «C’è il segno di un incomprensibile pervertimento nella preoccupazione degli uomini per le piccole, transitorie cose, e nella loro noncuranza per la sola cosa davvero grande, perché riguarda l’e­ternità». Anche se va riconosciuto che molti ri­muovono il pensiero di un possibile futuro al di là della morte non tanto (forse) per cattiva vo­lontà, quanto perché credono che il problema sia insolubile. Che si aspetta, Leonardo, dal traguardo finale di cui la Speranza lo assicura? Incasso una rispo­sta senza sconti, una dichiarazione di fiducia illi­mitata: «L’ingresso in un mondo di luce, dove il significato di tutto sarà finalmente chiaro. La li­berazione dai limiti che quaggiù ci impacciano, con la realizzazione completa delle nostre poten­zialità. L’amore finalmente senza limiti di tutti per tutti. La moltiplicazione senza fine di quella gioia di cui quaggiù ci è dato solo un piccolo, pallido, sempre minacciato preannuncio». Constato che, qui pure, il suo carattere positivo, lontano da tentazioni misticheggianti, non lo porta alle ossessioni “escatologiche”, alle fissa­zioni “mortuarie” che contrassegnano certi con­vertiti: «Alla morte, al giudizio, all’eternità pen­so ogni sera, pregando e facendo un esame di coscienza sulla giornata trascorsa. Vi penso, dunque, ma con serenità, consapevole della giu­stizia di Dio ma anche della Sua misericordia. E poi, ho il conforto di ogni Ave Maria, dove si ri­pete: “prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”». Le “cose ultime” – e, in particolare, le più in­quietanti – più che lui, credente, sembrano osses­sionare i non credenti che incontra. Non a caso, dei quattordici punti del suo testo per rispondere alle domande degli amici scettici, l’ultimo era de­dicato proprio a «Il diavolo e l’inferno». Di quella ossessione per il “diabolico” da par­te di sedicenti atei o agnostici non mi stupisco. Ne parlammo a lungo, il cardinal Ratzinger e io, durante i giorni del nostro incontro. Non è dav­vero sospetto che, ogni volta che un uomo auto­revole di Chiesa accenna, appunto, a inferno e diavoli (oggi succede di rado ma talvolta capita), dal mondo “laico” si levi un gran clamore, un coro di ironie, di sarcasmi, di battute per questo presunto revival di oscurantismo medievale? Un’inquietudine mascherata dietro le risate? Un esorcismo contro la paura in forma di sarcasmo? In fondo, sotto sotto, in ciascuno, ogni tanto, rie­merge la domanda: «E se poi, malgrado tutto, fosse vero?…». Reazioni “laiche”, comunque, sospette e squi­librate. In contrasto con l’equilibrio del credente, che sa che la promessa di Cristo riguarda innan­zitutto l’eternità di vita beata accanto a lui. Ma sa pure, il credente, che il paradiso non è un lager, non è una prigione, seppure dorata, dove sia obbligatorio entrare, dove si sia deportati anche se recalcitranti. Ci si va solo se lo si vuole. La libertà umana è rispettata sempre, sino a un possibile esito tragico e paradossale: il rifiuto ostinato dell’offerta di felicità; la scelta, sino al­l’ultimo, di dire di no all’Amore; la decisione in­somma (ché tale, misteriosamente, è) di optare per la lontananza eterna dal Padre. La scelta di “dannarsi”, per dirla in termini religiosi. Leonardo di questo è convinto: «L’inferno, in fondo, è la prova tragica della libertà che il Crea­tore ha lasciato alle sue creature. Libere sino al punto di scegliere il male eterno della lontanan­za da Dio piuttosto che il bene eterno». In lui, in ogni caso, rispunta sempre l’ottimi­smo del pragmatico: «Ma se noi, però, usiamo questa stessa libertà che Dio ci ha data fino a un minuto prima della morte per chiedere perdono, per una confessione vera, ebbene, ciò basta per riscattare una vita intera, anche carica di peccato e di male». Qualcuno, a proposito della Chiesa del passa­to, con la sua insistenza sulla morte e sulle inco­gnite inquietanti cui potrebbe dare accesso, ha parlato, con sdegno, di una “pedagogia della paura” che sarebbe stata praticata dalla pastora­le cattolica. Anche se così fosse, si potrebbe trat­tare, semmai, di una “pedagogia della pruden­za”: un po’ di salutare spavento non sarebbe me­ritorio per metterci in guardia dal rischio cui an­diamo incontro, giorno dopo giorno, con un’in-coscienza che solo i richiami forti potrebbero incrinare? Qualcuno, si sa, anche fra i teologi, si è spinto a ipotizzare che l’inferno esista, sì, ma che possa essere vuoto. Qualcun altro tuttavia ha messo in guardia, osservando che, anche se fosse vuoto, potremmo rischiare di essere noi a inaugurarlo, a popolarlo per primi. In realtà, almeno nel suo meglio, quella cattoli­ca, a proposito di “cose ultime”, è stata piuttosto una “pedagogia della speranza e della fiducia nel­la misericordia di Cristo”, come mi confermano anche le parole di Leonardo sulla possibilità di salvezza, per tutti, persino all’ultimo minuto. È il sensus fidei, che coglie d’istinto quanto Giovanni dice nella sua prima lettera: «Davanti a Lui rassi­cureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Perché Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa». C’è un capitoletto finale, come ho già ricorda­to, dal titolo «E dopo?», nel manoscritto