Storie di Santi – San Gaspare
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FIORETTI DI SAN GASPARE
Sono chiamati Fioretti gli episodi, i miracoli, i detti e le sentenze di cui è disse¬minata la vita di ogni santo. I più famosi sono senz’altro i Fioretti di S. Francesco D’Assisi, attraentissimi e per contenuto e per quell’intrinseco valore letterario che offre la squisita e limpida prosa del Trecento. Subito dopo la morte di S. Gaspare, i suoi biografi non tardarono a narrarne le ge¬sta, e i suoi primi discepoli, tra i quali eccelle il Ven. Giovanni Merlini, si premura¬rono di testimoniare quanto essi stessi avevano udito e veduto di persona o sentito raccontare. Furono i primi a raccogliere notizie e testimonianze dalla viva voce di persone degne di fede, nelle tantissime località dove il Santo era stato in vita. È ovvio che, assieme alle testimonianze rigorosamente storiche del Merlini e del Santelli e alle deposizioni giurate nei Processi di beatificazione e canonizzazione, cominciassero a sorgere anche leggende e racconti intorno al Fondatore e ai Preti Santi di S. Felice in Umbria e nei territori di Sonnino e Vallecorsa, infestati dai briganti. È naturale che questo prete infaticabile, che, superando ostacoli e lotte senza quartiere, affrontava ovunque con inaudito coraggio Carbonari e Settari, mettendoli a tacere, e che riusciva ad ammansire i briganti, osando portarsi nelle loro stesse caverne con la sola arma del Crocifisso, esercitasse grande fascino nella mente della gente.
È logico anche che, colui che aveva osato scrivere con rispetto e franchezza al papa Pio VII evidenziando il metodo errato e controproducente di estirpare il bri¬gantaggio con la ferocia e la violenza, ottenendo così la sospensione della distru¬zione di Sonnino, già iniziata, e la ricostruzione delle case già abbattute, e che ave¬va presentato coraggiosamente un «Progetto di Riforma», che toccava interessi e reputazione della Corte Pontificia, della Curia Romana e delle alte sfere del clero e del laicato, esaltasse le masse dei popoli. * * * Anche se la parola Fioretti, di per sé, ci porta a pensare a leggende e a fatti fan¬tasiosi, è bene precisare subito che gli episodi che leggerete non sono né leggende, né fatti immaginari o inventati. Essi hanno tutti un fondamento storico. È da com¬prendere, d’altra parte, come accade in libri di questo genere, che, a volte, l’autore li arricchisca di particolari, che di solito in realtà si verificano in quelle date circo¬stanze, sempre fondati però sulla storia del tempo, sulla cognizione del carattere del Santo e dei suoi compagni, su gli usi e costumi delle popolazioni dove essi sono avvenuti. Qualcuno avrebbe preferito che questo libro fosse meglio intitolato Vita di S. Gaspare narrata per episodi, o, più propriamente, Episodi meravigliosi della Vita di S. Gaspare. A noi è piaciuto invece intitolarlo Fioretti di S. Gaspare per ricollegarlo, come abbiamo detto, a tanti anni – dal 1952 ad oggi – del giornale Primavera Missiona¬ria, al quale tutti i devoti del Santo sono così affezionati. Leggendoli, pensiamo, succederà anche a Voi, com’è avvenuto a noi, che la mente Vi porti al ricordo di tempi lontani, a qualche evento della vostra vita, forse alla venuta in Albano per pregare presso 1′ Urna del Santo, a grazie ricevute, e a persone care, forse ora scomparse, con le quali tante volte l’avete letto e commentato, pregando assieme. Tutti gli episodi da noi narrati sono stati tratti dai due volumi di A. Rey Gaspare Del Bufalo. È questa la narrazione più completa della vita del Santo finora pub¬blicata. il padre Rey con pazienza certosina e grande maestria ha spulciato l’enor¬me archivio, i libri dei Processi, le migliaia di lettere di S. Gaspare, altri suoi Scrit¬ti e quelli dei suoi compagni. Di ogni avvenimento, prodigioso o no, cita la fonte con tale scrupolo, che alcuni lo tacciano di pignoleria. Vogliamo rendere qui il devoto omaggzo e un tributo d’affetto a questo dotto Missionario, poeta, scrittore, letterato e grande oratore da noi conosciuto, per un lavoro davvero improbo, al quale tutti i biografi successivi hanno largamete attin¬to. Pur troppo la morte ne stroncò la preziosa esistenza immaturamente e non gli diede la gioia di vedere pubblicata la sua Opera così preziosa e che portò largo contributo alla storia di quel periodo. Il protagonista quasi assoluto dei Fioretti è sempre 5. Gaspare, dalla nascita all’apoteosi del Cielo e della stupenda Gloria del Bernini. La sua fisionomia, però, com’è naturale per un Fondatore, si rivive e si completa nei primi Compagni e Di¬scepoli, che lo seguirono e con lui cooperarono imitandone le virtù. In fatti al loro amore di figli dobbiamo la ricchezza inesauribile di tante notizie. Essi non ci hanno tramandato solo quanto sapevano di meraviglioso, di visioni e rivelazioni, di profezie e miracoli del loro Padre, ma hanno tenuto a far emergere, quasi a dipingerli con fedeltà e vivezza, i tratti più sublimi delle sue virtù eroiche e il suo messaggio all’umanità. Anche noi, perciò, nella nostra narrazione abbiamo cercato di fare altrettanto. Non vi presentiamo un & Gaspare romanzato o leggendario, ma di lui narriamo fatti concreti che, se da una parte ne delineano la statura possente di Santo e Tau¬maturgo, dall’altra ce ne danno anche la spiccata figura d’uomo come noi, con le sue sofferenze fisiche e spirituali, dal carattere irrompente e con taluni difetti, ch’egli d’altronde riuscì a dominare con l’aiuto divino e con la forza che gli deriva¬va dalla pratica costante ed eroica della virtù. Non si aspetti il benevolo lettore la narrazione cronologica dei fatti. Esigenze d’òrdine pratico e di brevità ci hanno consigliato di raggruppare alcuni episodi omogenei in un solo capitolo, anche se avvenuti in epoca e località diverse. Così abbiamo ritenuto opportuno parlare dell’apostolato del Santo, e quindi di prodigi, svolto in alcune Regioni, come Romagna, Marche e Lazio, raggruppando in un so¬lo capitolo la cronaca di anni diversi. Ci siamo anche sforzati, in qualche modo, sperando d’esservi riusciti, di non sco¬starci troppo dallo stile dei cronisti del tempo, innestando tra virgolette le loro pa¬role e a volte interi brani per conservare al periodare quel gradito sapore di antico e mettere in maggior evidenza la genuinità e la veridicità dei fatti. Né abbiamo voluto, noi che scrittori di vaglio non siamo, cambiare la nostra prosa semplice e piana, destinata a lettori senza grandi pretese letterarie e paghi più del contenuto che della forma. Osiamo sperare, per altro, di non far arricciare il naso ai lettori di gusti… prelibati. Le illustrazioni sono di Francesco Di Maria, che ama definirsi «principiante» in questo genere di pittura e che, tuttavia, spera d’éssere riuscito ad esprimere in modo accettabile alcuni momenti di vita del grande Santo. Anche se – per non smentire le abitudini degli artisti – ci ha fatto alquanto sospirare la consegna dei disegni, credia¬mo che sia riuscito nel suo e nostro intento, e lo ringraziamo ed apprezziamo since¬ramente, nutrendo fiducia che le illustrazioni siano anche di vostro gradimento. Speriamo che questo libro, che non vuole solo accontentare coloro che da tempo lo aspettavano, ma anche stimolare la curiosità e spingere alla lettura coloro che non sono abituati a leggere vite di santi, sia gradito e bene accolto. Soprattutto, però, l’autore ha voluto rendere un filiale tributo d’amore e devozio¬ne al suo Padre Fondatore, e mettere in risalto la sua grande dolcezza verso i pec¬catori e l’amore senza confine verso i sofferenti. Da tanti episodi, e da altrettante testimonianze, bòlzi al nostro sguardo l’eccelsa figura di S. Gaspare, la cui vita fì’ sempre conforme a quella del Cristo Crocifisso, nel quale soltanto, come l’apostolo Paolo, volle gloriarsi. Ci spinga alla devozione al Sangue di Cristo egli che ne fu il più grande apostolo, e susciti in noi tanta fidu¬cia nella sua valida intercessione. R. BERNARDO Quando Dio manda i suoi santi… È Dio che sceglie tempi, luoghi e persone per attuare il suo disegno d’amo¬re sull’Umanità e condurla alla salvezza. Lo stesso suo Figlio fu elargito al mondo nella «pienezza dei tempi», cioè quando il Padre ne stabilì il momen¬to, secondo una mirabile disposizione in vista della redenzione del mondo. Così è dei santi, prescelti da Dio a continuare, in modo privilegiato e più in-cisivo, la missione salvifica di Cristo. Il Signore ha sempre arricchito la sua Chiesa di figure radiose di martiri e confessori della Fede, i quali configurandosi a Cristo, hanno trascinato, con l’esempio e la parola, le anime alla salvezza. Tuttavia Egli nel corso dei secoli e secondo le necessità della Chiesa suscita figure particolari, gigantesche e lu-minose, la cui attività corrisponde mirabilmente ai molteplici ed urgenti biso-gni delle diverse epoche storiche. Questi santi, illuminati e guidati dallo Spi-rito, dotati d’intuito e virtù eccezionali, indomiti e coraggiosi lottano contro il male e riconducono il mondo alla fede, alla giustizia, alla carità. Grazie alla loro opera la Chiesa si rinvigorisce nella sua ricca vitalità e bellezza, proprio quando sembrerebbe sia per essere travolta! Ci basti qui ricordare le radiose figure di Benedetto da Norcia, Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Ignazio di Loyola, Vincenzo de’ Paoli, Camil¬lo De Lellis, Giovanni Bosco. Nella schiera di questi giganti della santità va, a pieno diritto, annoverato anche il santo romano GASPARE DEL BUFALO (1786-1837). Quando, nel fervore delle prime lotte per l’Indipendenza e la costituzione del Regno d’Italia, accanto alle nobili figure dei patrioti, sorgono anche sov-versivi, Logge Massoniche e Sette di Carbonari, che ne macchiano la purezza degli ideali, camuffando di patriottismo un viscerale livore anticlericale e scatenando una lotta furibonda, non tanto contro lo Stato Pontificio, ma con-tro la Chiesa, quale istituzione sacra; quando Napoleone, che aveva sbandie-rato al mondo ideali di libertà ed uguaglianza ed il proposito di realizzare il Regno d’Italia, si rivelò in effetti un despota sanguinano, imprigionò il Papa, cardinali, vescovi e sacerdoti e saccheggiò le chiese e promulgò un nuovo ca-techismo, il Signore mandò S. Gaspare! Egli, avendo rifiutato il giuramento di fedeltà al tiranno, pagò coll’esilio e le carceri il suo coraggio e, tornato a Roma dopo lunga prigionia, si dedicò inte-ramente a sanare le piaghe morali e i disastri sociali, seguiti alla dittatura na-poleonica. Così esclama Gaspare: «In altri tempi la Chiesa è stata combattuta or contro un dogma, or contro un altro; nei nostri tempi, però, la guerra è alla Religione nella sua totalità, è al Crocifisso Signore. Ora necessita ridire ai po-poli a qual prezzo sian ricomprate le anime! Il Sangue di Cristo è l’arma dei tempi!». S. Gaspare inalbera così il vessillo del Sangue di Cristo e, nel suo segno, ini¬zia un apostolato instancabile ed eroico, che ci lascia attoniti. Dopo lotte inaudite, mossegli proprio da coloro che avrebbero dovuto asse-condarlo, ottenne da Pio VII il permesso di fondare una nuova Congregazio¬ne religiosa, che volle fosse chiamata Congregazione dei Missionari del Prezio-sissimo Sangue. Presentò al Papa un coraggioso ed ardito progetto di riforma della Chiesa e dello Stato e, con un drappello di santi sacerdoti, che abbrac-ciarono il suo ideale, percorse tutto lo Stato Pontificio, l’Abruzzo e gran parte del Regno di Napoli, dove allora spadroneggiavano i più feroci briganti e i lo¬ro protettori e ovunque dilagava il malcostume, il sopruso, 1′ oppressione, l’ingiustizia, l’ignoranza, la miseria. La sua voce tuonò inesorabile contro il male, dolce e ricca di misericordia verso i peccatori. Egli si inerpicava sulle alte montagne alla ricerca dei covi dei briganti, ne ammansiva la ferocia, li commuoveva fino alle lacrime e li convertiva. Trascinava le folle: non bastando le chiese a contenerle doveva predicare sulle piazze gremite. Ovunque passava si spegneva 1’odio, tornava la pace, si restituiva il mal tolto e si ripristinava la giustizia e la vera fraterni¬tà. Intere popolazioni abbrutite dal vizio, cambiavano vita. Durante le sue prediche si bruciavano sulle piazze cumuli di armi, stampe perverse, emble¬mi di Settari. Gaspare ovunque era acclamato santo, tromba del Divin Sangue, martello degli eretici. Né attentati, né libelli infamanti, né calunnie, né adulan¬ti promesse, né miraggi di mitria e di porpora, valsero a fermarlo: «Sono mis¬sionario – egli affermava deciso – e morrò sul palco, da missionario!». S. Gaspare fu paragonato a S. Bernardino da Siena e chiamato «Nuovo S. Vincenzo Ferreri». Dio era chiaramente con lui. Come un uomo, per natura delicato di salute e minato nel fisico per le sofferenze patite nelle carceri, abbia potuto affrontare fatiche, privazioni e disagi così immani per le condizioni dei tempi, è cosa per noi inconcepibile senza il palese aiuto divino. Allorché sembrava irrimediabilmente fiaccato dal male, d’incanto sorgeva¬no nuove energie! Davanti a lui i sicari gettavano il pugnale, si convertivano o fuggivano atterriti; le pallottole cadevano fredde al suolo senza scalfirlo, la sua benedizione rendeva innoqui i veleni propinatigli nei cibi e nelle bevan¬de. La conferma di Dio è ancor più evidente nei fatti strepitosi che il Santo operava e che verremo narrando in questo libro. Però la vittoria più grande di questo gran Santo rimane sempre, dopo quel¬la su se stesso, con la pratica di tutte le virtù cristiane in grado eroico, la tra-sformazione della società del suo tempo. Nei pochi anni, circa 22, del suo in-tenso apostolato, egli ha lasciato un’impronta indelebile, che ancora oggi fa sentire il suo benefico influsso nella società moderna. Il suo segreto? Così lo esprime il celebre Card. Carlo Salotti: «Egli passò tra triboli e spine. Non respinse quelle spine, ma le baciò e se ne cinse la fronte, tenendo gli oc-chi fissi al Calvario. Non era forse scaturito da quella vetta sanguinante il ri-scatto del genere umano? Le piaghe del Cristo morente parlavano alla sua anima sacerdotale e le stille di quel Sangue purissimo ne stimolavano mag-giormente l’ardore apostolico. E, allorché i nuovi farisei si scandalizzavano, perché il Sangue del Salvatore fioriva continuamente sul suo labbro e forma¬va l’oggetto ed il fine primario delle sue predicazioni, egli s’immergeva sem¬pre più in quel Sangue, che era il suo alimento, la sua forza spirituale, la sua ispirazione, il segreto meraviglioso del suo grande cuore». La sua venuta Due predizioni, a significare con notevole anticipo la statura della santità di Gaspare e l’importanza del suo apostolato nella Chiesa di Dio, ne preannun-ciarono la venuta. Una alquanto vaga, 1′ altra ben precisa. Nel 1807, una fanciulla di appena 8 anni, poi divenuta Sr. Amante M. Sofia e morta in concetto di santità, avendo appreso sulle ginocchia della mamma che non esisteva alcun Istituto intitolato al Prez.mo Sangue, esclamò: «Signo¬re, fate che un giorno sorga un’Istituzione che prenda il nome del Vostro San¬gue Prezioso». Dell’altra, dovuta a Sr. Maria Agnese del Verbo Incarnato, (1757-1810) parleremo ampiamente in altro capitolo. Ed ecco che il 6 gennaio 1786, in una casetta molto modesta, sul Colle Esquilino, a Roma, quasi accanto alla più famosa basilica del mondo dedicata alla Vergine – S. Maria Maggiore – nasce da Antonio Del Bufalo e da Annun-ziata Quartieroni un bambino assai gracile, ma bello, che il giorno dopo viene battezzato nella chiesa di S. Martino ai Monti, sempre sull’Esquilino, con i nomi regali dei santi Magi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Il babbo, sebbene da documenti incontestabili risulti autentico discendente dei Marchesi Del Bufalo, è ridotto a fare il cuoco del Principe Altieri. Gaspare trova già un fratellino, Luigi, e passa con i genitori ad abitare due umili stan¬ze del grandioso Palazzo Altieri, che si affaccia sulla piazza che prende il no¬me dalla famosa chiesa del Gesù. Ed è proprio in questa chiesa che si manife¬sta prodigiosamente la grande predilezione del Signore su di lui. Abbiamo detto che è nato di gracilissima costituzione e già dopo un anno e mezzo deve ricevere il sacramento della Cresima, perché in fin di vita. Ma, quando è stato appena scongiurato questo grave pericolo, ecco che il bambino viene colpito dal vaiolo in forma così violenta che 1’abbondante eru-zione cutanea, propria del male, gli inonda gli occhi col pericolo d’una com-pleta cecità. La buona mamma, disperando ormai dell’efficacia dell’opera dei medici, piena d’angoscia, si volge, come fa ogni credente in casi disperati, ad impe-trare l’aiuto divino. Nella chiesa del Gesù si venera S. Francesco Saverio, il meraviglioso e grande Apostolo delle Indie, del quale è tanto devota. Prostra¬ta al suo altare, leva in alto il piccolo e, come impetuoso ed ostinato è il male, così è più sentita ed accorata la sua preghiera al Santo. La guarigione del bambino avviene prontissima e totale! Da Gaspare, al quale la mamma racconta spesso quell’ evento prodigioso, il Saverio non sarà mai dimenticato. Si può dire che quel segno di predilezione del Saverio accese nel suo cuore una fiamma che andò man mano ingiganten-dosi, fino a diventare fuoco d’amore. Quella scintilla fu l’inizio d’una gara tra Benefattore e beneficato, nella quale i due giganti dell’ apostolato cercarono di vincersi in generosità. Una gratitudine perenne, più sentita di qualsiasi vo¬to, scaturirà di giorno in giorno nel cuore di Gaspare, il quale non solo cer¬cherà di emulare la santità e il fervore apostolico del grande Francesco Save¬rio, ma lo eleggerà a protettore della sua Congregazione, gli erigerà altari e chiese, ne predicherà ovunque le grandezze suscitandogli schiere di devoti, porterà ovunque nelle Missioni al popolo un suo quadro, che diverrà famoso. Dal canto suo il Saverio moltiplicherà grazie e protezione ed opererà grandi prodigi quando Gaspare lo invocherà. Così si amano i santi e sanno intrecciare il loro cuore, nei quali avvampa sempre e al di sopra di tutto, l’immenso amore di Dio! Il letto I lettori, ovviamente, vorranno subito far conoscenza con quei genitori, che donarono al mondo un Santo così straordinario come Gaspare. Essi conoscono già i loro nomi: Antonio e Annunziata. Antonio, genuino romano de Roma, ne aveva anche i difetti e le virtù. Alle-grone, amante della compagnia spensierata e contenta, alquanto grossolano e un po’ spendereccio, piuttosto irruente, attaccato alla buona cucina – era cuo-co d’un Principe! – con uno spiccato debole per gli spettacoli e il gioco del pal-lone, anche allora in auge nell’Urbe! Anzi, questa passione lo portò ad im-provvisarsi addirittura impresario con catastrofiche conseguenze finanziarie, sicché comprese ch’era meglio tornare al mestiere più sicuro dell’umile cuo¬co. D’altra parte era uomo di provata onestà, di profonda fede cristiana, gran lavoratore, fedelissimo alla consorte e premuroso verso i figli, dei quali pren-deva ogni cura, seguendoli, passo passo, negli svaghi, negli studi, nella scelta di sane compagnie. Annunziata era di carattere mite, delicata, dal tratto distinto, di fine senso estetico. Le due modeste stanze dove alloggiavano nel Palazzo Altieri, erano tutto lindore ed ordine, sicché – dicevano – esser lei, e non il marito, la vera di-scendente dei nobili marchesi Del Bufalo. L’elogio più grande da lei meritato, senza meno, è questo: Era madre temprata nella fede, educatrice perfetta, eroica quando, oltre che le pazzie del marito, dové affrontare le durissime prove della povertà, dell’ immatura morte del primogenito, dell’ esilio di Ga-spare, che la portò ben presto alla tomba. Gaspare prese un po’ della mamma e un po’ del papà. Riprodusse in sé, perfezionandola con gli anni, la soda pietà della genitrice, il di lei gusto delle cose linde e fini, i tratti cortesi, il senso dell’ ordine e della pulizia, fino al pun-to che, la buona Annunziata, anche intimamente orgogliosa, soleva dire: «Con questo figlio ho da star sempre con la scopetta in mano»! Stile ch’egli conservò sempre e inculcò ai suoi missionari, tanto da essere chiamato: Ca-valiere nato! Dal padre ereditò il carattere vivace e schietto, l’impazienza, a volte impe¬tuosa e stizzosa, ma sempre ben repressa e controllata, fino a dire: «Scusate… Mi arrabbio, perché m’arrabbio!» Mai arrivò ad offendere alcuno. Ereditò dal babbo anche la passione per le folle, la parola calda, che affascinava 1′ udito-rio, ed il genio organizzativo. L’anima del piccolo Gaspare, precocemente mistica, plasmata dalla madre, divenne anche precocemente attiva ed apostolica, sicché, fin dall’infanzia, espresse quello zelo che lo avrebbe consumato per tutta la vita. Dopo i fervo¬ri della prima Comunione e l’assidua frequenza dei corsi di predicazione e fe¬ste religiose, si diede ad erigere altarini in casa, ad organizzare funzioni, salir sulle sedie e, come da un pulpito, ad arringare l’uditorio – babbo, mamma, fratello, compagni, servi del Principe – e ad esortar tutti con gran calore alla… conversione! Nel contempo è proprio convinto esser lui più peccatore di tutti e, per scon-tare… i tanti peccati, passava intere notti ginocchioni, in preghiera, sul nudo pavimento. Annunziata, sempre tenera e vigile, è costretta spesso a sollevarlo di peso e portarlo a letto, mentre esclama angosciata: «Questo figlio, mi si storpia!». Una mattina, nel riassettare il lettino, allibì: le lenzuola erano striate di san-gue! Gasperino, con tutto candore, le mostrò il cilizio, che circondava i suoi fianchi. Un vero ordigno! «Una funicella, munita di pezzi di latta tagliati a stellette, le cui punte ritorte, penetrando nelle teneri carni, ne facevano spriz-zare sangue». La madre, inorridita, glielo sciolse e medicò le profonde ferite. Gaspare, comprendendo il dolore e le apprensioni della buona mamma, le si gettò al collo, la carezzò e promise: «Mamma, volevo imitare S. Luigi. Non lo farò più». L’episodio è autentico. Il cilizio, tenuto gelosamente a ricordo da Don Ber¬ga, dopo la morte del Santo, fu consegnato al suo secondo successore, D. Gio-vanni Merlini. Quel sangue innocente, versato da Gaspare fanciullo «in isconto dei propri peccati e degli altrui» è come l’albore della sua vita missionaria, quando nelle chiese, sulle piazze e al capezzale dei moribondi, si flagellerà con strumenti ben più terribili per indurre a pentimento i peccatori più ostinati. La fuga Mamma Annunziata e papà Antonio, impressionati dall’ esagerato fervore di penitenza del piccolo Gaspare, lo affidarono alla guida dotta e saggia di Mons. Marchetti. Il pio sacerdote gli fece comprendere che Dio non voleva da lui così dure penitenze, bensì preghiere fervide, ubbidienza, impegno nel¬lo studio e, soprattutto, uno sforzo continuo nel dominare i difetti del suo ca¬rattere. Con una guida così premurosa ed oculata, Gaspare, con sorprendente precocità, continuò l’ascesa nelle cose dello spirito. Il piccolo accompagnava ogni mattina la mamma nella chiesa del Gesù, dove ascoltava la Messa e non mancava di ringraziare il Saverio per la singolare guari¬gione ricevuta per la sua intercessione. Riceveva spesso la S. Comunione e «guardava 1′ Ostia Consacrata acceso in volto come un cherubino». Mirando l’immagine del Saverio, «una volta – com’egli stesso raccontò da grande – si sentì inondare il cuore da tanta dolcezza, che gli sembrò d’essere in paradiso». Ripeteva spesso da allora: «Potessi diventare un apostolo come lui! Potessi morir martire per la conversione degli infedeli»! Ora Gaspare, nel palazzo e nei dintorni, era chiamato da tutti il santarello. Ma un giorno, il santarello, ne combinò una proprio grossa! Capitò in casa il frate cercatore della Terra Santa e, mentre Annunziata an¬dò a prendere 1’obolo nel cassettone, i ragazzi lo circondarono, ascoltando a bocca aperta quanto il frate narrava dei luoghi bagnati dal Sangue di Gesù, e dei Turchi che, non credendo a Gesù, martirizzavano i missionari che cerca¬vano di convertirli alla vera Fede. Non ci voleva altro per sbrigliare la fanta¬sia dì Gaspare. Quel frate era stato proprio mandato da Dio! Era la chiamata, era giunto il momento di partire per predicare il Vangelo e morire martire per la Fede! Passò la notte a rimuginare sotto le lenzuola il piano della fuga nei suoi minimi particolari. Non riusciva più a frenare la smania! Senza confidar¬si con qualcuno, gli sarebbe scoppiato il cuore in petto! Nello stesso palazzo abitava Maria Tamini di anni sette; era la figliola del Dispensiere del Principe – ottima famiglia, come quella di Gaspare e sua com-pagna di studio, di preghiera e di giochi. «Maria – le disse – io fuggo di casa e vado a predicare il Vangelo ai Turchi. Vieni anche tu?» La bambina, sulle pri-me, restò titubante, poi si entusiasmò anche lei ed accettò. «Però – dice – i Turchi sono tanti; che facciamo noi due soli? Diciamolo anche ai nostri com-pagni». Gaspare convocò subito una riunione segreta e ne parlò ai piccoli amici. Es¬si, abituati a subire il fascino del santarello, e a imitarlo e seguirlo nella vita d’ogni giorno, si entusiasmarono immediatamente. Discussero il piano con massima serietà. «Sì, andiamo tutti! Ma… i Turchi dove sono? Chi ci insegne-rà la strada?» Gaspare aveva sempre la risposta pronta: «Domanderemo… e poi il Signore ci manderà la sua stella come ai Re Magi». «E per mangiare?» «Lo chiederemo alla buona gente. Chi rifiuterà un pezzo di pane ai missionari che vanno a morire per la Fede?». «Deve venire anche Maria…». «Sì, verrò, dice la ragazza, ma io sono una donna. Che dirà la gente?» «Ti travestirai da uomo – risponde subito Gaspare – prendi il vestito di tuo fratello.» Maria, nella notte, trafugò il vestito del fratellino che dormiva; ma poi que¬sti, non trovandolo sulla seggiola al mattino, scoppiò in lacrime. Maria, con¬fusa, rivelò tutto alla mamma… e il piano andò in fumo, anzi, finì a scapac¬cioni! Oggi fuggire di casa è cosa d’ordinaria amministrazione per i nostri ragazzi, ma allora, che i bambini erano sempre appiccicati alle gonnelle delle mamme e non osavano da soli neppure ficcare il naso fuori dell’ uscio, il piano di Ga-spare era davvero ardito e straordinario. La bella compagnia non si sciolse; rimase compatta per attuare a Roma quello che non poterono andare a fare tra i Turchi. I cari compagni di Gaspare rima-sero tra loro uniti anche da grandi. Sotto la sua guida Maria divenne una santa suora, Filippo Berga monaco basiliano a Grottaferrata, Carlo Valletta divenne cardinale, Domenico Girometti canonico di 5. Marco, come S. Gaspare. Quella fuga, per Gaspare, fu solo rimandata. Nessuno riuscì mai a fermarlo nel continuo peregrinare missionario, alla ricerca di anime da salvare, per tutta la vita. Hanno più fame di me L’amore di Dio andava sempre riscaldando il cuore del piccolo Gaspare e lo rendeva più operoso. Avendo egli avuto rigoroso divieto di macerarsi le carni col cilizio, trovò altre forme per mortificarsi. Così si diede a digiunare il ve-nerdì, limitando il cibo alla sola minestra e ad un pezzetto di pane. Altrettan¬to faceva durante la quaresima, nelle vigilie, nel mese mariano per «fioretto» alla Vergine. Annunziata era costretta a vigilare con la massima attenzione, e, a volte, anche a far la voce grossa: «Alla tua età, non sei obbligato al digiuno!» Ed egli di rimando: «Se ho 1’età per peccare, l’ho anche per digiunare! » Ma quando leggeva tanta preoccupazione sul volto della madre, la carezzava e diceva: «Su, mamma, non vi agitate, state serena, mangerò… Sappiamo che la famiglia Del Bufalo abitava nel «cortile antico» del Palazzo Altieri e che le finestre delle due modeste stanze, difese da robuste inferriate, davano su via della Gatta e sul vicolo di S. Stefano del Cacco. Attraverso quelle grate il ragazzo poteva scorgere il panorama delle grandi miserie uma¬ne della sua Roma. Accattoni sudici e nauseanti, storpi e minorati d’ogni spe¬cie, che facevano tanto ribrezzo! Ad essi s’univano veri disoccupati e fannul¬loni di mestiere dediti all’accattonaggio; non mancavano ladri e truffatori. Le barbacce e i capelli incolti brulicanti d’insetti e i corpi, a malapena ricoperti di stracci, lasciavano intravedere piaghe rognose e purulente non curate. Al¬cuni, specie d’estate, passavano anche la notte sdraiati su quelle vie sudice e insicure. L’occhio di Gasperino li passava in rivista, il cuore gli si stringeva e qual¬che lacrima gli bagnava le ciglia. «Poveretti! Io ho tutto: affetto, pulizia, cibo. Loro nulla!» Dal profondo del suo animo generoso sorse naturale l’impulso di far subito qualcosa, almeno per aiutarli un po’. Fece un cenno con la mano, come un timido invito, e di tra le sbarre passò un po’ di cibo. Come succede sempre, quel primo tenue soccorso fu un ri¬chiamo. Si diffuse la notizia e i poveri si moltiplicarono. «A Palazzo Altieri c’è un principino tanto buono!» Ormai quell’aiuto divenne un diritto! Se le vetra¬te, a quella data ora, non s’aprivano, era un picchiar di bastoni forte e prepo¬tente sull’inferriata: un baccano infernale. Allora Gaspare, di corsa, faceva man bassa di quanto poteva arraffare ed accorreva. Non distingueva cosa da cosa e spesso dava fondo anche a ~uanto era destinato al pranzo o alla cena della famigliola. Era davvero commovente vederlo privarsi anche di qualche dolciume: un vero eroismo per un ragazzo della sua età! Non poche volte diventava egli stesso un accattone per poter dare di più. A Maria e ai piccoli amici diceva: «Su, procurate anche voi qualcosa per chi muore di fame…». I poveri avevano ormai studiato ogni abitudine del loro piccolo benefattore e all’ approssimarsi dell’ ora di scuola, si dicevano: «Su, andiamo, il santarello sta per uscire.» «A me, a me…» gridavano in coro, e Gaspare estraeva la cola-zione che di soppiatto aveva infilato nella cartella, facendo credere alla mam-ma d’averla mangiata, e la dispensava. La stessa fine faceva qualche mezzo baiocco che gli veniva regalato nelle ricorrenze. Una mattina Annunziata, scoprendo il trucco, lo sgridò con severità. Se avesse continuato a quel modo sarebbe diventato tisico. Gaspare col più ge¬nuino candore le rispose: «Mamma, quei poveretti hanno più fame di me!». La buona mamma, con apprensione, ma anche con intima gioia, serbava tutte queste cose nel suo cuore. Tra i barozzari Gaspare, ormai, già scorge, al di là dei muri di casa, orizzonti più spaziosi ed invitanti per il suo apostolato. Ha compreso, dopo la fuga fallita, che certi pro-positi vanno maturati con gli anni, e cosa significhi e comporti la vocazione. Ottiene, intanto, di far parte del Piccolo Clero e d’indossare la talare o, co¬me si diceva allora, vestirsi da abatino. Sa che nella veste c e un impegno più solenne, una responsabilità più manifesta di progredire in virtù. La porta, perciò, con tale decoro e dignità da destare meraviglia e rispetto in tutti. Un giorno, nel rientrare da scuola, incontrò nel cortile del palazzo il principe Al-tieri con la consorte e il figlioletto. Il Principe, cosa da far sbalordire in quei tempi, si tolse il cappello e lo salutò rispettosamente, mentre la Principessa ordinava al figlioletto di baciare la mano al santarello, che, allibito e confuso, arrossì in viso come un peperone, cercando di schermirsi. Il Principe in fine si raccomandò alle sue preghiere. «E mio dovere, Eccellenza!» rispose Gaspa¬re in tutta umiltà. Gaspare già frequenta il famoso Collegio Romano e si cimenta con profitto in materie difficili, guadagnando ottimi voti e medaglie. S’è fatto la nomèa di sgobbone e non mancano compagni burloni che, di tanto in tanto, gli giocano tiri a volte anche atroci. Egli, per altro, riesce a mantenersi calmo ed imper-turbabile e giunge perfino a sorridere. Fra tutte le iniziative, cui prende parte, predilige le opere più umili e schi¬vate dagli altri, cioè quelle che impegnano molto e non procurano gloria alcu¬na. Tal’è l’Opera dei Barozzari. Essa, per la verità, non ebbe origine da altri, fu esclusiva iniziativa dovuta al suo zelo e da lui prese una fisionomia tutta particolare, nella quale si intra¬ vedeva già lo stile del futuro missionario. Una turba di contadini, provenienti dall’Agro Romano, portava a Roma il fieno raccolto nei campi per rivenderlo a miglior prezzo. Il fieno veniva am-massato a Campo Vaccino, il famoso Foro Romano, ridotto così a deposito e a terreno da pascolo. Ai barozzari si univano lavoratori d’ogni tipo, che afflui-vano dalle Marche, Abruzzi e Campania, per essere chiamati a «giornata», an-che per pochi baiocchi, per non morir di fame. Non si udivano che parolacce e bestemmie, grida ed invettive! Annebbiati dal vino, tra litigi e risse, ci scap-pava non di rado anche il morto. «Da quanto tempo – si domandava Gaspare – quei poveretti dalle mani incallite, bruciati dal sole e dal gelo, cenciosi e sudici e con grosse cioce ai piedi, non hanno sentito parlare di Dio?» In quel Campo Gaspare scrisse la più bel¬la pagina della sua preparazione al sacerdozio, convinto che il vero sacerdote non era un privilegiato, ma un mandato da Dio, come lo fu Cristo. Si vide un pretino tutto lindo e gentile aggirarsi in quel groviglio di uomini e bestie, fatto segno a sberleffi, a gesti equivoci e perfino a minacce. Ne avvi¬cinò qualcuno: una parola ed un piccolo dono servirono a rompere il ghiac¬cio. Quei ceffi, dagli insulti passarono alla curiosità, poi all’interesse, in fine al rispetto. Seduto su un fascio di fieno il pretino raccontava le parabole del Vangelo, parlava dell’amore di Dio, del Sangue versato da Gesù anche per lo-ro. Toccò tasti sensibili: la loro fanciullezza, la preghiera imparata sulle gi-nocchia della mamma, ora forse scomparsa, e mai più recitata, la Prima Co-munione. Su quei visi induriti e barbuti si vide scorrere qualche lacrima. «Gesù ha vinto!» esclamava il pretino. Così nacque 1’Opera dei Barozzari con un programma ben preciso: Innanzi tutto, conoscere Dio, rispettarne la Legge, non offenderlo più; organizzarsi per trovare lavoro onesto e dignitoso per tutti; aiutarsi e rispettarsi a vicenda; coalizzarsi per la difesa d’un più giusto salario e far arrivare la voce anche all’Autorità, se necessario. Un vero e proprio Sindacato in anteprima per il bene dell’anima e per una vita più umana. Manco a dirlo, quei primi successi davano fastidio a qualcuno e comincia¬rono le prime invidie e malignità. Non c’è da meravigliarsi: questa è la via dei santi! Bambini e anziani «Molti insigni personaggi e molti Santi hanno dato la loro attività e portato il loro contributo a quella immensa ricchezza spirituale di tradizioni, di istitu-zioni, di opere di bene di cui andava giustamente superba la Roma dell’ 800 e che ne fecero la capitale dello Spirito e della carità, ma certamente nessuno come S. Gaspare» (De Libero). Egli, impegnandosi a fondo, bruciò le tappe, S innestò di slancio nella vita romana religiosa e sociale d’allora e non fu solo uno che partecipava, ma il creatore e l’animatore. Come sempre, si preoccupa dello spirito e del corpo. Crea Gruppi di Pre-ghiera; promuove l’Adorazione Perpetua, diurna e notturna, al SS.mo; tiene conferenze, forma un gruppo di Catechisti ben preparati per l’istruzione ai fanciulli e agli adulti nell’ Urbe e nei paesi limitrofi. Organizza visite agli in-fermi negli ospedali e nelle case, e promuove molteplici iniziative di carità. Forse nessuno sa che il giovane Gaspare fu il primo a ideare il teatrino par-rocchiale, perché ci teneva che i ragazzi fossero santamente allegri; scriveva egli stesso drammi e commedie ed era anche ottimo regista, tanto vero che, tra gli spettatori, non mancavano uomini di cultura, personalità e perfino Cardinali. Qui è proprio il caso di domandarsi se ci sia una sola parte della Roma dalle mille Chiese e dalle mille Opere di bene dove non abbia svolto il suo aposto-lato il giovane Gaspare. «Mosso da grande amore per il prossimo – è riferito nei Processi – si sarebbe spezzato in cento per abbracciare tutte le Opere di Carità». Un giorno passò davanti all’ Ospizio di S. Galla, eretto da Papa Gregorio al piedi della Rupe Tarpea, dove la patrizia Galla aveva fatto del suo nobile pa-lazzo il centro di carità al tempo dei primi cristiani. In quell’ Ospizio tanti sa-cerdoti romani, tra cui i santi De Rossi e Parisi, avevano fatto a gara per alle-viare le sofferenze dei romani poveri e malati. Gaspare, nel vederlo negletto e andare in rovina, provò una stretta al cuore e gridò a se stesso e agli altri: «Deve risorgere!» e passò immediatamente all’ azione. «Sei pazzo – gli diceva-no – non ci sono riusciti finora tanti personaggi più importanti di te! Pecchi di superbia, povero pretino!» Non capivano che l’amore abbatte ogni ostacolo! Rintracciò vecchi benefattori, e ne cercò di nuovi; trascinò gli incerti, tese la mano, bussò alle porte, iniziò le pulizie e qualche restauro, ripristinò fun¬zioni ed usanze, istrui e soccorse. Nel suo cuore il fuoco divampava e ne ac¬cendeva gli altri! Andava per le strade, sulle piazze, nelle stamberghe, nei tu¬guri. Raccoglieva bambini, vecchi, malati che pullulavano un po’ ovunque, pieni di pidocchi, tignosi, ripugnanti, appena coperti da brandelli che lascia¬vano intravedere sudiciume e piaghe. «Venite, venite a S. Galla!» Egli che non poteva tollerare neppure una macchia sulla sua veste, si caricava sulle spalle quei relitti umani e li portava nell’Ospizio. Li trovavano pulizia e cure, un piatto di minestra, che gli riscaldava lo stomaco, ed il grande amore di Ga-spare che gli riscaldava il cuore. Egli ne curava il corpo e ne redimeva l’ani¬ma. «Essere poveri, cari fratelli, non è un disonore! – egli diceva – Cristo fu po¬vero e voi siete l’eredità di Cristo!». Lo zelo lo spinse anche nella Casa Correzionale. Quei ragazzi, abituati allo scudiscio, restavano affascinati da quel giovane prete che parlava loro con tanta dolcezza e non tradirono la sua fiducia, quando, sotto la sua responsabi-lità, li conduceva a passeggio liberi per le vie di Roma. Quando adulti usci-ranno da quella Casa sapranno da chi andare. Gaspare trovò anche il tempo di passare tante ore nell’ Ospedale dei Cento Preti, dove erano raccolti quei vecchi sacerdoti, che l’età e il male tenevano ormai li dimenticati da tutti. Quadro bellissimo quello del giovane che, sulla soglia dell’ Ordinazione Sacerdotale, spinto da un pietoso affetto, è attirato e trattenuto presso quei vecchi, che l’hanno preceduto e che sono lì li per scomparire. Certo non sono tutti fiori! Gaspare è tacciato di chi sa quali mire e pretese e perfino di profitto! Ma, ovunque passa, è un coro di benedizioni. Frotte di bambini lo chiamano e gli corrono dietro, i vegliardi si scoprono, le mamme lo guardano con tenerezza. Il popolo comprende sempre chi gli vuole veramente bene. Fortezza romana Tutte le porte, ormai, si aprivano al giovane apostolo. L’ascesa continuava senza ostacoli. Terminati gli studi ricevé il Suddiaconato e venne nominato ca¬nonico della Basilica di S. Marco in Roma. Il 12.3.1808 fu ordinato Diacono. Possiamo immaginare con quanto fervore e quanta gioia andava preparan¬dosi al Sacerdozio! Una notte, assorto in preghiera, mentre meditava sulla grande dignità e responsabilità alla quale stava per ascendere, gli balenò in¬nanzi la grande figura di Francesco D’Assisi, che non se ne ritenne degno e ri¬mase sempre Diacono. Abilmente il demonio, conoscendo quante anime un giorno gli ruberà quel pretino, s’insinuò nella sua mente e lo atterri. «No, non salirò l’Altare, non ne sono proprio degno!» esclamò Gaspare. Si raccomandò alle preghiere di tante pie persone affinché il Signore lo illuminasse, chiese consigli, scrisse alla compagna d’un tempo, Maria Tamini, ora suora a Mace-rata. Questa, con fine intuito, mostrò le lettere al Vescovo di Tolentino, Mons. Vincenzo M. Strambi, che godeva grande fama di santità, e che cono¬sceva bene Gaspare, il quale, a sua volta, aveva per lui grande venerazione. Il santo Vescovo rifletté un momento, poi, sicuramente