del mio interlocutore. Sotto quel titolo, però, non c’è un testo. Ci sono solo un paio di versetti della lette­ra di Paolo ai Romani. Sono parole con le quali Leonardo ha cercato di riassumere il senso di tutto ciò che voleva dire e che, nella sua vita, af­ferma di sperimentare: «Ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cri­sto nostro Signore». Mi attende il volo verso casa, devo partire. Lui re­sterà ancora: è in arrivo una comitiva di amici e conoscenti da Roma. Gente nota, naturalmente, facce viste sui giornali o sui teleschermi. So che, quando i discorsi si attorciglieranno sul fatuo o scivoleranno nel solito pettegolezzo, il padrone di casa cercherà di indirizzarli verso i temi che più gli premono. Alcuni ne saranno interessati, altri parranno indifferenti, altri ancora freneran­no a stento gli sbadigli. Ma chi può sapere – mi ri­corda – quali effetti, magari a lunga distanza, può produrre nel segreto dei cuori una parola che, al momento, era sembrata irrilevante? Prima di lasciarci, scendiamo nella cappella della masseria, con la Madonna del Rosario che veglia nella sua nicchia sopra il piccolo altare. So che non è un caso se da queste parti la Vergine èvenerata soprattutto con la corona in mano. Que­sta fattoria, come tante altre della Puglia, è fortifi­cata, per cercare di opporsi alle incursioni dei pi­rati musulmani che per secoli sbarcarono sulla costa non lontana, massacrando, razziando, in­cendiando, trascinando in schiavitù i superstiti. La grande vittoria di Lepanto, che spezzò la pre­minenza islamica almeno nell’Adriatico, avven­ne nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa del Rosario. Quella statuetta è antica ma, mi viene da pensare, rinvia a scenari attuali, al ritorno dell’e­spansionismo aggressivo dei fedeli al Corano. C’è, in questa chiesetta, anche un’immagine del patrono locale, sant’Oronzo. Per quel che ne so, è tra i santi dell’antichità pagana di cui poco o nulla si conosce, se non l’essenziale: preferiro­no il martirio al rinnegamento della fede. Cri­stiani di diciassette, forse diciotto secoli fa. Ma sì, veniamo da lontano, noi per i quali Ge­sù non fu soltanto un predicatore ebraico vagan­te, uno dei tanti, nato sotto Augusto e giustiziato sotto Tiberio. Noi, per i quali quel Crocifisso non è un morto di cui parlare ma un Vivo al quale parlare. Abbiamo attraversato tutta la storia, partendo, con Abramo, dalla remota Ur dei Cal­dei, e siamo ancora qua: consapevoli, certo, di essere tornati a essere un «piccolo gregge», un «lievito nella pasta», dei piccoli, magari poveri «granelli di senape». Ma non è questo, parola di vangelo, il nostro destino? Non è questa la no­stra chiamata? Non attende trionfi in questa vita chi scorge Dio nelle fattezze di un giudeo con­dannato al supplizio vergognoso degli schiavi. Ma crede forse, qualcuno, che la morte di una cristianità, di cui senza nostalgia prendiamo at­to, significhi la morte del cristianesimo, di quella testarda scommessa sul vangelo che – per pochi o per tanti che sia – a ogni generazione, enigma­ticamente, si rinnova? Non sappiamo in quali condizioni arriveremo al termine della storia: forse la barca condotta da Pietro attraverso i flutti sarà ridotta a una zattera malandata, a una precaria scialuppa di salvatag­gio. Che importa? Ciò che conta è che a quell’ap puntamento finale ci saremo, come da promessa che ci è stata fatta a Cesarea di Filippo, ai piedi dell’Hermon: «… e le porte degli inferi non pre­varranno. . . ». Sino a quel giorno, la Chiesa sia pure minoritaria ma che non sia marginale: non padrona, bensì fermento della storia. Il bagaglio è già caricato, Ibrahim aspetta al volante del furgoncino: c’è da affrettarsi, le stra­de sono ghiacciate, l’aeroporto è lontano. A mille chilometri da qui, mi aspetta la tastiera di un computer: uno strumento moderno per raccon­tare una storia di oggi e, al contempo, antica quanto la fede. Non, intendiamoci, la storia di un futuro santo, non il ritratto di un paladino della religione senza macchia e senza paura. Ma no, la storia di un pover’uomo come noi tutti, di un peccatore alla pari di noi, di uno con le nostre incoerenze e i nostri limiti. Uno al quale, però, non per speciali meriti, bensì per grazia imper­scrutabile, è stato dato il dono di «vedere la ri­surrezione». Nessuno – è l’esperienza a dirlo – può vivere una tale scoperta senza sentire urgere il bisogno di dire ad altri che, offerta a tutti, la Speranza c’è. Ed è una Speranza che ha un Nome e un Volto. Non è un’ideologia. È una Persona.

     

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l'amore, la pace e la gioia.
Fa' che la nostra vita,
sia profondamente contemplativa,
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Aiutaci a rimanere insieme
nella gioia e nella sofferenza
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specialmente nelle loro difficoltà.
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rendere i nostri cuori miti ed umili
come il suo e possa aiutarci
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come Dio perdona le nostre.
Aiutaci, o Padre buono,
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