illuminato dall’Alto, disse con sicurezza: «Scrivete a D. Gaspare che vada subito all’Altare, poiché questa è la Volontà di Dio». L’umiltà, di cui il demonio s’era servito per atter¬rirlo, è proprio la virtù che fece chinare il capo di Gaspare all’ordine del san¬to Vescovo: il 31.7 dello stesso anno, venne ordinato sacerdote e il 2 agosto celebrò la sua Prima Messa in S. Marco. Con rinnovato ardore si gettò nell’ apostolato, restaurò la chiesetta di S. Ma¬ria in Vincis e vi fondò due Ristretti: quello di S. Francesco Saverio per gli uo¬mini e quello delle Sorelle di Carità per le donne,col compito d’una fervida attività spirituale e l’impegno d’assistere il vicino ospedale. La chiesetta era nei pressi della Basilica di S. Nicola in Carcere, dove si venerava una celebre Reliquia del Prez.mo Sangue. Qui Gaspare conosceva un santo sacerdote, Mons. Francesco Albertini, e si unì a lui nella fondazione della Confraternita del Prez.mo Sangue. L’Albertini, come presto vedremo, divenne suo Padre Spirituale ed assunse un ruolo importantissimo, anzi decisivo, nella vita di Gaspare e del suo Istituto. Il 2 febbraio del 1808 il Gen. Miollis, per ordine di Napoleone, occupò Ca¬stel S. Angelo e la piazza del Quirinale, allora residenza dei Papi. Le ostilità tra il Papa e Napoleone si fecero aperte. Si sa che sono sempre i prepotenti e i più forti ad aver partita vinta. Pio VII, che non volle e non poté piegarsi ai vo¬leri dell’Imperatore, venne deportato in Francia e ai sacerdoti romani e dello Stato Pontificio, che godevano di qualche Beneficio Ecclesiastico, venne inti-mato il giuramento di fedeltà all’ usurpatore. È la mattina del 13 giugno 1810, quando Gaspare riceve l’ordine di presen¬tarsi al posto di Polizia. Il padre vuole assolutamente accompagnarlo. Sappia¬mo anche il cognome del poliziotto – un certo Olivetti – che senza preamboli gli ingiunge di giurare. La risposta è fiera e secca: «Non posso, non debbo, non voglio!» Gaspare ha appena 24 anni e il suo coraggio desta ammirazione. Il poliziotto passa all’ adulazione, alle promesse ed infine alle minacce. La ri-sposta è sempre uguale: «Non posso, non debbo, non voglio!». Come ultimo tentativo si cerca di indurre il padre a persuadere il figlio a sottomettersi. E qui insorge la fierezza romana del bravo cuoco, che, nonostante i suoi difetti, è d’indefettibile fedeltà alla Chiesa e al suo Capo. Erige la testa, guarda fieramente l’Olivetti ed esclama: «Cittadino, fucilate prima me e poi mio figlio, ma non si parli di giuramento!». Padre e figlio non fanno politica e non difendono il Potere Temporale dei Papi per capriccio, ma non accettano la prepotenza, il sopruso e 1′ imposizio¬ne di colui che ha fatto saccheggiare le chiese di Roma e trafugare le opere d’arte più preziose, arrogandosi perfino il diritto di trasformare la dottrina cattolica. La condanna per Gaspare è decisa e immediata come la sua fiera risposta: Esilio e carcere! Il giovane non batte ciglio. Nel suo cuore è lieto di patire per Cristo e il suo Vicario. L’atroce distacco Gaspare e il babbo tornano lentamente a casa. Gaspare vorrebbe tardare il più possibile l’annuncio della terribile notizia alla mamma, che è li in ango¬sciosa attesa. Ma appena giunto, davanti al babbo ammutolito e alla mamma che chiede, già presaga del peggio, s’accascia su una sedia e dà in pianto dirotto. Questo suo umano ed accorato pianto ce lo fa tanto amare! Da questo momento egli potrà accostarsi ad ogni sofferenza e tergere le infinite lagrime di tutti, perché affinato egli stesso dal dolore. Quel pianto dice tutto alla madre, che si accosta al figliolo, lo solleva, gli fa coraggio, vincendo e dominando la propria anima in tumulto. Quindi va a preparare il baule, riponendovi quanto crede possa essergli necessario. Tutti i fili della vita benefica e zelante di Gaspare sono stati recisi di colpo! Dopo aver raccomandato ai suoi collaboratori tutte le opere di carità ed aver preso commiato dai più intimi, si prepara per recarsi a piazza S. Marco, dove la carrozza con i gendarmi l’attende. Partono con lui tre amici tanto cari: Mons. Albertini, il Marchetti e il Gambini, anch’ essi coraggiosi e fieri nel ri-fiutare il giuramento. Pur conoscendo in anticipo il giorno e l’ora della partenza, l’aveva tenuti nascosti alla cara mamma. Lasciarla gli tornava insostenibile! Né si sentiva d’andarsene nascostamente, senza un bacio, senza quella benedizione, ch’era abituato a chiedere sempre ai genitori, prima d’uscir di casa. Quando si accostò a lei per baciarle la mano e chiedere di benedirlo, la ma¬dre comprese ch’ era giunto il tanto temuto momento del distacco definitivo e ruppe in singhiozzi. Da poco s’era spento Luigi, il primogenito, che le aveva lasciato la vedova ed una bimba; ora perde il figlio migliore, quello che aveva saputo avverare in sé tutti i suoi sogni materni! Per non farla soffrire di più, Gaspare, col volto rigato di lagrime, rompe ogni indugio, si precipita per le scale e corre verso piazza S. Marco. Antonio gli va svelto dietro. Ma vi è appena arrivato che Annunziata, accompagnata da Pao¬la, la nuora, e Luigia, la nipote, lo raggiunge. Prende tra le sue mani la destra del figlio e gliela stringe forte forte, come può stringerla una madre che ha il presenfliflento di non vederlo mai più sulla terra. Paola ci ha tramandate an¬che le ultime parole di Annunziata: «Figlio, lascia che per l’ultima volta io ti baci la mano sacerdotale, poiché già presento che non ti vedrò mai più su que¬sta terra». Dall’acerbità del dolore aveva misurato la brevità della sua vita. Saliti i prigionieri, il postiglione sferza i cavalli; chi è a terra cerca per un tratto di seguire la carrozza, ma crescendo la velocità desiste. Annunziata, impietrita dal dolore, ma con calma sovrumana dice: «Preferisco morire sen¬za dì lui, che vederlo a Roma spergiuro». Madre degna di tanto figlio! Da quel giorno un sottile languore la prende, logorandola a poco a poco, e i movimenti di lei, un tempo tanto attiva, vanno facendosi più lenti. Vi sono dei giorni nei quali si sente terribilmente stanca e si aggira sperduta come in un vuoto di stanze, di strade, di vita, di pensieri. I prigionieri si sono raccolti in preghiera. Gaspare, con gli occhi ancor bru¬ciati dalle lacrime, si sforza d’atteggiare il volto a sorriso. È il più giovane, ma cerca dì rincuorare i compagni, mentre la carrozza, ora svelta, ora con lentez¬za, percorre la via che li porterà al calvario dell’esilio e delle carceri. È lì che il Signore forgerà nel dolore il futuro Apostolo del suo Sangue Divi¬no! Il topo! Il viaggio dei quattro deportati fu un vero disastro! Immaginiamo le strade di quei tempi e la carrozza traballante, che, tra Roma e Firenze e Firenze Bo-logna, dovette valicare l’Appennino, prima di scendere nella vasta pianura che conduce a Piacenza, prima tappa di quel penoso viaggio. Gaspare, come tutti i romani di quel tempo, era attaccatissimo alla sua bel¬la Roma, dalla quale non era solito metter fuori il naso, tranne che per il cate-chismo in qualche paesello dei dintorni e le rarissime gite domenicali nei vi-cini Castelli. A Piacenza, anche se fin d’allora ricca di palazzi e di chiese bellissime, che testimoniavano la fede di quel popolo e la munificenza dei Duchi, il giovane sacerdote si sentì subito oppresso dalla nostalgia della maestosa Cupola di S. Pietro, delle stupende Basiliche e degli antichi monumenti. Giunsero a notte piena il 15 luglio. La città era immersa nel sonno e nel buio; l’aria afosa ed umida, per le acque del Po e del Trebbia, penetrava nelle ossa. I prigionieri eran ridotti «come quattro cenci» e «Gaspare si sentiva pro¬prio male e si reggeva appena». Mentre numerosissimi sacerdoti e prelati, che, come loro avevano rifiutato con coraggio il giuramento, erano stati rin¬chiusi nelle Prigioni Correzionali, dette di S. Sepolcro, essi vennero fatti scen¬dere ed abbandonati in una piazzetta con 1′ obbligo di non lasciare mai la città e costretti a trovarsi un alloggio a proprie spese. All’angolo della piazza vide¬ro una lanterna e la scrittaLocanda; bussarono e chiesero di potervi dormire. Furono accompagnati in due stanze sudicissime, con i pagliericci stesi sul nudo pavimento, senza neppure un lume. Insieme a Gaspare, con gioia di en¬ trambi1 dormiva l’Albertini che, maggiore di lui di vent’anni, lo prese sotto la sua paterna protezione. Gaspare non riusciva a prender sonno. Tanti ricordi, lieti e dolorosi, dall’ infanzia al momento del distacco, affioravano nella sua mente. E poi la mamma… già, la mamma cara, premurosa, affettuosa. Cosa stava facendo a quell’ ora? Certamente lo pensava e neppure lei, in lacrime, riusciva a pren¬der sonno. Ad interrompere questi suoi pensieri gli giunsero strani rumori gutturali e l’agitarsi improvviso dèll’Albertini. Gaspare saltò dal pagliericcio e, a tastoni, gli andò vicino. «D. Francesco, cos’ha? Si sente male? Parli…» Preoccupato gridò forte e chiese aiuto. Il «cameriere», vecchio cadente e fiemmatico, che dormiva in una stanza del medesimo piano, irritato per l’insolita chiamata, brontolò: «Adesso, adesso!». Ma cosa stava succedendo al povero Albertini? Dormendo s’era sentito mancare il fiato. Qualcosa di viscido gli era penetrato nella bocca e la graffia-va, non potendo né penetrare oltre, né uscirne… Il poveretto si sentiva soffo-care, rantolava ormai. Finalmente riuscì a tirar fuori un grosso topo e lo sbat-té con violenza contro la parete. Dopo una mezz’oretta giunse il vecchio e, sa-puto di che si trattava, disse arrabbiandosi: «E per così poco mi avete distur-bato a quest’ora! Che roba! Che roba!». Gaspare, sensibile com’era anche nel fisico, ne ritrasse tale ribrezzo che, fin quando ebbe vita, provò un orrore indicibile per i topi. I quattro sacerdoti erano, per il momento, solo degli esiliati e non dei dete-nuti. All’ alba si recarono alla parrocchiale di S. Matteo e chiesero ospitalità a pagamento. Il parroco li accolse con molto rispetto, premura e venerazione a motivo della loro condanna. Le prime settimane passarono tremendamente uguali: isolamento, noia, tristezza cupa, monotonia in una città umida e piatta, che fece scrivere a Ga-spare: «Piacenza! No! Dovrebbe, piuttosto, chiamarsi Dispiacenza!». La profezia Il Signore, quando sceglie i suoi apostoli, prima di lanciarli nell’ azione, li fa passare attraverso il crogiolo del dolore. La prova, per Gaspare, comincia a Piacenza… per non finire mai più, fino all’ ultimo anelito. Dopo pochi giorni dall’arrivo, Gaspare è preso da una debolezza sempre più grave, accompagnata da inappetenza, da vomiti e da continue emicranie. Nessuna cura gli giova, i nervi s’irrigidiscono e scattano all’urto più lieve, in-fine la febbre lo assale e lo prostra, complicando paurosamente la nevraste¬nia già in corso. Apprende che la madre, nello stesso tempo, come lui, sta de-clinando nella salute. Il dolore 10 deprime ancora di più, lo soffoca! I medici ammettono che la loro prestazione si è esaurita. Gli vengono amministrati i Sacramenti; è dunque la fine! Marchetti e Gam-bini sono accanto al giaciglio impietriti dal dolore: Gaspare è tanto giovane! Stranamente 1′ Albertini ha il viso sereno; proprio lui che lo predilige! Anzi sembra che il suo sguardo sia luminoso, ridente. Marchetti e Gambini, per lasciar soli il Padre Spirituale e il suo pupillo in quegli ultimi istanti, escono. Non è bene disturbare l’ultimo colloquio tra di loro sulla terra. Ecco l’Albertini che si siede con calma al capezzale dell’infermo e racconta: «Ascoltami, figliolo. Nel Monastero delle Paolotte, in Roma, conobbi Sr. Maria Agnese del Verbo Incarnato, al secolo Barbara Schiavi, e ne divenni confessore». A quel nome Gaspare trasalisce. Di quella Suora, tenuta in vene-razione dal Vescovo Vincenzo Strambi, dal Pignatelli e da Clotilde di Savoia, aveva sentito tanto parlare. «Era in fama di grande santità – continua l’Alber-tini – favorita da Dio del dono dei miracoli, di profezia, del consiglio. Ora ella così mi disse: – Conoscerete nelle angustie della Chiesa un giovane sacerdote, zelante della gloria di Dio e, con lui, nell’ oppressione dei nemici e nelle pene stringerete amicizia e ne sarete il Direttore. Il distintivo carattere del medesimo sarà la devozione a S. Francesco Saverio. Egli verrà destinato Missionario apostolico ed una nuova Congregazione di sacerdoti missionari, sotto l’invocazione del Divin Sangue, sarà da esso fondata per la riforma dei costumi e per la salvez¬za delle anime, per promuovere il decoro del Clero secolare, per destare i po¬poli dall’indifferentismo e dall’ incredulità, richiamando tutti all’ amore del Crocifisso. Fonderà un Istituto di Suore, che egli però non dirigerà. Egli final-mente sarà la tromba del Divin Sangue, onde scuotere i peccatori ed i settari nei difficili tempi della cristianità». L’Albertini conclude: «Figliolo, il designato di Sr. Maria Agnese sei certa-mente tu, non posso ingannarmi. Tu hai accettato nel tuo cuore il sacrificio supremo, la morte, rassegnato alla Volontà di Dio. Ma i disegni della Provvi-denza sono diversi, non puoi morire». Gaspare obbedisce con docilità e, contro tutte le previsioni, la febbre scen¬de, lo stomaco comincia a tenere il cibo, gradatamente tornano le forze e il volto riprende 1′ abituale colorito. Gaspare sente nel cuore, come un sussurro, la voce di Gesù: «Questa infer-mità non è per la morte, ma perché in te si manifesti la Gloria di Dio. Alzati e cammina!». Gaspare si alzò e si pose in cammino. Il canto dei prigionieri Un ordine alla Polizia di Piacenza dispose la traduzione dei deportati da Piacenza in Corsica, mentre i malati e i più anziani dovevano essere trasferiti a Bologna. Grande fu la gioia di Gaspare quando apprese che, come lui, an¬che i suoi tre compagni erano stati destinati a Bologna. Il clima più salubre di quella bella città e le più facili comunicazioni con Roma gli furono di grande sollievo e giovarono non poco anche alla sua salute. Ai prigionieri fu tolto il modesto appannaggio di cui godevano a Piacenza e ingiunto di provvedere da sé al vitto e all’alloggio: senza volerlo fu data loro praticamente la libertà vigilata. In quella circostanza le famiglie bolognesi di ogni oeto scrissero una delle più belle pagine della loro sensibilità e generosi-tà. Fecero a gara nell’ aiutare quei santi sacerdoti, liete, d’altra parte, di poter esprimere in qualche modo il loro spirito di indipendenza e di condanna ver¬so l’Usurpatore, ch’ era giunto perfino ad arrogarsi il diritto di indire Sinodi e Concili. L’Albertini e Gaspare furono ospitati dalla nobile Famiglia dei Bentivoglio. Gaspare alla grande camera preferì l’umile stanza del cameriere, adducendo il motivo che li, più appartato, avrebbe potuto dedicarsi meglio allo studio ed alla preghiera. Finalmente poteva interrompere il forzato ozio di Piacenza! Si risvegliò in lui e proruppe lo stesso zelo che già lo bruciava a Roma. Predica¬va Esercizi Spirituali, teneva conferenze ai giovani; prese contatto ed ascoltò i grandi Maestri di lettere e scienze di quella celebre Università; fece scorrere clandestinamente tra quegli studenti foglietti che confutavano gli errori delle dottrine materialistiche che li avevano allontanati dalla Fede. Il suo nome or-mai correva sulla bocca di tutti: il giovane Del Bufalo è un dotto e un santo! Le famiglie nobili facevano a gara per averlo precettore ed educatore dei loro figli. Poteva mai durare a lungo quel paradiso? Ecco che la croce cade all’im-provviso e più pesante sulle sue spalle e lo invita alla sofferenza. D’improvviso si ammala gravemente l’amico carissimo D. Gambini. Ga¬spare fa appena in tempo ad accorrere al suo capezzale e a raccoglierne l’ulti¬mo anelito. Presto si sparge la luttuosa notizia in città: È morto un confessore di Cristo! Gaspare organizza, da par suo, solenni funerali, ai quali, col clero bolognese e i duecento sacerdoti deportati, partecipa una folla interminabile. Il Prefetto di Polizia trema; teme una sommossa! Gaspare è immediatamente chiamato a prestar giuramento e, al rinnovato e netto rifiuto, segue nella not-tata l’arresto. Una squadra di sbirri dal Palazzo Bentivoglio lo trascina al car-cere di S. Giovanni in Monte, ove viene rinchiuso in cella d’isolamento. L’in-domani lo raggiungono altri 37 sacerdoti. La Polizia, sperando vanamente di fiaccare la resistenza dei giovani, spedisce in Corsica i sacerdoti più anziani e agguerriti, tra i quali l’Albertini. Gaspare è così rimasto senza il suo Padre Spirituale ed amico più caro. Nel carcere furono uniti ai delinquenti comuni e il trattamento fu dei più deprimenti: poca luce, sudiciume e insetti, cibo ributtante! Ma anche qui, pur fra tanto patire, Gaspare riuscì ad organizzare conferenze di spirito; ser-vendosi poi della complicità di qualche custode, al quale donava le leccornie che di tanto in tanto riceveva dagli arditi e bravi bolognesi, poté accostare an-che i delinquenti più incalliti e parlar loro dell’ amore di Cristo. Per suo merito in quelle carceri, dove di frequente avvenivano ribellioni e non s’udivano che bestemmie, subentrò la quiete. Le Autorità restarono di stucco: S. Giovanni in Monte era divenuto un carcere modello! C’era, senza dubbio, lo zampino di quel pretino cocciuto e così intraprendente! Ai soprusi dei carcerieri, i sacerdoti e gli altri cominciarono a rispondere col canto. Nel buio della sera si levava un coro solenne di lodi al Signore! «Cos’hanno quei preti da cantar tanto?» si domandavano i carcerieri prima stupiti, poi irritati e furibondi. Da superstiziosi cominciarono ad aver paura: «Non canteranno in anticipo i nostri funerali? Basta, uccellacci di mal’augu-rio!» Ma si può far tacere con la forza la voce di un cuore in perfetta letizia, perché soffre per il suo Signore? Certamente no. E allora… inasprimento di pene, celle d’isolamento, trasferimento in altre prigioni, dove più aspra sarà la disciplina. Gaspare è tradotto nelle carceri dure di Imola! Come i primi cristiani Gaspare era da pochi mesi nel carcere di Bologna, quando apprese la ferale notizia della morte della sua carissima Mamma., Madre e figlio, nella rara cor¬rispondenza, che avevano potuto scambiarsi, si celavano amorevolmente a vicenda le tristi condizioni di salute e le pene del cuore. Tuttavia, per quelle misteriose vie, che coloro che si amano sanno trovare, Annunziata aveva sa-puto della grave malattia del figlio e Gaspare delle precarie condizioni della mamma. Notizie gravi da ambo le parti, anche se addolcite e ridimensionate dalla pietà di chi le portava. Annunziata, dalla partenza del figlio, non si era ripresa più e «andava bevendo la morte a sorsi». Sul letto di morte, quasi col sorriso sulle labbra, mormorò: «Sia fatta la volontà di Dio; rivedrò mio figlio in Paradiso». E s’addormentò nel Signore il 20 ottobre 1811. L’Albertini si assunse il delicato e penoso compito di comunicare a Gaspare la dolorosa notizia. Egli ne rimase impietrito! Sulle prime si sforzò quasi di non credervi e riuscì a trattenere le lacrime, poi prevalse la legge del cuore e scoppiò in pianto dirotto. Ecco come scrisse a Sr. Tamini: «Fra le altri tribola-zioni, colle quali piace al Signore di visitarmi, si è aggiunta quella, fra tutte la più pesante, della perdita, cioè, della mia santa ed incomparabile genitrice. L’uniformità ai divini voleri non esclude nella mia umanità, il peso grande che risento per tale mancanza. Non mi trattengo molto su questo per ora, per¬ché troppo viva è la ferita… Sono stordito! Il dolore per mia madre è inespri-mibile!». Con il cuore straziato e le membra intirizzite dal gelo, Gaspare, con otto sa-cerdoti, viene trasferito dal carcere di Bologna a quello di Imola. L’amorevole gara dei cittadini bolognesi e imolesi nel dar loro aiuto e conforto irritò il Go-verno, che ne ordinò il trasloco alla Fortezza, dove 1′ inasprimento della pena fu di tutt’altro genere. Più umano il vitto e l’alloggio, ma rigoroso divieto di qualsiasi contatto anche epistolare con 1′ esterno, e severa proibizione di cele-brare Messa. Era l’apice della persecuzione, la catacomba. Il massimo dei pa-timenti per un sacerdote. La fama di quei prigionieri, e di Gaspare in particolare, li aveva preceduti. Gli Imolesi sapevano tutto della fierezza di quel giovane prete romano, della sua santità e dottrina e della sua abnegazione a favore dei compagni di sven¬tura. Ecco perché, al momento del loro trasloco, il popolo era tutto li a fian-cheggiare la carrozza che li portava alla Fortezza per applaudirli. Gli Imolesi, poi, avendo saputo del divieto di celebrar Messa, cercarono in un primo tem-po di fargli pervenire per vie misteriose, l’Eucarestia, proprio come al tempo dei primi cristiani – ricordate S. Tarcisio? – poi, con la complicità dello stesso personale di custodia, anche l’occorrente per dir Messa. Così nella notte quella severa fortezza splendeva di luce agli occhi dei cittadini, come un faro. Lì, otto sacerdoti, tra i quali un santo – Gaspare Del Bufalo – levavano al Cielo per sé e per loro 1′ Ostia consacrata e il Calice del Sangue di Cristo! Intanto Napoleone era riuscito a strappare a Pio VII, prigioniero a Fontai-nebleau, un concordato, ovviamente tutto a proprio vantaggio, e se ne servi subito per convincere i sacerdoti prigionieri che il giuramento era voluto pro-prio dal Papa. Due dei compagni di Gaspare, nonostante egli li scongiurasse, caddero nel trabocchetto, mentre gli altri, più che mai fermi nel diniego, fu-rono rinchiusi nella Fortezza di Lugo, dove vennero sottoposti ad un tratta-mento ancor più duro ed iniquo. Affidati alla sorveglianza d’un terribile cu-stode soprannominato lupo, questi non smentì la triste fama del suo nome. Fu un vero aguzzino! Ne chiuse quindici in tre anguste celle. Ben presto si sacri-ficarono in quattordici in due sole di esse, per lasciarne una interamente a di-sposizione di un compagno in fin di vita per etisia, che così avrebbe potuto al-meno godere d’un po’ di aria. L’aguzzino dimezzò il già magro e rivoltante ci-bo, sequestrò libri e corrispondenza e rubò i loro pochi oggetti. Infine vietò la celebrazione della S. Messa e di ricevere la Comunione. Un mattino però giunse una lieta notizia: il Commissario aveva lasciato Lugo; le cose per Napoleone stavano prendendo una cattiva piega. La libertà era dunque imminente. Quel drappello di eroi fu portato a Bologna con l’intenzione di farli prose¬guire per la Corsica. Essi però, approfittando della confusione, se ne partiro¬no per Roma. Gaspare, invece, dopo aver salutato e ringraziato gli amici bolo¬gnesi, fece sosta a Firenze, dove si fermò a lungo a diffondere la devozione al Preziosissimo Sangue. Perché tanta fretta? A Roma, ormai, non c’era più la cara mamma che l’aspettava con ansia! Il mandato Gaspare, di ritorno dalla prigionia, nell’ avvicinarsi a Roma, scorse da lon¬tano la grande Cupola e sentì il viso rigarsi di lacrime. Ora che Dio, infinito nelle sue misericordie, lo riconduceva nella sua Città, sapeva che sarebbe co-minciata una nuova vita, quella di apostolo di Cristo e che per Lui avrebbe dovuto soffrire senza sosta fino alla morte. L’esilio era stato solo il prologo. Al suo rientro l’attendeva il vuoto della casa; è davvero tanto triste il ritornare dove si è vissuti accanto ad una persona cara e non trovarla più! Si portò subi-to a pregare e a sfogare il suo pianto sulla tomba dell’amata genitrice. Il babbo aveva ripreso moglie e, pur non criticando il suo operato ed aven¬do grande stima per la matrigna, non se la senti di coabitare con loro. Cercò di sistemare dignitosamente la cognata e mise la nipotina nel Collegio delle Maestre Pie. Per sé cercò un misero alloggio dove avrebbe potuto pregare e studiare indisturbato; manco a dirlo, ne fece subito la base per il rilancio del suo apostolato in Roma, allargandolo anche fuori la città per protenderlo poi nel futuro. Chi già lo conosceva disse: «Ecco nuovamente in azione il moto perpetuo». Rifiorirono le Opere morte nella sua assenza: S. Maria in Vincis, S. Galla, S. Nicola in Carcere e tante altre. In S. Nicola, dov’ era tornato l’Albertini, predi-cò una grande Missione. La Provvidenza mandò sui suoi passi Mons. Belisa¬rio Cristaldi, Tesoriere di S. Romana Chiesa, uomo di larghe vedute e di gran cuore. Egli sarà il suo più grande benefattore e protettore, 1′ amico vero dei giorni difficili finché avrà vita. Nello Stato Pontificio regnava il caos e la stessa Roma era stata scristianiz-zata. Non bastavano più le leggi, ma occorreva qualcunoche scavasse profon-damente nelle coscienze. Gaspare, al quale l’amico Bonanni aveva già scritto a Firenze, si associò vo-lentieri agli Operai Evangelici, un gruppo di sacerdoti fondato dallo stesso Bonanni: le Missioni erano il suo sogno! Subito emerse in primo piano e poté convincerli a mettersi sotto la protezione di S. Francesco Saverio e a propaga-re la devozione al Prez.mo Sangue. La predicazione semplice e chiara espri-meva il suo fuoco e la sua accorata passione. La dolcezza paterna e 1′ incrolla-bile convinzione fecero colpo anche in Alto; così fioccarono offerte di posti di grande prestigio, Vescovadi e Nunziature. Rifiutò sempre! Non era tornato a Roma per cingere l’aureola di martire! Non aveva sofferto le carceri per onori così effimeri! Egli anelava a chiese e piazze gremite di folla per convertire i peccatori, sostenere gli onesti, chiedere giustizia per gli inermi, i reietti e i perseguitati e per debellare eretici e settari. Voleva, insomma, convertire tan¬te anime! Ma il contatto con sì alti personaggi, senza scrupoli, avidi soltanto di privi¬legi e laute prebende, lo sconvolse e temè d’essere trascinato anch’egli in per-dizione. Così decise, con l’amico Odescalchi, d’entrare tra i Gesuiti. Chiese consiglio all’Albertini e questi lo incoraggiò. I lettori si chiederanno: «E la profezia?». L’Albertini, temendo d’essersi sbagliato, non se la sentì di contra-riare la vocazione di Gaspare pensando: «Se non è questa la Volontà di Dio, Dio stesso in qualche modo si manifesterà». Aveva ragione. Pio VII conosceva bene i due giovani sacerdoti e, sapute le loro intenzioni, li invitò a colloquio e, senza mezzi termini, ordinò all’ Odescalchi d’intrapren-dere la carriera diplomatica e a Gaspare di dedicarsi totalmente alle Missioni. Il velo cadde dagli occhi di Gaspare che, nella voce del Papa, sentì la voce di Cristo, e subito si mise all’opera. La Congregazione di S. Gaspare, come tutte le Opere di Dio, nacque tra mille difficoltà. Per una Fondazione sono necessari un «nido» e uomini adatti, disposti ad ogni rinuncia. Mancavano 1′ uno e gli altri! Finalmente il Cristaldi ottenne dal Papa un vecchio Cenobio nella diocesi di Spoleto, dopo non po¬che difficoltà. Ma sia il Bonanni che gli Operai Evangelici, finché si trattava di rimanere a Roma, erano entusiasti delle Missioni, ma quando sentirono di dover andare lontano, non ne ebbero il coraggio. Gaspare non era proprio l’uomo da arrendersi di fronte a queste difficoltà. Fece loro capire che quella era la Volontà di Dio e riuscì a convincerli. Il Cristaldi fece sapere che anche il Santo Padre voleva che la nuova Congregazione fosse intitolata al Prez.mo Sangue, e che desiderava riceverli in udienza. Il 26 luglio con il Mandato e la benedizione di Pio VII, quel primo drappello partì da Roma. La Culla del nuovo Istituto sarebbe stata il vecchio Cenobio di S5. Felice in Umbria, la terra di S. Francesco d’Assisi. La profezia si stava avverando. La culla Dire che il 26 luglio del 1815 il drappello dei futuri Missionari della nuova Congregazione di Gaspare partì tutto per S. Felice non è esatto. Gaspare sì, volò solo e immediatamente, per precedere di vari giorni i compagni. E c’era anche un perché. Gaspare conosceva già lo stato del vecchio convento e te-meva che i compagni, già tanto restii a lasciare Roma, ne sarebbero restati talmente… inorriditi, da non aprire neppure le valige e ripartire immediata-mente con lo stesso legno, col quale sarebbero arrivati. Infatti era stato a Gia-no a predicare il Triduo della festa d’Ognissanti nell’anno precedente ed era andato a dare uno sguardo. Per lui quel vecchio convento era una manna del cielo, ma per gli altri? S. Felice è in posizione incantevole, come del resto incantevole è tutta l’Umbria per i suoi colli dolcissimi, il suo verde, i suoi campi, i suoi monu-menti; sorge fra alberi poderosi, su uno spiazzo abbastanza largo. La costru-zione è vasta per ampiezza di locali: cortile monumentale, col pozzo, portica¬to e loggiato; molte celle, refettorio, l’interno tutto affrescato ad ispirazione das-sicheggiante o a sostanzioso barocco: pure barocco e affrescatissimo è l’interno della chiesa. Però… qua e là è tutto sgretolato e cadente! Soffitti sforacchiati, dai quali, in qualche parte, si vedeva il cielo; porte innumerevoli senza battenti, spalancate su stanze alle quali è crollato il pavimento, sicché dalla soglia si possono vedere i locali inferiori. Mucchi di calcinacci e di mattoni ostruisco¬no i corridoi… Vetrate sporche e rotte, ragnatele in abbondanza. Al minimo rumore svolazzano pipistrelli. Ovunque, diciture latine e pitture chiassose che contrastano col silenzio quasi sepolcrale del tempio, dove da anni non entrava più nessuno. Le panche rigonfie dall’umidità e in disordine, ingom¬brano il pavimento; fuggono pipistrelli anche dai confessionali e rondini in alto passano da un finestrone all’altro. Nella mente di Gaspare s’affaccia, con la leggendaria storia di S. Felice martire, chiuso in un sarcofago nella cripta, la schiera di Benedettini, Agosti-niani, Passionisti che 1′ avevano popolato, molti dei quali giacevano nella cripta o sotto il pavimento della chiesa. Gaspare si trovò come disperso in quella possente rovina! Chiunque sarebbe fuggito, quasi il Cenobio stesse per crollargli addosso, ma egli, in quell’edificio desolato, salutò nel segreto del cuore, la prima Casa, la Culla, il sospirato Nido dell’ Istituto dei Missionari, che di li sarebbero partiti per recare nel mondo l’insegna del Sangue di Cri¬sto! Per il momento l’avv. Paolucci, cui sta tanto a cuore la fondazione, lo ospita in casa sua a Giano. Di li Gaspare scende tutti i giorni a S. Felice e, aiutato da volenterosi contadini, s’improvvisa muratore, falegname e fabbro per i re-stauri più urgenti onde far trovare ai compagni qualche camera e 1′ indispen-sabile per i primi giorni. Il Papa gli aveva donato un gruzzoletto; la generosità di quei contadini si esprimeva in tutti i modi e le famiglie più abbienti faceva-no doni e prestiti, garantiti dalla cambiale della… Provvidenza! La voce dell’ arrivo dei Missionari si sparse ovunque! Gaspare non stava in sé dalla gioia e ne scriveva a Mons. Cristaldi e ai compagni per entusiasmarli. Giunse finalmente 1′ ora di Dio! D. Gaetano Bonanni, D. Adriano Giampedi, D. Vincenzo Tani – i primi tre congregati con Gaspare nel nome del Sangue di Cristo – giunsero accolti dalla gran folla, che acclamava e benediceva, confon-dendo la propria voce col festoso suono delle campane. Nella chiesa, ripulita e addobbata a festa, cantarono il Te Deum.«Nella mattina seguente – tiene a scrivere Gaspare al Cristaldi – si mise subito l’esatta osservanza delle Regole». Gaspare si moltiplicava! Dopo un Triduo solenne, il 15 agosto 1815 la novella Congregazione ebbe ufficialmente i suoi Natali! «La folla è immensa – scriveva Gaspare – e accorre da tutte le parti». Alle funzioni parteciparono il Clero e le Comunità Religiose dei paesi vicini. I pre¬ti romani, prima così incerti, quel giorno dimenticarono perfino di prendere cibo. La letizia fu piena e gioconda. Gaspare raggiava! Mai fu più felice e mai lo sarà come quel giorno. A notte, quando i compagni stanchi cadono in sonno profondo, egli al lumi-cino d’una candela, scrive una meravigliosa lettera al Cristaldi. La lettera co-mincia così: «Converrebbe scrivere la presente più con lacrime di tenerezza, che con l’inchiostro» e termina: «Ho affidato 1′ Opera alla Madonna, Ella pen-serà a proteggerla dal Cielo e a benedirla amorosamente». Non avevano piu vino Abbiamo posto in rilievo come S. Gaspare, fin dal primo giorno della fon-dazione, instaurò la «perfetta osservanza delle Regole» ch’egli stesso aveva dato alla novella Congregazione. Ed è proprio questo il primo segreto dello sviluppo meraviglioso dell’Istituto: la perfetta osservanza. Diceva ai compa¬gni in disagio per il cambiamento del tenore di vita, cui erano abituati a Ro¬ma, dove non mancavano comodità, parenti ed amici: «I certosini fanno i voti e noi li osserveremo!» Infatti egli volle una Congregazione che sembrò strana a quei tempi, cioè senza voti e senza particolari obblighi, all’infuori di quelli cui ogni buon sacerdote era tenuto. Essa doveva basarsi sulla carità! Non per nulla S. Paolo aveva scritto che la carità è il vincolo della perfezione. La volle povera: «Se la Congregazione un giorno dovesse diventar ricca, non sarebbe più la mia Congregazione». Accettare tutto, ma servirsi del puro necessario, il resto doveva essere per i poveri. Non si poteva davvero parlare di ricchezza in quei giorni! Si mangiava e si beveva quel tanto che donavano i benefattori. Si dormiva in un vecchio con-vento, addirittura cadente, ove topi e pipistrelli la facevan da padroni. Mai un Missionario o un Fratello Inserviente se ne lamentò. Erano un cuore ed un’anima sola e vivevano in perfetta letizia. La benedizione del Signore era con loro. Ed ecco cosa accadde un giorno a S. Felice. Un episodio che richia¬ma alla memoria la bellezza dei Fioretti di S. Francesco e la semplicità di Fra Ginepro. Erano così anche i primi compagni del Santo. Uno di essi era Fratel Alessandro Pontoni di Camerino, il quale, avendo do-vuto interrompere gli studi nel seminario nel periodo dell’ invasione napoleo-nica, chiese al Fondatore d’essere accolto come fratello inserviente a S. Feli¬ce, perché «si sentiva chiamato alla vita religiosa». Di lui così è scritto nella cronaca di quella prima Casa: «Fu esemplare nell’osservanza delle Regole e per l’accuratezza e la bravura nel disimpegnare le faccende assegnategli». Era di forme imponenti e dotato di forza fisica considerevole, in vero contrasto con la sua dolcezza ed incantevole semplicità. Per le bestie, poi, aveva un amore tutto francescano, fino al punto che, su per le strade in salita, si carica-va sulle spalle parte della soma degli asinelli, che ormai esausti arrancavano senza fiato. Ne aveva tanta compassione che rimproverava con severità i pa-droni che li frustavano senza pietà. Così – è storico! – i somarelli, più ricono-scenti degli uomini, carichi o scarichi, quando l’incontravano, gli andavano incontro trotterellando e ragliando. Or avvenne che i Padri che stavano a S. Felice, a causa della cronica pover¬tà da giorni non bevevano più neppure un bicchier di vino, anche se la Rego¬la gliene assegnava uno a pranzo e un altro a cena. Un giorno, mentre erano a tavola, un somarello carico di due bei barili di quello buono, entrò diritto nel refettorio, ch’era a pian terreno, trascinando dietro il padrone, che gli si era aggrappato alla coda per fermarlo. Ci fu una risata generale! Quei buoni Pa¬dri invitarono quel signore a sedere a mensa con loro: «Non c’è gran che, ma ci dia l’onore di dividere con noi quel che passa oggi la Provvidenza». Il buon uomo accettò con piacere, ma, osservando che sulle mense c’erano soltanto bottiglie d’acqua, «Come si fa a mangiare – disse – senza nemmeno un bic¬chier di vino? Possibile che il vostro santo Superiore non vi permette di berlo neppure a tavola?» «No, amico, non è colpa del Superiore, anzi egli ha messo perfino nelle Regole che ce ne toccherebbe uno a pranzo e uno a cena; ma… quando ci sono i baiocchi per comprarlo. Ora è da tempo che i baiocchi non ci sono e il vino non si può comprare». Il buon uomo si commosse e rivolto a Fratel Alessandro: «Vieni, gli disse, dammi una mano!» Scaricarono i barili e ridendo aggiunse: «Il somaro e il suo padrone pregano i santi Padri d’accetta-re questo dono. Ora beviamone un bicchiere assieme alla nostra salute. Però qui c’è il tuo zampino, caro Fratel Alessandro, ammaliatore di somari!» Gaspare ch’era presente, aggiunse, lieto e bonario: «Lei ha ragione, ci sarà senz’altro lo zampino di Fratel Alessandro, ma c’è senza dubbio anche la ma-no del Signore. Chi ci dice che il somarello, creatura di Dio, non abbia, men¬tre passava di qui, sentito quella esortazione evangelica: Date da bere agli as-setati?». Vedrà il danaro moltiplicarsi La nuova Congregazione, benedetta dal Sangue Divino di Gesù, faceva grandi progressi. Gaspare, di tanto in tanto, era costretto a recarsi a Roma per disbrigare pratiche, provvedere fondi, cercare nuove reclute. Le richieste di Missionari in Umbria e altrove si moltiplicavano. La fama di quei santi sacer-doti ormai andava diffondendosi ovunque! Non mancavano tribolazioni. Gaspare, quando doveva assentarsi, scriveva lettere per incoraggiare, spronare, consigliare. E, in esse, insisteva sempre: «Uniti nella carità del Sangue di Cristo, zelanti per la sua gloria e la salute del-le anime; poveri con Cristo sulla croce». «Siamo poveri, ma c’è sémpre chi èpiù povero di noi; i poveri sono i padroni dei nostri averi, guai a mandarli via senza almeno un piccolo aiuto». «Noi siamo stati mandati come Cristo ad evangelizzare i poveri, cioè le popolazioni umili e i ricchi, tanto poveri nell’anima!». Sarebbe un errore pensare che Gaspare facesse soffrire fame e disagi ai suoi figli. Sorvegliava di persona a che la povertà non fosse scusa per la spor¬cizia e per far patire la fame. Cibo semplice, ma abbondante; casa e camere arredate del necessario per una vita tranquilla e la salute di chi l’abitava. Egli dava in tutto il più luminoso esempio. Ecco cosa si legge nella cronaca di quella casa: «Quante volte il poverissimo Can. Del Bufalo si toglieva scar¬pe, biancheria, mantello ed altro per darlo ai poveri! Poi cercava di rientrare di soppiatto per non farsi vedere quasi spogliato!» In altra cronaca si legge: «In tempo di pioggia non possono uscire più di due missionari, perché in casa c e un solo ombrello». S. Gaspare stesso, di suo pugno, annota: «Nella fonda-zione di questo Istituto assai vi fu da patire non soltanto per la mancanza di soggetti, ma del necessario sostentamento. I Missionari vanno a due a due, come gli Apostoli, a predicare la parola di Dio. Siano rese grazie alla Provvi-denza e alle buone popolazioni, che mai ci hanno fatto mancare il pane quoti-diano». Non poche volte anche Gaspare si trovò a dover far fronte alle scadenze con i fornitori! Non esistevano cambiali ed essi furono sempre fiduciosi nella sua parola. Ma, a volte, anche i fornitori non navigavano in buone acque ed allora, in qualche caso, intervenne chiaramente la Provvidenza. Avvenne che, nell’ assenza del Fondatore, D. Biagio Valentini, economo della casa di S. Felice, era rimasto proprio al verde. Non avendo più coraggio di chiedere dilazioni e nuovi crediti al negoziante, scrisse al Santo che, con quei quattro baiocchi rimasti nel cassetto e senza alcuna probabilità di poter¬sene procurare altri, non sapeva proprio dove battere la testa. La risposta di Gaspare fu immediata e precisa: «Abbia fede e vedrà il danaro moltiplicarsi nelle sue mani». D. Biagio era anch’egli un Santo, conosceva bene S. Gaspare (poi ne divenne il primo successore) e la sua vocazione e l’ingresso nella Congregazione furono accompagnate da una sequela di circostanze che ebbero del miracolo¬so. Pensò: «Il Canonico è un santo e… se lo dice lui, così sarà! » Volle il caso – o il Signore? – che la lettera di S. Gaspare gli fosse recapitata proprio alla pre¬senza del fornitore venuto da Giano a… bussare a danaro. Gli fece leggere il foglietto e quegli, tentennando il capo, osservò: «Senza dubbio il sig. Canoni¬co è un santo e fa miracoli, ma se i soldi in quel cassetto Lei, Padre Biagio, non ce li ha messi, non vi possono essere nati da soli!» D. Biagio si segnò, apri il cassetto e… uno, due, tre… Quando raggiunse la cifra esatta da pagare, la ciotola rimase pulita pulita! Il volto di D. Biagio, mentre contava, era rimasto sereno, senza mostrar per nulla meraviglia, come fosse tutto più che naturale. Il creditore invece guar-dava trasecolato ed allegro: stava per avere tutto, fino all’ ultimo baiocco! Uscito dal convento, andò in giro mostrando il gruzzoletto, e dicendo: «Fate pure credito al Canonico Del Bufalo, tanto, se non paga lui, paga sempre il Si-gnore!». Una corona di calici Ogni santo ha un proprio segreto che lo ispira ed anima: il carisma, che lo distingue nella sua vita. Il segreto è, ovviamente, sempre il Cristo vissuto, ma ognuno si sente da lui attratto in maniera peculiare, anche secondo la propria natura. Gaspare può essere in molte cose paragonato all’ Apostolo prediletto sia per la sua mai offuscata purezza, sia per il suo filiale abbandono sul Cuore san-guinante del Signore; può essere anche paragonato a Paolo di Tarso per la sua predicazione calda e accorata del Cristo Crocifisso. Il nostro Santo, però, sarà per tutta la vita particolarmente preso, ammaliato, innamorato del Sangue Redentore, che ogni mattina consacra nel Calice della sua Messa. Prima a S. Nicola in Carcere, poi nell’ orrore dell’ esilio, i trasporti d’amore per quel San-gue lo confermano nella incrollabile scelta di vita: versare anche il proprio sangue per quel Sangue! Nel carcere già vede la sua futura Congregazione che inalbererà lo stendar¬do del Sangue Prezioso. A Firenze, prima sosta dopo la liberazione, sorge l’aurora dell’apostolato per la diffusione del culto al Sangue di Cristo. Gaspa¬re è convinto che il suo apostolato, per 1′ espressione del massimo pegno che Cristo ha dato del suo amore all’umanità, debba andare molto al di là del quo-tidiano dovere sacerdotale. Egli vorrebbe sentire in sé quello stesso slancio col quale Cristo ha effuso il suo Sangue. Chi ha osato accusare Gaspare di sentimentalismo non ha capito proprio nulla della maschia statura spirituale e mistica di questo Santo. Egli infatti è il santo che si accosta più d’ogni altro a Pietro e Paolo nel concetto fondamentale della Redenzione universale operata da Cristo versando il suo Sangue. E di tale verità ne fa costante norma di vita. Vita verginale, distaccata dal mondo, dalle persone e cose più care per una pratica eroica d’ogni virtù cristiana. Vita di preghiera e di meditazione che lo inoltri sempre di più nel solco purpureo di quel Sangue e lo assimili maggior-mente al Martire del Golgota. Vita d’apostolato, affinché quel Sangue, dal Cuore squarciato di Cristo, raggiunga tutte le anime e a Lui le riconduca. Alla luce di quel Sangue comprende tutto il male della vita e la tristezza del pecca-to. Cristo vuol lavare le sordidezze del male col suo Sangue e l’ha messo nelle mani dei sacerdoti per compiere con la loro cooperazione questo ministero d’amore. Gaspare fa sue le sofferenze e le miserie altrui e si sente sanguinare per il prossimo lontano da Cristo. Adora quel Sangue, trabocca d’amore per quel Sangue, distribuisce quel Sangue, chiama attorno a sé uno stuolo di apo-stoli di quel Sangue, lotta per il trionfo di quel Sangue! «E l’arma dei tempi, l’arma più potente per vincere ed umiliare Lucifero!» È di suo pugno la frase che troviamo in una lettera al Cristaldi: «Il demonio mi divorerebbe, se non fosse una corona di Calici dei quali parmi vedere il mio spirito circondato». Come si rileva da altri suoi scritti non era un modo di dire, ma una visione reale e quasi costante. Il Pallotti, santo, amico e confes-sore di Gaspare, afferma: «Il demonio perseguitava il Servo di Dio, perché propagava la devozione al Prez.mo Sangue» e così tanti altri testimoni ed epi-sodi della vita del Santo lo confermano. «I contrasti del demonio – scrive an-cora Gaspare – confermano che l’Opera è da Dio. Teme il Nemico per le tante anime che gli strappa il Sangue Divino e gli strapperà in futuro per la diffu-sione che ne faranno gli Operai Evangelici di questo Santo Istituto». Gaspare sa che il Sangue è l’emblema insuperabile della carità non solo in chi l’aveva versato, ma anche in chi se ne sarebbe fatto tramite per portarlo alle anime. Il Sangue di Gesù non conosce la legge della stasi, ma è il divenire perenne, il perpetuarsi per la moltiplicazione dei credenti. Gaspare ne divie¬ne il serafino, il più grande apostolo, la tromba squillante delle sue glorie fino alla morte, ed oltre, tramite i suoi figli. Egli vuole che, come tutta la sua vita, anche la nostra sia un continuo inno d’amore al Sangue di Gesù. Parla con la Madonna Subito dopo la fiamma del Sangue di Cristo, che al di sopra di ogni altra, ar-deva nel cuore di S. Gaspare, sì da renderlo un vero serafino in terra, il suo cuore palpitava d’intenso amore per Maria, che quel Sangue donò all’umani¬tà. «Questa Madre celeste egli amò col cuore di un serafino; la vedeva tutta inondata di sovrumano splendore, irradiante dal Mistero del Sangue, che sta all’origine di tutte le sue grandezze». Il Santo seppe mirabilmente intrecciare i due Misteri del suo cuore facendo dipingere un quadro, ove la Vergine è rappresentata col Bambino in braccio, che leva con la destra il calice del suo Sangue e lo mostra all’umanità, mentre ella, con un gesto della mano, invita i peccatori a ricorrere a quel Sangue che per essi Gesù sparse con tanto amore. Questa dolcissima immagine, che il Santo portava sempre con sé nella predi-cazione, fu da lui chiamata Madonna delle Missioni, perché, diceva che, dal momento in cui quel quadro veniva esposto sul palco, la Missione prendeva fuoco, perché la Missione la faceva la Madonna. E soleva anche darle tanti al-tri titoli affettuosi, come: Grande Missionaria, condottiera della Missione, Rapi¬frice dei cuori. Il popolo la chiamò subito Madonna del Prez.mo Sangue e Regina del Prez. mo Sangue, titolo col quale viene invocata e venerata ai nostri giorni. «Parlando della Madonna – troviamo scritto in molte testimonianze – Gaspa¬re tutti eccitava a ricorrere a Lei, cavando lacrime di tenerezza dagli occhi de¬gli astanti». Quando invitava i fedeli ad inneggiare a Maria, gridava: «Evviva Maria!» Quel grido sembrava un tuono, al quale tutto il popolo rispondeva con un boato che faceva tremare la volta del tempio: «Viva Maria!». «Quando esaltava le glorie della Vergine, lo faceva con tale foga ed ardore da parer unserafino d’amore in lei rapito e si portava via il cuore di tutti». Così annunzia¬va dal palco la predica prediletta, che lo faceva arrossare in volto come un in¬namorato: «Sapete di chi vi parlerò ora? Della cara Mamma nostra!». Nelle Missioni, nelle Case dell’ Istituto e in quelle private, durante i viaggi, nelle buie ridotte delle prigioni, negli ospedali, invitava tutti ad amare Maria. Quest’amore così grande e così dolce l’aveva appreso sulle ginocchia della Madre. La buona Annunziata, tenendolo in braccio o per mano, lo portava a pregare nelle belle chiese di Roma dedicate alla Vergine, e per strada sostava-no ad ammirare e salutare le tante bellissime nicchie, che il devoto popolo ro-mano soleva erigere sui cantoni dei palazzi e negli incroci delle vie. Soleva raccomandare vivamente la recita del Rosario, la devozione all’Ad-dolorata e la celebrazione delle grandi solennità dell’ Immacolata e dell’ As-sunta. Nella sua Regola prescrive che al sabato i Missionari recitino i Cinque Salmi, le cui iniziali compongono il Nome di Maria, e tengano una predica con l’esempio della Madonna. Fu tra i grandi promotori della pratica del Mese Mariano e, come abbiamo già detto, volle aprire la prima Casa della Congre-gazione il 15 agosto, ponendola sotto la protezione della Vergine. Volle in fine che nello stemma della Congregazione fossero incrociati i nomi di Gesù e di Maria. Come potremmo meravigliarci che la Vergine abbia detto ad un’anima pia (il Merlini?) che Gaspare era la pupilla degli occhi suoi e ch~alle preghiere del Santo abbia operato tanti strepitosi prodigi? Sappiamo che Gaspare aveva, come fratello inserviente, Fratel Bartolo¬meo, che con le sue stranezze lo fece tanto soffrire; per altro gli era fedelissi¬mo, lo seguiva sempre e si sarebbe fatto fare a pezzi per lui. Bartolomeo ne sapeva perciò più di tutti sulla vita del Santo e a volte spiava anche per scoprire cosa avvenisse di straordinario, quando il Santo si chiudeva in camera, e dagli spi-ragli della porta vedeva sfuggire raggi di luce. Bartolomeo raccontava: «Il Ca-nonico parla con la Madonna!» «Certo – gli dicevano – prega ad alta voce!». «No, no, – precisava – parlano assieme, è un colloquio, non una preghiera. Èvero, sento solo le parole del Canonico, ma si capisce bene che è una conver-sazione. Quanto egli ami la Vergine lo so io, che, dopo questi colloqui, trovo perfino bruciacchiate camicie e vestiti dalla parte del cuore!». C’era una vecchietta Fino a non molti anni fa, i vegliardi delle ridenti colline ed ubertose vallate che circondano S. Felice, narravano ai figli e ai nipoti le belle funzioni che si praticavano nella chiesa del Convento, quando la campana squillante chia-mava a raccolta su quel colle, dai circostanti villaggi e casolari, quei buoni terrazzani, che si recavano a frotte al Santuario dei preti santi. Narravano, come avevano appreso a loro volta dai nonni, dell’arrivo di Ga-spare, il Padre santo, della sua dolcezza, della sua bontà e dei miracoli che operava. Quanti aneddoti, quanti fatti veri! Traviati che tornavano a Dio, dopo averlo sentito predicare una sola volta, malati guariti da una sua semplice benedizione, previsioni buone per i timo-rati di Dio e cattive per chi rifiutava pentirsi dei propri misfatti. I buoni che, al suo passaggio, correvano a baciargli la mano e i perversi che prendevano il largo temendo che leggesse nelle loro coscienze. E quando pregava e celebrava Messa? Un angelo, un vero angelo! E narravano che c’era a quel tempo in Arrone, un paese non molto lontano da S. Felice, una vecchietta che… non si decideva a morire. Era sempre li, con l’anima stretta tra i denti, senza che la morte riuscisse a strappargliela. Forse anche il Signore aveva dimenticato che sulla terra c’era pure lei. La chiamavano la svampita cioè una che non era più tanto a posto col cervello, perché, vaneggiando, ripeteva sempre, perfino al parroco, che cercava di convincerla a prendere l’Estrema Unzione: «Quando verranno i Missionari di S. Felice a confessarmi…» Al sentirla cadevano dalle nuvole, perché S. Felice allora era ancora un vec-chio Convento, che nessuno abitava, nel timore di sentirselo crollare improv-visamente addosso. Ma la vecchia era irremovibile: «Verranno, verranno!» Passarono mesi ed anni finché, un pomeriggio, le campane di Arrone co-minciarono all’improvviso a suonare a distesa. Le strade s’affollavano; a gruppi ed alla spicciolata venivano su in paese gli abitanti della campagna, cantando canzoncine sacre. Le Confraternite in divisa ed il Clero in cotta e stola si portavano in processione, anch’ essi cantando, all’ ingresso del paese. Ed ecco salire su dal piano una carrozza con dei sacerdoti cinti d’una fascia, col crocifisso sul petto, appoggiati ad un bastone, come quelli che usavano gli antichi pellegrini. La gente li guardava con rispetto e curiosità. Non ne aveva-no mai visti’ vestiti a quel modo. «Sono i Padri santi, i Missionari di S5. Felice! Chi è Gaspare, il padre santo fondatore? Forse quello più anziano…, no, sì… Ecco; si inginocchiano, baciano la terra… abbracciano i sacerdoti dì Arrone; il Parroco porge loro un grande crocifisso… Lo prende il più giovane… Possi¬bile sia proprio lui Gaspare, colui che fa i miracoli?» La processione s’incammina alla Matrice, cantando: «Perdono, mio Dio!». In quel momento alla vecchietta non pensa più nessuno. Dopo la funzione d’apertura, Gaspare chiede d’essere accompagnato ad un’umile casetta. Va di filato, come se la conoscesse da sempre, eppure non era mai stato ad Arrone. Bussa, entra… La vecchietta è all’ istante come illuminata da un raggio che scende dal cielo. «Oh! Ecco il Santo Missionario di S. Felice!» Si confessa, ri-ceve i sacramenti, si addormenta placidamente nel Signore. Era l’11 novembre 1815. Al funerale nessuno restò in casa. La Missione ebbe un successo strepitoso. Angeli e demoni «Mille saluti di paradiso a fratel Giosafat, abbiategli gran carità; ve lo racco-mando più che me stesso e ditegli che preghi per me e che, quando andrà in Paradiso, baci la mano per me a Maria». Così scriveva da Roma S. Gaspare a fratel Sante Angelini, che stava a S. Felice. «Fratel Giosafat, degno di tanta stima, fu uno dei primissimi laici, fratelli inservienti o coadiutori, di gran virtù, che lasciò nell’Istituto grande,odore di santità». Da pochi giorni era stata aperta la prima Casa dell’Istituto a S. Felice quan¬do, sull’ imbrunire, un uomo sulla settantina, d’aspetto raccolto e dignitoso, suonò alla porta del vecchio Convento. Fu proprio Gaspare ad aprirgli e l’uo-mo, saputo chi egli fosse, gli si inginocchiò dinanzi, gli baciò la mano e lo im-plorò: «La fama di santità di questi Padri è giunta fino a noi nelle Marche; vi prego, padre santo, accoglietemi qui con voi, come vostro umile servo». Ga-spare lo fissò un istante, l’abbracciò e disse: «Siate il benvenuto tra di noi, fra-tello, e Dio vi benedica». Il Fondatore aveva letto nella sua anima. Infatti, fratel Giosafat Petrocchi, nato a S. Elpidio nelle Marche, allevati i fi-glioli e morta la sua ottima consorte, s’era dato all’ apostolato tra le famiglie. «Era uomo di straordinaria pietà, di singolare innocenza, d’umiltà la più gran¬de, di viva carità, semplice come una colomba». Insomma una di quelle ani¬me candide che Dio ama e alle quali preferisce rivelarsi. A S. Elpidio tutti sapevano che Giosafat dall’ alto della terrazza della sua ca¬sa amava contemplare in preghiera la S. Casa di Loreto e che, nelle notti stel¬late, il Signore si compiaceva fargli vedere gli angeli, che dal cielo scendeva¬no sul Santuario. Il sant’ uomo si presentava nelle case: il volto soave, i modi cortesi; la dol¬cezza della parola e la compostezza gli spalancavano tutte le porte. Com’era piacevole intrattenersi con quel vecchietto che sapeva radunare Je famiglie, leggere buoni libri, raccontare storie delle vite dei santi e recitare con lui la corona del S. Rosario. E come sapeva cogliere il momento e la buona occasio-ne per parlare in modo semplice e accorato dell’amore di Cristo e ricondurre a lui i peccatori! Eccolo a S. Felice. «Sebbene d’età avanzata – dice il Merlini – si prestava a tutti i servigi, girava per la questua, insegnava il catechismo ai fanciulli e ai suoi confratelli coadiutori, e passava lunghe ore e a volte intere notti, in pre¬ghiera. Chi non trovava in casa Giosafat, sapeva dove cercarlo: era sempre nascosto nella cripta della chiesa di S. Felice, raccolto in fervida preghiera». «Purtroppo, Dio permettendo – dice sempre il Merlini – soffrì pure moltissi¬mo per parte di alcuni dei nostri. Iddio voleva con quelle tribolazioni matu¬rarlo ancor meglio per il Cielo. Egli però fu sempre paziente e tollerò con mi¬rabile ilarità, senza mai portarne lagnanze ai superiori». «Predisse – citiamo sempre il Merlini – ad altro fratello inserviente, sicuro di sé, che avrebbe invece abbandonato la Congregazione, e ad altro, tanto incer¬to e combattuto, che avrebbe perseverato fino alla morte. Esortava poi che nessuno si sbigottisse per l’Istituto quando era in difficoltà, perché ci avrebbe pensato la Vergine». «Soffrì pure non poco da parte del Maligno, che gli appa-riva sotto varie forme e spettri». Anche D. Camillo Rossi narra che a volte Giosafat gridava forte, come per mettere in fuga qualcosa di orribile. S’udiva, alla fine, un gran rumore per tutta la casa: era segno che Satana aveva perdu-to la battaglia. Come sapeva quest’uomo di Dio nascondere le sue sofferenze! Soffrì anco¬ra di più negli ultimi giorni. La sua morte, già da lui predetta con largo antici¬po, fu preziosa davanti a Dio e agli uomini. Molti asserirono d’aver ricevuto grazie per sua intercessione. Sepolto nella cripta di S. Felice, dopo alcuni me¬si il corpo fu trovato ancora intatto. Quest’uomo, che passò la vita nell’ amore di Dio e del prossimo, tra la visio¬ne di angeli e il tormento dei demoni, fu pianto a lungo da quelle buone popo-lazioni che dicevano inconsolabili: «Abbiamo perduto il nostro santo Fratello Giosafat!». Il puzzo dei peccati Tra le luminose figure di sacerdoti che, guidati da Gaspare, lo affiancarono nella fondazione del nuovo Istituto e ne furono anche i capisaldi, vi fu quella «candidissima» del giovane D. Vincenzo Tani, della nobile famiglia dei Mar-chesi Tani. Nonostante la ferma opposizione del padre, essendo egli il primo-genito, rinunciò al marchesato e accorse tra quei primissimi che, commossi dalla sapiente eloquenza e dalle virtù di Gaspare, lo avevano seguito. Gaspa¬re aveva avuto da Dio, tra gli altri doni, quello d’una potente attrattiva per cui tanti, sia sacerdoti che laici, pronti ad abbandonare tutto chiedevano di diventare dei suoi. Sappiamo come a Roma, quando Gaspare parlava del nuovo Istituto che sa-rebbe stato intitolato al Prez.mo Sangue, molti sacerdoti si dichiaravano prontissimi a farne parte. Invece, quando arrivò il momento di cambiare la vita di città con il vecchio Convento di S. Felice, quasi tutti si ritirarono. Ma il giovane D. Vincenzo, che con l’Albertini e Gaspare, faceva parte della Con-fraternita del Prez.mo Sangue eretta nella basilica di S. Nicola in Carcere, lo seguì immediatamente. Anzi, fu proprio la sua grande devozione al Sangue di Gesù, che gli fece prediligere la Congregazione di S. Gaspare ad altri Istituti, che, per le sue virtù, se lo contendevano. Così fu tra i quattro presenti alla na-scita della Congregazione nel Convento di 5. Felice il 15 agosto 1815. Di lui scrive il Merlini: «Di costumi candidissimi, per conservarsi tale face¬va grandi penitenze fino al punto di grave nocumento alla sua gracile salute. Fece voto di dedicarsi all’assistenza dei carcerati e dei malati negli ospedali e di far lunghi pellegrinaggi a piedi, anche quando, per motivo di ministero, doveva recarsi in lontani paesi, sfidando i grandi calori estivi e le intemperie e rigidità d’inverno». Narrano testimoni oculari degni di fede, che il Signore gradiva molto tali penitenze, perché più volte lo incontravano senza ombrello sotto 1′ imperver-sare del temporale, imperturbabile, come nulla fosse, rapito nella lettura del breviario. Notarono che un misterioso raggio di sole, pur nella tormenta, pre-cedeva i suoi passi. Con la scusa di baciargli la mano lo avvicinavano e nota-vano con stupore che le vesti erano perfettamente asciutte. Con umiltà si prestava ai servizi più bassi; non aveva mai un baiocco in ta¬sca, perché donava tutto ai poverelli, perfino vesti, scarpe, coperte, lenzuola e materassi. Altro dono di Dio era quello di leggere nelle coscienze, fino al punto di sen¬tire il puzzo dei peccati. Si racconta, e non è una favola, che accostando un giovane lo esortò a con-fessarsi. Avendogli quello risposto che non aveva nulla da confessare, D. Vincenzo gli rivelò le colpe delle quali s’era macchiato. Il giovane irritato co-minciò a percuoterlo col bastone ed egli, anziché reagire, s’inginocchiò e ai colpi rispondeva con la preghiera. Ma fu il giovane a stancarsi per primo, si ravvide e, inginocchiatosi al suo fianco, si confessò. D. Vincenzo aprì il catalogo dei morti della Congregazione. «Fu il primo – disse S. Gaspare – a presentarsi davanti a Dio con le insegne della Congrega-zione. O felice presagio per tutti noi, che un santo ci abbia preceduto!». Devotissimo della Madonna scrisse anche un toccante libro: L’inferno chiu¬so ai veri devoti di Maria – e spirò col suo soave nome sulle labbra, all’ età di soli 50 anni! Così è scritto nelle cronache dell’ Istituto: «D. Vincenzo Tani fu il primo col titolo glorioso di Missionario del Prezioso Sangue ad entrare per le porte bea-te del Cielo. Gli eletti si rallegrarono accogliendo questo primo fiore di una pianta novella che Dio suscitò nella sua vigna, ripetendo commossi con lui il canto sublime dell’ Apocalisse: «Ci hai redenti, o Signore, col tuo Sangue!». Il merlo vola alto! Era appena volato al cielo D. Vincenzo Tani che il Signore volle rimpiazzar¬lo con un’ anima altrettanto candida e dotata di virtù ancor più spiccate: D. Giovanni Merlini, nato a Spoleto il 25 agosto 1795. Aveva tanto sentito parlare di Gaspare, e di quei santi sacerdoti di S. Felice, che senti il desiderio di salire al Convento, senza però intenzione alcuna di ri-manervi. Ma appena conobbe S. Gaspare ne restò affascinato, e Gaspare di lui: il santo lo guardò, lo amò e gli disse: «Rimani con me, diventerai missio-nario e, nel nome del Sangue di Cristo, salverai tante anime». D. Giovanni ri-mase. Alla scuola di tanto Maestro, volenteroso solo di obbedirgli e d’imitar¬lo, raggiunse le più alte vette della perfezione, tanto da essere ritenuto addi-rittura più santo del Fondatore. Gaspare lo nominò, così giovane, suo segretario; lo condusse con sé nella predicazione e, se impedito, si faceva da lui sostituire nelle Missioni più im-portanti e delicate. A L’Aquila, in Abruzzo, autorità e popolo in attesa di Ga-spare restarono delusi e irritati all’ apparrire di quel pretino biondo e scarno, ma quando lo sentirono!… A lui Gaspare affidò, sebbene giovanissimo, il compito più arduo che possa mai esservi per un sacerdote, anche il più pro-vetto e virtuoso: la direzione spirituale della giovinetta Maria De Mattias, la futura fondatrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ne fece un gioiello di santità ed oggi la veneriamo sugli altari. Altro evento importantissimo della sua vita fu l’apostolato per la conversio¬ne dei terribili briganti della Ciociaria. Riuscì ad accattivarsene la fiducia fino al punto che, di notte, uomini così feroci si recavano ad aprirgli 1′ animo, di-sposti ad eseguirne le raccomandazioni. Negli Archivi della Congregazione si conserva una famosa lettera scritta a D. Giovanni dai briganti, nella quale si dichiarano pronti alla resa e chiedono, suo tramite, l’intercessione di Gaspa¬re per ottenere clemenza dal Papa. Le fiamme che bruciavano nell’anima di D. Giovanni e ne accendevano mistici ardori e ardente zelo, erano il Sangue di Cristo e la Vergine. La vita di D. Giovanni è costellata di tanti episodi meravigliosi. Fu il secondo successo¬re di S. Gaspare nel governo della Congregazione e la condusse a larga espan¬sione in Italia e all’Estero, ne perfezionò le Regole e tradusse in atto con sag¬gezza e fermezza lo spirito del Fondatore. Ottenne da Pio IX l’estensione del¬la Festa del Prez.mo Sangue a tutta la Chiesa, e quel grande Papa lo ebbe ca¬rissimo, fino al punto da volerlo suo consigliere e confessore. Sebbene sordo, nei colloqui di spirito con coloro che si affidavano alla sua direzione e in confessionale, sentiva benissimo. Leggeva con acutezza nel se-greto delle coscienze, prevedeva il futuro e dava i consigli più adatti per il be-ne spirituale di chi 1′ ascoltava. Riuscirono sempre esatti! I prodigi da lui ope-rati non si contano; guarì ogni sorta di malattie e in particolare chi era affetto da cecità. A Sonnino, la cittadina salvata da S. Gaspare dalla distruzione decretata dal Papa, perché nido dei più feroci briganti, lo chiamavano il santo che non si ba¬gna, perché era stato visto più volte camminare frettolosamente per le vie del paese sotto una pioggia torrenziale, senza ombrello, forse dimenticato per ac¬correre in fretta al capezzale dei moribondi. I Sonninesi si facevano curiosi dietro i vetri delle finestre a guardarlo. «Chi è quel prete così pazzo – doman-dava chi non lo conosceva – che se ne va in giro senza ombrello con questo tempaccio?» «E’ D.Giovanni il santo missionario che non si bagna!» risponde¬vano. E gli increduli, che andavano a constatare di persona erano costretti ad ammettere con stupore: «È proprio vero!» Vittima dell’investimento d’un vetturino anticlericale, mori a Roma il 12 gennaio 1873. Negli ultimi istanti coloro che circondavano il suo letto, ebbe¬ro la certezza che D. Giovanni avesse avuto la visione confortatrice della Ver¬gine. Infatti spirò col volto luminoso e lo sguardo in alto esclamando: «Ma¬donna mia, speranza mia!». Di lui 1′ elogio più grande, mentre erano entrambi ancora in vita, lo fece proprio 5. Gaspare, alludendo al suo alto grado di santità: «Il Merlo vola alto, molto alto! D. Giovanni è uomo di santità e miracoli». Vieni su, bambino! Si tolse la fascia che gli cingeva la vita, la calò nel pozzo, dove galleggiava il corpo esanime d’un bambino, e disse forte: «Vieni su, bambino!» Lo tirò fuori e lo restituì alla madre che si disperava in pianto. Un giorno si sentì un urlo dalla gente: «È morto, è morto!» Un fulmine ave¬va stecchito un povero venditore ambulante. Gaspare gli disse: «Vada D. Bia¬gio, vada a soccorrerlo». D. Biagio accorse e lo richiamò in vita. L’uomo, ap¬pena aprì gli occhi, risvegliandosi come da un incubo, disse: «Ero già condan¬nato e sull’orlo dell’inferno, perché ero morto in peccato. Che grande grazia ho ricevuto!» Quando domandavano a D. Biagio se erano proprio veri questi miracoli, egli rispondeva: «Si, sono veri, ma non li ho fatti mica io. E stato il Fondatore che me lo ha ordinato». Chi era questo missionario che compiva sì strepitosi prodigi con o senza or-dini di S. Gaspare? D. Biagio Valentini, nato a Porto Recanati, nel 1792. Sacerdote assai colto e di ottima e santa vita, era di carattere assai timido e incerto. Recatosi per consiglio dal Santo, che predicava a Loreto, questi lo fece inginocchiare con sé davanti alla Vergine e dopo aver pregato assieme, lo invitò ad unirsi a lui. D. Biagio predicò col Santo qualche Missione, ma poiché la famiglia era contra-ria al suo distacco, se ne tornò a casa. Gaspare, dopo un anno, tornò ad insi-stere, ma D. Biagio tentennava, anche perché aveva avuto emottisi. Allora il santo gli scrisse:«Venga! Per quanto riguarda la sua salute, non ne soffrirà alcun danno; anzi!…». A queste parole D. Biagio fuggì da casa e lo seguì. Era guarito! Avendo capito, senza più dubbi, che era volontà di Dio ch’egli diven-tasse missionario e che Gaspare era uomo di Dio, s’abbandonò completa-mente alla sua direzione. Era a predicare con Gaspare a Gualdo Tadino, quando gli giunse una lette¬ra del fratello: «Mamma è moribonda e vuole assolutamente vederti». Gaspa¬re indisse pubbliche preghiere in chiesa e disse a D. Biagio: «Non abbandoni questa popolazione, Dio provvederà». Ma ecco il ferale annunzio della morte della buona donna, il cui trapasso però era stato lieto perché, negli estremi, aveva avuto la gioia di vedere il figlio, d’avergli parlato e d’essere stata da lui confortata e rasserenata». Eppure D. Biagio non s’era allontanato neppure un istante da Gualdo Tadino, distante 80 miglia dal suo paese. La vita di questo santo missionario è ricchissima di eventi prodigiosi, ma più ancora di tanti aneddoti sulla sua carità, dei doni soprannaturali, della maniera tutta sua di commuovere i peccatori fino alle lagrime e di riportarli a Dio. Amava soprattutto passare il tempo tra gente umile. A Rimini, per esem-pio, passava intere giornate tra i pescatori al porto, dove S. Antonio aveva predicato ai pesci. Era d’una pietà profonda e frequenti erano anche le estasi; prevedeva il futuro e leggeva nel segreto delle coscienze. Percorse con S. Ga-spare ed altri confratelli tutta l’Italia Centrale, predicando con grande zelo, senza curarsi di stenti e fatiche e sottoponendosi ad ogni sorta di privazioni e disagi; eppure non risenti mai dell’antico male. Era dunque un miracolo vi-vente. Il demonio per vendicarsi delle anime perdute per il suo zelo lo vessa¬va continuamente con palesi persecuzioni e violenze. Molti furono i testimo¬ni difatti umanamente inspiegabili. Morto il Fondatore, tutti i Missionari, con voto unanime, lo elessero suo successore. Seppe, in un momento così delicato, guidare l’Istituto e continua-re l’Opera di S. Gaspare. Si spense serenamente e santamente il 22 novembre 1846, lasciando largo rimpianto. Non possiamo qui tacere, prima di concludere, altri due episodi tanto straordinari. A Frosinone, sceso in chiesa a celebrare, trovò la signora Teresa Chiappini, che piangeva dirottamente: la sua bambina era cieca. D. Biagio benedisse la piccola e la restituì alla madre: era guarita. A Rimini D. Biagio assisteva spesso negli ultimi terribili istanti i condannati a morte; uno di questi rifiutava ostinatamente i sacramenti. D. Biagio abbrac-ciandolo gli disse: «Fratello prima che sul tuo collo cada la scure, recita con me almeno un’Ave Maria». Quando giunsero al «Prega per noi peccatori ora e nell’ ora della nostra morte» il condannato scoppiò in lacrime e chiese l’asso-luzione. Ancora una volta la grazia del Signore aveva trionfato per la dolcezza di D. Biagio! È S. Giorgio, Monsignore «Siamo in bisogno di molte cose… qui, però, trovo le mie delizie, perché vi è solitudine e campo di far del bene alle anime». Così scriveva da S. Felice D. Gaetano Bonanni, romano, nato il 16.6.1776. Si racconta anche che la mam-ma, prima di darlo alla luce, avesse visto dalla terrazza un raggio luminoso, come di una stella, venuto a cadere sulla sua casa, e interpretò il fenomeno di lieto auspicio per la futura santità del figliolo. E non si sbagliò. Per Gaspare il Bonanni, già prima della prigionia, fu come fratello, a lui unito in tutte le opere buone della città di Roma, e poi compagno nel porre la prima pietra spirituale nella fondazione della nuova Congregazione, sorta in S. Felice. Anzi, siccome anch’egli, senza saper nulla di Gaspare, aveva avuto l’idea di riunire volenterosi sacerdoti, che si dedicassero alla predicazione delle Missioni – idea che poi lasciò cadere – Gaspare, nella sua grande umiltà e per la stima che aveva di questo suo fraterno amico, fece del tutto per farlo apparire come fondatore fino al punto da volere che fosse a lui intestato il Re-scritto col quale Pio VII donava a Gaspare quel vecchio Convento. Il Bonanni da giovane fu guarito miracolosamente da tumore al collo e vide nel prodigio la chiamata di Dio, per cui rinunziò alle ricchezze della famiglia e prese la via del sacerdozio, unendosi a Gaspare «in un solo cuore per lavora¬re nel campo del Signore». Ospedali, infanzia abbandonata, carceri, ospizio di S. Galla, visite a famiglie povere, li videro sempre assieme. Li separò per qualche anno solo la prigionia di Gaspare. Al Bonanni non fu imposto l’ini¬quo giuramento e poté restare a Roma. Subito dopo la prigionia si ritrovarono uniti, prima nella Confraternita del Prez.mo Sangue di S. Nicola in Carcere e poi a S. Felice. Non è davvero facile dire dell’ operosità di quest’ Uomo di Dio! Nella cronaca di S. Felice è elencato il numero stragrande delle sue predicazioni in Um¬bria ed in altre parti d’Italia. A tali fatiche, come non bastassero, aggiungeva le più dure mortificazioni, digiuni e discipline. Così anch’ egli fu tra quei pri¬mi santi missionari, che fecero di S. Felice una Casa di Santi ed attirarono su quel colle un gran numero di anime desiderose di tornare a Dio. «Andiamo al paradiso di S. Felice!» dicevano i fedeli, e accorrevano da ogni dove. Lo zelo apostolico e la santità attirarono su di lui l’attenzione di Pio VII, che lo volle vescovo di Norcia, nonostante il suo reiterato umile rifiuto. Ma per lui fu solo questione di «cambiar posto», perché anche nel vescovado conti¬nuò la sua vita missionaria. In Diocesi e nei dintorni era chiamato il Vescovo Santo, tanta era la sua modestia, il rifiuto di ogni onore e lusso, l’estrema po-vertà, la dedizione assoluta al bene della Diocesi. Perfino i rivoluzionari e i settari deposero ogni idea di ribellione e rigettarono le loro idee atee in osse-quio alla santità del loro Vescovo. Di lui sono rimaste anche numerose testi-monianze difatti straordinari. Mons. Bonanni, com’era naturale, dedicava particolari premure ai giovani seminaristi e si recava spesso a pregare, a studiare e a desinare con loro. Un giorno capitò, inatteso, nello studio dei più grandi, i quali, invece di studiare, stavano giocando a… carte! Furono lesti a nasconderle tra i libri, ma non tan-to da non lasciare sul tavolino un cavallo col suo bravo cavaliere. Il buon Ve-scovo, che non aveva mai giocato a carte in vita sua, chiese: «Che santo è?» Il seminarista accortosi dell’ingenuità del suo Vescovo, s’affrettò a rispondere: «E S. Giorgio, Monsignore». Il Vescovo santo baciò la carta e soggiunse: «Sia-tegli devoti, fu un gran santo». Qualcuno sorriderà a quest’episodio e si domanderà: «Un Vescovo di molta dottrina e di tanta esperienza sulla malizia umana e, per giunta, vissuto a Ro-ma, così sempliciotto?» Già S. Gregorio Magno così scriveva: «Quelli del mondo nulla sanno della genuina semplicità dei santi e chiamano stoltezza l’innocenza dei giusti». Il candido cuore del santo Vescovo, come avrebbe po-tuto pensar male dei suoi giovani, che avevano scelto di dedicarsi a Dio nel sacerdozio? E poi cosa c’era di così grave in quei giovani che, pur trasgreden-do la disciplina, volevano solo divertirsi un po’? Il Vescovo Santo, santamente morì il 17 agosto 1848. Il lancio delle Missioni Ricordate 1′ episodio della tentata fuga da casa del piccolo Gaspare per an-dare, come S. Francesco Saverio, a predicare la fede ai Turchi? Si pensò ad una fatuità fanciullesca, ma non era così. Quella fiamma sbòcciata nel suo animo in tenera età, da sacerdote andò man mano ingigantendo, fino a sprigionarsi in tutto il suo vigore, particolarmente dopo la fondazione della nuova Con¬gregazione. In lui lo spirito missionario era tutt’uno con il desiderio di propa¬gare la devozione al Prez.mo Sangue di Gesù, che sosteneva, fondandosi sul¬la Scrittura e i Padri, era alla base di tutte le altre. L’azione missionaria dove¬va avere il precipuo scopo di portare a tutte le anime tiepide o lontane da Dio quel sangue che Gesù aveva sparso per la redenzione del mondo. Una volta a capo dell’ Istituto, le sue Missioni ebbero subito un lancio nutri-tissimo. Gaspare condusse a fondo il suo colossale apostolato missionario e vi si dedicò per anni, cioè per tutta la vita, dopo la fondazione dell’ Istituto, con un crescendo che, a poco a poco, superò anche le sue forze fisiche, scarse e non sempre floride, ma dominate da una forza di volontà e da una tenacia che hanno del prodigioso e che, non poche volte, divennero martirio. Le sue prediche, così dette di massime, duravano abitualmente due ore; a voke ne teneva anche 14 al giorno. A Nocera Umbra in un solo giorno predicò 14 voke e in quello stesso giorno tenne anche 16 fervorini per la Via Crucis! E il popolo lo ascokava perché egli – e così i suoi – rifuggivano dalla facondia oratoria, attenendosi unicamente al Cristo Crocifisso, alla verità evangelica, all’ ansia del bene per il prossimo, alla carità, alla giustizia. S. Gaspare seppe dare uno stile tutto personale al suo Metodo delle Missioni, che dovevano essere un vero e proprio «assedio spirituale ai popoli» tanto da esser chiamato Terremoto spirituale. Le preparava con meticolosità. col clero e le autorità del luogo; voleva che l’accoglienza dei Missionari all’ingresso in città o paesi, fosse tra le più solenni: suono di campane e partecipazione del Vescovo, del clero, delle autorità civili, delle confraternite e istituzioni con labari. I Missionari baciavano il suolo e ricevevano il Crocifisso; quindi ,tra canti di penitenza, si snodava la processione fino alla chiesa matrice, dove egli teneva la predica d’introduzione e, flagellandosi, invitava i fedeli alla pe-nitenza. Durante la Missione a tarda sera i Padri si sparpagliavano per le vie e nelle piazze, ove, recando il Crocifisso e suonando un campanello, richiamavano l’attenzione di chi passava, o era chiuso in casa, invitandoli alle funzioni sacre. Si presentavano anche nelle bettole e nei ritrovi, dove l’accoglienza non era sempre delle più cordiali. A volte subivano umiliazioni cocenti! Dalle finestre non piovevano certamente né fiori, né acqua pulita, e nelle bettole non venivano davvero invitati a bere un bicchiere! Gaspare, inoltre, non si li-mitava alle prediche in chiesa, ma organizzava conferenze per ogni ceto di persone, mandava i suoi compagni a far… propaganda nei paesi vicini; così sull’imbrunire si vedevano giungere da quei borghi processioni con torce e stendardi, che, cantando accorrevano ad ascoltarli. Non bastavano più le chiese e Gaspare doveva predicare nelle piazze. I Missionari andavano anche di casa in casa a visitare i malati, a convincere i più ostinati a tornare a Dio, a pacificare le famiglie e a visitare i carcerati. Tre erano le manifestazioni più commoventi: l’improvviso ingresso della statua dell’ Addolorata in Chiesa, durante la predica sull’ inferno, tra suoni di campane, di campanelli e d’organo, e al grido di «Viva Maria!»; la Comupione solenne ai malati, la processione di penitenza che chiudeva la Missione. Il popolo si entusiasmava, piangeva, faceva ressa ai confessionali; peccatori inveterati si convertivano; si riappacificavano individui e intere popolazioni. Né mancavano miracoli autentici, che man mano verremo narrando. Il fine delle Missioni era quello di risanare una morale generale gravemen¬te scossa; perciò, affinché tanto bene non fosse effimero, Gaspa~ inculcava al clero di continuare l’opera dei Missionari ed erigeva Piè Unioni, Confrater-nite, Ristretti che tenessero vivo il ricordo delle Missioni e le pratiche in ono¬re del Prez.mo Sangue! L’ultima sera si erigeva la croce-ricordo, ai piedi della quale si bruciavano le stampe e i libri osceni, emblemi blasfemi, enormi quantità di armi; i nemi¬ci si riconciliavano pubblicamente, abbracciandosi fra la commozione gene¬rale. Dopo successi così trionfali, Gaspare e i suoi, ad evitare umane compiacen¬ze e tentazioni di vanagloria, se ne ripartivano alla chetichella. Ogni merito, ogni gloria a Dio solo! Una candida colomba Subito dopo 1′ apertura della prima Casa dei Missionari a S. Felice, Pio VII chiamò a sé S. Gaspare e i suoi compagni ed ordinò loro di recarsi a predicare una Missione a Benevento; li benedisse e sorridendo raccomandò loro: «Lì non dovete dire Madonna mia,ma Maronna mea». Il Delegato Apostolico aveva descritto a tinte nerissime il miserando stato morale di quella città. La predicazione di quei Padri, e quella di Gaspare in particolare ne cambiò il volto, tanto che lo stesso Delegato, prima tanto allar-mato, sentì il bisogno di scrivere così al Santo Padre: «Non vi sono più né odi, né omicidi! Molti sono i settari convertiti, la città ha cambiato faccia!». Di-ciassette studenti, imbevuti nelle scuole pubbliche di dottrine ateistiche, ave-vano affisso dei manifesti in versi ridicolizzando Dio e la Missione. Vollero, o per curiosità o per fischiare o per rimbeccare, ascoltare una predica del Santo e ne restarono talmente affascinati che si gettarono pubblicamente in pianto ai suoi piedi. Quella Missione è rimasta famosa fino ai nostri giorni, anche perché nella tremenda seconda guerra mondiale, mentre i bombardamenti a tappeto degli Alleati rasero al suolo gran parte della città e distrussero com-pletamente il suo famosissimo Duomo, lasciarono del tutto intatta la croce-ricordo eretta da 5. Gaspare proprio nella piazza del Duomo. Da Frosinone, in Ciociaria, dov’ era giunta l’eco della strepitosa Missione a Benevento, reclamavano a loro volta Gaspare. La presenza del Santo era rite-nuta «indispensabile». L’audacia dei briganti in quella zona si faceva sempre più ardita, i delitti non si contavano più, le lotte intestine, il malcostume e la corruzione dilagavano! Il viaggio da Benevento a Frosinone nel colmo del rigidissimo inverno fu disastroso! Di notte, sui monti sotto la pioggia e la neve, il legno si sfasciò. Co-sì riporta la cronaca del tempo: «Gaspare e i compagni sono giunti con tre giorni di ritardo e rovinati! Era notte; in un momento si vedono tutte le strade e le finestre illuminate e si ode un grido generale di commozione: «Sono arrivati! Sono arrivati!». Tutte le chiese risultano inadeguate a contenere le folle e sebbene la stagione sia pessima, fuor di piazza, si vede una lunga coda di popolo, che non è potu¬to entrare in chiesa. «Durante la Missione la quantità di armi portata ai piedi della Madonna è infinita. Alle confessioni corrono a folla. Frosinone sembra una città santa. È bello vedere i fedeli disciplinarsi con i Missionari». È facile capire perché la popolazione, a più riprese, impedì a Gaspare di partire e per-ché nella piazza principale campeggi uno striscione con un’espressione «sof-fusa di amorosa delicatezza»: D. Gaspare, ci hai rubato il cuore! Lo zelo del Santo non ha tregua e, dopo la Missione di Frosinone, dove, per unanime desiderio del popolo, apre presto una Casa di Missione, e alcune predicazioni a Roma, si reca, sempre per desiderio del Pontefice, a Civitavec-chia e il 22 maggio 1816 a Rieti, da tempo desiderato da quel santo Vescovo, suo caro amico. Fin dalle prime prediche il concorso del popolo fu straordinario. Vi accorse gente dalla campagna e dai paesi limitrofi. Gaspare e i suoi compagni molti-plicavano le proprie energie: funzioni, confessionale, visite ai malati e ai car-cerati, prediche in chiesa, prediche sulle piazze. E proprio sulla piazza del Duomo, alla presenza di grande folla, di tutto il clero con a capo il Vescovo, il popolo ad un tratto si agita, si commuove, piange… cosa sta mai accadendo? Il Santo sta parlando col suo ben noto fervore, s’infiamma, la parola pene¬tra nei cuori… ed ecco che una candidissima colomba appare all’improvviso, come venuta dal nulla, e vola a lungo intorno al suo capo. No, non è una co-mune colomba, è qualcosa di veramente straordinario. Quella colomba ema¬na un vivissimo fulgore, non si turba alle esclamazioni della folla, rimane a lungo sospesa a pochi centimetri sul capo del Santo, come simbolo dello Spi¬rito Celeste che ispira le sue parole e le infiamma di ardore divino affinché tocchino i cuori e le anime tornino convertite a Dio. La folgore Ben presto la notizia dell’ episodio straordinario della colomba misteriosa si sparse ovunque in città, e da Rieti ai paesi vicini, nei villaggi, nelle campa¬gne. Il nome di Gaspare correva su tutte le bocche e le popolazioni accorreva¬no sempre più numerose, per vederlo, ascoltarlo, toccare il lembo della sua veste e confessarsi proprio da lui. La Missione a Rieti era terminata, ma Ga¬spare non poté ripartire. Il Vescovo lo scongiurò di rimanere ancora per qual¬che giorno; non si poteva deludere il desiderio di tanta gente. Quanto bene si poteva fare ancora; quanti peccatori, toccati dalla Grazia, per mezzo della sua calda parola, sarebbero tornati a Dio! No, il desiderio della folla non era do-vuto a morbosa curiosità per i fatti prodigiosi; forse c’era anche quella; ma non era forse 1′ esca gettata da Dio per richiamare quella gente ad una fede più viva ed ad una maggiore coerenza nella vita cristiana? I frutti erano davvero strepitosi! Di giorno in giorno le chiese si affollavano sempre di più; i campagnoli si partivano di buon’ora dai loro casolari, sparsi nel vasto territorio reatino, per recarsi ad ascoltare le prediche. Frequentatis-sime erano anche le belle funzioni delle prime ore del mattino. Incurante del lungo tragitto, la gente tornava poi svelta e soddisfatta ai duri lavori dei cam-pi. A sera folti gruppi giungevano dai paesi più vicini ed era uno spettacolo toccante vedere dall’alto della città le fiammelle delle torce, sparse qua e là nella pianura, portate da questi gruppi che da Rieti tornavano alle loro case.I confessionali erano sempre presi d’assedio. La stampa locale così commenta-va l’avvenimento: «Non si può bastantemente descrivere il frutto che qui pro-ducono le prediche del Can. Del Bufalo e dei suoi compagni in ogni ceto di persone; restituzioni di somme vistose (una addirittura di 74.000 scudi romani, enorme per quei tempi!), riconciliazioni invano da vari anni auspicate, consegna copiosissima di armi proibite, di libri e manoscritti pessimi, cessa¬zione di scandali pubblici, abbandono di pratiche disoneste consolano gli in¬defessi missionari, il santo Vescovo e i sacerdoti della città e dei paesi vicini». Qualche missionario, intanto, cominciava a sentire le conseguenze del mol¬to lavoro; Gaspare invece non conosce stanchezza, è sempre sulla breccia e rincuora i suoi compagni. La sua parola è medicina che guarisce! Non erano però tutti fiori! I maligni e quelli che non vedevano di buon oc¬chio il tanto bene compiuto dai Missionari, andavano spargendo la voce che l’apparizione della candida colomba era stato tutto un trucco. Ma arrivò pre-sto la risposta di Dio. Ecco come narra un testimone oculare, D. Muccioli, un altro episodio straordinario: «Durante il discorso sul Giudizio Universale, tenuto dal Can. Del Bufalo, malgrado il cielo fosse d’un tersore straordinari, una folgore lu-minosissima entra in chiesa da una finestra e, serpeggiando senza alcun ru-more e danno, esce da un’altra, dileguandosi nell’aria! Il popolo abbagliato dalla luce e scosso per 1′ inusitato segno, rompe prima in altissime grida, poi si raccoglie come sbigottito in tombale silenzio. Gaspare cade in ginocchio di-nanzi al Crocifisso, eccitando tutti a salutare penitenza e termina dando la benedizione col santo legno». Un fatto così impressionante causa molte e strepitose conversioni, ma i de-nigratori vanno dicendo in giro che si è ripetuto un trucco volgare da comme-dianti per ingannare la dabbenaggine d’un popolo credulone. Buon per loro che quel popolo credulone fu ammansito dalle vive raccomandazioni del San-to, altrimenti stava per reagire per vie di fatto contro coloro che avevano osa¬to chiamare ciarlatani e ingannatori quei santi sacerdoti. Il 4 giugno i missionari stavano partendo nascostamente, ma il popolo avu-tone sentore, accorse numerosissimo a salutarli. Gaspare fu costretto a parla-re ancora una volta all’ aperto davanti all’ immagine della Vergine, suscitando commozione e pianto in quella popolazione che si mise a correre dietro la carrozza, che si allontanava, gridando: «Padre santo, ritorna, ritorna!». Sono perle! «Primieramente dirò – scrive il Merlini – che riguardo al suo prossimo, in or-dine a Dio e secondo Dio l’amò… Non cercava che Dio e il solo piacere, il solo desiderio, la sola brama di portare le anime a Dio… Perciò tanti disgusti ed amarezze, tanti travagli ed umiliazioni, tante afflizioni, disprezzi…». «Il suo cuore, così tenero, non restava insensibile al dolore umano, sì larga-mente rappresentato in questo mondo, ove, diceva – Siamo tutti come malati in un grande ospedale -. Perciò la grande carità che si sprigionava dal suo cuore andava innanzi tutto al bene delle anime. Porgeva la mano confortatri¬ce ai tribolati, sollevandoli dalle pene… erano molti gli afflitti, che ricorreva¬no a lui e rimanevano consolati. Era talmente acceso da queste opere di carità che affrontava a volte lunghi viaggi per portare conforto e dispregiava perfi¬no la vita!». «Avendo un’alta concezione della Misericordia divina, accoglieva con estrema benignità i peccatori… Non ometteva, quando occorresse, d’ammo¬nirli, ma lo faceva con tale discretezza che non riuscivano a resistergli». «Non aveva timore d’essere vilipeso e, bramoso che tutti si salvassero, a tutti correva, anche se gli facessero torti e di lui sparlassero».«Sappiamo come giunse perfino ad amare i suoi nemici! Insultato, carcerato, cercato a morte, pregava e faceva pregare per la conversione di essi». «Quale abilità nell’in-durre a sensi di mitezza i cuori più ostinati e accecati dall’odio!» Basti pensare al suo apostolato tra i briganti e i settari. Insorgeva però contro chi infangava il buon nome altrui e contro la genia dei mormoratori. Ogni dolore poi trovava eco profondo nel suo cuore; perciò non si limitò la carità di Gaspare alla sola anima del prossimo. «Vedeva egli intorno a sé ignu-di da rivestire, poveri che alzavàn la mano per un tozzo di pane,, pellegrini che a notte gelida, picchiavano alla sua porta, malati giacenti sul letto del do¬lore e si adoperava a sollevare tante miserie e tutto dava, secondo le sue pos¬sibilità ai suoi poverelli». Quante volte fu visto, con la bisaccia sulle spalle, andar questuando per i suoi poveri! S. Gaspare non desiderava affatto danaro per sé, ma avrebbe voluto averne tanto per i bisognosi. Ricordiamo ancora il suo detto: «Per fare il bene ci vo-gliono la grazia di Dio e i denari». Confessava anche che a volte vedeva misteriosamente moltiplicarsi il denaro tra le mani. Lo si vedeva perciò di giorno e di notte aggirarsi per le viuzze, i tuguri e le stamberghe ed uscirne poi scal¬zo e senza indumenti, tranne la talare per ricoprire la sua nudità. Ai compa¬gni che uscivano di casa dava sempre qualche baiocco per i poveri, ed aveva dato ordine tassativo che nessun povero doveva allontanarsi dalla porta delle Case di Missione senza il conforto di «una minestra, una fetta di pane e un baiocchetto». Gli fu caro, fin da bambino, visitare gli infermi negli ospedali e, da Missio-nario, moltiplicò questa carità verso i malati. Quanti, colpiti da tanto amore, tornavano a Dio in punto di morte! Spronò i compagni a seguire il suo esem-pio; nelle Missioni i carcerati e i malati avevano la precedenza delle sue cari-tatevoli premure. Correva l’anno 1816 e Gaspare, che già godeva grande fama di santità, si trovava per una Missione a Porto d’Anzio, dove esisteva una specie di ricovero-ospedale in stato di completo abbandono. Egli, com’era sua abitudi-ne, si mise con i compagni a curare, pulire, lavare, medicare e rifocillare quei poveretti ivi ospitati e trattati così male. I malati dicevano: «È giunto un ar-cangelo dal cielo tra di noi e con lui tanti angeli pietosi!». Un missionario, più sensibile degli altri, chiamò un giorno Gaspare in di-sparte e gli disse: «Padre, non ho proprio più stomaco di continuare! Non tan-to per le piaghe, ma per certi insetti che passeggiano a centinaia sul corpo dei malati e nei letti. Sono pidocchi e li hanno anche sotto la pelle! Già me ne tro-vo anch’io tanti addosso». Il Santo, come se cadesse dalle nuvole, gli domandò: «Ma… ha guardato be-ne?… Che pidocchi? Vede… sono perle!» Il missionario sulle prime pensò che Gaspare lo prendesse benevolmente in giro per rincuorarlo, poi guardò e ri-guardò… «Sì, padre, ha ragione, sono proprio perle!» Ai compagni che, strizzando l’occhio, gli dicevano: «Hai fatto finta di cre¬derci, eh?» «No, no! – affermava convinto – Non potevo credere ai miei occhi. Non c’è che dire; giravo e rigiravo tra le mani quei cosetti… erano proprio perle!». Cadaveri nella palude Gaspare, senza riposare neppure un giorno, da Rieti si reca per una decina di giorni a Cittaducale, quindi immediatamente a Bagnaia, dove, sebbene co-stretto a letto con febbre alta, all’ ora della predica «sale sul palco ed è tale la sua facondia e lo zelo con il quale parla, da apparire il più sano del mondo». Da Bagnaia si reca a Porto D’Anzio: il vetturale che conosce poco l’itinerario, si sperde nell’intricata macchia di Nettuno, dove sono costretti a passare la notte. Ad Anzio si dedica con amore ai marinai e ai pescatori, che «trascurati da tutti, nella rozzezza e nell’ignoranza vivevano dimentichi d’ogni cognizio¬ne della fede e virtù cristiana». Con tanta carità passa anche intere giornate tra i condannati, i quali «chiusi in quei terribili Stabilimenti penali, non sen¬tendo mai la parola di Dio, si abbandonavano alla disperazione e a nuovi effe¬rati delitti, perfino nelle carceri». Siamo vicini a Natale e Gaspare, dietro le insistenze del Card. Mattei, si porta a Velletri. Gli abitanti di Velletri che per Natale avrebbero preferito di¬vertirsi anziché ascoltar prediche di penitenza, accolsero malvolentieri i Mis¬sionari e li deridevano; poi, affascinati dalla parola e dalla bontà di Gaspare, ricredendosi, lo costrinsero a rimanere fino ad oltre la metà di gennaio, orga-nizzando anche una processione di penitenza in piena notte! A Velletri, in quei giorni, arrivavano di continuo gruppi di cittadini dalla vicina Cisterna, che lo convinsero a recarsi colà, perché il popolo lo bramava tanto. Gaspare, che nella sua predicazione non andava alla ricerca di pulpiti ambiti, ma pre-feriva quei luoghi dove si soffre e pecca di più, vi accorre volentieri. A quei tempi Cisterna era ai confini delle Paludi Pontine, dove con le acque stagnanti, dominava la tristezza più cupa, la vita più tetra, e le vittime della malaria, del tifo e della malavita erano numerosissime. Preferiamo qui cede¬re la penna alla cronaca del tempo: «Mancavano soli 25 giorni al carnevale e gran festa si fece da quella gente nell’ udire la di lui venuta ed un clamore di gioia si risvegliò in ogni persona. E poiché giunse di notte, illuminate furono le vie ed all’ istante aperta la chiesa, suonarono le campane e la folla si riversò in massa». Cisterna era composta, nella maggior parte, di «bufalari, bifolchi e contadi¬ni, che lavoravano soprattutto nelle selve e tra gli acquitrini della Palude Pontina; erano chiamati comunemente ignoranti e delittuosi. Rapine, abigea¬ti, omicidi erano all’ordine del giorno». Grande fu dunque il bene operatovi dai Missionari. Gaspare, infatti comprendendo «lo stato miserando di quelle anime e di quei corpi» si diede a percorrere la palude palmo a palmo, tra i tuguri e le ca¬panne sparse in quell’acqua pestifera e micidiale, portando a tutti la benedi¬zione di Dio, una parola di conforto e qualche medicinale, incurante dei peri¬coli per la malaria e il tifo. Si imbatteva spesso nei pesanti carri tirati da enor¬mi bufali, che in cima al carico di erba o letame, mostravano spesso cadaveri gettativi nudi e scomposti che venivano portati alla sepoltura, senza un sacer¬dote, una croce, un lume e neppure un segno della pietà umana e cristiana. Si aveva più riguardo alle bestie macellate! Gaspare, sconvolto e inorridito, fermava quei carri e piangendo cercava di ricomporli; coglieva ciuffi d’erba e qualche fiore di campo, li deponeva su quei poveri corpi e li benediceva; quindi, seguendo il carro fino alla sepoltu¬ra, recitava le preci dei defunti. «Perché – chiedeva ai vetturali – tanta insensi-bilità?» e si sentiva rispondere: «In queste vaste maremme spesse volte i po-veri cristiani muoiono abbandonati da tutti e spesso restano all’aperto, preda di cani, porci e avvoltoi». Il Santo eresse allora a Cisterna la Confraternita del-la Morte i cui ascritti si impegnavano a far celebrare le esequie e a dare cri-stiana sepoltura ai cadaveri della Palude. Così cessò quello scempio! Nell’ultimo giorno della Missione giunsero da Velletri, con labari e stendar¬di varie Confraternite a prelevare i Missionari. Nel momento della partenza si scatenò un furioso temporale, ma il Santo «benedisse l’orizzonte con uno stendardo e l’acqua cessò all’ istante». Al passaggio della carrozza, ch’ era se-guita a piedi dalle Confraternite, i contadini accendevano fasci di canne e di sarmenti. Eran le due di notte quando giunsero a Velletri e vi trovarono il Duomo straripante di fedeli. Gaspare fu costretto a tenere una predica. Quando tutto il popolo fu rientrato nelle proprie abitazioni, «le nubi che da Cisterna avevano trattenuto le proprie acque, come ad un segno convenuto, si scaricarono a pioggia violenta». Un santo tra i briganti Gli episodi che qui narreremo sono storici e costituiscono forse la pagina, che più di ogni altra, ci rivela la statura gigantesca di Gaspare in tutta la sua personalità di uomo e di Santo. La parte di primo piano – più esatto sarebbe di¬re esclusiva – ch’egli ebbe nell’estirpare il ferocissimo fenomeno del bri-gantaggio nello Stato Pontificio tra il 1815 e il 1822, ce lo dimostrano non solo santo insigne e uomo dal cuore veramente grande, ma anche acuto pensato¬re, sociologo e accorto diplomatico, perché, senza acume e con la sola carità, non avrebbe potuto mai realizzare eventi d’una portata storica così determi¬nante. L’enorme successo non fu dovuto al caso, a combinazioni politiche, a compromessi, ad azioni improvvisate o di forza, ma solo alla chiara visione ch’egli ebbe di quella tristissima situazione, che i governanti di uno Stato co-me quello della Chiesa non erano riusciti neppure a scalfire, pur avendo ine-sauribili risorse umane, e soprattutto morali. Né armi, né legge del taglione, né feroci repressioni, ma intuito, coraggio, paziente insistenza, persuasione, e il Crocifisso, furono l’arma di S. Gaspare. La fantasia degli scrittori e degli storici si è sbizzarrita su un argomento così bieco ed attraente, ma è provato ormai che il brigantaggio ebbe la sua origine dalla leva imposta da Napoleone, sconosciuta fin allora ai tranquilli sudditi del Papa. Essa atterri e scompigliò la popolazione dei campi e delle monta¬gne, abituata ad una vita semplice e patriarcale. Giovani animosi, spalleggiati dalle famiglie e dal popolo, si diedero alla montagna e riuscirono a non farsi snidare dai gendarmi francesi. Partiti col nobile intento di resistere ai soprusi napoleonici, abbrutiti poi da quella vita alla macchia, abituati all’ ozio e al vi-zio, molti di loro non fecero più ritorno alle proprie case e si abbandonarono alla vendetta contro i delatori e ad ogni sorta di ruberia, anche dopo il ritorno di Pio VII a Roma. Il motto di libertà fu sostituito dall’intimazione:. «O la bor-sa o la vita!». Ad ingrossare le loro fila e ad aumentarne la ferocia concorsero ceffi di autentici criminali1 sfuggiti alla forca ed alla galera. In breve1 i brigan-ti come cavallette si erano gittati nella Regione di Marittima e Campagna1 la-sciando ovunque tali orme di barbarie e di sangue da far rabbrividire. Ine-briati dal successo, si diedero a prepotenze e delitti sempre più gravi, tanto più che, potendosi facilmente rifugiare oltre il confine nell’attiguo Regno di Napoli, era assai difficile catturarli. Avevano un proprio inconfondibile modo di vestire: giubbotti e calzoni in pelle di diavolo, bene attillati, cioce ai piedi, cappello a cono, inghirlandato da nastri bizzarri. L’ornamento (!) più vistoso era costituito ovviamente da pi-stole, coltellacci, pugnali alla cintola e tromboni a tracolla. I più feroci ama-vano portare con vanto una collana di orecchie mozzate dalla testa delle loro vittime. Per la ferocia erano chiamati comunemente i cannibali d’Italia. Se per disavventura si incontravano, 1′ unica cosa che si aveva tempo di fare era quella di segnarsi e raccomandarsi l’anima a Dio. Le loro donne vestivano al¬la ciociara e, per non essere da meno, al posto delle forcine infilavano nei ca¬pelli gli stiletti. Antonio Gasbarrone di Sonnino, il più famoso, era appellato il re dei brigan-ti; storici e pittori ce ne hanno tramandato gesta e sembianze. Impasto di bonomia e criminalità, accozzaglia di ferocia e cavalleria, terribile agli uomini e ai governanti, s’imponeva a tutti i suoi gregari. Dalla corporatura gigantesca, dagli occhi scintillanti, maestro in trovate originali e fantastiche, ora vestiva impeccabilmente da gran signore, ora attillato nella scintillante divisa da ufficiale, or da pecoraio, or con la tonaca da frate. Il suo nome affascinava una certa gioventù, pronta a tutto, pur di far parte della sua banda. Due giovani di Vallecorsa, in Ciociaria, presi da tale morbosa manfa, riusci-rono a farsi condurre alla sua presenza. «Cosa dobbiamo fare – gli chiesero -per venire con te?» «Uccidere almeno un uomo!» fu la risposta. Sulla via del ritorno i due incontrarono un innocuo vecchietto, tale Onorato De Bonis, no¬to per la sua vena allegra, e gli chiesero: «Che ora è?» e quegli rispose: «L’ora di ieri a quest’ora». «Invece è l’ora di morire» e lo stesero al suolo crivellato di pugnalate. Di corsa tornarono sulla montagna per mostrare ai briganti i pu-gnali ancora grondanti di sangue. Manco a dirlo, furono elogiati e… arruolati, come allievi coraggiosi e di grandi promesse! Non è affatto possibile narrare qui neppure alcune delle più famose gesta di queste belve sanguinarie, tuttavia è necessario riportare qualche episodio, onde capire meglio con quali ceffi ebbe a fare S. Gaspare, e mettere in mag-gior evidenza la grandiosità della sua azione. A Frosinone sedici persone furono trascinate dai briganti in piazza e truci¬date davanti alla popolazione inorridita. All’ udire tale misfatto, Gaspare si re¬ca a predicarvi una Missione per confortare il popolo. Di quella predicazione ci è stato tramandato un episodio che commosse tanto il Santo per la sua in-nocente semplicità. Un fanciullo, avendo saputo dalla mamma che 5. Gaspa¬re confessava i peccatori più… qualificati, ed in particolare briganti e carbo¬nari, riuscì ad accostarlo nella calca e, tirandolo per la veste, gli chiese di ascoltare la sua confessione. Gaspare, che amava tanto i bambini, lo prese in braccio e gli domandò: «Ma cosa hai fatto di tanto grave che vuoi confessarti?» «Padre, sono un brigante e un carbonaro.. .» Il Santo sorrise, l’abbracciò e lo benedisse, dicendogli: «Ora va, fa’ il bravo e andrai certamen¬te in paradiso». A Vallecorsa, la sera del Giovedì santo del 1814 avvenne una strage che, per la sua efferatezza, fa rizzare i capelli. Mentre una folla numerosissima vi¬sitava i «Sepolcri», un gruppo di briganti sbucò sulla piazza della chiesa di S. Martino e uccise il più nobile del paese sui gradini del tempio; quando qual¬cuno si avvicinò al moribondo per soccorrerlo, inferociti si avventarono all’ impazzata su quella povera gente e con pistole e pugnali ne trucidarono ben diciotto. Il fatto che inorridì maggiormente fu che una donna, mentre presa da terrore correva gridando in chiesa, fu raggiunta proprio sui gradini dell’altare dov’era esposto il Santissimo e finita barbaramente. Accortisi che un uomo, anche se mortaìmente ferito, era riuscito a nascondersi in casa, for¬zarono il portone e lo uccisero. A Terracina, con la complicità del portinario di quel Seminario, Gasbarro¬ne si presentò con i suoi sgherri e, puntando il pugnale al petto del Rettore, gli diede 1’elenco di dodici seminaristi appartenenti alle famiglie più facoltose della diocesi, intimandogli di consegnarglieli all’istante. Li trascinò nella pa-lude e, quando si vide circondato dai gendarmi, aizzò contro di loro un bran¬co di bufali inferociti, riuscendo a fuggire. I dodici ragazzi, per il momento, furono salvi, ma Gasbarrone non tardò a prendersi la rivincita. Con l’aiuto della banda del feroce Massarone, in assenza del Rettore, a notte inoltrata, se-questrò, tranne i domestici, trentasei persone, cioè seminaristi, dirigenti e professori. L’unico gendarme di guardia, da vero eroe, intimò l’alt, ma in ri-sposta si ebbe una nutrita scarica di fucili; un sacerdote che si accostò per be-nedire il cadavere fu trucidato a sua volta. Nel parapiglia due seminaristi fuggirono e portarono la brutta notizia al Vescovo. Accorsero i gendarmi e il popolo,ma ormai i briganti avevano raggiunto la montagna. Per otto giorni i prigionieri furono seviziati, perché ritardava il riscatto; qualcuno fu mandato, non senza i segni della loro ferocia, a sollecitare il danaro ; altri riuscirono a fuggire e nascondersi su per i monti, ma tre dei più giovani vennero uccisi e i loro corpi, fatti a pezzi, inviati ai parenti. Per anni. il popolo asseriva che, nel silenzio della notte, nel luogo del marti¬rio si sentivano canti armoniosi di giovinetti, come di melodie di angeli vo¬lanti nell’ azzurro del cielo stellato. Nel 1821 un gruppo di briganti rapi tutti i monaci di Camaldoli a Tuscolo, presso Frascati, lasciando solo un vecchio di cent’ anni, al quale dettarono le condizioni del riscatto. Quei religiosi alla fine furono fortunati. Un complice per aver salva la vita tradì i suoi compagni e guidò i gendarmi al nascondiglio. La banda fu catturata e i religiosi, anche se orribilmente seviziati, poterono tornare all’ eremo. * * * La baldanza dei briganti ormai non conosceva più limiti e le strade che con-ducevano nel sud erano insicure. Nessuna carrozza, anche se con nutrita scorta, la faceva franca! Veniva depredata con morti e feriti. Anche le popolazioni, avendo perso ormai ogni fiducia nelle forze dell’ ordi¬ne – proprio come avviene anche ai nostri giorni – pensavano a farsi giustizia da sé. Le famiglie erano ben provviste di armi, i genitori consegnavano come in un rito sacro i pugnali ai figli e facevano loro giurare vendetta sui corpi dei parenti uccisi. Ovviamente, in tal modo, si aprì una serie di carneficine e de-litti, i cui anelli non si spezzavano più. Le autorità inasprirono pene e repressioni; le teste mozzate dei briganti ve-nivano infilate sulle picche ed esposte sulle piazze e lungo le strade più fre-quentate; i briganti però avevano sempre la meglio. Le loro vendette erano rapide e terribili; bastava solo parlar male dei «lupi» per esser squartato ed appeso agli alberi, affinché i passanti apprendessero la lezione. Il popolo romano era terrorizzato, Pio VII avvilito! I covi più famosi dei briganti erano Vallecorsa e Sonnino, che portava il primato e venne chiamata Brigantopoli. Entrambi i paesi per le caratteristiche della loro costruzione si prestavano, come roccaforti inespugnabili, sia alla difesa, sia agli agguati. Paesi severi, pietrosi, dai viottoli stretti e acciottolati con enormi sassi, scalini altissimi e degradanti, quasi a picco tra le casucce, serrate da robusti portoncini con enormi e molteplici chiavistelli. Quella gen-te, per altro coraggiosa e fiera, era frastornata da pattuglie di gendarmi e branchi di malfattori, svegliata nel cuore della notte da archibugiate e grida laceranti, nelle quali spesso riconoscevano la voce di qualche persona cara. Da per tutto si cominciò a gridare, nelle vie di Roma, «Distruggete Sonnino!» E il 22 luglio 1819 su molte cantonate dell’ Urbe venne affisso un decreto del Papa, col quale si ordinava che, entro un mese, Sonnino fosse rasa al suolo. A questo punto drammaticissimo si leva una voce sola, calda, coraggiosa, decisa e implorante in difesa della popolazione: la voce di Gaspare. Ecco qualche brano della sua lettera al Papa: «Beatissimo Padre! La giustizia e la clemenza hanno sempre animato tutte le operazioni di V. Santità. Anche la demolizione di Sonnino è partita da uno spirito di giustizia; e questa demolizione è stata ben giustamente eseguita sopra le case dei mal-viventi… Ma consumata questa prima demolizione, pareva che dovesse su-bentrare la clemenza e che questa clemenza andasse a congiungersi con la giustizia, la quale può scaricarsi sopra dei colpevoli e non sopra quelli che tali non sono. Anzi, in addietro, si è sempre usato che, quando era grande il nu-mero dei colpevoli, se ne decimasse gran parte, e risparmiare gli altri, benché rei; all’incontro nel caso presente si verrebbe a delussare. (fare il contrario) La demolizione di Sonnino ora sarebbe tardiva… anzi inefficace… sarebbe poco conveniente alla mansuetudine eccelsa del Vicario del Dio della pace, se fosse inesorabile nella distruzione di un paese di tremila anime… Questa dispersione di tutti gli abitanti, sarebbe fatale per 1′ agricoltura… Il territorio di Sonnino è fertilissimo… e a poco a poco un territorio fertilissimo diverrà un deserto. Sarebbe inoltre pericoloso per la pubblica tranquillità il porre nel¬la disperazione una popolazione così numerosa… Se anche in minima parte si unisse al malviventi…! Inoltre la ulteriore demolizione… è ingiusta… non può cadere sopra innocenti, non si paga il prezzo di ciò che si demolisce e non… si emendano tutti gli altri disappunti. Dannosa… se si paga il prezzo… la somma di un milione o almeno mezzo milione appena sarebbe sufficiente… essendo insopportabile alle attuali forze dell’ erario. In ultimo la clemenza della Santità Vs. rivolga lo sguardo pietoso ad una in-tera popolazione, a cui non sono rimaste che le pupille per lagrimare!». Pio VII, animo sensibilissimo e che aveva in grande stima il Santo, nel leg-gerla ne rimase profondamente toccato. Ogni mezzo violento fu prontamente bandito e una somma fu accordata per la ricostruzione delle case demolite. Sonnino fu salva e nel giubilo acclamò Gaspare padre della citta e tale lo ac-dama anche oggi, celebrandone la festa con grande solennità, gioia e devo-zione. * * * La supplica tanto efficace di Gaspare non è da considerare un episodio iso¬lato, ma soltanto il primo passo verso un’azione grandiosa, coordinata e pro¬fonda per giungere non solo alla eliminazione del fenomeno del brigantaggio, ma al rinnovamento totale di tutta la popolazione, quindi ad una vera e pro¬pria riforma. Di questa si parlava fin dal ritorno di Pio VII, ma tutto rimaneva «in proget-to», anzi in innumerevoli progetti, a volte stravaganti; tutti però con proposte di feroci repressioni e niente all’ infuori di quelle. Gaspare, nella sua umiltà, non osava presentare le proprie proposte diretta-mente al Papa, ma ne parlava e scriveva spesso al Cristaldi, finché questi le fece sue e le presentò al Pontefice, caldeggiando il conferimento della loro at-tuazione, senza restrizioni, unicamente a Gaspare…. grande anima e di vir¬tù, uomo instancabile per attività, prodigioso per i grandi effetti». Seguiamo l’Apostolo fino in fondo nel suo programma di opporre alla fero¬cia la parola evangelica con insistenza certosina, persuasione, carità, istruzio¬ne, eliminazione di ingiustizie sociali e private. Pio VII approvò il piano senza riserva e il Cristaldi cominciò a trattare con Gaspare la difficilissima impresa. S. Gaspare già aveva percorso i vari paesi della Marittima e Campagna per comporre odi irriducibili, catechizzando con pazienza contadini rozzi e capar-bi, popolazioni litigiose e arroganti, ricchi orgogliosi e avari. I briganti aveva-no sentito parlare molto di lui, alcuni lo conoscevano, ed ora eccolo inerme contro quella turba sanguinaria annidata sulle montagne. Possiamo dire che si iniziavano le gesta storiche e titaniche di un eroe e di un santo! * * * Ed ora vediamo il Santo all’opera. Nell’ ottobre del 1821, percorre le montagne della regione, dove i briganti sono rintanati come in fortilizi inespugnabili; attraversa i paesi da essi più frequentati, accompagnato dal fedelissimo Bartolomeo, che non fa che tre-mare, ma che è più che mai deciso a morire, se necessario, col suo Padre san-to. Le autorità hanno insistito perché accettasse una scorta armata, ma ha sempre rifiutato energicamente. Questo viaggio di ricognizione ha lo scopo di trovare, almeno in sei paesi, un locale adatto per erigervi altrettante Case di Missione, perché egli resta fermissimo nel sostenere il principio che bisogna partire da Dio e perciò tante e tante Missioni capillari in ogni paese. Riportate le popolazioni a Dio, esse avrebbero osservato i suoi comanda¬menti e Dio certamente avrebbe, alla fine, toccato anche il cuore dei briganti. Fu comunemente ritenuto un esaltato, addirittura pazzo; è proprio vero che i così detti saccenti non conoscono le risorse dei santi. A chi sosteneva che sa¬rebbe bastata solo la scuola a riconciliare quelle popolazioni abbrutite, egli ri-batteva: «Sì, 1′ istruzione è indispensabile, ma non si è mai sentito dire che, senza il timore di Dio, si possano cambiare i costumi malsani della società. Quante persone coltissime ne commettono di tutti i colori in barba alla legge». Finalmente riuscì a trovare tre vecchi conventi abbandonati fuori dell’ abi¬tato di Terracina, Sermoneta e Sonnino. A lui sembrarono tre regge e la posi¬zione ideale per la libertà dell’ apostolato. Si oppose al Delegato di Frosinone che voleva assolutamente che i Missionari abitassero nel paese o che quelle Case fossero guardate da un picchetto di gendarmi in permanenza. Gaspare ribadisce sempre: «La mia unica arma sarà sempre il Crocifisso. Il suo Sangue scuoterà finalmente quei cuori così induriti». Si spinse solo su quei monti, mentre centinaia di occhi lo scrutavano con i tromboni spianati. Coraggiosamente si inoltrava negli anfratti alla scoperta delle caverne, li scovava, parlava un linguaggio d’amore e mitezza. Nessuno aveva mai parlato loro così! Avvinti da tanto eroismo, affascinati come da un essere arcano, non di questo mondo, gli cadevano ai piedi, gettavano lontano le armi, che prima gli avevano puntato al petto, baciavano le sue mani con ri-spetto. Gaspare aveva capito di aver scoperto il loro punto debole e scrisse al Papa, perorando la loro causa. Un giorno aveva incontrato dei gendarmi che portavano sul somaro, getta¬to come un sacco, il cadavere di un brigante ucciso e continuavano a dargli pugnalate, come fosse ancora vivo. Inorridito supplicò il Papa che, anche per un senso di civiltà, oltre che di pietà cristiana, si cominci a dare ai briganti una conveniente sepoltura, anziché portare in giro le loro teste, come tanti trofei di vittoria, infilate sulle picche, ed appenderne i cadaveri nelle piazze, istigando la popolazione e i monelli a punzecchiarli e a farne scempio con sadica efferatezza. A tarda sera le Case di Missione erano aperte ai briganti, che fiduciosi vi si recavano alla spicciolata. S. Gaspare giunse perfino a raccoglierne vari grup¬pi nella Casa delle Canne a Sonnino e per diverse sere egli tenne loro un cor¬so di Esercizi Spirituati. I passanti sentivano allora robustissime voci cantare canzoncine sacre e, ignare pensavano: quanti padri Missionari ci sono stasera nel convento! Ormai la fiducia dei briganti in Gaspare era completa, sicché egli poteva girare tranquillo ovunque; sotto la loro protezione, nessuno avrebbe osato fargli del male. Ormai, avrebbero dato anche la vita per lui. Scorgendolo saltavano fuori dalla boscaglia e andavano a baciargli la mano. Man mano la stessa fiducia nutrivano per i suoi compagni, i quali, guidati e incoraggiati da lui, giravano per quei paesi e si inerpicavano sulle montagne, cantando le Laudi delle Missioni, radunando la popolazione in chiesa o sulle piazze, e con la loro parola «la intenerivano fino alle lacrime». Tra i fedeli, qua e là, ben travestiti, non mancavano i briganti, sempre più bramosi di ascoltare la parola del Santo. Un fatto che ha dello straordinario ci viene narrato dal missionario D. Ros¬si: «Era il gennaio del 1822 e il Canonico Del Bufalo aveva appena terminato il panegirico di S. Antonio Abate, titolare della chiesa dei Missionari a Valle-corsa, quando, con improvvisa decisione, volle partire all’istante per Sonni-no. A quei tempi, tranne qualche breve tratto, quella strada si poteva percor-rere solo a piedi. Egli, camminando tra quei dirupi, nel fango e nella neve, in-zuppato fradicio fino alle midolla, cantava le lodi al Sangue Prezioso. Alcuni vallecorsani, ch’erano andati ad accompagnarlo fino a Sonnino, al ritorno narrarono: «Solo il Canonico poteva fare un tale sproposito! Ci siamo andati solo perché era lui, per chiunque altro non ci saremmo mossi per tutto l’oro del mondo, perché era un voler morire per la strada!» Narrarono anche che,ar¬rivati alle 22 circa, subito fece suonare le campane a distesa e, senza prende¬re un minuto di riposo, né qualcosa per rifocillarsi, inzuppato e intirizzito dal freddo, tenne una lunga predica sul piazzale della chiesa, dove il popolo era accorso, curioso ed anche spaventato a quel richiamo fuori orario». Perché mai tanta fretta e una predica a quell’ora? Sonnino era il principale covo di briganti, la cittadina dove non passava mattina che non si trovassero morti o moribondi nelle case e per le strade. Si seppe poi che il Santo quella notte aveva impedito un massacro, del qua¬le chi sa come, ma certamente per vie misteriose, aveva avuto sentore. Preparati a patire Chi si reca a Loreto, nella S. Casa, può leggere più volte sulla lapide, che porta scolpiti i nomi dei Santi che la visitarono, anche il nome di S. Gaspare. Egli ne era devotissimo e non mancava di recarvisi a pregare, specialmente quando si trovava nelle Marche. Ogni volta, come egli stesso asserisce, ne eb¬be grazie e rivelazioni molto importanti. Nel 1821, nel momento culminante del suo apostolato per la conversione dei briganti, vi si recò con D. Biagio Va¬lentini e si raccolse nella piccola Casa, ove pregò a lungo; anzi al dire del Va¬lentini, ebbe con la Vergine «un lungo colloquio», dal quale uscì infiammato nel viso e «quasi fuori di sé». Accostatosi al confratello, esclamò sospirando: «Croci, croci, croci!» E delle tante croci che avrebbe dovuto subire ebbe poi subito conferma durante la celebrazione della santa Messa all’ altare di S. Chiara a Montefalco. Sentì una voce ben distinta che gli giunse dall’Alto: «Prepàrati a patire». Ma fin’allora la sua vita non era stata forse una continua sofferenza fisica e morale? I santi sono sempre preparati e pronti ad accettare il dolore; ma il colloquio con la Vergine e la voce arcana erano il preludio d’una tempesta inaudita e infernale, che stava per abbattersi su di lui, ed anche un segno che la Vergine sarebbe stata sempre al suo fianco. Ella aveva gia rivelato ad un’ anima santa che la Congregazione di Gaspare era nata sotto la sua prote¬zione e l’avrebbe sempre difesa. Non erano certo le sofferenze dovute alla sua malferma salute che poteva¬no impressionarlo; anzi affermava sempre: «Il Ministero mi rende leggiero come una piuma e non godo mai tanta salute come quando vado in Missione». Ciò che invece trafisse il suo cuore fu la guerra aspra, senza quar¬tiere e senza esclusione di colpi, che gli mossero non solo i civili e i settari, ma anche alcuni del clero e perfino qualche superiore ecclesiastico. Anche tra i suoi figli vi fu un «giuda». La conversione dei briganti veniva a ledere troppi interessi, a cominciare da quei biechi personaggi che occupavano le più alte cariche dello Stato e nell’ esercito. Essi, infatti, anziché reprimere, avevano tutto l’interesse di alimentare il brigantaggio, e finirono per allearsi segretamete anche con i Carbonari per i lauti guadagni che ne ritraevano. Mentre sul principio deridevano il Santo, perché s’illudeva di riuscire a convertire tipi così feroci con le sue accorate prediche, quando constatarono che, a poco a poco,i briganti diminuivano, cominciarono a temere per il dop-pio stipendio, i guadagni sottomano, e del loro stesso posto. Scatenarono di conseguenza una lotta subdola contro di lui e i suoi compagni, cercando, in-nanzi tutto, di farli passare agli occhi dei briganti come spie del Governo e traditori; poi vedendo che i briganti non abboccavano, inasprirono con fero¬cia inaudita la già dura repressione; in fine accusarono Gaspare presso i vari Pontefici, con le più abbiette calunnie. Pio VII, che ben conosceva il Santo e lo aveva tanto caro, non cadde nel tranello; invece, sia Leone XII che Pio VIII, anche se poi si ricredettero, vi prestarono fede. Leone XII giunse a proi¬bire 1′ uso del titolo del Prez.mo Sangue all’ Istituto e Pio VIII, in un primo mo-mento, a sopprimere la Congregazione. S. Gaspare, nel fondare la nuova Congregazione, s’era proposto non solo di convertire i briganti, ma un rinnovamento di tutta la Società d’allora ed il suo ritorno a Dio. A questo fine aveva coraggiosamente e in parole chiarissime presentato a Leone XII tramite il Cristaldi un «Piano di riforma dei popoli». In esso, parte dal culto al Sangue di Cristo Redentore, «arma dei tempi» per combattere le nuove ideologie. Gli errori, infatti, s’erano infiltrati perfino nelle file degli ecclesiastici e mira-vano non a distruggere qualche dogma, ma «era la lotta a Cristo Signore nella sua totalità e a scardinare la Chiesa». Perciò metteva in evidenza la necessità di un piano di riforma generale, a cominciare proprio dal clero. «Nei miseri tempi nostri – diceva il Santo – è generale la crisi dei popoli e indicibile la perversione delle’ massime e del costume». «Il Signore non è contento del clero; oggi i prela¬ti si abbandonano a gozzoviglie, danze e veglie…». Ed ecco cosa propone: Ri- forma del clero ed in particolare della Gerarchia. I Religiosi siano richiamati alla vita comune, ripristinando 1′ antica osservanza e vivendo una profonda vi¬ta interiore. I Prelati, dei quali egli denunzia la leggerezza dei costumi e la vita dissipata, siano richiamati ad una vita austera, che onori la dignità che rivesto¬no. I Vescovi osservino l’obbligo della residenza in diocesi, pascano con ocula¬tezza e dolcezza il loro gregge e abbandonino ogni avidità e brama d’onori. A presiedere le Delegazioni Pontificie nello Stato siano nominati prelati degni, maturi e imparziali. I giovani prima d’essere consacrati sacerdoti, osservino un periodo più lungo di formazione spirituale ed intellettuale, perché nel clero c’è molta ignoranza. Si istituiscano Case del Clero per una vita comune del clero secolare. È penoso vedere preti e laici, che vengono a Roma per disbrigare pra¬tiche presso la Curia, attendere giorni e mesi prima d’essere ascoltati! Perciò ènecessaria una riforma della burocrazia. Gaspare, fin d’allora, suggerì anche quanto poi attuerà Paolo VI, cioè l’abo-lizione delle Guardie Nobili «composta da giovani viziati ed oziosi» e la rinun-cia alle cariche religiose e civili da parte di persone anziane: «Ognuno deve reggere il peso che può» per non danneggiare la Chiesa e lo Stato. Gaspare che conosce i grandi privilegi e le ricchezze dei nobili e dei ricchi possidenti, implora dal Papa scuole pubbliche e l’ammissione gratuita nei Collegi di gio-vani di particolare capacità e intelligenza, per dare anche ai poveri la possibi-lità di studiare e accedere ai pubblici impieghi. Fu a questo fine che andava ideando già la fondazione del ramo femminile della sua Congregazione col fi-ne di educare ed istruire gratuitamente i fanciulli del popolo. Giovanni XXIII, che conosceva bene la vita di S. Gaspare, nell’ Allocuzione alle rappresentanze dell’Azione Cattolica il 10.V. 1965 a Roma, disse: «Gaspa-re Del Bufalo, autentico apostolo romano, può ben essere annoverato tra i precursori del vostro movimento». Un piano satanico Ed ora seguiamo il Santo nel suo lunghissimo calvario. Dopo la morte di Pio VII, salì al trono pontificio Leone XII, un uomo di tempra forte e di carattere assai deciso. Egli, da Cardinale, aveva strettissima amicizia con Gaspare ed era solito farlo prelevare spesso con la sua carrozza, dopo le prediche nelle va-rie chiese di Roma, per averlo a palazzo e trattenerlo in conversazione e rice-verne consigli. Gaspare sperò che questo papa lo assecondasse, invece… le contrarietà au-mentarono e non gli restò che confidare in Dio e continuare il suo apostolato nel martirio. Le sue pene toccarono il vertice quando un gruppo di briganti che, dietro le esortazioni di Gaspare si erano arresi, dietro formale promessa di immunità e perdono, furono invece incatenati e condannati a vita o barba-ramente uccisi. Eppure le promesse erano state fatte in modo formale dal Go-verno. «Siamo stati traditi» gridavano dietro le sbarre, e prima di morire rifiu¬tarono i Sacramenti dalle mani dei «traditori». Gaspare, a questo punto, comprese che non erano solo gli impiegati che tramavano, ma il marcio si annidava tra le’ più alte sfere. Sempre eroico nel subire le offese e sempre rispettoso verso le autorità, egli non si ribellò mai, seppe soffrire in segreto, ma, come gli dettava la coscienza, protestò con energia e non volle mai più occuparsi delle trattative di resa. I briganti, dal canto loro, fecero pagar caro il tradimento a chi ne aveva la colpa, ma non di-minuirono mai la loro fiducia verso il Santo; anzi con una famosa lettera scrit-ta al Merlini, gli chiedevano che fosse egli solo ad implorare pietà per loro presso il santo Padre. Ma, Gaspare, per tutta risposta alle sue iniziative «ven-ne chiamato con molta importanza e sussiego da mons. Delegato di Frosino-ne, che lo rimproverò aspramente». Ma il prelato fu costretto poi ad abbassa-re tanta prosopopea e chinare la testa quando il Santo, con rispetto e la fer-mezza di chi ha la coscienza in regola, gli rintuzzò punto per punto ogni adde-bito. Ma non è finita. Gaspare viene accusato a Roma di tener prediche fredde e di non parlar mai contro il brigantaggio, trasgredendo gli impegni che s’era assunto nell’aprire le Case di Missione in Ciociaria. Con lettere diffamatorie, egli e i suoi furono addirittura accusati di favoreggiamento ed amicizia con i banditi. Nel campo delle calunnie, per quanto assurde e infami, si suol pre¬star quasi sempre più fede al diffamatore che al diffamato. Nella Chiesa, poi, c e una larga schiera di Canonizzati, divenuti santi proprio per le sofferenze ad essi procurate da chi «sempre a fin di bene» li ha ricoperti di infamie. I ca-lunniatori spesso, anche se in buona fede, ma con leggerezza, sono elogiati dai superiori per il loro zelo e così la loro perfida genfa prende più vigore. Gaspare, col progetto di riforma, aveva toccato tasti troppo scottanti, irrita¬to personalità e insidiato gli interessi di troppe eccellenze e di qualche porpo¬rato suscitando un vespaio da non dire e perciò doveva pagare dolorosamente e a caro prezzo tanto ardire. Fu chiamato a difendersi e lo fece con una lettera efficacissima e circostan-ziata, confondendo i nemici e, innanzi tutto, con il fine di aprire gli occhi a Leone XII. Ogni lettera del Del Bufalo è un capolavoro di equilibrio, aliena dall’offesa e dalla vendetta, ma senza alcun cedimento, perché mette in piena luce la verità. A volte, in esse, non manca neppure l’ironia prettamente ro-mana: «Come fanno costoro a dar giudizi, se non sono stati presenti mai, nep-pure ad un mio catechismo?» Ma quanto soffre! Per il suo cuore sono conti-nue e dolorisissime pugnalate! Con la morte nel cuore, col fisico prostrato dal dolore e dal lavoro, continua senza sosta e con tutto il santo ardore l’apostolato nelle mefitiche Paludi Pon-tine, dove contrae una pericolosa febbre perniciosa, dalla quale per altro, egli stesso dice di essere guarito subito per intercessione del suo Saverio. I nemici, sempre più spietati, non gli danno tregua; particolarmente cocen¬te è il suo dolore quando vede togliersi il piccolo sussidio assegnato dal com¬pianto Pio VII alle Case di Missione in Ciociaria. L’ Istituto è già nella più nera miseria; i Missionari soffrono anche la fame, mancano dell’essenziale per coprirsi, hanno addirittura un solo ombrello in casa. Eppure continuano ad arrivare lettere al Papa che lo accusano d’essersi arricchito con lauti compen¬si ed offerte; egli che si spogliava dei suoi vestiti e tornava spesso a casa con la sola veste talare sul nudo corpo, senza calze e scarpe, in pieno inverno per¬ché donava tutto ai poveri! Lui, che un giorno rifiutò sdegnato una cospicua offerta in monete d’oro, da chi cercava corromperlo e tirarlo dalla sua parte, rispondendo: «Non oro, ma anime!»; lui che rifiutava, e altrettanto imponeva ai suoi, elemosine pingui per la celebrazione di sante Messe e lasciti per l’Isti-tuto. La sua Congregazione ricca? Ma se ogni tanto qualcuno dei suoi figli, pur con lo strazio nel cuore, se ne andava perché si pativa la fame e non si po¬teva curare per mancanza di mezzi! Non tutti erano nati per fare gli eroi! I nemici non demordono e, irritati dall’eroismo del Santo, mirano a scardi-nare dalle fondamenta il suo Istituto. Il Preziosissimo Sangue! Come ardiva questo prete superbo ed esaltato esporre il nobilissimo ed augusto Prezzo del-la nostra Redenzione alla profanazione di tutti, unendolo al nome della sua traballante Congregazione? Questo falso zelo non contrasta certo con la loro malignità. Purtroppo Leone XII li ascolta e, in pubblica Udienza, di sua mano cancella il titolo «Prez.mo Sangue» su un libro che il Missionario D. Betti gli aveva presentato in omaggio e lo sostituisce con quello di «SS.mo Salvatore». Fin quando si è trattato della sua persona, il Santo ha taciuto e sofferto; ma or che si tratta della denigrazione dei suoi compagni e soprattutto dell’ Opera voluta chiaramente da Dio, scrive al Cristaldi: «Ella è in obbligo di far cono-scere a sua Santità che le cose esigono esame… Qui trattasi di cosa gravissi¬ma, onde non far apparire noi come impostori. Il 5. Padre un giorno conosce¬rà ciò che ora non vede e piangerà di aver usato nelle Udienze un metodo non secondo Dio. Non sono né di ferro, né di bronzo… aver continui rimproveri, senza esame, senza processo… e un calice ben amaro!». Il Cristaldi chiama immediatamente a Roma Gaspare, ch’era in Missione e lo presenta al Papa, dopo averlo fatto incontrare con Mons. Soglia, suo segre-tario privato. Gaspare riferendo sul colloquio col Prelato, dice: «Ad un punto ho inteso su di me una forza superiore e tale che Monsignore quasi piangeva. Se avessi in un foglio quel che ho detto su tal punto!…» Seguì l’Udienza papale e il Pontefice riferì a Gaspare tutte le accuse. Gaspare, per circa un’ora, chiari tutto ed in particolare sul titolo del Prez.mo Sangue, in base a.testi scritturali e patristici, e come fosse stato già approvato da Pio VII; parlò dei suoi Compagni, facendogli nomi di persone famose nella Chiesa per dottrina e santità. Il Pontefice volle vedere le Regole e se ne compiacque. Poi doman¬dò come si comportassero i suoi Compagni. Gaspare disse: «Sono pronti a ve¬nire tutti ai Vostri piedi e siamo pronti a chiudere tutte le Case dell’ Istituto se questo è il desiderio di Vostra Santità». Il Pontefice non poté resistere alla commozione; levatosi in piedi abbracciò Gaspare e gli disse: «Capisco, avete molti nemici, ma Leone XII è con voi». In seguito il Papa, in pubblica Udien¬za ritrattò il suo giudizio sul Santo ed esclamò: «Il Canonico Del Bufalo è un angelo, è un santo!». I nemici sconfitti sul terreno della calunnia, tentarono la via della lode sperticata, sfruttando la grande stima che il Papa aveva dimostrato al Santo. Il Papa forse non pensò alla loro satanica perfidia; così riuscirono in parte nei loro disegni: impedire a Gaspare la predicazione delle Missioni. Quali furono le conseguenze di tanta stima? Una mazzata! Il Papa voleva elevarlo alla porpora, poi cedette di fronte al rispettoso rifiu¬to di Gaspare, ma gli propose la nomina ad Arcivescovo, destinandolo alla Nunziatura in Brasile. Gaspare ricorse ancora al Cristaldi pregandolo di far capire al Papa che la sua unica aspirazione era quella di morire missionario. Leone XII, certamente contrastato, da tanti rifiuti, lo destinò quale addetto alla Congregazione di Propaganda Fide, e niente più Missioni! Per quanto in quest’incarico egli potesse anche aiutare e difendere il suo Istituto e far molto bene per le Missioni Estere, si sentì tuttavia come un uccello, al quale abbia¬no tarpate le ali. La perfida trama del Delegato di Frosinone e dei suoi degni adepti era quasi riuscita! Ancora spasimi! Leone XII non solo dette piena ragione al Santo, ma indicendo nel 1825 l’Anno Santo e accettando quasi tutte le sue proposte sul progetto da lui pre-sentato, diede mano alla Riforma. Nel 1826, con propria Bolla, riconobbe uf-ficialmente il titolo di «Congregazione dei Missionari del Preziosissimo San-gue» alla Fondazione di Gaspare. Riaprì quindi la «gabbia» e Gaspare poté ri-prendere, con piena libertà, il volo, col cuore infiammato dall’ideale che lo pervadeva. Un pieno trionfo? Sì, ma di breve durata. Il 15 febbraio 1829 morì Leone XII e venne elevato alla Cattedra di Pietro il Card. Castiglioni, che assunse il nome di Pio VIII. Manco a dirlo, i nemici riaffilarono le armi, decisi ad abbatterlo definitivamente. Sul tavolo del nuo¬vo Papa andarono ammucchiandosi presto fascicoli di lettere con le ben note e solite accuse. Pio VIII, impressionato, tolse ogni assegno alle Case di Mis¬sione e, un giorno che scorse Gaspare tra i fedeli che si erano recati alla pub¬blica Udienza, prese a riprenderlo aspramente alla presenza di tutti. «Voi sie¬te l’Istitutore dei Missionari del Preziosissimo Sangue? Avete il Rescritto del nostro Predecessore?» Gaspare che era andato all’ Udienza Generale, come un qualsiasi fedele e non s’aspettava perciò una simile richiesta, non aveva alcun documento a portata di mano. Rimase interdetto, anche per il sistema poco… ortodosso del Papa, il quale per altro senza neppure dargli tempo di ri-spondere continuò: «Il vostro Istituto è nato nella superbia!» e, come dice la cronaca «urtato da malumore e dall’érpete che molto lo molestava», continuò a levare la voce con più forza «facendogli una buona rimenata». Alla fine cac-ciò il Santo gridandogli: «Avete sempre operato di testa vostra! Andate via e sappiate che vi tolgo tutte le facoltà, così imparerete a vostre spese». Se un fulmine fosse caduto addosso a Gaspare non gli avrebbe fatto più tre-menda impressione. L’organismo malato e i nervi scossi gli procurarono un forte collasso e poco mancò non cadesse al suolo svenuto. «Richiamando tutti i motivi di religione, lasciò la Sala delle Udienze, barcollando e pallido in vol-to. Giunto sotto il colonnato si senfi morire e fà costretto ad appoggiarsi ad un pilastro». Non mancò il fiizzo infernale di chi, gongolante, s’era goduta la scena e l’aveva seguito: «Ecco il famoso Padre Generale dei Missionari del Preziosissimo Sangue.. che se ne torna a casa con la coda fra le gambe, come un cane bastonato!» Egli non reagisce, sa che in tutto c’è un disegno di Dio, né concepisce alcun rancore contro il Papa. Ai suoi che, al rientro in casa, lo vedono «come uno straccio» e capiscono che il Papa lo ha accolto male, dice, scusandolo: «Non è colpa sua, è malato e poi gli hanno rappresentato cose contrarie all’ Istituto». Come in tutti i frangenti, corre dall’ impareggiabile amico Cristaldi, getta nel suo cuore tutta l’amarezza di cui trabocca il suo animo e lo prega d’inter-venire. Il Cristaldi lo calma, lo fa salire nella sua carrozza e lo accompagna a far visita a vari Cardinali amici per decidere sul da farsi. Venuto il momento opportuno è il Card. Odescalchi a parlare al Papa deJlo zelo, dell’ umiltà, della santità e sottomissione di Gaspare. Pio VIII mostra all’ Odescalchi un enorme fascio di esposti e dice: «Vedete quanto avrei da dire io!» Il Cardinale conti-nua nella difesa, fa la storia di simili precedenti e della malignità e dei motivi per i quali Gaspare è perseguitato; mette in rilievo come quei ricorsi siano anonimi o con false firme, o firmati con nomi di persone che ne sono all’oscu-ro, come ad esempio delle Comunità dei Padri Liguorini di Frosinone, che non appena seppero d’una lettera diffamatoria con le loro firme, caddero dalle nuvole. In fine il Cardinale mostrò al Papa il Rescritto di Pio VII che istituiva ed approvava la Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Pio VIII nel leggere la firma di quel santo Pontefice martire di Napoleone, la baciò e scoppiò in lacrime e disse: «Eminenza, dite tutta la mia stima al Canonico Del Bufalo, ogni giorno benedirò il suo Istituto, allorché alzerò il Calice del Sangue di Cristo nella santa messa». Gaspare è con un gruppo di confratelli presso il teatro Domiziano in Roma, quando il 30 novembre 1830 gli annunziano la morte di Pio VIII, dopo soli venti mesi e mezzo di pontificato. Ne rimane tanto amareggiato e si raccoglie in preghiera. Poi, accendendosi improvvisamente in volto, ha un fremito in tutta la persona e, illuminato dallo Spirito, profetizza: «Il successore di Pio VIII avrà un lungo pontificato e regnerà bene, ma dopo di lui, sotto un altro pontefice, la Chiesa soffrirà grandi tribolazioni, con spargimento di sangue». I tempi, purtroppo, gli diedero ragione! Nella tormenta un candido Fiore Mentre la tormenta della persecuzione infuria contro il Santo ed il suo cuore sanguina, ecco che uno di quei tratti misericordiosi e dolcissimi dell’Amore Divino viene ad inondarlo di immensa gioia. Proprio a Vallecorsa, uno dei più fiorenti covi di briganti, dove il più efferato delitto ha macchiato i gradini dell’altare ov’era allestito il Sepolcro del Giovedì Santo, dove ogni pietra era te¬stimone di continui massacri, dove ogni famiglia’ si armava e giurava vendetta, sbocciò un candido fiore, Maria De Mattias, l’unica nella storia di quella citta¬dina, che sarà innalzata un giorno, come Gaspare, agli onori degli altari. Una sera, non appena Gaspare salì sul palco per tenere la sua predica, egli che mai fissava persona durante le prediche e donne in particolare, sentì una forza misteriosa, che lo costrinse a posare lo sguardo su una fanciulla, che, a sua volta, lo guardava rapita. Fu un solo istante, l’istante del miracolo! Rimase egli stesso colpito dall’ espressione di rapimento di quel viso levato verso di lui e da quegli occhi che con candore lo fissavano come in estasi. La mente del santo Missionario rivide in un baleno la scena delle carceri, ricordò le parole dell’Albertini e la profezia che lo preconizzava anche fonda-tore d’un ramo femminile della sua Congregazione. Non aveva mai visto pri-ma quella fanciulla, non le aveva mai parlato, non sapeva chi fosse, ma intui subito che sarebbe stata la sua anima gemella, confondatrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ecco perché tutti i tentativi fatti fino a quel giorno, or per un motivo, or per un altro, erano andati a vuoto. Era lei la pre-scelta da Dio! Dal canto suo Maria, folgorata da quello sguardo, lo elesse subito nel suo cuore a padre e maestro. Maria, proveniente da famiglia agiata, irreprensibile per onestà e pietà reli-giosa, aveva già deciso di farsi suora e andò al confessionale a chiedergli con-siglio. Gaspare, senza esitare, le disse con chiarezza che Dio la chiamava alla santità non in un eremo, bensì all’apostolato in mezzo al popolo. Le mostrò il Crocifisso e le disse: «Sei chiamata ad operare fra le donne, quel che io opero per condurre a Lui le anime, affinché le purifichi nel suo Sangue». Sebbene il Santo fosse certo della Volontà di Dio, le suggerì di chiedere consiglio anche a qualche dotta e santa persona, perché nella sua umiltà e prudenza pensò che avrebbe anche potuto sbagliare. Maria si recò al Santua-rio della Civita, presso Gaeta, dove viveva D. Giuseppe Addessi, sacerdote famoso per dottrina e santità. E – ci narra il Merlini – prima che Maria aprisse bocca il pio sacerdote «le rivelò l’interno», confermando il parere del Canoni-co Del Bufalo. Gaspare però non affretta i tempi; devono passare anni di riflessione e di preghiera; l’affida alla direzione spirituale di D. Giovanni Merlini, raffinato conoscitore di anime e insigne maestro di spirito, nonché ricco di santità. So¬lo quando si sarà liberata da certi difetti di gioventù ed avrà eliminato ogni scoria di vanità umana, irrobustita dalla fede e nella piena consapevolezza del pensiero di Gaspare, potrà intraprendere quel cammino al quale Dio l’ha destinata. Eccola intanto, dopo la morte della sorella e della cara mamma, ad essere l’unica donna di casa a servizio del babbo e dei fratelli; eccola a radunare in casa amiche e fanciulle per insegnar loro il catechismo e divertirsi santamen¬te con loro; eccola con entusiasmo ad essere la prima della lunga fila a cari¬carsi di pietre, di peso superiore alle sue forze, per il restauro della chiesa di S. Antonio Abate e la costruzione della Casa di Missione. Finalmente, a 28 anni, il primo marzo 1834, con la benedizione del babbo, che finalmente èriuscita a convincere, parte alla volta di Acuto, in quel di Frosinone, dove si reca, come dice chiaramente al Vescovo, a fondare un nuovo Istituto, che avrà per fine, secondo le direttive di Gaspare, di dare gratuitamente ai figli del popolo educazione ed istruzione religiosa e morale. Gaspare che rimane sempre il regista di quest’ Opera, per la quale ha già dettato una prima bozza di Regola, sarà sempre il suo padre e ispiratore, an-che se si nasconde e lascia al Merlini il compito di consigliere e direttore. La storia di questa fondazione si snoda come quella di Gaspare all’ insegna della sofferenza, delle persecuzioni e del martirio. Solo la sua fortezza di spi-rito ed il fiero carattere ereditato dalla sua terra, sapranno averne ragione. Ella ha il carisma dell’ apostola, parla «meglio di un prete» e i Vescovi le or-dinano di predicare anche in chiesa, perché affascina, entusiasma, attrae, converte. Non è da meravigliarsi se le chiedono di continuo le sue suore, che, da lei formate, ne ricopiano la spiritualità e, a loro volta, come lei, diventano apostole e maestre. Prima della sua morte si contavano già sessanta Case in Italia e all’ Estero. Le malignità più crudeli sulla sua virtù la fanno soffrire, ma non l’abbatto¬no. Il Sangue di Cristo è per lei 1′ unica fonte di gioia e di forza; il Signore l’ar-ricchisce di doni soprannaturali: scrutamento dei cuori, estasi, guarigioni, prodigi umanamente inspiegabili. Sul letto di morte, all’età di 61 anni, fra indicibili sofferenze, parla per un’ora intera della Passione di Gesù. È il suo ultimo canto terreno al Divino Agnello! Un’ulcera alla lingua le toglie la parola; allora fa cenno alle sue suo¬re, che in lacrime circondano il letto, di cantare con gioia un inno al Preziosis¬simo Sangue. Maria, spirando santamente, andrà a continuare il canto in Cielo, a fianco di Gaspare, dove l’eternità e la gloria li hanno resi inseparabili. Il terribile aguzzino Le Marche, tra le Regioni dello Stato Pontificio, godettero il privilegio dell’assidua evangelizzazione di S. Gaspare e furono anche teatro di eventi straordinari e numerosi aneddoti, che caratterizzano di solito ed ovunque l’apostolato del Santo. Scorrendo il nome delle sue belle città e dei suoi riden¬ti paesi, sembra proprio che egli non ne abbia trascurato alcuno, tanto è an¬cora viva la sua memoria ovunque. Perciò, fin dai suoi tempi, fu chiamato «Apostolo delle Marche». Ancona godeva dell’appellativo di «Roccaforte antipapale», perché vi pullu-lavano settari, carbonari, atei a non finire. Dopo la famosa Missione di Rieti, Gaspare vi fu invitato con insistenza, almeno per una decina di giorni, spe-rando potesse anche cambiare un po’ il volto anticlericale di quella città. Non appena si apprese la notizia del suo arrivo «i malvagi diffusero tra il popolo dicerie e calunnie contro di lui» e convinsero un buon canonico della Catte-drale ad andargli incontro per dissuaderlo dal compiere quel viaggio, perché gli anconetani erano in subbuglio ed ostili, sicché c’era da temere per la sua vita. Gaspare, che capì il trucco, fece con coraggio l’ingresso in città con i suoi compagni, accolti dal clero e dal popolo, al contrario di quanto era stato detto, con grande gioia e solennità e «fu tanto l’entusiasmo e il successo, che, invece di dieci dovette rimanervi ventitré giorni». Restarono sbalorditi gli avversari quando dovettero constatare che nell’ultimo giorno della Missione si contarono ben trentunmila Comunioni! Ma «sulle orme di tanta grandezza – scrive lo storico – spuntò ben presto il fiore del Calvario. A Camerino, ove Gaspare si era recato con i suoi dopo An-cona, vennero dileggiati pubblicamente». L’Università di Camerino era allora più famosa e frequentata di oggi; vi si stampava il «Giornale Ragionato», umile seguace della Dea Ragione d’Oltral-pe, il quale, senza neppure attendere 1′ arrivo di Gaspare «iniziò una lotta sleale», contro il «pessimo errore delle Missioni», biasimando «il diritto che si arrogava il Can. Del Bufalo – definito un esaltato – d’esser accolto con grande pompa». Vedendo però che il popolo la pensava ben diversamente e l’aveva accolto con grande gioia e accorreva in chiesa ad ascoltarlo, il «Giornale Ra¬gionato» proseguì più accanitamente la campagna denigratoria. Gaspare fu definito «Mimo da teatro, circondato da ridicole maschere per ingannare i sempliciotti». Essi si professano perfino scandalizzati, perché una «Religione così pura» sia profanata da un prete tanto orgoglioso! Li chiamano «primo amoroso», il Valentini e Mons. Sillani «tenori», il Tarulli «basso», il Piervisani «soprano» e Mons. Strambi – il santo vescovo di Tolentino – «comparsa». L’effetto fu assai contrario alle loro aspettative, tanto che Gaspare dovette trasferirsi dalla chiesa a predicarè in piazza, tanta era la folla! Ed ecco che, proprio a Camerino, il Signore che, nella sua bontà sa tempe¬rare sempre il dolore con la gioia, dispose un inatteso incontro di Gaspare con un suo terribile carceriere. Una sera in Duomo, mentre discendeva dal palco, un uomo, piuttosto an-ziano, gli si gettò ai piedi e si diede a gridare: «Perdonatemi, Padre, delle grandi sofferenze che vi ho inflitto!» Il Santo, sorpreso, cercò di confortarlo, ma quegli continuò, con voce ancora più alta: «Padre Santo, guardatemi bene in faccia! Possibile che non mi riconoscete?» Quanti visi buoni e malvagi pas-savano ogni giorno davanti al suo sguardo! Chi mai era costui? «Padre, vi ho tanto martoriato, non sono degno di stare nemmeno qui ai vostri piedi. Per-donatemi, perdonatemi! ». Gaspare lo fissò più attentamente e, sebbene il tempo avesse sbiancato quei capelli e scavato profonde rughe su quel volto, riconobbe in lui un suo sorvegliante nella prigione di Bologna. Lo abbracciò con slancio, lo strinse al cuore, lo baciò e lo ringraziò per avergli dato la possibilità e il privilegio di soffrire per Cristo. L’ ex gendarme narrò ad alta voce quanto aveva fatto al Santo e concluse: «Padre, non vi lamentavate mai! Eravate un angelo in car-ne!». Si può facilmente immaginare cosa avvenne in chiesa! Commozione, lagri¬me, esultanza! E cosa avvenne in piazza, quando si venne a conoscenza del toccante episodio. Anche questa Missione si concluse con 1′ erezione di una grande croce¬ricordo, ai piedi della quale si bruciarono in gran quantità, armi e libri cattivi, mentre la folla non cessava di acclamarlo «Apostolo delle Marche e martello dei Carbonari». Gaspare, umilmente, ripeteva in cuor suo: «Gloria a te solo, Signore!». Acqua che non bagna «Ad un suo cenno cessavano, come d’incanto, pioggia e tempeste». Sono stati diversi ad asserirlo nelle loro testimonianze. Infatti, fra i tanti episodi straordinari che costellano la vita del Santo sono innumerevoli quelli che ci narrano come, ad un segno di croce, ad una breve preghiera, o addirittura ad un comando, tacevano le tempeste, cessavano le piogge, si calmava il mare. Dio, assoluto Padrone di ogni elemento, gli donò anche questo potere, quan¬do era necessario per il bene delle anime e per dimostrare agli scettici che, per la sua bocca era Lui, che parlava. Qua e là abbiamo già accennato a qual¬cuno di questi meravigliosi eventi; ora ne narriamo qualche altro, cercando di servirci quasi alla lettera delle cronache del tempo. A Cisterna, nel Lazio, mentre tiene la Missione, giungono tutti i componenti d’una Confraternita di Velletri, per poi accompagnarlo nella loro città, dov’è tanto atteso. Il cielo, che per tutta la mattinata «era stato nero di nuvole, a se-ra scoppiò in una pioggia torrenziale. Non potendo la chiesa contenere tanta gente, Gaspare invitò i fedeli in piazza, dove già era stato issato il palco; bene-disse il cielo con lo stendardo della Madonna e la pioggia cessò all’istante, mentre le nuvole rimasero sospese in aria, come velari di piombo». Giunto poi a Velletri, dove c’era tanta gente ad aspettarlo, quando ormai era notte tarda, si recarono in processione in chiesa. Il cielo fino allora sempre minac¬cioso, da lui benedetto, «apri le cataratte» solo quando tutti furono a casa. A Cori, dove, come abbiamo già narrato, Gaspare gettato giù dal palco, si rialzò privo d’ un dente, e con una ferita alle labbra, come a punire un atto così sacrilego il cielo si annerì improvvisamente e la folla spaventata cominciò a scompigliarsi. «Gaspare si raccolse in preghiera e poi gridò: – Non muovetevi, il diavolo non l’avrà vinta! – Ad un suo segno di croce1 tornò d’incanto il sere-no ad allietare la festa delle anime». A Nocera Umbra Gaspare stava predicando ad una marea di folla, nella piazza fuori Porta Romana, quando il cielo diventò improvvisamente nero e minaccioso. L’impeto d’un vento gagliardo agitava lo stendardo della Vergine e le fiamme delle torce minacciavano di bruciare la veste della Madonna. La pioggia cadeva con violenza. «Non temete, gridò il Santo, la Vergine vin-cerà l’Inferno, che vuole impedire questa manifestazione di fede! – Benedisse il cielo, che all’ istante tornò sereno». A Caldarola il Signore vuol premiare con un prodigio lo zelo infaticabile del suo Servo. «Mentre predicava all’ aperto, alla presenza del vescovo, del clero e della folla, il cielo si abbuiò all’improvviso e cominciò a cadere una pioggia torrenziale. Il Santo fece ripetuti segni alla folla in subbuglio di non muover¬si. Tutti fissavano lo sguardo sulle sue mani congiunte in preghiera e i suoi occhi supplichevoli rivolti al quadro della Madonna del Prez.mo Sangue; la pioggia s’arrestò d’incanto». A Norcia «era stata organizzata una processione di penitenza. Già durante la mattinata a tratti, era caduta una pioggerella leggiera, ma, allorché la pro-cessione stava per sfilare, cominciò uno scrosciare tempestoso di acque. Ga-spare benedisse il cielo e, come per incanto, la pioggia cessò». A Chiaravalle, nelle Marche, nella piazza dove Gaspare stava predicando, era issato sul palco il prodigioso simulacro del SS.mo Crocifisso, tanto vene¬rato in quella Abbazia, «quando d’improvviso un vento turbinoso cominciò a squassare e a spezzare i rami degli alberi, a buttare all’aria tegole, a sollevare nugoli di polvere, a scompigliare gente che doveva tenersi stretta per mano, e a far traballare anche il palco. Ma furono istanti, perché Gaspare si inginoc-chiò in preghiera davanti al Crocifisso e la furia del vento si placò». Ad Ascoli, mentre predicava all’aperto, «cominciò a piovere. Fu un fuggi fuggi generale in cerca di riparo, ma il Santo fece cenno di non muoversi e di recitare con lui l’Ave Maria. Mentre tutt’intorno alla piazza continuò a piove-re, di quelli che erano ad ascoltarlo, nessuno si bagnò». A Sermoneta, dove invece da tempo non pioveva e il raccolto ormai era compromesso, il Santo organizzò una processione di penitenza e prima che rientrasse in chiesa, cominciò a piovere. Il raccolto fu più abbondante degli altri anni. Ovunque Gaspare si recava a predicare le Missioni, accorreva gente anche dai paesi e villaggi vicini. Or avvenne che aCori, dove durante la predica la piazza era gremitissima, si scatenò una pioggia violenta. Gaspare ebbe com¬passione di coloro che dovevano fare a piedi ben otto miglia per tornare a ca¬sa; benedisse tutti e consegnò loro il quadro della Regina del Prez.mo Sangue, raccomandando di recitare lungo il tragitto il santo rosario. Nessuno si ba¬gnò, ma appena entrarono nella chiesa per depositare il quadro l’acqua ven¬ne giù a catinelle. Come avete notato, alleata del Santo in questi prodigi era la sua cara Ma-donna del Preziosissimo Sangue, alla quale egli sempre li attribuiva. Almeno un bicchiere Da Tivoli S. Gaspare, non avendo danaro «… in luogo di cavalcare, si pose a piedi col suo compagno D. Giovanni Chiodi per Vicovaro, dove trovarono i compagni per andare in Missione e mangiarono solo pochi legumi». Egli si af-flisse non poco per tale penuria, ma unicamente per i suoi Compagni, che cercò di animare al sacrificio. Durante il viaggio prese a parlare con essi della Congregazione: «Dio non manca di provvederci, non saprei dire la somma, ma tengo per certo che il danaro mi è mirabilmente cresciuto». Soleva anche confidare ai confratelli che «non poche volte si vedeva addirittura moltiplica-re il danaro tra le mani». E gli episodi che stanno a dimostrarlo non sono po-chi. «A Cesena, racconta D. Angelo Primavera, io non volevo accettare il supe-riorato, essendovi 500 scudi di debito. Il Canonico insistette: «Abbia fede – mi diceva – ci penserà la Provvidenza» Certo che la sua parola si sarebbe avvera-ta, obbedii. Pur essendo la rendita di soli scudi 80 e la Comunità da mantene-re di sei persone, senza chiedere nulla ai fedeli, in undici mesi riuscii ad estinguere il debito e ce ne fu d’avanzo. E come? Fu un mistero anche per me». Un altro superiore attesta che, avendo avuto dal Santo 300 scudi per pagar i debiti ed avendoli contati e ricontati e trovata la somma giusta, passò a salda-re i creditori. Finito il giro, ne erano rimasti ancora cento e, dubitando si fos¬se sbagliato nel fare i pagamenti, ritornò nei negozi, ma tutti asserirono di aver avuto quanto gli spettava. Ne scrisse al Santo, che così gli rispose: «Rin-graziamo Iddio, che vede il fine per cui si spendono». Sappiamo che la Congregazione «… fin dagli esordi fu unta dal crisma della più estrema indigenza ed in questa – diceva il Fondatore – dovrà avere la su-prema ragione d’essere». Egli sarà sempre geloso di questo carisma ed aprirà le Case solo quando avranno scarse rendite; saranno infatti solo eremi abban-donati e cadenti da restaurare a fondo. Tutte le case dovevano avere il neces-sario, nessuna 1′ abbondanza. Con tante amicizie ed aderenze a Roma e, se avesse accettato anche in minima parte i ricchi doni che gli venivano offerti in continuazione durante le missioni, l’Istituto avrebbe potuto nuotare nella ricchezza. Quando il P. Pierantoni gli disse che a 5. Felice erano sempre «fra grandi ristrettezze», gli rispose: «Questo ci deve essere di conforto, perché èprova che l’Opera è da Dio!». «La Casa di Vallecorsa, dice il Merlini, era sem-pre povera e sempre ricca!» Un Cardinale soleva dire: «La Congregazione del Can. Del Bufalo è prodigiosa, perché, malgrado le enormi difficoltà e l’indi-genza, va sempre crescendo e dilatandosi». S. Gaspare non si turba mai quando alcuni se ne vanno, perché nella Con-gregazione non hanno trovato «tutti i comodi» che speravano; ne ringrazia an¬zi il Signore perché «certamente non erano chiamati da Dio». Nelle sue lettere troviamo innumerevoli espressioni come queste: «Mi sarebbe dispiaciuto se l’islituto fosse nato nell’opulenza ». Agli economi delle case scrive: «Pregate e mettete confidenza in Dio e la Provvidenza non mancherà; vedrete autentici miracoli!» «State certi, dice spesso, Dio mi ha moltiplicato i danari perché do¬po spese immense, mi trovo pareggiati i conti». Dice anche: «Per fare il bene occorre la Grazia di Dio e i quattrini, perciò accontentatevi del necessario e date con larghezza ai poveri». «Se la mia Congregazione dovesse diventare ricca, non la benedirei dal Cielo, perché non sarebbe più la mia amata Con¬gregazione». Insiste, e lo ha sancito nelle Regole: grande riconoscenza verso i benefattori con preghiere e suffragi. Se è vero che non ama la ricchezza e il di più, si preoccupa sempre e molto affinché ai missionari non manchi il necessario e neppure un bicchier di vino a tavola e, se non c’è, ricorre al… miracolo. A S. Felice, non avendo danaro, invece dei soliti due barilotti di vino, son costretti ad accontentarsi d’un solo e di conseguenza… rimangono presto all’ asciutto. Gaspare non vedendo vino a mensa, dice: «Fratelli, oggi non si beve?» «Padre, non abbiamo più vino». «Davvero? Andiamo a vedere in cantina». Al fratello laico che batte forte con le nocche sul barilotto per fargli sentire che «suonava e non ce n’era dentro neppure un goccio», il Santo replicò: «Metti sotto il boccale e spilla». Il Fratello sgranò tanto d’occhi nel veder zampillare vino da un barile vuoto. Solo quando ce ne fu per tutti almeno un bicchiere a testa, il ruscelletto si mandi. «È un miracolo!» esclamarono stupiti i commensali. «È giusto, disse Gaspa¬re, che beviamo anche noi un bicchiere di vino a tavola. Lo dice anche S. Pao¬lo che un po’ di vino è necessario allo stomaco». La disciplina «Disciplina» è chiamato uno strumento di penitenza, usato molto dai santi anacoreti d’un tempo; ed anche in tempi a noi vicinissimi, si usa da alcuni Ordini religiosi di più rigorosa osservanza, come ad esempio, dai Padri Cap-puccini. Gaspare, nel quale era innato lo spirito di penitenza e che fin da piccolo portava il cilizio, da missionario ne faceva molto uso, sia privatamente che in pubblico durante le Missioni, specie quando si trovava di fronte a peccatori tanto incalliti da non riuscire con la sola parola a riportarli a Dio. Nel museo del Santo a Roma si conserva ancora qualcuno ditali «ordigni» da lui usati. In molti quadri, risalenti ai primi anni dopo la sua morte, egli viene ritratto sem-pre mentre addita le piaghe d’un grande crocifisso che sorregge e quasi abbraccia con una mano e, deposti sull’inginocchiatoio, stanno il libro dell’Apocalisse, il teschio e la «disciplina». Questo strumento di solito era formato da «catenelle» irte di ferro spinato o portanti all’ estremità piccole pallottole di metallo, dalle quali sbucano irti pungiglioni: altri tipi portavano all’estremità tante lamine affilate. L’ordigno faceva spicciare vivo sangue ad ogni colpo. Non era certo uno spettacolo gra¬devole vedere le spalle nude del Santo piagate e grondanti sangue; ma quella visione toccava il cuore di chi non voleva in altrò modo arrendersi alla Mise¬ricordia Divina. A chi lo consigliava di non tormentarsi fino a tal punto, sole¬va rispondere che Gesù non si accontentò della sola parola, che pur trascina¬va le turbe, né di operare miracoli a non finire, ma volle imprimere nel cuore umano l’immagine del suo corpo piagato e del suo cuore squarciato per farci comprendere tutto il suo amore e quanto gli costava la nostra salvezza. Non doveva, perciò, anche lui dare qualche goccia del suo sangue per riportare al Cuore di Cristo i peccatori ostinati? Noi sappiamo che la parola di Gaspare trascinava le folle e che i peccatori che si convertivano erano schiere. Sappiamo anche che fu chiamato «Confes¬sore dei grossi calibri». Quanti, che dalla Prima Comunione o dalla celebra¬zione del matrimonio non erano più entrati in chiesa, dopo averlo ascoltato, si inginocchiavano ai suoi piedi per confessarsi! Ma per altri non sempre ba-stava solo la sua parola, per quanto calda e persuadente. «Come suole sempre accadere quando si compie il bene – dice il Ven. Merlini-anche in questa circostanza non mancavano critiche e mormorazioni, perfi¬no da parte di qualche ecclesiastico. Sulla disciplina usata dal Canonico Del Bufalo e dai suoi Missionari con ferree catene, questa venne chiamata ragaz-zata sanguinaria da non praticarsi». Altri lo tacciavano di fanatismo, lo chia-mavano commediante, pagliaccio medioevale, esibizionista sanguinano. Ma Gaspare a sua giustificazione portava 1′ esempio di S. Leonardo da Porto Mau¬rizio e di altri grandi santi missionari di ogni tempo». Il Merlini aggiunge che.. «il popolo altamente commovevasi e le pecorelle smarrite accorrevano in pianto a confessarsi». Né Gaspare si limitava a disciplinarsi in pubblico; ma, quando veniva a sape¬re di qualche moribondo, che si ostinava a non voler ricevere i Sacramenti, cor-reva al suo capezzale e si disciplinava finché non trionfava la Grazia Divina. A S. Ginesio, nelle Marche, un povero sacerdote, che da anni non si confes-sava, era agli estremi e continuava a rifiutare i Sacramenti. Gaspare lo venne a sapere mentre stava per salire sul palco. Lasciò ad altri l’incarico di tenere la predica e corse presso l’infermo. Gli mostrò il Crocifisso, gli parlò della sua misercordia, gli ricordò con soavità e delicatezza il giorno della sua Prima Messa e i primi anni del suo sacerdQzio, così ricchi di fervore e di apostolato; ma il malato continuava a dire che per lui ormai non poteva più esservi mise-ricordia e si girava dall’ altra parte. Gaspare allora si denudò le spalle e vi sca-ricò sopra feroci colpi su colpi. «Io, gli diceva, mi disciplinerò per i tuoi peccati fino a quando la Grazia non avrà trionfato della tua ostinazione». Non passò molto che il sacerdote scoppiò in lacrime, si avvinse al Santo, si confessò e morì tra le sue braccia. La «disciplina» l’aveva strappato all’ inferno. Il vecchio canonico Siamo nel 1824; il brigantaggio è all’ apice della sua pazzia sanguinaria e Gaspare percorre un paese dopo l’altro tenendo Missioni per rincuorare le popolazioni atterrite, frenare le vendette, mettere pace ed abboccarsi con i briganti per ammansirli. Una delle sue maggiori premure, ovunque vada, è quella di richiamare il clero alla santificazione e ad un’intensa attività pastorale. Egli soleva sem¬pre dire: «Santo il pastore, santo il gregge». D’altra parte tante sono le popola¬zioni che lo desiderano almeno per qualche giorno in mezzo a loro che, col numero di compagni che ha, non può accontentare tutti, per questo si premu¬ra ovunque d’invitare ad unirsi a lui nella predicazione i migliori sacerdoti, che viene a conoscere. Viveva ad Alatri, presso Frosinone, il vecchio canonico D. Pasquale Aloy¬si, che, ascoltando la parola del Santo, concepì 1′ assurda idea di farsi Missio-nario. «E perché assurda?» direte voi. Perché la sua età avanzata era già di per se stessa un impedimento insormontabile. Come avrebbe potuto affrontare una vita di sacrifici inauditi, come quelli che comportava l’apostolato missio¬nario, davanti ai quali cedevano anche non pochi giovani? Agli inconvenienti dell’età, si aggiungevano vari malanni. Non lo dice an¬che il proverbio «Tanti anni, tanti malanni?» Infatti era affetto da grave e dif¬fusa artrosi, che gli faceva soffrire dolori a non finire; da una podagra tanto sviluppata da non potersi trascinare neppure col bastone; senza parlare poi d’una bronchite cronica, ribelle ad ogni cura, e d’una parziale paresi. Pove-retto, era proprio ben conciato per le… feste! A chi rideva della sua «vocazione» diceva solo: «Fatemi parlare col Canonico Del Bufalo, è lui che dovrà giudicare». Il Santo non appena avvertito, si portò a casa del sacerdote infermo, che, nel vedersi davanti «quel gran santo», quasi svenne dall’ emozione. Poi fattosi coraggio, gli disse: «Padre santo, anch’io voglio essere un vostro missionario». Gaspare gli elencò tutte le difficoltà e cercò di dissuaderlo. «Eb-bene, padre, mentre voi andrete in giro a predicare, io rimarrò in convento a pregare per la conversione dei peccatori». Gaspare, colpito da tanta fede e da tanta bontà, lo guardò amorevolmente e gli disse: «Signor Canonico, possibile che non riusciate a fare due passi almeno qui in camera? Su, appoggiatevi a me, alzatevi e proviamo un po’». Lo prese sottobraccio e lo sostenne per alcu-ni passi. Il vecchio in un baleno sentì nel corpo un insolito vigore, gettò via il bastone e si diede a camminare speditamente per la stanza. Gaspare, dopo aver operato il miracolo, lo accettò come suo missionario. Ma il miracolo non finì qui. D. Aloyisi, di natura timidissimo, non aveva mai fatto una predica in vita sua; però, tenace nel proposito di voler essere un au¬tentico missionario, chiese a Gaspare il permesso di parlare ai fedeli in chie¬sa. Al momento di uscir dalla sacrestia per recarsi sul palco, cominciò a tre¬mare come avesse la quartana. Intanto il popolo… aspettava! Gli cadde lo sguardo sulla berretta del santo, posata su un tavolo, se la pose sul capo e ve la tenne per tutta la durata della predica. Non solo sparì ogni timidezza, ma gli vennero sulle labbra un fiume di parole, e si sentì preso da un inusitato fervore. Non volle più privarsi di si portentosa berretta e la chiese in dono al Santo. Il Valentini e il Fontana, testimoni oculari della sua prodigiosa guarigione e del «miracolo» della berretta, ci raccontano anche un episodio curioso. A Ter-racina D. Aloyisi, uscendo dalla sacrestia, inavvertitamente scambiò berretta e, una vola sul palco, non riuscì a tirar fuori una sola parola! Capi subito e se la fece cambiare dal sacrestano. Il suo dire, allora, fu così eloquente da com-muovere 1′ uditorio ed ottenere tante conversioni. Il vecchio canonico visse per parecchi anni nell’ Istituto e fu uno dei più in-stancabili nell’ apostolato, e di grande pietà e virtù. La pizza di Fra tel Bartolomeo Ai tempi di 5. Gaspare 1′ arrivo dei Missionari, specialmente in quei paesini arroccati sulle montagne, raggiungibili solo a dorso di mulo e tagliati fuori dal consorzio umano, destava interesse e curiosità. Chi sarà mai questo Padre Gaspare, di cui tanto si parla? Fa davvero i miracoli? Ne vedremo qualcuno anche noi? E i suoi compagni saranno belli o brutti, giovani o vecchi? Vengo-no da Roma dove sono abituati a far banchetti col Papa, con Principi e Cardi-nali… E qui cosa mangeranno? Già… cosa mangiavano i missionari? Gaspare nel suo «Metodo per le Mis-sioni» aveva fissato perfino con pignoleria, il trattamento a mensa per i padri Missionari. Una minestra, un pezzo di lesso con verdura, o patate, un bic¬chier di vino; a sera due uova o baccalà e insalata. Vietato mangiare o bere vi¬no fuori dei pasti, tranne una tazza d’orzo caldo, dopo la predica. Si dovevano osservare da tutti, anche da chi stava poco bene, i digiuni e l’astinenza pre-scritti dalla Chiesa. «Chi sta male, se ne stia a casa!» diceva il Santo. Erano ri-gorosamente vietati cibi prelibati, dolciumi, liquori che venivano puntual-mente rimandati al donatore. Quando il rifiuto avrebbe potuto essere inter-pretato un atto offensivo, si accettavano, ma venivano regolarmente distri-buiti ai poveri o inviati negli ospedali. Questo «regime» era osservato, non solo durante la predicazione, ma anche nelle Case di Missione; tuttavia, se rimproverava gli economi per acquisti di cibarie di lusso, esigeva anche che non mancasse cibo buono e abbondante, e diceva. «Buona pietanza, buona osservanza». Per tale motivo, ed anche per dare a tutti la possibilità di recarsi con riservatezza a parlare o a confessarsi dai padri, desiderava che i Missionari abitassero da soli durante la Missione e che a cucinare fosse il fratello lalco dell’ Istituto. A confermare con quale scrupolo il Santo tenesse all’osservanza ditali norme, riportiamo qui qualche episodio. A Gaeta l’Arcivescovo Mons. Parisio mandò ai Missionari una pietanza di squisitissime aragoste. Gaspare pregò il Merlini di riportargliele con 1′ incari-co di far presente a sua Eccellenza, con la dovuta deferenza, che tali cibi era¬no vietati ai Missionari per Regola. L’Arcivescoyo se l’ebbe a male e si recò di persona ad offrire di nuovo la pietanza, ordinando di mangiarla in virtù di santa ubbidienza. Il Santo, seb-bene contrariato, fu costretto ad ubbidire, ma nei giorni seguenti tutti i Mis-sionari si privarono di parte dei cibi consueti. A Caldarola Gaspare fece di-stribuire ai poveri l’intero pranzo offerto dal Conte Pallotta. Quei poverelli, che per la prima volta mangiavano certe leccornie, esclamavano: «Ci voleva il santo padre Gaspare per farci assaggiare, almeno una volta nella vita, roba così buona!». Gaspare, sebbene molto~sofferente di stomaco, non ammise per sé mai pre-ferenza di sorta. Ad Alatri, benché a letto con febbre altissima, rifiutò un «pe-sce delicato» e mangiò aringhe e baccalà come gli altri. Non accettò mai, in vita sua, inviti a pranzo da persone altolocate, sebbene Vescovi, Principi, Cardinali e perfino il Re di Napoli facessero a gara per averlo almeno una volta alla loro mensa. Aveva un’ arte tutta sua nel declinare l’invito, senza offendere. A Piperno certe Suore gli mandarono, a fine Missione, una meravigliosa pizza, che faceva proprio venire 1′ acquolina in bocca. Gaspare pregò Fratel Bartolomeo di portarla indietro con i più sentiti ringraziamenti, dispiacente di non poterla accettare, perché vietato dalla Regola. Bartolomeo, di li a poco, tornò indietro con la pizza. «Padre, le Suore insistono e si raccomandano alle Sue preghiere». Il Santo, che di solito sopportava pazientemente le prepoten-ze di Bartolomeo, quando si trattava della Regola, era inflessibile anche con lui e lo riprese severamente. Bartolomeo usci mogio mogio con quella pizza e con la voglia di darle almeno un bel morso. Di li a poco tornò senza pizza e senza dir nulla. Giunti a Frosinone, nella Casa di Missione, all’ora di pranzo eccolo tutto gongolante con la pizza, lieto d’averla fatta in barba al Santo. «Qui ossiamo mangiarla, perché non siamo in Missione!» Gaspare non si scompose, anzi gli disse sorridendo: «Bravo Bartolomeo! Avvolgila e andiamo a mangiarla all’aperto!» Cammina, cammina, giunsero all’ospedale! Bartolomeo capì… Si recarono nel reparto dei bambini e il Santo li salutò: «Come state, bambini? Ecco un bel regalo di fratel Bartolomeo. A lui piacciono molto i dolci, ma ha preferito rinunciare a questa bella pizza che gli hanno regalato per farla man-giare a voi, che siete malati». Povero Bartolomeo! Anche se tanto scontroso, in fondo aveva un cuore d’oro e anch’egli fu lieto nel vedere quei malatini mangiar la sua pizza con tanta avidità e allegria. Infine gli si inumidirono anche gli occhi, quando sentì gridare con allegri battimani: «Grazie fratel Bartolomeo! Evviva Fratel Barto-lomeo!». Come l’emorroissa del Vangelo S. Gaspare, proclamato da Giovanni XXIII il più grande apostolo del San¬gue di Cristo, ne fu anche il Serafino, perché il Sangue di Cristo fu l’unico ideale della sua vita sacerdotale e missionaria, il suo carisma, il cardine della sua santità, la passione che lo consumò fino alla tomba. Nella meditazione e nella sofferenza, seppe così bene assimilare i dolori del Redentore da impri¬mere nella sua anima le vivide scintille di quel fuoco nuovo, col quale Gesù era venuto ad incendiare il mondo, e sentirsi spinto a non tenere solo per sé questa inesauribile ricchezza, ma a spendere tutta la vita per riversarla nelle anime smarrite e riportarle a quel Cuore trafitto. Seppe ricopiare in modo meraviglioso il fervore apostolico del Divino Mae¬stro e le sue ansie di ricerca delle pecorelle perdute. Non poteva darsi pace al pensiero che tante anime, che costavano tutto il Sangue al Redentore, andas-sero perdute! Non è davvero esagerata 1′ espressione d’un suo antico biografo: «Gaspare fu un gigante dell’Amore Divino, amava Dio come un Serafino, ed ogni dolore umano trovava eco nel suo cuore». Sappiamo infatti che, fin da bambino percorreva quotidianamente le corsie degli ospedali romani, e da chierico ripristinò l’ospizio di S. Galla, ove raccoglieva handicappati, tignosi, vecchi malati. Nelle Missioni poi si recava in primo luogo nelle carceri, negli ospedali, al capezzale degli infermi nelle loro case. Come Gesù, che portava la sua luce nelle anime e sanava i corpi, cosicché i miracolati prorompevano sempre nel grido: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!», anche Gaspare esortava i malati ad avere fede e pregare. Non poche volte il Signore permise che, al tocco della sua mano, ad una sua benedizione, si verificasse il miracolo. Nell’ aprile del 1824 lo troviamo a Veroli, bella e popolosa cittadina della Ciociaria, a tenere una Missione. È con lui il Merlini, che con sobria e magi-strale pennellata ci descrive ciò che accadde. «Mentre il Can. Del Bufalo pre-dica in piazza, ché la chiesa non può contenere la folla straripante, tutt’intor-no alla cattedrale è pieno di gente. Su tutti i balconi si scorgono gruppi di per-sone di ogni ceto. C’è gente affacciata alle finestre, perfino i tetti sono occu-pati. La gente accorre in massa anche ad accompagnare la Comunione agli in-fermi, nella Processione di penitenza, nella benedizione della campagna. Le conversioni non si contano, i sicari consegnano le armi, in piazza si bruciano le stampe e i libri osceni, i briganti di notte vengono a consegnare i loro col-tellacci». A Veroli, da tempo, Antonia Calvani soffre di continue emorragie, senza che alcuna cura valga ad arrestarle. Ormai non si regge in piedi! «Potessi anch ‘io avvicinarlo e chiedergli di guarirmi!» La portano in piazza, accanto al palco, sul quale sta per salire Gaspare. Lei lo guarda come rapita in un’estasi, dimentica tutto, perfino il suo male. Si sarà incrociato lo sguardo del santo Missionario con quello in lacrime della malata? Avrà egli, per quell’ arcano dono soprannaturale che gli fa penetrare menti e cuori, letto l’interno affan¬no che sconvolge la donna? Sarà gia arrivata a lui la sua tacita supplica? Ma eccolo che già scende! La folla subito lo prende d’assalto, vuole parlar¬gli, almeno toccarlo. Anche la malata si alza d’istinto, incurante della debo¬lezza che la fa barcollare, trascinata, quasi travolta dalla folla. Protende le braccia: «Padre Gaspare! Padre Gaspare! Aspettatemi, abbiate pietà di me!». Riesce a sfiorare appena con una mano la sua veste, ma già l’ondeggiare della folla l’ha di nuovo allontanata. Un fuoco sembra invaderla per tutto il corpo, ed ella avverte un vigore improvviso mai sentito prima! Si ritrova stranamente appoggiata a quel palco. Tornano nella sua mente le parole del Vangelo: «Una donna soffriva di flusso di sangue…». Sì, è lei la nuova emorroissa guarita al tocco della veste di Gesù. Perché è stato proprio Lui, Gesù, presente nelle sembianze del grande apostolo del suo Sangue, a guarirla! Il confessionale cammina Nel settembre del 1824, accompagnato da D. Bernardino Volpi, Gaspare si recò per una Missione a Campoli Appennino, in Abruzzo. Di questa Missione ecco come scrisse nelle cronache diocesane il Vicario Mons. Cipriani: «Il frutto che se ne ritrasse fu grande e quello che più si ammirava era che nell’ascende¬re il palco non aveva affatto voce e sembrava asmatico, ma appena iniziava il suo dire la voce si rendeva tanto chiara, che le sue parole erano così penetranti che si risentivano da tutti e ne facevano eco le valli del paese» A Campoli Ga¬spare incontrò il diacono D. Domenico Silvestri, una dèlle figure più simpati¬che che tanto illustrò poi l’Istituto. Lo volle sempre vicino in quei giorni e non appena fu sacerdote, lo accolse nella sua Congregazione. Proprio D. Domenico seppe che 1′ ottimo signor Giuliano Marrari era in fin di vita. Ne avvisò Gaspare che accorse al suo capezzale «lo animò alla fiducia e lo benedisse». L’infermo, che ormai era rassegnato e pronto a morire, a quella benedizione si senti tornare in forze e si alzò completamente guarito. Due «curiosi episodi» si verificarono in quella Missione, come raccontaro¬no testimoni oculari. Era da poco passata la mezzanotte ed una vecchietta, incurante dei primi freddi autunnali, a volte anche rigidi nei paesi di montagna, era già acquattata vicino al portone della chiesa per essere la prima a confessarsi all’ alba, quan-do sarebbe venuto il Santo. Non appena il portone fu aperto corse come una gazzella ad inginocchiarsi vicino alla grata. Al giungere di Gaspare già la folla s’era ingrossata e tutte volevano essere le prime… Alcune «concorrenti» più giovani e robuste, nonostante le sue vive proteste, presero di peso la vec-chietta e l’allontanarono rubandole il posto. Essa però rimase li in vigile attesa e alla prima distrazione delle prepotenti, che per ingannare il tempo si sta-vano scambiando gli ultimi pettegolezzi, spiccò un salto con la forza d’una ventenne e riconquistò la posizione. Prese in contropiede, le loquaci signore l’afferrarono chi per le vesti, chi per le gambe e cominciarono a tirarla. Mac-ché! La vecchietta sembrava inchiodata al confessionale. Tira e tira, il confessionale, e con esso Gaspare, cominciò a… camminare! Il Santo, sorpreso per quel viaggetto fuori programma, intui quel che stava ac-cadendo. Usci e sorridendo, prese la vecchietta sottobraccio: «Venite, nonni-na. . .» e la condusse in un angolo del tempio e 1′ ascoltò pazientemente finché lei non si fu sfogata bene bene. C’era a Campoli un certo Cav. Corelli, ricco possidente e gran signore. Gaspare andò a trovarlo e cominciò a parlargli dei poverelli del paese. Il Cavaliere mise subito le mani al sacchetto delle monete, ma Gaspare lo trat-tenne. «No, no, cavaliere, volevo solo proporvi un affare. Abbiamo raccolto, elemosinando, ben 250 quintali di grano. Vi propongo di comprarlo a prezzo generoso, perché è più facile distribuire la moneta ai poveri, anziché piccole quantità di grano». Il Cavaliere acconsentì e cominciò a snoccialre monete su monete nelle mani di Gaspare, che non si decideva mai a ritirarle. Finalmen¬te prese il danaro, lo ringraziò: «Dio La benedica!» e andò via. Di lì a poco, però, mandò D. Silvestri dal cavaliere con una nuova proposta. «Il Can. Del Bufalo, nel timore che i poverelli vadano tutti nelle bettole a spendersi la moneta della carità, la prega di rivendergli il grano, ma a metà prezzo, perché l’altra metà, ormai l’ha già distribuita». Il Cavaliere ch’era un gran signore anche nel cuore, si mise a ridere, fece macinare il grano a sue spese, vi aggiunse due quintali di suo e disse a D. Silvestro: «Come dire di no a P. Gaspare? Ah! Le ingegnose trovate di questo santo per i suoi poverelli!». La cronaca della Missione così chiude la sua narrazione: «Molti altri prodigi avvennero in questa terra, per i quali Gaspare Del Bufalo si rese famoso». Dobbiamo anche noi aggiungere qualcosa. I cittadini di Campoli eressero un tempietto alla periferia del paese, dove ancora si venera la croce eretta da Gaspare in quella Missione e, con la croce, la statua dell’ Addolorata, ch’ egli portò in processione. La festa di S. Gaspare si celebra con solennità ogni anno a Campoli e si ri¬ pete quella solenne processione con i simulacri della Croce, dell’Addolorata e del Santo. Fu proprio durante questa processione che, il 19 maggio 1929, nella perso¬na del giovane Francesco Campana, avvenne uno dei due strepitosi miracoli approvati dalla Chiesa per la canonizzazione del Santo e che noi riportiamo con maggiori particolari alla fine del libro. Le monete d’oro Seguiamo il Santo nel suo peregrinare apostolico: è un cammino sempre più meraviglioso. Egli, come Gesù, passa, anzi «vola» di città in città, accorre nei villaggi, sale sulle montagne. Anime, anime al Sangue di Gesù! Ci duole non poter raccontare che in minima parte i mille prodigi, le mille meraviglie, l’immenso bene operato. Lò conosce solo il Signore! Noi ci sforzeremo, come possiamo, di seguire questo «Terremoto spirituale» per trarne, nei limiti del possibile, gaudio e ammaestramento. Nel maggio del 1818 lo troviamo a Fabriano, dove il suo apostolato «… e in-tensisissimo, non solo fra il popolo, ma nel clero, i nobili, gli artisti». «Non po¬tendo contrastare la sua opera di bene, alcuni Settari malintenzionati, per aver materia d’accusa e conoscendo la grande povertà del suo Istituto, cerca-rono di allettarlo e corromperlo offrendogli un bel gruzzolo di monete d’oro». Gaspare, sebbene con gentilezza, le rifiutò energicamente e i Settari fuggiro-no, non potendo resistere dinanzi al suo volto divenuto luminoso ed alla sua voce angelica che ripeteva: «Anime, anime e non oro!». Pur avendo perduto la voce del tutto, per alcuni giorni saliva ugualmente sul palco a tenere la predica in piazza e, non appena cominciava a parlare «la voce si irrobustiva talmente da sentirsi a miglia di distanza». Da Fabriano fu costretto a portarsi per qualche giorno nella vicina Cerreto. Vi fu accompagnato da uno stuolo di giovani, che, presi da entusiasmo, segui-vano la carrozza a piedi, cantando le canzoncine delle Missioni. Anche qui fe-ce gran bene. Da Cerreto passò a Matelica, dove ancora ai nostri giorni si parla di quella celebre Missione. Citiamo qui alcuni passi tolti dagli archivi del tempo: «S’industriò, il Can. Del Bufalo a pacificare le famiglie, a sollevare i poveri ad estirpare il malcostume. La cittadina era molto corrotta. Davano grande scandalo giovani e donzelle, che nei pubblici giardini, tra pazze danze e can-zoni oscene, si abbandonavano ad eccessi orrendi». «Ebbe molto a combatte-re per le lotte mossegli dai massoni e dai settari». Per far breccia nei cuori più ostinati si fece port4re con solennità il grande Crocifisso sul palco; la predica commoventissima fu chiusa con una proces-sione di penitenza, che emozionò il popolo ed ottenne molte conversioni. Tra queste quella di un’ostinata e notissima pubblica peccatrice. «Molti giovani e donzelle di nobile lignaggio tornarono a Dio e riportarono sulla via del bene compagni e compagne, che mai tornarono al peccato». Gaspare, conscio delle profonde radici del male che affliggeva quel popolo, si impegnò a fondo e, com’era sua consuetudine in questi casi, non si limitò alle sole prediche, ma teneva conferenze ai vari ceti, istituiva circoli e asso¬ciazioni, organizzava manifestazioni religiose in pubblico con grande solenni¬tà. Per la grande Processione del Cristo Morto giunsero cortei da ogni parte e da Fabriano tutto il Clero, i Notabili e le Confraternite. «Anche qui, dice lo stesso S. Gaspare, il demonio tentò di far il suo mestiere». Infatti, giunta l’ora della processione, il tempo si fece minaccioso. Egli allora, al clero che voleva sospendere la manifestazione, ordinò con sicurezza: «Dite a tutti che non te-mino niente, il Sangue di Gesù e la Madonna ci accompagnano». Non appena ebbe inizio la sfilata, puntualmente il cielo si rasserenò. Fu tanta la cera do-nata alla Vergine, che «l’Addolorata sembrava collocata in un alone di fuoco». Si rinnovò anche qui il prodigio della voce. Ce lo narra il monaco silvestri¬no D. Gregorio Ambrosio, che chiamato a dar aiuto nelle confessioni, alle 22 e trenta, saliva a cavallo verso Matelica. A molte miglia cominciò a sentire ben distinta la voce del Santo, che stava predicando in piazza. Affascinato, fermò il cavallo, discese e si pose ad ascoltare fino alla fine. Una sera mentre il Santo parlava all’ aperto, nella piazza grande, tutti i fede-li videro attoniti un globo di fuoco scendere dall’alto e fermarsi un bel po’ sul suo capo e poi sparire di nuovo nell’ aria. Per eventi così straordinari Gaspare suscitò tale delirio, che il popolo non voleva più lasciarlo partire e dovette ricorrere ad un sotterfugio e partire di notte. Una particolare profonda impressione lasciò in tutto il clero, che «avendone potuto inequivocabilmente constatare la santità e i doni straordi-nari» così diceva: «Se ognuno di noi fosse infiammato del suo stesso zelo sa-cerdotale, come lui potrebbe convertire tante anime ed operare anche gli stessi prodigi!». Nella focosa Romagna Quanto stiamo per narrare in questo lungo capitolo ci riporta al periodo forse più intenso della vita apostolica di S. Gaspare e, potremmo dire, anche nei luoghi più turbolenti dello Stato Pontificio: la «focosa Romagna» secondo l’espressione dello stesso S. Gaspare. Lo Stato Pontificio era come minato dalle Società Segrete. Mentre alla su-perficie tutto sembrava andare tranquillamente, in effetti Massoneria e Car-boneria sgretolavano 1′ edificio sociale, anche perché vi davano il nome e l’opera molti funzionari dello Stato. Come il basso Lazio era la roccaforte del brigantaggio, cosf la Romagna lo era dei Settari. Era però più facile parlare al cuore dei briganti, che alla mente dei Settari. Anche allora, come oggi, la Romagna si distingueva per le bollenti lotte poli-tiche e per l’estremismo, nel bene e nel male, delle idee della sua gente dal cuore ardente, schietto e generoso. Gaspare, terremoto spirituale e vulcano in perenne eruzione per portare anime a Dio, comprendeva i romagnoli, ne ammira¬va perfino lo spirito di fierezza e indipendenza, perché, per esperienza perso¬nale, sapeva che quelle doti, se incanalate nella giusta direzione, avrebbero po¬tuto produrre in Romagna un gran bene. Egli che stava subendo continue in¬giustizie e ingoiando bocconi amarissimi proprio da chi avrebbe dovuto aiutar¬lo e difendere, comprendeva che tanti di loro s’eran messi contro la legge per¬ché essa era male amministrata e privilegiava una certa classè sociale. Perciò, come vedremo, non solo ammirò quel popolo, ma lo amò profondamente. I Romagnoli lo compresero e a loro volta, lo amarono di eguale passione. Ma passiamo alla storia. Ai primi di giugno del 1818, Gaspare è nella città di Ancona, dove i nemici «gli rendono la vita abbastanza dura». Sono però inezie al confronto di quanto lo aspetta in Romagna, dove, dietro invito pressante del Capitolo Vaticano, si appresta a recarsi. I primi «campi d’azione» saranno le cittadine di Forlimpopoli e Meldola, vi-cine a Forli. Qui era appena giunta la notizia della prossima venuta di Gaspa-re, che i capi delle varie Logge, i quali ben lo conoscevano per fama come «Martello dei Settari», tennero un conciliabolo segretissimo durante il quale deliberarono la soppressione violenta del Santo. Sparsero astuti emissari tra gli abitanti delle due cittadine per far credere che le Missioni erano il mezzo più insidioso escogitatò dal Papa per scoprire i combattenti per la libertà e farli imprigionare. I Missionari non erano che spie del Papa e Gaspare era il loro capo. «In nome della libertà bisogna impedire la loro venuta e, se neces-sario, sopprimerli. Siate uomini, forti e intelligenti e non pecore!» diceva il proclama. I Settari, che in tutta la Romagna la facevano da padroni, temeva¬no che la venuta di Gaspare scardinasse il loro potere. Per intimidirlo, gli mandarono ad Ancona lettere minatorie «ribollenti di vituperi e bestemmie». Ma non sapevano essi che Gaspare conosceva bene i romagnoli fin dai primi anni del sacerdozio quando, per aver fieramente negato il giuramento di fe-deltà a Napoleone, fu chiuso nella fortezza di Imola e nella Rocca di Lugo, ove fu fatto segno della grande ammirazione e del rispetto di quei cittadini? Non sapevano con quanto coraggio stesse affrontando i più terribili briganti del Lazio, osando recarsi perfino nei loro covi, su quelle aspre montagne? E non sapevano neppure che la sua più grande gioia sarebbe stata quella di da¬re la vita per Cristo? Temendo Gaspare che forse ne sarebbe andata di mezzo la vita dei suoi confratelli, li riunì e lesse loro quelle lettere. Essi ne rimasero profondamente turbati e atterriti, ma il Santo fece loro comprendere che tali lotte erano il se-gno più evidente che Dio li voleva in Romagna. Trasfuse in quegli animi pa-vidi il suo coraggio ed il suo entusiasmo. «La nostra Missione – disse – è legitti¬ma e santa! Essi ci vengono incontro con i pugnali, noi andremo loro incontro con l’arma del Crocifisso!». Il 22 giugno erano a Cesena. Non appena arrivati, giunse una deputazione, la quale, sotto le mentite spoglie di «amici preoccupati della loro vita e della pace di quelle popolazioni tranquille», scongiurò il Santo di non recarsi a For-limpopoli, perché al loro arrivo ci sarebbe stata una sommossa con spargi-mento di sangue. Così rispose «Dite pure a chi vi ha mandato e al clero che in questo pomeriggio faremo ingresso a Forlimpopoli ed inizieremo la Missione». Sul far della sera i Missionari si presentarono puntualmente alla Porta Prin¬cipale della città, dove, contro ogni aspettativa trovarono il clero, le confra¬ternite e «una massa di popolo» ad attenderli. Le campane cominciarono a suonare a festa e tutti cantavano inni sacri. I Missionari s ‘inginocchiarono e baciarono il suolo; il Parroco consegnò a Gaspare il Crocifisso ed il corteo s’incamminò pacificamente verso la Piazza Grande dov’ era stato eretto il pal¬co. Gaspare, esultante e con rinnovato fervore, cominciò coraggiosamente la predica d’introduzione. «Miei dilettissimi fratelli della nobile terra di Forlim¬popoli, io vivo solo per Cristo e se Egli ha disposto che in questa città dia la vita per Lui, è questo il più grande onore e il più grande guadagno per la mia anima». «No, no! Vita, vita!» urlò immediatamente la folla. Egli poi continuò affermando che sarebbe stato per lui il più grande privilegio morire per Colui che ha dato il suo Sangue per salvare le anime. Intanto tra la folla cominciò a circolare la storia di quel santo Missionario ch’era stato per anni rinchiuso nelle carceri romagnole per aver tenuto corag-giosamente testa alla polizia napoleonica. Quella prima predica e la notizia delle minacce dei Settari bastarono a Gaspare per conquistare il cuore della folla, che non cessava di applaudirlo. I Settari, temendo che la folla nel deli¬rio li facesse a pezzi, se la diedero a gambe. Ma, più si allontanavano, più la vo¬ce di Gaspare giungeva nitida, forte e vibrante alle loro orecchie. Si chiusero in una villa, tapparono porte e finestre, perché il vento non portasse ancora l’eco di quella voce odiata; sedettero intorno ad una mensa bene imbandita, ma.. «La voce di Gaspare sembrava che tuonasse ai loro orecchi come quella di un arcangelo per richiamarli al pentimento, se non volevano che l’ira di Dio li colpisse inesorabilmente». Non fu solo la parola di Gaspare a conquistare i Romagnoli, ma anche il suo impavido coraggio, la sua correttezza e gentilezza, la pulizia del suo vestire, la forza d’animo di fronte a tante difficoltà, la grande sincerità e franchezza nel¬la lode e nella condanna, l’ardente carità, il vederlo tra i bambini, tYa i soffe¬renti nelle case e negli ospedali. E si domandavano: «Come farà a star sempre in piedi, da prima dell’ alba fino a notte inoltrata e ad interessarsi di tante co¬se e a predicare più e più volte al giorno?» Già correva sulla bocca di tutti la notizia delle grandi penitenze che Gaspare s’imponeva, delle veglie in pre-ghiera, e come costantemente invocasse da Dio misericordia per i peccatori e per coloro che lo minacciavano di morte. Le cronache del tempo abbondano, fin nei minimi particolari, di notizie su questa celebre Missione: delirio di folle, chiese sempre gremiùssime, fedeli sempre piu avidi di sentire una parola che da tempo non avevano più udita. Dice il Valentini che Gaspare era costretto a predicare sempre in piazza e che le sue «prediche apologetiche facevano restare attoniti gli uditori» e che «era così ammirabile il Canonico Del Bufalo per padronanza e scienza, che nelle dispute private e pubbliche con i settari, li metteva a tacere con poche rispo-ste». Egli trascinava nello stesso suo zelo apostolico anche i compagni, che non avevano deposto del tutto la loro grande paura». Sapeva poi «industriosa¬mente coinvolgere a collaborare clero e laici», affinché il rinnovamento della popolazione non fosse effimero e superficiale. Non si limitavano i Padri Mis¬sionari alle sole prediche. Gaspare promuoveva conferenze per ogni ceto di persone, colloqui e dispute private, opere di misericordia; erigeva Oratori e Ristretti, in una parola, «tutta Forlimpopoli era in subbuglio». Una sera la predica sull ‘inferno, conclusasi con la disciplina, sconvolse tanto l’uditorio che molti ben noti grandi peccatori corsero ad inginocchiarsi da-vanti al Crocifisso eretto sul palco e non smisero di percuotersi il petto e di piangere finché Gaspare non li rassicurò della grande Misericordia di Dio. Un’altra sera alla narrazione della Passione di Cristo, attraverso le stazioni della Via Crucis, all’ apparire del Cristo Morto portato sul palco dai Fratello¬ni, «molti uomini svennero dal dolore e si pentirono dei propri misfatti». «Una ventenne dalla vita molto peccaminosa» si accasciò svenuta al suolo; poi riavutasi «confessò pubblicamente i suoi peccati» e «da allora condusse una vita santa». «Un adepto della Carboneria, ravvedutosi, nel vedere che il Missionario si flagellava a sangue per la conversione di coloro che ne volevano la morte, corse piangendo sul palco e strappatigli dalle mani i flagelli, co-minciò a percuotersi in sua vece». Questi, da quella sera, fu veduto tutti i giorni, vestito di sacco e scalzo, portare il Crocifisso, nelle funzioni. Sempre all’apparire del simulacro del Cristo Morto, altro noto settario cominciò a gri-dare con quanta voce aveva in gola i propri misfatti e, gettatosi ai piedi di Ga-spare, ne chiese l’assoluzione. Qui sarebbe necessario fare un elenco interminabile dei meravigliosi frutti raccolti in quei santi giorni: discordie sedate, cessazioni di pubblici scandali, non più bestemmie e dissolutezze, ingiustizie riparate. Rifioriva la pace tra le famiglie e la frequenza della chiesa. A causa dei continui moti politici, anche i cittadini di Forlimpopoli s’erano divisi in varie fazioni e l’odio tra di loro aveva raggiunto «il carattere della im-placabilità». Gaspare «di nulì’ altro armato che del Crocifisso, si fece angelo di pace». Un giorno, a notte inoltrata e con estremo ardire, ad insaputa 1′ uno dell’ al-tro, convocò i capi dei vari partiti ad un pacifico colloquio con lui per tentare una generale pacificazione. Ovviamente quei nemici giurati e irriducibili, nel trovarsi inaspettatamente di fronte, misero subito mano alle armi, ma bastò lo sguardo e la parola pacata e persuasiva di Gaspare a far mutare la scena, che divenne tra le più commoventi. Quegli uomini dal cuore tanto duro, che s’ eran fatta una guerra senza quartiere ed avevano istigato i loro proseliti alla vendetta e alle uccisioni, si abbracciarono commossi perdonandosi a vicen¬da. Consegnarono nelle mani del Santo le armi, pregandolo di bruciarle pub-blicamente, e giurarono di mantenere nel futuro ad ogni costo la concordia raggiunta quella sera e di risolvere ogni contrasto pacificamente. Nel segreto del cuore, stanchi di tanti crimini, furono grati al Santo di aver dato loro l’op-portunità di compiere ciò che ognuno da tempo desiderava, ma che nessuno aveva il coraggio di compiere per primo per non essere bollato di codardia. Un notissimo giovane dalla vita galante e lussuriosa, ed un anziano altret¬tanto noto per i suoi vizi, abbandonarono la vita di peccato e si chiusero in conventi di austera osservanza. Molte donne dissolute e causa di peccato, ri¬trattarono la loro vita di scandalo e si chiusero in vari monasteri di clausura. Una di loro, forse anche la più nota, Teresa Bazoli, si chiuse nel Monastero delle Cappuccine di Cesena, dove macerandosi con dure penitenze, raggiun¬se un alto grado di perfezione, fu eletta badessa e mori in concetto di santità. Episodi come questi qui citati, ne avvennero a centinaia. L’elenco dei con-vertiti non finirebbe più. Una sera sul tardi, finite le funzioni, avvenne un fatto sorprendente. Tutti i componenti di due Logge massoniche si presentarono compatti a bussare al portone della casa che ospitava i Missionari. Il Fratello inserviente che aprì la finestra, appena capi chi erano, corse spaventato da Gaspare: «nascondiamo¬ci tutti, vengono ad ammazzarci!». Ma Inserviente e Missionari sgranarono tanto d’occhi quando il Santo in persona andò ad aprire il portone e videro che quei signori si chinarono con rispetto a baciargli la mano e gli consegna-rono armi ed emblemi, pregandolo di bruciarli pubblicamente dopo la predi¬ca dicendo, anche al popolo, da chi li aveva ricevuti. Prima di congedarsi si gettarono ai suoi piedi, chiedendo perdono del male arrecatogli. La notizia di questa resa senza condizione al «nemico» non andò a genio ai Capi di Forif, che montarono su tutte le furie e giurarono, nel colmo dell’ ira, di sbarazzarsi, a tutti i costi e con qualsiasi mezzo, di questo prete che li stava coprendo di ridicolo. Essi non si ritenevano dei pivellini «come quei cordardi di Forlimpopoli». «Il popolo ci sfugge di mano – dicevano – e dovremo chiude-re tutte le nostre Logge. È un affronto che deve essere stroncato!» e passarono subito all’ azione. Vennero scelti quattro dei più feroci sicari di Forli e furono inviati in tutta fretta a Forlimpopoli, con l’ordine perentorio di uccidere prima Gaspare e poi massacrare i suoi compagni. Mentre tre di loro restarono fuori nascosti in una carrozza, il più violento, detto anche «il boia», si presentò in casa del con¬te Giorgio Caffarelli, dov’ erano i Padri, e chiese con voce perentoria di parla¬re col Santo. Era presente anche il Canonico Penitenziere di Forlimpopoli D. Salvatore Cortesi, che intuendo subito il pericolo che correva il Santo, andò in fretta nella sua camera e lo scongiurò di non ricevere quel brutto ceffo, ch’ egli ben conosceva e ch’ era venuto certamente per ucciderlo. Gaspare lo rasserenò: «Non abbia alcun timore, Dio lo manda» e andò in-contro al sicario con la consueta cordialità, col volto irradiato da un sorriso affascinante e disarmante: «Cosa desiderate, figliolo? Venite» e lo introdusse nella sua stanza1 chiudendo ben bene l’uscio. L’attesa1 ai compagni1 sembra-va eterna e man mano che passava il tempo li afferrava un’ansia ed un’oppri-mente angoscia. Si aspettavano da un momento all’ altro il rantolo del moren-te e l’uscita del sicario col pugnale grondante sangue e poi… la stessa fine del Santo. Invece… Gaspare uscì sorridendo, tenendo per mano il sicario e con-versando affabilmente con lui. Questi salutò tutti umilmente, chiedendo scu¬sa del disturbo, e si congedò dal Canonico baciandogli la mano. Cos’era avvenuto di miracoloso in quella stanza? Ce lo racconta il Valenti¬ni, al quale Gaspare aveva poi confidato tutto. Mentre il delinquente alzava il pugnale per vibrarlo con violenza al cuore di Gaspare, si sentì di colpo immo-bilizzare il braccio da una forza misteriosa non appena egli gli rivolse la do-manda: «Volete confessarvi, figliolo?». L’arma cadde innocua sul pavimento e il sicario ginocchioni ai suoi piedi! Allorché i compagni videro che il «boia», nell’uscire, s’inchinava con rispet¬to a baciare la mano del Santo, non credettero ai propri occhi. «Proprio lui, il boia?» e presi da terrore sferzarono rabbiosamente i cavalli e si diedero alla fuga bestemmiando. Più tardi si seppe che la carrozza era andata a finire nel fiume, e tutti e tre erano morti miseramente annegati. A tale notizia, Gaspare rimase molto addolorato e, alzati gli occhi al cielo, esclamò: «Signore, usate misericordia alle loro anime!». Rientrato in camera si raccolse in preghiera. L’ultimo giorno della Missione la folla fu enorme. La calca fu tale che la gente «5′ ammucchiò perfino sui tetti, che furono in pericolo di crollare». Fi¬nestre, balconi e anche gli alberi pullulavano di gente! Le fiamme d’un falò di stampe, libri, emblemi, amuleti ed armi salivano al-tissime! Tutta Forlimpopoli non vorrebbe proprio che Gaspare partisse, ma sa anche che la vicina Meldola lo attende. Col pianto gli grida «Torna, torna!». Così salutarono il Santo che li benediceva dalla carrozza. * * * Meldola non dista molto da Forlimpopoli, e le notizie degli strepitosi eventi ivi accaduti fecero presto ad arrivare nella cittadina; anzi, non pochi meldole¬ si, chi per devozione, chi per curiosità, chi per tramare, erano già stati a For-limpopoli. Ovviamente gli scettici e i maligni asserivano che quei decantati prodigi erano soltanto montature di fanatici o illusioni del popolino: «Ora vedremo cosa farà qui quel millantatore!». Anche da Meldola erano giunte al Missiona¬rio lettere minatorie, che ottennero solo l’effetto di intimorire un po’ di più i suoi compagni. Costoro, sembra incredibile, nonostante avessero toccato con mano e per centinaia di volte la manifesta protezione di Dio contro gli agguati dei Settari e avessero anche visto con i propri occhi gli eventi taumaturgici operati dal Fondatore, pure osarono dirgli in faccia: «Padre, non è detto che la facciamo sempre franca! Non bisogna tentare la potenza del Signore». Gaspa-re li incoraggiava, perché sapeva che non tutti possono nascere con la stoffa degli eroi: «Figlioli, stiamo combattendo per la gloria di Dio, come potrà Egli abbandonarci?». Ed ecco la risposta del Cielo! L’ingresso a Meldola fu tra i più trionfali. Il Santo conquistò subito il cuore dei meldolesi. La gente di Romagna, terra dagli amori ardenti e dagli odi tena¬ci, ha un carattere che somiglia molto a quello di Gaspare; perciò egli la com-prende benissimo. A loro volta i romagnoli hanno ben compreso Gaspare e lo adorano. Alla testa del corteo, che dall’ ingresso del paese muoveva verso la piazza, era il conte Mazzolini di Bertinoro, che, convertitosi durante la Missione di Forlimpopoli, vestito di sacco, portava il grande Crocifisso. La piazza era «zeppa come un uovo», perché tutti volevano vedere ed ascoltare «il prete che metteva a tacere i Settari con tanto coraggio». E furono proprio i Settari i pri-mi a convertirsi, già dalla prima sera. Gaspare salì sul palco ed affermò, anche qui, ch’era pronto a morire per Cristo e, perciò, non temeva alcuna minaccia; avverti anche che era pericoloso mettersi contro Dio, che «prima o poi si stanca, e dalla misericordia passa alla giustizia». E assicurò che né lui, né i suoi compagni erano spie e delatori, ma erano venuti a predicare l’amore e il perdono di Cristo e la sua pace. Gaspare, come sappiamo, non amava i fronzoli e le vane parole, ma andava subito al sodo: via 1′ odio, le risse, le vendette, le armi, le uccisoni! Stava pre-dicando da una mezz’ora, quando si fermò di colpo, come colpito da un pen-siero… Poi riprese: «E mai possibile che quelle due persone che stanno in mezzo a voi e mi ascoltano e si odiano a morte e che, in questo momento, stanno meditando vendetta reciproca, non sentano la voce di Dio che batte alla porta del loro cuore? No, non posso proseguire se prima essi non si ab-bracciano e perdonano a vicenda». S’udì allora un brusio tra la folla… I due più inveterati nemici di Meldola, si facevano largo andando l’uno incontro all’altro, non più per prendersi a coltellate, ma per stringersi in un abbraccio sincero. Tra la commozione di tutti, essi levarono alta la loro voce: «Giuriamo davanti al Crocifisso di non farci più guerra e di essere per sempre buoni ami-ci». La parola dei romagnoli non s’infrange! Le cronache confermano che da quella sera cessò tra le due famiglie la lunga e sanguinosa catena di vendette. «Se esultarono i buoni, i Settari fremettero. Peggio di così per loro non pote¬va andare!» E decisero di avvelenarlo. Gaspare prima della predica era solito bere una bibita calda detta semata, una specie di caffè d’orzo dei nostri tempi. I Settari trovarono un farmacista compiacente, forse iscritto alla setta, che fornì loro una buona dose di veleno, ed un servo della famiglia che 1′ ospitava, ancor più compiacente e malvagio, che lo versò nella semata. Un giovane servente della farmacia, pentito e in preda al rimorso, corse a svelare tutto a D. Biagio Valentini, che col Muccioli entrò di corsa nella camera, dove Gaspare stava già col bicchiere in mano, pronto a bere. Gli fermarono il braccio: «Padre, per carità, non bevete, c’è il veleno nella semata!». Il Santo, senza scomporsi disse loro: «Uomini di poca fede, non ricordate il passo del Vangelo? E se berranno il veleno non gli nuo-cerà». Benedisse la bevanda e la mandò giù come al solito. I due erano certi di vederlo da un momento all’ altro stramazzare al suolo. Gaspare invece sere-namente continuò: «Ancora dubitate? Su, andiamo in chiesa; è già passata l’ora e non è bene far aspettare questi buoni fedeli». Il gran prodigio si seppe in tutta la città e la Missione, com’è da immagina¬re, andò avanti a gonfie vele. I prodigi però non erano ancora finiti… Era tempo di mietitura e Gaspare si recava, quando poteva, nei campi tra i mietitori; gli dispiaceva che quella povera gente non potesse ascoltare alme¬no qualche volta la parola di Dio. Certamente anche loro avevano sentito par¬lare di Gaspare, e quando lo videro ne furono contenti. Lo invitarono a divi¬dere con loro il parco cibo all’ ora del desinare e, mentre mangiavano, lo ascoltavano con vivo interesse. Prendendo lo spunto dal grano Gaspare ricor-dò le parabole del Vangelo, così belle, ed essi le ascoltavano incantati. Erano per loro tutte cose nuove! E così arrivò anche all’Eucarestia e li invitò in chie-sa per la confessione e la comunione in qualsiasi giorno ed a qualsiasi ora. Non tutti accolsero l’invito del Santo, ma… meraviglia! il grano di coloro che l’avevano bene accolto fu più abbondante e di miglior qualità del grano di co-loro che lo avevano respinto. Furono proprio i mietitori a dirgli che una giovane, forse parente di uno di loro, giaceva da tempo a letto gravemente malata. Si recò subito da lei, la be-nedisse con la reliquia di S. Francesco Saverio, e la malata guari subito. Intanto i cittadini di Forlimpopoli, ai quali arrivavano queste notizie favo¬lose, non riuscirono più a… starsene a casa. Sobbarcandosi a circa venti mi¬glia di cammino, tra l’andata e il ritorno, si recarono in processione a Meldola per ascoltare di nuovo il santo Missionario. Un giorno, a metà Missione, si verificò un altro strepitoso prodigio: la bilo-cazione. Lasciamocelo raccontare da D. Biagio Valentini: «Io mi trovavo con lui in quella Missione e nella medesima chiesa anch’io udivo le confessioni. Mentre adempivo a questo ministero, vidi che entravano ed uscivano dalla chiesa persone curiose di vedere se il Canonico trovavasi in confessionale e andavano e tornavano alla piazza e alla chiesa per maggiormente assicurarsi di questo mirabile fatto. Essendosi queste persone, con i propri occhi assicu-rate che il Canonico trovavasi nel medesimo tempo qua e là, non potevano fare a meno di pubblicare il prodigio, così che da queste stesse persone, non meno che da quelle che, mentre egli predicava in piazza, si erano da lui con-fessate e non potevano prendere abbaglio, ebbi a sapere con certezza l’acca-duta bilocazione, della quale si parlò anche fuori Meldola». Oramai, ai Settari non restava che… mettersi la coda tra le gambe. Il 26 luglio si chiuse questa Missione, tanto famosa, con la solenne proces-sione del SS.mo Crocifisso che da tempo immemorabile non era stato più mosso dalla nicchia. La popolazione di Meldola si era triplicata per l’accorrere dei fedeli dai pae¬sini vicini. Un gruppo di devoti sulla via del ritorno, a notte inoltrata, trovò il fiume Ronco molto ingrossato e pericoloso a causa d’un improvviso tempora-le. I più animosi, che vollero tentarne il guado, finirono per essere travolti dalla corrente; gli altri cominciarono a gridare: «Santo Padre Gaspare, prega il SS.mo Crocifisso, ché a te ti ascolta!» I coraggiosi si trovarono, senza saper come, improvvisamente trascinati sulla sponda opposta e, del tutto incolu¬mi, anche se ben bene inzuppati di acque limacciose! Com’era abitudine, Gaspare e i compagni, che s’erano in qualche modo tra-vestiti per non farsi riconoscere, se ne stavano andando nascostamente alle due di notte, a raggiungere la carrozza ch’ era ad attenderli fuori città e che li avrebbe portati a Cesena. Ma ecco che sbucò lungo la strada una folla che con fiaccole e a suon di banda li accompagnò fino a Forlimpopoli. Qui intan¬to, avendo saputo del loro passaggio, la popolazione spalancò porte e finestre, accese lumi ovunque e gli andò incontro, improvvisando una calorosa ed af-fettuosa dimostrazione, sicché Gaspare fu costretto a salire su un tavolo e a parlare e benedire. Anch’ egli non potendo reggere a tanto affetto, si asciuga¬va gli occhi e non faceva che ripetere: «Tornerò, tornerò! Ora lascio qui il mio cuore». Con lui è rimasto per anni il cuore dei romagnoli, ed eterna è la sua memo¬ria. Oggi a Meldola, quando si sta per perdere la pazienza, si dice: Me an à miga la pazienzia del Canonic Del Bòfal! Io non ho mica la pazienza del Canonico Del Bufalo! E quando da qualcuno si pretende che faccia troppe cose in fretta e nello stesso tempo, ci si sente rispondere: Me an c’iò miga come e Canonic De Bofai, c’am possa sdupiér per fè dòrobi. Non sono come il Canonico Del Bufalo che possa trovarmi contemporaneamente in due posti! Tre Settari convertiti lo seguirono fino a Castelfidardo, nelle Marche, di do¬ve poi avrebbero continuato a piedi fino a Loreto e ad Assisi in pellegrinaggio di penitenza. Durante questa missione i tre, ogni giorno vestiti di sacco, si inginochiavano davanti alla folla e confessavano ad alta voce i loro peccati. A Gaspare non reggeva più il cuore nel vederli così umiliarsi. Egli li abbrac¬ciò, li benedisse e li esortò a ripartire, augurando loro salutari frutti in quel pellegrinaggio di penitenza. Il ritorno In Romagna i Settari, non potendo far altro e sapendo che il Santo era a Ter-racina, sparsero la voce ch’ era stato trucidato dai briganti. Ma le false voci fu-rono ben presto sfatate dai fatti. Gaspare nel 1819, di ritorno da Comacchio, si trovò a passare nelle vicinan¬ze di Forlimpopoli e la popolazione, essendo venuta a saperlo, gli andò incon¬tro e lo costrinse affettuosamente a fermarsi almeno una giornata con loro. A sera si gremì la piazza, lo issarono di peso sul palco e gli fecero tanta festa, lie-tissimi di vederlo vivo e vegeto. Gaspare nella sua predica promise che sareb-be ancora tornato tra di loro. Qui lo raggiunse una delegazione guidata dal parroco di Canonica, una pie-ve di campagna presso Rimini, e con insistenza lo invitò a tenere anche nella sua parrocchia almeno una breve Missione. Il Santo vi si recò con D. Biagio Valentini e don Muccioli «suscitando non effimeri entusiasmi e grandi frutti di bene». Essendo quella parrocchia di pochi abitanti, Gaspare ne profittò per farne un punto di partenza ed accontentare così tante parrocchie limitrofe, che lo desideravano a loro volta. Durante il giorno egli restava a Canonica e i compagni si recavano nei dintorni: a Sogliano, Ciola, Montalbano ed altri paesi. A sera la popolazione di Can6nica raggiungeva le ventimila persone, molte delle quali incolonnate in processione, vi giungevano da ogni parte. «Questa folla, veramente enorme per quei tempi, costringeva il Santo a predi-care sempre all’aperto; e il Signore benedisse tanto zelo e il desiderio di tante anime col rinnovare il prodigio della voce che, perduta, tornava più forte ed argentina, al momento della grande predica». Il parroco di Canonica, dato lo stragrande numero di confessioni, invitò va¬ri sacerdoti a rimanere nella sua parrocchia per dare una mano. Tra questi c’era anche D. Giuseppe Maggioli, tanto pio ed umile. Gaspare lo volle a dor¬mire e a desinare con i Missionari. Una notte D. Giuseppe fu colpito in forma gravissima da un malore che lo tormentava già da tempo, e fu ridotto agli estremi. Volle che fosse Gaspare a confessarlo e dargli l’Estrema Unzione. Il Santo accorse al suo capezzale e dopo averlo confessato, lo benedisse sog-giungendo: «Non è tempo di Estrema Unzione, ma di lavorare per la gloria del Signore. Domani mattina si trovi puntuale in confessionale». Al mattino era guarito e «non fu una guarigione momentanea, perché visse ancora per moltissimi anni vegeto e robusto». Il vescovo di Rimini lo invitò a tener conferenze alle «Dame» della città, ma soprattutto per prospettargli quanto gli stesse a cuore 1′ apertura di una Casa Missionaria nella sua Diocesi. Nel 1822, nel mese di agosto, Gaspare si sentì irresistibilmente ispirato a tornare a Forlimpopoli. Non erano buone le notizie arrivategli a Roma sulle rinnovate gesta dei Settari. Si sobbarcò ad un viaggio veramente disastroso «nei pieni calori di quel mese». Essendo già impegnati i compagni, passando per Ancona, pregò l’Arcivescovo Mons. Gabriele Ferretti ed alcuni Padri Fi-lippini d’andare con lui; non c’era tempo da perdere! I Settari fin dall ‘inizio della Missione gli mossero un’ acerrima lotta. Durante la sua prima predica in piazza fecero infiltrare, travestite da uomini, delle ragazze al fine di seminare scompiglio e suscitare scandalo. Il Santo dal pulpito sventò il tranello ed il po-polo, che ha buona memoria e non lo tradisce, tornò al primiero entusiasmo. Gaspare e i compagni moltiplicarono lo zelo organizzando pubbliche manife-stazioni. Una sera, mentre predicava in chiesa, fece entrare dal portone prin-cipale, con grande solennità, la statua dell’ Addolorata. Suonavano le campa-ne, i campanelli, l’organo. I fedeli, presi di sorpresa, piangevano a dirotto e gridavano: «Viva Maria! Perdono, pietà di noi!». Lasciò la cittadina dopo quindici giorni e si ripeterono le scene commoven¬ti di addio. Uno stuolo di giovani, cantando inni sacri, accompagnò a piedi i Missionari fino a Cesena. 5. Gaspare ormai sa che non può più rimandare 1′ apertura di Case Missio-nane anche in Romagna, perché comprende le grandi necessità spirituali di quelle popolazioni, e cede alle insistenze di Mons. Marchetti. Il vescovo, con decreto del 12 aprile 1824, nel quale tributa grandi elogi a Gaspare e alla sua nuova Congregazione, fa dono ai Missionari della chiesetta e del monastero di S. Chiara in Rimini, già abbandonato dalle Clarisse; dona anche tutte le proprie suppellettili ed il quadro della Madonna della Misericordia, a lui tan¬to caro. Gaspare prese un affetto tutto particolare a questa Casa e ne fece il Quartier Generale per l’ampia e complessa azione apostolica in tutta la Romagna . Così ne scrisse al Cristaldi: «Qui la gloria di Dio trionfa… Posso dire che Iddio mi compensa le amarezze sofferte con l’aumento del bene qui a Rimini». Quante volte egli si sarà soffermato in orazione dinanzi a quel volto così espressivo e materno, che gli ricordava le care immagini della Vergine poste nelle nicchie, sempre adorne di fiori e di ex-voti, ai cantoni dei grandi palazzi della sua cara Roma! Egli che «parlava con la Madonna», avrà saputo da lei che, quell’immagine, il 12 maggio 1854 avrebbe mosso ripetutamente le sue pupille misericordiose non solo per l’affetto che portava a tutta la Roma¬gna, ma anche in segno tangibile di benevolenza verso i suoi Missionari? Nel 1828, Gaspare lasciò Roma per rimanere per ben diciotto mesi in Ro-magna. Questa lunga ed ininterrotta permanenza dava luogo ad incessanti ri-chieste da tante parti, particolarmente da S. Felice e da Roma, dove si recla-mava la sua indispensabile presenza. A tutti rispondeva: «Le Romagne mi oc-cupano in modo che non si rialza la testa. Quando tornerò a S. Felice e a Ro-ma? Per ora non posso, Dio mi vuole in Romagna». Occorrerebbero pagine interminabili se dovessimo seguire il Santo nel cammino di tanti mesi. Egli, moltiplicando le sue energie, non si dedicava so¬lo alle Missioni al popolo, ma curava in particolare la riforma e la formazione del clero e degli Istituti Religiosi maschili e femminili. A questo fine aprì altre tre Case: Macerata Feltria il 28 maggio 1832; Cesena il 29 dicembre dello stesso anno, e il 12 febbraio 1833 quella di Pennabilli, che fu anche 1′ ultima Casa dell’ Istituto aperta da Gaspare durante la sua vita. Il continuo predicare, i tantissimi viaggi nei periodi di gran caldo o in pie¬no inverno, acuivano di continuo il malessere congenito di cui soffriva alle tonsille, per cui la voce se n’andava improvvisainente e il Signore… era co-stretto ad intervenire, come tante volte, col suo prodigioso aiuto al momento della predica. Così accadde a Soanne, dove s’era impegnato per una Missio¬ne. Essendo rimasto senza voce, pregò quel parroco di rimandarne la data, ma quegli non fu d’accordo: «Verrò anch io con i miei confratelli, gli fece sapere e, se non potrò predicare, reciterò il santo Rosario per il buon esito della Missione. Intant~ preghiamo assieme…» Le preghiere furono esaudite, anche se, finita là Missione, la natura riprese il sopravvento. Il 3 giugno lo troviamo a Monte Copiolo, dove convengono anche gli abi¬tanti di Monte Boaggine, Villa Grande, Maciano, Maiolo, Scavolino. Pensan¬do a Gaspare che percorre, in ogni stagione e con qualsiasi clima, a piedi o a dorso di mulo, monti, valli, dirupi, impervi sentieri, e a quelle popolazioni che col caldo, o col freddo, o sotto il sole, o sotto la pioggia, si recavano dalle campagne, guadando tumultuosi torrenti, spesso di notte, per ascoltarlo, dob-biamo esclamare: Solo un Santo poteva ottenere tanto e solo popolazioni ric-chissime di fede e di speranza potevano sobbarcarsi a tali sacrifici per il bene delle proprie anime!. Il 6 giugno organizzò una grande processione col miracoloso SS.mo Croci-fisso, molto venerato a Monte Copiolo e nei paesi vicini. Tutti indistintamen-te, clero e popolo, seguirono il Simulacro con una corda al collo. Gaspare fu costretto a predicare tre volte, e tre volte si disciplinò sulle spalle denudate. Si seppe poi che vi erano alcuni ostinatissimi peccatori, che avevano capar-biamente respinto il suo invito a confessarsi e, solo quando videro il sangue sprizzare dalle sua carni, finalmente si arresero. Anche qui, come già a For-limpopoli, il Santo fece «apparire» in chiesa la statua dell’Addolorata con gran solennità ed all’improvviso, ottenendo lacrime di compunzione e molte conversioni. Ecco perché egli diceva che «la grande Missionaria, la rapitrice dei cuori era Lei!». Un giorno un’ossessa1 lungo la strada, gli gridò in faccia quasi aggredendo¬lo: «Ladro, ladro di anime, vattene via!» Il Santo, per tutta risposta, la bene¬disse liberandola dal possesso di Satana. A settembre lo troviamo a Misano. Quel parroco, quando gli parlano della santità di Gaspare e dei suoi miracoli, tentenna il capo. Lo segue, lo spia, ma non si convince. «Sì – dice – è un santo sacerdote, pieno di zélo, come ve ne son tanti, ma nulla di più». Tra l’altro il sig. Parroco si prende anche il gusto d’andare a spiare dal foro della serratura quando Gaspare, a notte inoltrata, si ritira in camera.«Ma… che succede stanotte?» si chiede egli una sera. Ave¬va infatti appena accostato 1′ occhio a quel foro, che rimase quasi accecato da una luce vivissima. Vide il Santo in un alone di splendore, in estasi davanti al Crocifisso. Non occorre aggiungere che da quell’istante caddero tutti i suoi dubbi e non tentennò più il capo, anche se non cessò mai d’andare a curiosa-re, ma con ben altre intenzioni. Da Misano Gaspare si portò a Macerata Feltria, accolto «con immenso giu-bilo, mentre le campane si scioglievano a festa, e s’udivano spari a salve da ogni parte». Vi si trattenne per vari giorni. Durante la consueta visita agli in-fermi «guarì da tumore maligno tale Francesco Pasquini, che ne era tormen-tato da qualche tempo». Guarì anche, come narra il Merlini, che ne fu testi-mone, il giovane Federico Corradini, figlio d’un fabbro, che era «furioso ma-niaco, pericoloso, già chiuso in carcere e che al giungere del Servo di Dio era tenuto legato in una stanza a casa sua». Gaspare andò a visitarlo, lo benedisse ingiungendo ai parenti: «Scioglietelo e conducetelo libero a spasso». Era gua-rito e mai più gli riprese quel male. Il Merlini aggiunge anche che Gaspare da Rimini gli mandò in dono un libro, che il giovane gli aveva chiesto. Avvenne anche che un’ossessa si portò davanti alla casa dove il Santo era ospitato e «lo caricò di insolenze e improperi, accusandolo di falso zelo». Ga-spare si affacciò al balcone, la benedisse. La poveretta si quietò all’istante. Quella calma fu anche il segno della sua definitiva liberazione dal Maligno. Nel 1834 Gaspare, come aveva promesso, tornò di nuovo a Forlimpopoli e a Meldola. Anche voi, come noi, vi sarete domandati come mai lo troviamo ripetutamente in quelle due cittadine, mentre chi sa quante altre lo desidera-vano e l’avrebbero accolto con uguale esultanza. Nella narrazione dei Fioretti non abbiamo parlato, per motivo di brevità, dei tantissimi altri paesi roma¬gnoli dove il Santo si recò a predicare; però, senza dubbio quelle due città erano, per così dire, privilegiate dal Santo e non certo per fini meramente umani. Esse «erano la roccaforte dei Settari e dei Carbonari», duri ad arren¬dersi, e perciò Gaspare vedeva la necessità di «colpire il male alla radice» e non poteva lasciare quelle popolazioni in loro balia, né che essi continuassero tranquillamente da quelle cittadine a spargere il loro veleno in tutta la Roma¬gna. I Settari, come già a Fabriano1 anche qui gli offrirono una ingente somma in monete d’oro, se egli li avesse lasciati in pace. È facile immaginare lo sdegno e il secco rifiuto di Gaspare. A differenza della prima volta, in cui Gaspare andò a Forlimpopoli, essendo passato qualche anno, ora egli era «gravemente incomodato e faceva compas-sione solo a guardarlo. Tuttavia con coraggio, fece tutte le funzioni, come fosse stato sano, avvivando tutti i Ristretti da lui eretti nelle precedenti Missioni». Un meraviglioso episodio si narra sia avvenuto anche in questa Missione. In un giorno di festa, mentre Gaspare predicava in piazza, oltre ai romagnoli, erano presenti diversi cittadini tedeschi e francesi. I romagnoli si accorsero che anche loro erano molto attenti e commossi. Incuriositi gli chiesero: «Ma che ci capite voialtri?» «Oh! lui parla molto bene tedesco!» «No, no, parla fran¬cese!» I Romagnoli ribatterono: «Macché, scherzate? Parla romagnolo meglio di noi!» Gaspare invece parlava solo un italiano con forte accento romano, ma avevano tutti ragione: il prodigio apostolico della Pentecoste si stava ripe¬tendo: ognuno lo sentiva nella propria lingua! Ma facciamo narrare gli eventi di quella Missione, anche per non ripeterci, dal giornale modenese La Voce della Verità, citando alcuni passi più salienti di quella cronaca. «La città di Forlimpopoli, che perla sola malvagità dinonpochinemici dell’Altare, che in lei per mala sorte si annidano,- riscosse in tal tempo indistintamente tal nome, che le vicine e lontane città quale oggetto di scandalo, per poco non la sguardavano, ebbe in ora finalmente la sorte di smentire cotale pregiudicata opi¬nione con i segni più parlanti di religione… e par giusto pubblicamente se ne parli. Quei valenti soggetti.. i Missionari, incontrati dal clero e dall ‘in tera popolazione, in pianto sensibile e generale commozione… dovettero certamente avvertire… qua¬le e quanto frutto avessero a ripromettersi dalle loro fatiche. Convenne lasciar la chiesa e costruire il palco nel vasto piazzale di essa. Dovettero confessare che quei buoni semi, sparsi in altre precedenti Missioni, non erano stati soffocati da quella pesti fera zizania di uomini nemici. Era bello l’udire a sera tutto risuonare le divine laudi… Era bello vedere come la gioventù, stordita nei giorni del disordine e del delirio… educata alla scuola dell’empietà, ritrasse il piede dagli odiati suoi pervertitori… correre a dir sue colpe e ritornarsi al meglio. Bello era veder quegli stessi, che sedettero a cattedra d’iniquità, farsi umili discepoli ad udir voci divine.. il turbamento visibile in essi appariva dagli esterni segni di penitenza. E qui non dettaglieremo le continue fatiche dei Missionari, che abbastanza ne parlano i tribunali di penitenza, senza interruzione assediati per gli interi quindici giorni. Colmarono le meraviglie la solenne Processione della Beata Vergine del Po¬polo, patrona principale della città, l’erezione tra grida giulive del Vessillo della Croce. Bastava udire il generale tumulto – erano 12.000 persone – degli affetti inca¬paci a contenersi e le grida di implorata misericordia per dire che la città di Pomi¬ho (Forlimpopoli) potrebbe appellarsi città della Divina conquista. Non minor laude, dopo che a Dio, torni al Venerabile Istituto del Sangue Prezio¬sissimo di Gesù e al Fondatore, che dirigeva la Missione». Anche Meldola non volle essere da meno. Basti riportare una breve cita¬zione dello stesso giornale: «Questa illustre terra ricorderà per lunghissimo tempo con dolce rimembranza… le Sacre Missioni. Gli Operai evangelici furono scelti dall’Apostolico Istituto dei Missionari del Preziosissimo Sangue… Questi zelanti ed instancabili operai hanno pienamente corrisposto… Iddio, nell’abbondanza delle sue misericordie, ha bene¬detto le loro inde fesse fatiche… con dare tanta efficacia alla loro parola, che ogni cuore è stato commosso, ogni volto bagnato da tenero pianto… Non si può dire l’a ffollamento del popolo e il concorso delle Diocesi vicine… Le funzioni sono state le più commoventi…». Da altri documenti possiamo rilevare anche che, sia a Forlimpopoli, come a Meldola, le manifestazioni d’affetto al Santo furono veramente straordinarie, e straordinario il numero delle conversioni; armi e stampe ed emblemi bru-ciati, ed episodi commoventi, anche di natura soprannaturale. Purtroppo, dopo queste due Missioni, Gaspare non ne tenne altre in Roma-gna. Mancavano poco più di due anni alla sua morte ed il cammino da com-piere era ancora molto lungo. Sono innumerevoli le anime che lo aspettano e sono tante le fatiche, alle quali dovrà ancora sobbarcarsi per consolidare la sua Congregazione; sebbene a malincuore, egli non può trattenersi più a lun-go in Romagna. Gaspare, prima di rientrare a Roma, si fermò qualche giorno a Rimini; ave¬va tanto bisogno di riposo! Sapendolo in casa, i Settari, pur non osando atten¬tare alla sua persona – del resto a Rimini 1′ avevano sempre rispettato – per far¬gli dispetto si sfogavano a tirar pugnalate sul portone della chiesa. Il tema preferito di quei giorni con i suoi confratelli era il Paradiso. Una se¬ra, guardando il cielo scintillante che invitava a spiccare un volo per raggiun-gerlo, si diede ad esclamare con enfasi: «Quant’ è bello il firmamento! Oh! bella patria nostra! Oh! grandezza e bontà di Dio che l’ha creato per noi!» Poi chiese ai presenti: «Mi salverò io? Ci andremo tutti?» Gli risposero: «Se non si salva Lei, Padre, chi si salverà? Lei ci andrà di certo, noi chi sa…» «Io mi sal¬verò? Ma per andare in Paradiso, bisogna essere santi!» Fratel Falcione, con spontanea franchezza gli disse: «E Lei ci si faccia!» «Dio lo voglia!» rispose Ga¬spare. La chiamata al Cielo non tardò molto. Egli aveva allora solo 48 anni, e morì pochi giorni prima di compierne 52. Le due croci di Natale Pochi sanno che S. Gaspare fu chiamato anche il «Santo di Natale». Perché? I motivi sono tanti. La santa suora che ne predisse la venuta e l’apostolato, si chiamava Sr. Ma¬ria Agnese del Verbo Incarnato; Gaspare nacque poverissimo il 6 gennaio 1786, giorno sacro all’ Epifania del Signore, e gli furono posti i nomi che la tra-dizione attribuisce ai Re Magi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre; vide la lu¬ce in una stamberga all’ombra della basilica di 5. Maria Maggiore, ove si ve¬nera la Culla del Redentore e mori tre giorni dopo Natale, il 28 dicembre 1837, in una soffitta dei grandiosi resti dell’antico Teatro Marcello in Roma. In questi ultimi giorni della sua vita aveva meditato a lungo e gioito, contem¬plando un piccolo presepe recatogli in dono dalle Suore di S. Urbano, che egli aveva per anni guidate nel cammino alla perfezione, mentre tra le mani strin¬geva sempre il Crocifisso. Presepe e Calvario! Gaspare vedeva e meditava tutti i Misteri della vita del Cristo alla luce del suo Sangue, Mistero-Cardine, Mistero fondamentale della salvezza umana. «Gesù si è incarnato per donarci il suo Sangue, ha vissuto 33 anni, in mezzo a noi, ha predicato, ammaestrato ed operato prodigi per poi arrivare al culmine del suo amore per l’umanità al dono, cioè, di tutto il suo Sangue. Chi ha letto la vita del Santo ricorda certamente la mirabile visione, che egli e S. Vincenzo Strambi ebbero mentre assieme meditavano la Passione di Cristo: Gesù sulla via del Calvario, carico del legno della croce. Un’altra visione, proprio nella notte di Natale del 1827, il Santo l’ebbe a Poggio Mirteto. Una nottata gelida, la neve era caduta in abbondanza e continuava a cade¬re, la gente accorreva lieta alla Messa di Mezzanotte, cantando inni natalizi, tra il festoso richiamo delle campane. Si vedevano lunghe teorie di fiammelle serpeggiare nelle campagne, che andavano man mano concentrandosi verso la cittadina. Erano i fedeli che illuminavano le vie con torce a vento. La chiesa era più gremita del solito1 anche per la presenza di Gaspare, che tutti erano desiderosi d’ascoltare. Egli durante la Messa parlò del grande Mistero Natali-zio «con tanta tenerezza, da muovere i fedeli alle lacrime». Dopo il bacio del S. Bambino, mentre i fedeli si accalcavano verso l’uscita, il Santo s’inginocchiò in fervida preghiera davanti al Presepe. Questo non era certo l’artistico Presepe dell’Ara Coeli sul Campidoglio, né faceva sfoggio delle grosse e artistiche statue di quello di S. Andrea della Valle, in Roma. Egli però non predilige lo sfarzo e la fantasmagoria di luci! Rivive certamente nei suoi ricordi il semplice e piccolo Presepe che da bambino costruiva sotto lo sguardo dolce ed affettuoso della cara Mamma Annunziata… A pregare ac-canto a lui c’era qualche fedele ed un gruppetto di suore. Una di esse, in par-ticolare, notò che mentre il Santo guardava in un punto lontano verso l’alto, quel volto radioso, rapito certamente in una delle sue continue estasi, d’un tratto si velò di tristezza. Non appena egli si alzò per recarsi in sacrestia, la suora lo pregò d’ascoltarla in confessionale, e gli domandò perché mai, du-rante la preghiera, il suo volto, prima tanto luminoso, s’era poi improvvisa-mente turbato. Gaspare le confidò di aver avuto una visione: «Erasi prima in-teso gravare le spalle come da un peso schiacciante, poi, aveva visto se stesso carico di due enormi croci sugli omeri. Sicuro presagio di nuove dolorosissime prove!». Difatti queste non si fecero attendere! I maligni erano riusciti ad ottenere da Leone XII la chiusura delle due case più care al Santo, aperte e mantenute con tanti sacrifici proprio nel territorio dov’ era il covo del brigantaggio, cioè quella di Terracina e quella di Sonnino. Non appena gli fu notificato quest’ordine tanto ingiusto, alzò gli occhi al cielo, aprì le braccia ed esclamò: «Sia fatta la Volontà del Signore». Ma, dentro, il suo cuore sanguinava. Martirio, non è una parola retorica, né eccessiva nella vita di Gaspare. Èvero che non sparse il sangue dalle sue vene, ma dal giorno in cui fu arrestato fino al giorno della sua meravigliosa morte, il suo cuore non cessò mai di san-guinare. Lei vada a prendere un goccio di quel buono! Pontecorvo era, ed è tuttora, una bella cittadina nei pressi di Cassino e, seb-bene ai tempi di Gaspare si trovasse nel territorio del Regno di Napoli, era «città dello Stato della Chiesa». Vi furoreggiavano i Settari, che miravano non tanto a scardinare il potere temporale dei Papi, quanto a togliere Dio dalle co-scienze, imbevendo il popolo di dottrine atee e anticlericali. Per questo il Cle-ro locale da tempo insisteva presso il Santo, che tanti strepitosi successi ave¬va avuto con la sua predicazione contro i Settari delle Marche e della Roma¬gna, a recarsi a tenere una Missione anche nella loro città, con i suoi migliori compagni. Il Santo vi andò il 10 settembre 1822 con ben otto missionari «tutti eccelsi per sapere e virtù», tra cui il futuro Cardinal Gabriele Ferretti, «quan-do le rondini si apprestano a lasciar il bel suolo d’Italia». «Anche a Pontecorvo si rinnovarono i prodigi delle più celebri Missioni» e chiaramente il Signore volle sorreggere la parola del suo Santo e dei compa¬gni anche in modo straordinario. Abbiamo altrove già accennato come: «Du¬rante la Missione si portò con gran solennità la Comunione a duecento infer¬mi. Gaspare li asperse uno ad uno con l’acqua santa e li benedisse con la Reli¬quia di S. Francesco Saverio. Tutti guarirono prodigiosamente, sicché, dopo un tale evento le conversioni non si contavano, né si contavano le armi mici¬diali consegnate! Erano mucchi, cataste e si dovette durar gran fatica a spez¬zarle e a bruciarle! Tra le mirabili conversioni operate dal Santo va raccontata, anche per il modo singolare in cui avvenne, quella posta ben in risalto nei Processi di Bea-tificazione. Uno dei «primari signori» della città, noto capo rivoluzionario, fuggiva la Missione come la peggior peste che avesse contagiato Pontecorvo., Ecceziona-le era la sua avversione verso Gaspare, da tutti ritenuto un santo. Non solo fuggiva la Missione, ma irrideva quei Padri e aizzava contro di loro la popola-zione, maltrattando con veemenza chiunque osava suggerirgli di incontrarsi con lui. Gaspare, da parte sua, s’impegnò assieme ai confratelli ad ottenerne la conversione con preghiere e digiuni ed arrivò finalmente il giorno del trionfo della Grazia. Un pomeriggio Gaspare, certamente ispirato da Dio, invitò P. Barrera, dei Dottrinari, a fare con lui una passeggiata nel giardino intorno al Convento. Mentre camminavano lungo il viale, conversando di cose di Dio, videro pas-sare quel signore. «Presto, disse Gaspare al Padre, lo inviti ad entrare». A un invito tanto cortese, il capo settario, anche se nemico dei preti, non osò ri-spondere con un rifiuto, che sarebbe stato una grave offesa. Ma quale non fu il suo disappunto quando, entrato in giardino, si trovò di fronte Gaspare! Tentò di tagliare la corda, ma il Santo non gliene diede il tempo. Con la sua innata e sincera gentilezza, gli si accostò salutandolo cordialmente. Senza in¬dugio poi, rivolto a P. Barrera, gli disse in schietto tono romanesco: «Lei vada a prendere un goccio di quel buono, perché io e quest’amico vogliamo passa¬re un’ oretta in allegria». Quando il Padre tornò col fiasco, i due erano già spariti. Aspetta ed aspetta, eccoli uscire dalla camera del Santo in affabile conversazione. Gli occhi del settario, erano ancora bagnati di lacrime! «Così, colui che era uno scandaloso e un nemico giurato di Dio, non solo durante la Missione, ma per tutta la vita, divenne l’u9mo più edificante di Pontecorvo!» Agli amici che lo redarguivano: «Com’è mai possibile? Proprio tu, il nostro capo, ci hai vigliaccamente tradito?» egli rispondeva: «Quel Padre santo, mi ha detto tali cose, che non ho potuto resistere. A voi sarebbe acca-duto lo stesso. Provate e farete come ho fatto io!». S. Gaspare tante volte, in tutta umiltà, soleva dire ai compagni che il Signo¬re gli dava lumi straordinari nel confutare gli increduli, sia durante le predi¬che, che nelle private conversazioni. Questa celebre conversione colpì molto la popolazione, che accorse sempre più numerosa ad ascoltare Gaspare, tanto che non bastavano né chiese e né piazze a contenerla. Balconi, finestre, terrazze, alberi erano sempre ricolmi di gente! L’ultima sera nessuno volle perdersi la sua parola, tanto che il sacrestano «non trovando nessuno disposto ad aiutarlo a suonare le campane, disperato dovette pregare il futuro Cardinal Ferretti ad aiutarlo». In seguito il Cardinale soleva dire: «Con il Can. Del Bufalo ho imparato che, anche suonando le campane, si possono convertire i peccatori!». Umbria dolce! Quant’è vasto il campo dell’ apostolato di S. Gaspare! Lazio, Abruzzi, Cam-pania, Romagna, Umbria. Regioni e popolazioni tanto diverse l’una dall’al¬tra e tutte ugualmente care al suo cuore. Tutte le percorre con zelo indefesso e ardente, perché tutte hanno bisogno di Dio. «La terra di S. Francesco, dice con espressione arditamente poetica un’il¬lustre biografa del Santo, fu il suo primo amore missionario». E come avrebbe potuto essere diversamente se il Signore aveva voluto che in Umbria, sul col¬le di S. Felice, in un antico Convento in rovina, sorgesse la Culla dell’Istituto? Ed infatti l’Umbria fu anche il primo campo dell’ apostolato del Santo, come in parte abbiamo già narrato. Piccoli agglomerati di case in campagna, villaggi, paesi e città lo videro ag-girarsi per le loro vie, sui monti, nelle dolci valli verdeggianti, sulle piazze medioevali, nelle chiese ricche d’arte e rigurgitanti di popolo. Il popolo lo amava d’istinto, ammirandone il sacrificio e il disinteresse. Sapeva che cercava esclusivamente il suo bene. L’Umbria non rigurgitava, come le Marche e la Romagna, di settari, di car-bonari, di anticlericali sviscerati e di bestemmiatori raffinati, né, per fortuna, era insanguinata, come il Lazio, dalle truci gesta dei briganti. Vi alitava anco¬ra lo spirito del Serafico di Assisi! La gente era laboriosa, dal carattere pacato e naturalmente religioso; perciò, attratta dalla parola affascinante e persuasi¬va del Santo, «… da ogni parte accorreva ad ascoltarlo, tralasciando i propri interessi e le quotidiane occupazioni per soddisfare l’ansietà di sentirlo, mal-grado abbiano a fare miglia e miglia di strade a piedi, strade per altro, non sempre agevoli, o durante il crudo inverno o sotto la sferza canicolare». Gaspare, da parte sua, comprendeva che quelle popolazioni non erano ta¬rate, se mai «era l’umana fralezza, il rispetto umano, l’amor proprio, l’indi¬genza e a volte la carenza del clero che le teneva lontane da Dio». Cercò quin¬di di far leva sui loro sentimenti per richiamarle alla fede e alle pratiche cri¬stiane. «I frutti, che superavano sempre 1′ aspettazione, erano ovunque evi¬denti e straordinari», e l’Umbria, come le altre Regioni, fu teatro di eventi meravigliosi e straordinari. Spello, tra Foligno ed Assisi, ne sembra la cittadina privilegiata. Nel pomeriggio dell’ lì maggio 1820, festa dell’ Ascensione, Gaspare con al-cuni compagni, diede inizio alla «strepitosa Missione nella cattedrale di S. Lo-renzo, cattivandosi, fin dalla prima sera, il cuore di quel popolo umbro». Mons. Lucchesi, vescovo di Foligno, così racconta un primo prodigio: «I miei ecclesiastici mi riferirono di aver riconosciuto nel Servo di Dio il dono di vati-cinare il futuro. Egli infatti disse che si dessero subito i Sacramenti ad un in-fermo, che egli non aveva mai visto, giacché sarebbe morto il giorno seguen¬te; ciò che avvenne senza meno». Il Rey cita altre due predizioni, rilevate dai Processi: Luigi Fortini, come altri Signori, indossò il sacco di S. Francesco Sa-verio per presiedere al buon ordine del popolo, ma al quinto giorno della Mis-sione ammalò. Dopo il decimo giorno al Canonico Raschi, andatolo a trovare, parve, come assicurava anche al collega D. Zampetti, che gliene aveva chie¬sto notizie, che non peggiorasse, sebbene il Santo avesse detto al mattino: «Il Sig. Fortini, stasera, dopo la Benedizione Papale, andrà in Paradiso». Egli, in¬fatti, mori proprio al termine del giorno predetto da Gaspare. «Pure quivi, ad uno dei deputati della Missione, disse che a termine della Missione sarebbe morto. Ammalò difatti e, benché la malattia non sembrasse mortale, si spen¬se al tempo predetto». Questi fatti suscitarono tanto scalpore, che tutto il popolo andava dicendo: «E’ venuto un santo tra di noi!», e ne era così forte la convinzione che «l’acqua servita al Missionario per radersi la barba, veniva distribuita agli infermi, che istantaneamente guarivano». La stima in cui l’aveva il clero – e noi sappiamo che, purtroppo, non poche sofferenze gli venivano proprio da ecclesiastici – gli diede anche modo di far trionfare l’innocenza dei PP. Redentoristi, che, per vili calunnie, stavano per essere espulsi dal Vescovo dalla cittadina di Spello, con grave scandalo della popolazione. Ora ascoltiamo dalla penna del Ven. Merlini, testimone oculare, un altro episodio non meno straordinario: «Il Sig. Canonico D. Felice Perrucchini, de-putato della Missione, fu chiamato dal Servo di Dio, il quale a lui mostrò vivo desiderio che la chiesa fosse illuminata in tutta la sua estensione nel momen¬to in cui la processione, che si doveva fare per l’impianto delle croci, sarebbe rientrata in chiesa. Avendo D. Perrucchini fatto conoscere che la Collegiata non possedeva del proprio cera sufficiente per eseguire tale sontuosa illumi-nazione, né aveva mezzi per provvedersene, il Servo di Dio lo incompensò di prenderne a suo conto, dicendogli che avrebbe provveduto S. Francesco Sa-verio. D. Perrucchini, per accontentarlo, si recò presso tre persone, che tenevano cera da prestare a calo, cioè Feliciano Angelini, Lorenzo Merallo e Giovanni Bellucci, e dalle loro rispettive botteghe estrasse buon numero di candelotti e presso ciascuno furono pesati per quindi pagarne il consumo. Questa cera fu distribuita per la chiesa. Appena cominciò a rientrare nel sacro tempio la pro-cessione, che era ben lunga… fu accesa ed arsa per tutto il tempo che… il sig. Canonico Del Bufalo fece un’adattata non breve allocuzione al popolo e fin¬ché si chiuse la sacra funzione… Nella mattina seguente, calati i candelotti, furono da D. Perrucchini riportati ai rispettivi padroni, i quali li ripesarono, per far quindi la nota della spesa occorrente in compenso del consumo. Ma somma fu la loro sorpresa allorché, posta ciascuna quantità nelle tre diverse bilance, si trovò ciascuno pacco di cera non solo niente consumato, ma a cia¬scuno cresciuto di ben tre once. Il primo a ripesarla credette errato nel peso fatto e registrato la prima volta, ma allorché si conobbe accadere in tutt’e tre le diverse botteghe il medesimo inaspettato evento, si conobbe il vero mira¬colo. All’annunzio della qual cosa riferita da me stesso al suddetto Servo di Dio, questi rispose sorridendo: «Sia lode a Dio e al grande Padre S. Francesco Saverio!». Il negoziante sig. Angelini affermò che «in sue mani accadde il suddetto prodigio, alla cui solo rimembranza, egli dice, mi si intenerisce il cuore e mi sgorgano lacrime dagli occhi». E il buon popolo di Spello non aveva ancora finito d’essere testimone di tante meraviglie! Il 27 maggio, durante la funzione di chiusura, tenuta mezz ‘ora prima del calar del sole, mentre il Santo predicava sul palco nella Piazza Maggiore, zep¬pa di ben seimila persone, ed aveva sul palco il quadro della Regina del Prez.mo Sangue, prima che impartisse la benedizione papale, si vide nel cie¬lo, ad oriente, (il fenomeno non era dunque un effetto del sole che tramonta¬va) «una croce di color ceruleo, risultante fatta di tre stelle, della grandezza ciascuna di una doppia d’oro» Queste apparivano «tre o quattro palmi al di sopra del capo del Servo di Dio e formavano un triangolo, giacché una stava in alto e le altre due laterali più basse» e «non tanto come la stella Fosforo od Espero rilucevano» ma avevano «una luce più notabile». Tale «croce lumino-sa andavasi lateralmente restringendo di mano in mano che il Santo andava accostandosi alla fine del discorso, fino a pigliar forma d’ una fronda ed indi svanire». Di fronte a questo insolito fenomeno, non certo naturale, il popolo rimase come inebetito; molti furono presi da profonda commozione e lo stesso Ve-scovo diocesano, Mons. Lucchesi, ivi presente, «stupito e meravigliato» rom-pendo in pianto, lo acclamò nuovo S. Vincenzo Ferreri, benedicendo Dio che, con tali segni, sanciva le opere del suo apostolo. Questa Missione ebbe, dopo qualche tempo, per così dire «un seguito stra-biliante», per il fenomeno della bilocazione, quasi uguale, ma più portentoso per il modo come si svolse, a quello verificatosi a Meldola, in Romagna. Così lo narra nei Processi D. Silvestri: «A Spello era stato eretto il Ristretto di S. Francesco Saverio, non poco contraddetto da altra Confraternita. Saputo di queste controversie, incontrai il Can. Perrucchini, designato dal Del Bufa¬lo quale Direttore del Ristretto e gli domandai come andassero le cose. Mi ri-spose che, per buona fortuna, s’era incontrato a passare il Padre Del Bufalo, che con buone maniere «aveva appianate le vertenze insorte» tra i Fratelli, evitando che venissero alle mani e dessero scandalo al popolo. Fu allora che con ammirazione gli chiesi quando ciò era avvenuto, ed egli mi precisò un’epoca in cui da recente lettera del Canonico Del Bufalo stesso avevo rile-vato ch’egli trovavasi in atto in Missione in Romagna. Onde fu da me impu-gnata la sua assertiva e gli addussi le indicate circostanze. Egli rispose: «Il fat-to è così! Né l’ho veduto in sogno o in istato di ubbriachezza!». Io tacqui né potetti combinar le cose se non ammettendo una prodigiosa bilocazione». Come al solito, Gaspare per sottrarsi al trionfo che voleva tributargli il po¬polo, presi con sé il Valentini, il Pierantoni, D. Antonio Caccia e il Can. Mo¬scatelli, senza «neppur prendere un po’ di riposo» da Spello passò ad una par¬rocchia rurale poco lontana da questa cittadina, Fiamenga, dove diede inizio ad una nuova Missione il giorno 28 maggio, festa della SS.ma Trinità. Preceduti dalla fama di sì grandi prodigi, i Missionari furono accolti con grandi manifestazioni di giubilo. Gaspare iniziò la sua prima predica ringra-ziando Dio, perché, senza accorgersene, aveva viaggiato pericolosamente «su una carrozza, le cui ruote, per mancanza di alcuni ferri chiamati acciarini, erano uscite fuori sesto, e non si sa come, non fu causa d’un grave disastro». Gaspare, sempre sereno, aveva prima rincuorato i confratelli spaventati: «Dio ci accompagna sempre e prende cura di noi». È da immaginare con quanta gioia il parroco D. Bernardo Moncolini, gia eroico compagno di pri-gionia di Gaspare a Bologna, lo abbia accolto, lietissimo di averlo con sé! Dobbiamo proprio ad un suo prezioso appunto, che ancora si conserva in quell’Archivio Parrochiale, alcune notizie su quella Misssione. A Fiamenga si recavano in processione, per ascoltare il Santo, da numerose borgate vicine, sicché il pubblico presente alle funzioni era sempre molto nu-trito. Gli avvenimenti di Spello s’erano divulgati largamente ovunque e D. Bernardo dice: «Il sentire che l’Apostolo predicava a Fiamenga, i popoli ini-ziarono straordinarie peregrinazioni d’ogni parte dell’Umbria, per cui riusci-rono tenerissime le processioni di penitenza»; ed «una sera, mentre il Canoni¬co predicava sulla pubblica strada, ecco un vivissimo chiarore venire dal Cie¬lo e investire l’immagine di Maria e da essa riverberarsi fulgidissimo sul vol¬to del Missionario. A quello spettacolo la compunzione fu straordinaria e pa¬recchi, che disprezzando le prediche erano rimasti a far baldoria in una betto¬la vicina, smesso il gioco ed il vino, tosto si fecero ad udirlo e poi compunti lo seguirono in chiesa per confessarsi. Quella luce, essendo a sera, non era do¬vuta a raggi di sole, già tramontato». Era anche bello ed entusiasmante vedere il Santo aggirarsi per le campagne con una gran croce, insieme ad un compagno che suonava il campanello, per radunare i fanciulli alla Dottrina Cristiana ed invitare i contadini alle funzio-ni! La gente chiudeva i casolari e lo seguiva, cantando le canzoncine della Missione. «Aggiunge importanza alla Missione di Fiamenga, scriveva il Par-roco, lo stato di altissima elevazione d’animo in cui trovavasi Gaspare». Non era cosa eccezionale nel Santo, però doveva esserci qualcosa di straordinario, perché, fatto insolito, egli stesso ne scrisse al Card. Cristaldi in una lettera del 5 giugno, che suona così: «L’amore di Cristo, mi eccita a renderla partecipe di quelle dolcissime consolazioni che il Signore mi ha dato nelle Missioni in Umbria… L’accerto che saranno per me sempre Missioni di particolare me-moria… La Missione, poi, in alcune Cure di campagna riunite, si è resa singo-lare per una prodigiosa guarigione d’un infermo, spedito dai medici e che già aveva ricevuto il Viatico, al segnarlo con una immagine di S. Francesco Save-rio…». Esiste ancora nella chiesa parrocchiale un quadro del Saverio, del qua-le così annota in un pro-memoria quel Parroco: «… suddetti Missionari lascia-rono la devozione di S. Francesco Saverio, ove raccomandarono si facesse il quadro del Santo e si diedero pensiero l’Abate Luigi Mazzoni e Giuseppe Piermarini di andar questuando ed hanno fatto fare il quadro di S. Francesco Saverio da Filippo Angeli, pittore in Bevagna, e fu la spesa di scudi tre». Anche il Merlini depone nei Processi che il Santo diede un’immagine del Saverio al Parroco, inviandolo a benedire una donna, grave per emorragie, la quale guarì all’ istante ed il giorno dopo era in piazza ad ascoltare la predica di Gaspare. Lo stesso D. Moncolini descrive di suo pugno l’episodio a conferma della testimonianza del Merlini. Dopo un breve riposo a S. Felice, Gaspare si recò a predicare altra Missione a Montemartano, assieme al Merlini, il quale serberà sempre un commosso ricordo di questa predicazione fatta assieme al suo Padre e Maestro, perché: «Finalmente – così scrive – il giorno dell’ Assunta, egli piegò il mio animo, assi¬curandomi della divina chiamata, nella quale, per la Divina Grazia,mi sono confermato sempre più». Era quella la Missione che avrebbe, a motivo della sua risoluzione, ricordata più di tutte le altre, perché determinò la sua vita fu¬tura di Missionario del Prez.mo Sangue. Mentre percorre l’Umbria, Gaspare fa ripetute «corse» a 5. Felice. Sono tante le cose da disbrigare e, soprattutto lo assilla la ricerca di nuovi compa¬ gni per il consolidamento dell’ Istituto, che resta sempre la sua premura mag-giore. Egli, anche mentre è a S. Felice, non smentisce la sua natura di «terremoto spirituale», e perciò il suo zelo non ha mai requie. Quei giorni non sono dav-vero giorni di riposo! Dal 21 al 28 agosto si reca a Terzo La Pieve, poco lontano da S. Felice, e rac-coglie attorno a sé i contadini sparsi nei casolari e nei villaggi di quella vasta campagna. Comprendendo la necessità d’una loro unione compatta per far fronte assieme alle esigenze economiche e alla giusta rivendicazione dei propri diritti verso i padroni, a volte esosi ed ingiusti, crea una specie di cooperativa religiosa-agricola di mutuo soccorso per le necessità spirituali, sociali ed eco¬nomiche della categoria. Come si trova a suo agio tra gli umili e i poveri e quanto gode nel constatare come le loro anime si aprono con semplicità e fe¬de alla parola divina! il curato D. Aurelio Pescioli, parlando dopo 30 anni di quella Missione, affermava con commozione, che ancora ne era vivo il ri¬cordo e se ne constatavano i frutti. Nel viaggio di ritorno a S. Felice, avvenne un altro miracolo del Santo, che ci lasciamo raccontare, anche questa volta, dal Ven. Merlini, così com’egli depose nei Processi. «Raffaele Proietti dell’età di anni 65 circa e Domenica Campagna, sua mo¬glie, domiciliati nel castello di Montecchio, attestano che, nell’occasione del¬la Missione data dal Servo di Dio a Terzo La Pieve, essi avevano un figlio per nome Angelo, che poteva avere circa otto anni, il quale, per essersi data una roncolata sul ginocchio sinistro, giaceva in letto da tempo senza potersi muo-vere ed affatto impedito dal camminare, dicendo i Professori che Angelo sa-rebbe sicuramente rimasto storpio. Terminata la Missione, mentre Gaspare faceva ritorno a S. Felice, precedendolo un di lui compagno, al quale Raffaele e Domenica raccontarono la loro disgrazia, questi disse che 1’avessero pre-sentato al Servo di Dio. Domenica corse a prendere il figlio che giaceva in let¬to e portandolo fra le braccia, lo presentò al medesimo, il quale, senza neppur guardarlo e senza che gli fosse indicato il ginocchio malato, né tampoco pote-va vederlo perché coperto, indovinò a toccare con la mano dove appunto era il male e quindi proseguì il viaggio. La detta Domenica proseguì quindi ad attestare che, nel ricondurre il figlio Angelo in casa per porlo in letto, dopo salite poche scale, sentì dirsi da lui queste precise parole: «Mamma, mettimi giù in terra». Avendovelo Domeni¬ca posto, Angelo risalì da se stesso le scale e così rimase risanato e ricamminò liberamente, come liberamente camminava ancora al 1839 (cioè due anni do-po la morte del Santo) in cui questa relazione rilasciò la detta Domenica. Un altro teste usa un’ espressione più vivace: «Angelo, sceso dalle braccia della mamma, cominciò a saltare su e giù per le scale come una lepre». Gaspare era appena rientrato nella cara solitudine di 5. Felice che già si tro¬vò di fronte alle pressanti insistenze del Vescovo di Todi, affinché «finalmen¬te si rechi con i suoi missionari anche in quella città, tanto bisognosa della pa¬rola di Dio». Vi andò nel 1835, appena due anni prima della sua morte, con il Betti e il Merlini. Subito conquistò l’uditorio, che nell’ascoltarlo lo acclamò: «Angelo di Dio e Apportatore di pace». Il clero, ed in particolare, «un dotto ecclesiastico, cano-nico di quella Cattedrale», è alquanto diffidente, e pensa che la grande fama di santità, gli eventi prodigiosi, le strepitose conversioni, siano frutto di fanta-sia ed allucinazione popolare o aneddoti creati ad arte, sia pure a fin di bene. Ma ben presto tutti devono ricredersi. Il primo è proprio il dotto D. Girolamo Leti, perché «non appena l’ebbe in-teso, fu costretto a farne grandi elogi per 1′ oratoria ricca di dottrina e soprat-tutto di unzione e zelo». Ma avvenne, per disposizione divina, un evento tal-mente straordinario, che colpi e scosse profondamente tutta la popolazione e cancellò ogni incertezza in quei sacerdoti così dubbiosi. Era tanta la ressa ai confessionali, e a quello di Gaspare in particolare, che questi per ascoltare gli uomini doveva rimanere in chiesa fino alle due o tre ore dopo la mezzanotte. Una sera, dopo aver ascoltato la confessione d’un ta-le, gli si fece davanti un signorotto pettoruto ed arrogante, che, senza tanti preamboli, 1′ apostrofò: «Lei ha confessato or ora quel tizio; è un ladro… Mi dica subito quanto mi ha rubato». S. Gaspare non si scompose, anzi gli rispo-se con un sorriso e tanta gentilezza: «Signore, lei certamente sa che per nes-sun motivo, anche a costo della vita, il sacerdote può svelare quanto viene a sapere in confessione». Quel rifiuto, cortese, ma deciso, esasperò il signorot¬ to, che passò subito alle minacce, ma trovò il Santo più che mai irremovibile. Perse allora il lume della ragione e puntò la pistola dritta al cuore del Missio-nario, il quale pensò che, senza dubbio, fosse finalmente giunta per lui l’ora di dare la vita per Cristo. Non arretrò d’un passo e ripeté con forza: «Mai! Mai!» S’udì uno sparo secco, fragoroso.. «No, non è possibile!» esclamò il signorotto incredulo nel vedere Gaspare illeso, ancora dritto davanti a lui. La pallottola era infatti caduta fredda ai suoi piedi, senza neppure bruciacchiargli la veste. Intanto la folla che gremiva la chiesa, all’udir lo sparo e avendo veduto chi era entrato in sacrestia, intui tutto e si precipitò per vedere cos’ era successo, per piangere la morte del santo Missionario e… vendicarlo. Ma il signorotto, furibondo e confuso, protetto da S. Gaspare, fece appena in tempo a svignar-sela dalla porta della sacrestia e ad evitare un sicuro linciaggio. «Sì, gridavano tutti, Gaspare è proprio un santo e Dio è con lui!». Qui dobbiamo concludere questa lunga carrellata di così grandiosi eventi, ma il cammino del Santo nella sua dolce Umbria, continua… Come non far cenno, perciò, alla Missione di Cannara, presso Assisi, dove, come scrive quel Vescovo Diocesano: «L’eroico zelo e la grande carità di Ga-spare e dei suoi Missionari, produssero effetti prodigiosi»? Ne rimase viva la memoria per lunghi anni, anche per la Processione interminabile e commo-vente del taumaturgico Crocifisso, venerato nella chiesa della Buona Morte, che da anni ed anni non era uscito per le vie della città. E come non parlare del suo amore verso i reclusi nella Rocca di Spoleto? Questa bella e celebre città, che non dista molto da S. Felice, era un passag¬gio obbligato per chi da Giano doveva recarsi a Roma e sede arcivescovile, dalla quale dipendeva la Casa di S. Felice. Era anche la patria del Ven. Merli¬ni. Non era dunque difficile al Santo, che tante volte doveva recarvisi, ottene¬re dalle Autorità di poter visitare i reclusi della Rocca. Egli sapeva, per propria esperienza, per gli anni passati nelle carceri di Bo-logna e nelle Rocche di Imola e Lugo, che nelle prigioni non vi sono solo rei, ma anche innocenti. Sapeva quanto fosse dura la vita carceraria; conosceva le sofferenze, le angherie, le ingiustizie; conosceva quel vitto scarso e stoma-chevole, i soprusi dei secondini, l’immoralità, le sevizie per estorcere confes-sioni, le bestemmie, le invettive. L’ansia di entrare fra quelle mura per porta¬re una parola di conforto e di speranza ai detenuti quando passava per la cit¬tà, lo attanagliava, si faceva sempre più viva. Si sforzava di muovere a penti¬mento i più incalliti, percuotendosi fino al sangue con la disciplina al loro co¬spetto per «ammollire i loro cuori». Poi, quando rientrava a S. Felice, diceva ai confratelli: «Quanto bene, quan¬ti frutti nella continua missione nella Rocca!». Conoscendo il grande cuore del suo protettore ed amico, Card. Cristaldi, gli rivolgeva continue suppliche affinché intervenisse presso il Papa perché si usasse più misericordia che giustizia verso i sinceramente pentiti; fossero liberati gli innocenti, vittime di odi politici o vendette private; fossero trattati umanamente e dignitosamente anche i peggiori delinquenti. Quando si trova-va a Roma, si recava nei vari Dicasteri competenti a raccontare episodi toc-canti di detenuti ravveduti, spingeva a fare indagini più serie ed accurate per accertare la verità su chi si proclamava sinceramente innocente. Si adopera¬va affinché si usasse più clemenza e si migliorasse il vitto, si curassero i mala¬ti e si sostituissero gli aguzzini… Tra 1′ altro, così dice nella lettera: «Il mio cuore esulta e resta consolatissimo delle buone disposizioni dei detenuti; le notizie sulla perseveranza nel bene di quei poveretti sono delle più consolanti! Voglio con gioia metterne a parte il grande cuore paterno dell’ Eccellenza Vo¬stra, affinché possa anche Lei farne gran festa, come si fa certamente nel Cie¬lo per il ritorno a Dio di queste pecorelle smarrite». Sul piazzale del Convento di S. Felice, davanti alla bellissima chiesa roma¬nica, ora restaurata e riportata all’antico splendore artistico, sorse anni fa, per volontà dei Missionari, un bel monumento in bronzo. S. Gaspare dal pie-distallo leva in alto il Crocifisso, come a benedire perennemente le valli, i ca-solari, le campagne dell’ Umbria dolce. Ma il monumento più fulgido sorge perenne, di generazione in generazione, nel cuore di quel popolo, che, forse dopo Francesco d’Assisi, nessuno ha mai amato più di S. Gaspare. La sua Messa S. Gaspare, giunto alla soglia del sacerdozio, se ne sentì talmente indegno che, se non fosse stato l’amico S. Vincenzo M. Strambi, vescovo di Tolentino, a persuaderlo che i suoi scrupoli erano solo una raffinata opera diabolica per mandare a monte il gran bene ch’ egli un giorno avrebbe fatto alle anime, non avrebbe mai salito l’Altare. Superata ogni titubanza, in seguito, fu sempre lieto e gioì della sua ordina-zione sacerdotale e ne celebrava con particolare raccoglimento 1′ anniversa¬rio. Aveva poi tanta stima per i Ministri di Dio, baciava loro le mani e li chia¬mava sempre «Venerabili Fratelli». Non tralasciò mai di celebrar Messa. Il martirio maggiore, durante la prigionia, non fu causato tanto dalle sofferenze fisiche, quanto dal divieto di dir Messa e, quando egli ed i compagni, eluden¬do la stretta sorveglianza dei secondini, riuscirono ad offrire di nascosto il Sa-crificio dell’Altare, «la prigione divenne un paradiso». La sua giornata si poteva considerare divisa in due parti: una di preparazio¬ne, l’altra di ringraziamento alla Messa. Riservava a sé, quand’ era certo di non urtare suscettibilità, «il privilegio» di tener lindo l’altare del SS.mo Sacra-mento, cambiar 1′ acqua ai fiori – non ammetteva fiori finti – spolverare, cura-re che la lampada fosse perennemente accesa, che fossero immacolati i sacri lini e ben dorati gli interni dei calici, delle patene, pissidi ed ostensori. Quan-do attendeva alle pulizie dell’Altare amava chiamare intorno a sé gli Allievi per infervorarli a servire all’ Altare e così prepararli al sacerdozio. «Ma, dice-va, il vaso più lindo per ricevere Gesù dev’ essere la nostra anima!»; perciò si confessava, egli cosi santo!, anche più volte la settimana. Era ardentissimo lo zelo col quale si premurava di erigere Confraternite del SS.mo Sacramento, di organizzare Ore di Adorazione diurne e notturne, e processioni. eucaristi¬che. Durante le Missioni non mancava mai di portare con gran solennità la Comunione agli infermi e di concluderla con la Comunione Generale. Ogni decisione d’importanza veniva da lui presa solo dopo aver pregato intensa-mente nella S. Messa. Ed ora ecco qualcuna delle unanimi e numerose testimonianze raccolte dai Processi: «Celebrava con la massima devozione ed era sempre infiammato in volto durante la Messa». «Nel celebrare sembrava un angelo». «Il suo volto si infiammava ed eccitava gran devozione anche negli astanti». «Durante la ce-lebrazione era tale la sua emozione che, a volte, dai suoi occhi sgorgavano co-piose lacrime e si temeva svenisse sull’altare». Quando celebrava privata-mente, dopo la Consacrazione, faceva cenno al sacrestano di lasciarlo solo e tornare dopo un’oretta. Quando il sacrestano tornava, lo trovava sempre in estasi. I fedeli accorrevano numerosi, quando sapevano che celebrava il Can. Del Bufalo: «Andiamo ad ascoltare la Messa di un santo!» Non è da stupirsi, perciò, se durante le sue Messe si siano verificati tanti episodi straordinari. Abbiamo già narrato altrove le voci arcane ascoltate a Loreto e a Montefalco e narreremo la meravigliosa visione delle catene d’oro. Il Santo stesso confidò al suo confessore P. Taviani della Compagnia di Gesù, che, dopo la Consacrazione sentiva spesso «voci superne» che gli predicevano le sofferenze che avrebbe incontrato nell’apostolato. A Pereto, durante la Missione del 1827, in attesa che arrivasse il Clero nella chiesa di S. Salvatore ad ascoltare la sua conferenza, egli si raccolse in pre-ghiera davanti all’ altare. Man mano che quei sacerdoti entravano, si ferma-vano incantati nel vederlo avvolto in un alone di luce, sollevato di qualche palmo dalla predella dell’ altare, con lo sguardo fisso al Ciborio. Analogo episodio s’era già verificato nel 1824 a Campoli Appennino nella chiesa della Madonna delle Cese, alla presenza dei fedeli. Erano li presenti anche le zie del Missionario D. Silvestri, Luigia e Maria, la quale, proprio in seguito a quel prodigio, si sentì spinta a farsi suora Benedettina. Avremo oc-casione di narrare anche altri episodi simili, ma qui vogliamo concludere facendo una considerazione. Solo la luce e il profumo dell’ anima sacerdotale di Gaspare p6tevano meritare privilegi così eccelsi! Un profumo misterioso che spesso sentiva, anche materialmente, chi lo accostava. Gaspare non usava profumi, ma certamente quell’odore promanava mira-colosamente dalla sua anima, che, al dire dei suoi confessori e compagni, aveva conservata intatta l’innocenza battesimale. Perciò veniva comunemen¬te chiamato: «Il celeste Del Bufalo». Quel dito! Lo scopo più assillante, se non addirittura l’unico, di tutta la vita di S. Ga¬spare fu quello di riportare le anime a Dio attraverso la «predicazione ai po¬poli del Cristo Crocifisso, che per redimerli versò il suo Sangue». Si legge che nei primi anni della sua vita, fin da piccolo, saliva su una se¬dia o un tavolo davanti all’ altarino, che egli stesso aveva eretto in casa e, per-cuotendosi con una corda, gridava: «Convertitevi peccatori!». Questo fu il gri-do accorato di tutta la sua vita nelle chiese e sulle piazze dell’ Italia Centrale. È ovvia la domanda: «E quanti ne convertì?» Scorrendo la sua lunga e intensa vita d’apostolato e leggendo le cronache di tante Missioni, risponderemmo, senza tema d’esagerare: Milioni! Ricordate l’episodio dell’ossessa, che certa-mente aizzata dal demonio che ne sapeva abbastanza, gli gridò arrabbiata: «Va’ via, ladro di anime!»? Gaspare, ancor giovane, era chiamato Apostolo di Roma; poi fu comune¬mente chiamato L’Apostolo. E degli Apostoli ebbe la fede, il fervore, le ansie, la santità e perfino i doni straordinari. Alla parola univa digiuni e preghiere e, di fronte ai più incalliti nel male, anche la disciplina a sangue. Come S. Paolo, nella predicazione rifuggiva da parole vane e predicava soltanto il Cristo Cro-cifisso. Il Merlini testimonia: «In lui era lo Spirito del Signore a parlare. Alla forza della sua parola corrispondeva la santità della sua vita». Era dunque tut-to qui il fascino col quale conquistava perfino i più ostinati. Dio, da parte sua, non mancava di suggellare «con i suoi segni» l’apostolato del Santo. Di episodi straordinari se ne potrebbero narrare proprio a migliaia. Qui è un libertino che abbandona le turpitudini o “una prima donna” che ve- dendolo disciplinarsi, si compunge e muta vita; là una vanitosa che diviene penitente. Giovani dissoluti, entrano nei conventi più austeri; alti ufficiali che abbandonano la brillante carriera per prendere il saio; persone da anni lontane da Dio, che ritornano alle pratiche religiose; peccatori, che appena fi-nita la predica, gli si gettano ai piedi per confessarsi! Sacerdoti sacrileghi, Set-tari e Carbonari, ricchi avari, donne dissolute, sicari, ladri inveterati, e terri-bili briganti si convertono. L’elenco non finirebbe più! In questi Fioretti abbiamo già narrato qualche episodio significativo, altri ne narreremo ancora. Ma ora sentite ciò che avvenne in un piccolo paese del¬la Romagna. Era prassi che ovunque i Missionari, al loro arrivo in paese, fossero accolti dal popolo esultante, tra canti e suono di campane; li invece 1′ accoglienza fu freddissima. Perfino il clero, alquanto contrario alla Missione, era assente, e Gaspare quella prima sera in chiesa si trovò davanti a poche vecchiette. Ai compagni abbattuti disse: «Quando si incomincia così, i frutti saranno enor-mi!» «Scese in piazza» a conversare con i cittadini, fece capolino nelle bettole e addirittura nei Circoli dei Massoni, che 1′ avevano minacciato di morte. «Ami-ci vi aspetto in chiesa! Io ho avuto il coraggio di venire da voi; se avete ugual coraggio, tocca a voi ora venire da me». Era dunque una sfida! Un vero romagnolo non si sarebbe giammai mac¬chiato di codardia. Dopo tutto, un giovane prete così coraggioso, non 1′ aveva¬no mai incontrato, sicché destò anche qualche simpatia. Bastarono due tre prediche a fare il resto. Conversioni e confessioni a bizzeffe! Una sera,proprio laggiù, all’ingresso, quasi temesse che la chiesa gli cades¬se addosso, un individuo conosciutissimo e assai temuto in paese, era in ascolto visibilmente turbato. Quando tutti erano già usciti, fermò il sacresta¬no che stava per chiudere, e gli disse: «Aspetta, voglio confessarmi». Il vecchietto sbalordito corse dal Santo: «Padre, padre! C’è un tale che dice di volersi confessare… io lo conosco, lo conosco tutti… Ne ha ammazzati!!! Sarà carico di armi ed è certamente venuto per farle la pelle». Gaspare, per tutta risposta, andò incontro all’ uomo e lo invitò con dolcez¬za: «Venite, fratello!». Quegli si inginocchiò piangendo ai suoi piedi: «Padre santo, ero entrato per curiosità un momento in chiesa e vi ho sentito dire: «Fratello, tu che uccidi…», e puntavate verso di me il vostro dito. Esso si vvi-cinava sempre più minaccioso verso di me, poi è diventato enorme e mi ha schiacciato il petto! Ho passato la mano sotto la camicia e tirandola fuori, l’ho guardata… Sanguinava… Basta, non ne posso più, padre santo!». «No, fratello – gli disse S. Gaspare – non era il mio dito, ma il Dito di Dio, che ti ha toccato il cuore, l’ha ferito col rimorso. Ora le tue lacrime hanno la¬vato ogni peccato, ripara il mal fatto e cambia vita. Sono certo che da questo momento sarai un uomo felice!» E così fu. La vendemmia miracolosa Accadeva anche che perfino i parroci per svariati motivi non sempre gradi-vano le Missioni, sebbene volute dai Vescovi e desiderate dalla popolazione. In un paese di Romagna il parroco, prima che il Santo si recasse nella sua parrocchia, gli fece sapere a chiare parole che non era affatto, né desiderato, né gradito e quindi non sarebbe stato bene accolto. Gaspare però rispose che sarebbe andato ugualmente, perché così gli era stato ordinato dalla legittima Autorità ecclesiastica. Vi andò, ma tra la popolazione festante che l’accolse, mancava proprio il parroco. Perché? Prima che giungessero i Missionari, as-salito da fortissime febbri, fu costretto a mettersi a letto e solo a Missione fini-ta, cominciò a migliorare. Ovviamente il popolo volle prima accertarsi se era veramente malato, e poi sentenziò: «Castigo di Dio!». Ma non era solo il parroco a non gradire la Missione. Quando giunsero i Missionari si era in piena vendemmia e si sa che, se il raccolto è abbondante, la vendemmia è anche occasione per stare allegri, amoreggiare, cantare e im-bandire laute cene. I padroni borbottavano: «Questi corvi neri son venuti a guastarci la festa!» Il Santo, che non aveva scelto di suo capriccio quel perio-do, cercò di fare opera di persuasione. Assicurò i contadini, e i padroni in mo-do particolare, che le prediche non avrebbero causato né perdita di tempo, né danno alcuno; anzi Dio avrebbe benedetto il raccolto, e si poteva stare ugual-mente allegri, ma senza peccare. Alcuni, persuasi, si recarono puntualmente alle funzioni; altri invece, non solo se ne infischiarono, ma si diedero anche ad ostacolare l’opera del Santo. Or avvenne che, terminata la Missione con gran successo, anche padroni e contadini tirarono le… somme, e coloro che avevano osteggiato il Santo «si ebbero un raccolto molto scarso, valutato la metà degli anni peggiori, gli altri addirittura il doppio degli anni migliori e uva di prima qualità!». Giacché siamo in tema di vendemmia e quindi di vino, ci piace qui raccontare anche quanto avvenne a Prossedi nel Lazio. Prossedi era la patria dei famigerati Giuseppe De Cesaris e Antonio Vettori, briganti di prim’ordine e ferocissimi che «non risparmiavano neppure i loro parenti». Nel 1823 Gaspare vi si recò nel mese di maggio col Valentini, D. Pierantoni e il Can. Bonderli. Fu acclamato angelo di pace: «…piegò gli animi torbidi di vendetta, strappò dalle mani dei malvagi armi sanguinarie, allontanò i giova¬ni dalle vie del delitto, inculcò la devozione al Preziosissimo Sangue e assicu¬rò la popolazione che, se ne fosse stata devota, l’infausta piaga del brigantag¬gio sarebbe stata sradicata e sarebbe ritornata la bramata tranquillità». Il Sig. Luigi Petoni-Giglioli, notabile del paese, volle aver l’onore di ospitare in casa sua Gaspare e i suoi Compagni per tutto il tempo della Missione. Egli stesso in una lettera così narra: «Fui lieto d’ospitare i santi Missionari ed il Can. Del Bufalo per gratitudine del bene che facevano al mio paese. Avendo loro somministrato il vino, conobbi apertamente che questo riuscì migliore di altre botti mie proprie e di qualità singolari, il che prima non era. Era vigoroso e di grato sapore e così si conservò fino al termine della botte. Ebbi poi un’an¬nata di raccolto di gran lunga maggiore, che i savi reputarono con ammirazio¬ne il fatto essere straordinario». Il fatto è confermato anche dal Merlini. In parole povere… aveva scelto per i Missionari il vino della qualità più sca-dente che si trovava nella ben fornita cantina, perché essendo uomini di pe-nitenza, avrebbero dovuto accontentarsi di quel che gli si metteva davanti. S. Gaspare si… vendicò addirittura premiandolo! Scherzi di santi! Il prodigio fu ricordato a lungo; anzi si narrava anche che la pia e buona si-gnora del sig. Luigi diceva al marito: «Questo vino miracoloso dobbiamo te-nerlo da conto come una reliquia e berlo un po’ per volta e solo nelle grandi circostanze…» Il marito, però, era di tutt’altro parere. «No, no! Se poi si gua-sta? Bisogna berlo subito e a volontà». Pensiamo che l’abbia avuta vinta proprio il marito! Il tabacco Il fatto che narriamo è autentico e lo racconta sotto giuramento nei Processi di beatificazione lo stesso interessato Michele De Mattias di Vallecorsa in Ciociaria. E non solo lui, ma lo confermarono anche vari altri testimoni. Dobbiamo premettere che, anche sotto lo Stato Pontificio, più o meno co¬me ora, non poteva essere coltivato tabacco senza l’autorizzazione del Gover¬no, essendo considerato il prodotto monopolio di Stato. Narra dunque il De Mattias: «Nel 1827, mio padre aveva fatto domanda per una piantagione di tabacco e non vedendo arrivare il permesso in tempo uti¬le, piantò il granturco. Venne il Can. Del Bufalo e mio padre si lamentò con lui: «Per i poverelli e i non raccomandati, i permessi non arrivano mai». Il Ca-nonico promise i suoi buoni uffici e finalmente il permesso arrivò. Ci sembrò proprio una presa in giro, perché ormai la stagione propizia era passata da un pezzo! Gaspare disse a mio padre di aver fiducia nella Provvidenza e dì pian-tare urgentemente il tabacco. Si recò anche sul campo, dove già sbucavano le pianticelle di granturco e lo benedisse. Mio padre tentennava. Sì, P. Gaspare era senza dubbio un santo e tutto ciò che diceva s’avverava, ma… dopo tanto lavoro, sradicare le piante di grantur¬co per piantare tabacco fuori tempo, gli sembrava cosa poco sensata. Si ri¬schiava di non raccogliere né granturco, né tabacco. Lo avrebbero preso tutti per un allocco! Alla fine si decise per il tabacco e a suo tempo, che raccolto e che qualità! Tutti si recavano a guardare con curiosità il campo del miracolo. A Frosinone fu premiato come il migliore di tutto il raccolto e il riconoscimento avvenne senza raccomandazioni e regali sottomano. Devo anche aggiungere che la terra di mio padre non era nemmeno la più adatta, anzi a dire il vero, era inferiore a quella degli altri coltivatori di tabacco». Qualcuno penserà: Ecco un santo che alimenta… i vizi! Ecco un santo che manda a male un campo di granturco, necessario al nutrimento, per sqsti-tuirlo con un campo di tabacco, che dovrà andare in fumo ed alimentare un vizio, che nuoce anche alla salute. Bisogna però riflettere, innanzi tutto, che allora non si sapeva che il tabacco fosse tanto nocivo come si è accertato ai nostri tempi, ma anche che veniva pagato molto bene. Il Santo dunque, se operò un prodigio del genere fu solo per aiutare un poveretto che navigava in cattive acque, e che non avrebbe mai potuto dare una bustarella come tanti altri per avere quel permesso. Insomma il Santo volle compiere un atto di ca-rità e di giustizia. * * * Corriamo ora all’anno 1833 e precisamente nel mese di gennaio, quando Gaspare stava predicando una Missione a Zagarolo. Chi non sa quanto, nei piccoli centri abitati quasi totalmente da pastori, contadini ed operai, siano profondi gli odi e frequenti le vendette? Gaspare, come abbiamo narrato, aveva appena compiuto un vero e proprio miracolo per convincere una madre a perdonare 1′ uccisione della figlia, ed ecco che si trova di fronte ad un altro caso, nel quale, se ancora non c era scappato il morto, avrebbe potuto esserci da un momento all’ altro. Un uomo, anni addietro, aveva commesso un delitto veramente abbietto. Spinto dall’ odio contro un compagno di lavoro, senza farsi scoprire, gli riem-pì la casa di tabacco rubato; quindi andò a denunziarlo alla gendarmeria co¬me contrabbandiere e ladro. L’innocente fu subito incarcerato e condannato; così la famiglia fu gettata sul lastrico e nel disonore. Non è omicida soltanto chi toglie la vita con un’arma, ma anche chi uccide il prossimo nell’onore, e per giunta, causa la rovina d’una famiglia. Una sera, l’assassino, ascoltando le prediche del Santo, non resse più al ri-morso. La voce del Santo Missionario gli penetrò implacabilmente nell’anima e lo sconvolse. Durante la notte, non potendone più, s’alzò e corse a gettarsi ai suoi piedi, narrandogli ogni cosa. «Sì, figliolo, ma non basta pentirsi. Bisogna riparare, risarcire…». «Sì, pa¬dre, risarcirò fino all’ultimo baiocco!». «No, non basta! Quell’uomo è in car¬cere, è innocente e disonorato. Occorre dire la verità». L’uomo si irrigidì. «Comprendo, continua Gaspare, ma cosa vorresti tu se egli l’avesse fatto a te? Coraggio, andiamo dai gendarmi a dire la verità. È buio, nessuno ci vede. Do-po sentirai tanta gioia nel cuore. Il giudice comprenderà, sarà clemente, e so-prattutto Lui, il Crocifisso, ti stringerà al suo Cuore e ti assolverà». Anche il povero calunniato, quella notte, uscendo dalla prigione, abbracciò il nemico e lo perdonò, rinunciando alla vendetta. Non sono forse questi i più bei miracoli di S. Gaspare nelle sue Missioni? Il palco S. Gaspare quasi detestava il pulpito attaccato lassù, in alto, alle pareti del¬le chiese. Egli volle essere sempre missionario e non un «predicatore di car-tello»; perciò, anche se le sue prediche avevano «squarci di sublime oratoria», voleva che fossero un colloquio con i fedeli. Nel famoso «Metodo delle Mis-sioni» lasciato ai suoi figli, prescrisse che fosse usato sempre il palco e mai il pulpito, e così volle anche che in tutte le chiese dell’Istituto vi fosse il palco in permanenza. Non appena vi saliva, s’inginocchiava a baciarlo, issava il grande Crocifis¬so, che portava sempre con sé, esponeva il quadro della Madonna del Prez.mo Sangue e poggiava un teschio e la disciplina sull’inginocchiatoio. Niente di teatrale, perché, diceva: «Sono il Crocifisso e la Vergine a tener la Missione». Quanto amava quella ressa! Godeva nel vedere i fedeli assiepati intorno al palco, quasi aggrappati alla sua «sottana» e con essi teneva lunghi ed ardenti colloqui, anche se era sempre e solo Lui a parlare! Forse per questo la sua oratoria era meno dotta, brillante ed elevata? Ascoltiamo qualche giudizio di intellettuali, del clero, di eminenti persona¬lità della scienza. «Aveva doti così straordinarie che lo rendevano non solo perfetto oratore, ma vero apostolo dei tempi – Era chiamato, per la sua parola, «Terremoto spiri-tuale» – Nella predica dell’ Inferno l’eloquenza di Gaspare era terribile e grandiosa! – Nella predicazione, anche se semplice, denotava acutezza d’inge-gno e dialettica – Possedeva al più alto livello e con sicurezza la dottrina teolo¬ gica, la Scrittura, la Patristica – Aveva il dono della parola ed anche se predi-cava di solito fino a dodici volte al giorno, mai si ripeteva – Possedeva dottri¬na somma, forza d’argomenti, chiarezza, facilità nel dire. – Era veemente, pia-cevole, commoveva, infiammava nell’ amor di Dio. – Era un S. Paolo redivivo, un nuovo 5. Vincenzo Ferreri, un’arca di scienza, un fiume d’eloquenza! Era un incanto sentirlo parlare! Perfino il clero, di gusti così difficili, accorreva ad ascoltare le sue prediche e le conferenze ad esso riservate, perché lo ritenevano dotto e santo. Sappiamo dov’ egli attingesse la forza della sua predicazione: dalla costante unione con Dio. Preparava le sue prediche ai piedi del Crocifisso. A chi gli chiedeva perché mai, a volte, cambiasse argomento appena giunto sul palco, rispondeva: «In quell’ istante il Signore me lo ha ispirato». A queste prediche ispirate seguivano immancabilmente conversioni strepi¬tose dì grandi peccatori presenti in chiesa. Era efficace perché parlava solo di Dio e perché la sua parola «era permeata di zelo e somma unzione». Ognuno in essa scorgeva la voce di Dio rivolta al proprio cuore e un richiamo dalla via della perdizione. Quante cose meravigliose accadevano intorno a quel palco! Quasi sempre dovevano issarlo in piazza, perché anche le chiese più ampie non contenevano la gran folla. Vicino al palco si accatastavano armi, emble¬mi, stampe cattive per farne un gran falò. Li si abbracciavano acerrimi nemi¬ci e intere famiglie e popolazioni divise dall’ odio; dal palco partiva la voce del Santo, che s’udiva a volte a miglia di distanza, anche da chi s’era tappato in casa per non ascoltarlo. Raggi di luce avvolgevano nel loro splendore il Croci-fisso, la Vergine e il Santo. Lassù Gaspare si flagellava a sangue, facendosi portare la statua dell’ Addolorata col Cristo Morto, cosicché anche i peccatori più ostinati correvano a fermarlo e si gettavano pentiti ai suoi piedi. Sul palco, non poche volte, Gaspare parlando del Sangue di Gesù… se ne volava in estasi! Nel 1825, nella famosa Missione di Gaeta, si verificarono in un solo giorno diversi eventi portentosi. Dopo la sua preghiera, in tutti i pozzi e le cisterne sorse 1′ acqua, dopo lunghi mesi di siccità. Una pubblica peccatrice che lo irri-deva, mentre egli predicava in Piazza del Mare, morì improvvisamente nella notte e il corpo fu rinvenuto al mattino orribilmente trasformato. Nella stessa piazza, mentre predicava, si ruppe il ramo d’un’alta pianta carica di gente ed egli con un gesto lo fermò e tutti poterono mettersi in salvo. In quella stessa predica, mentre parlava con grande ardore del Sangue di Gesù, fu investito da un alone dì luce e fu visto sollevarsi dal palco per più di tre palmi. Era pre-sente anche un Reggimento di soldati di stanza nella città. Un giorno, Fratel Falcione chiese ad un contadino che guardava incantato il Santo e piangeva come tutti gli altri fedeli: «Ma tu capisci quel che dice il P. Gaspare?» «Quel che dice – fu la risposta – non saprei spiegarlo, ma lo capisco. Egli ci fa piangere e ci converte tutti!». Questo voleva il Signore, questo voleva S. Gaspare! Estasi L’èstasi è lo stato dell’ anima priva momentaneamente dell’ uso dei sensi, rapita nella contemplazione ed unione con Dio. È assai comune nei santi, nei quali l’intensa contemplazione del Creatore causa la totale sospensione dell’esercizio dei sensi. Non odono, in quello stato, né vedono altro che il loro amato Signore! Tra i molti carismi dei quali Dio arricchì S. Gaspare, vi fu an-che quello dell’èstasi, tanto che alcuni scrivono: «La sua preghiera fu un’esta¬si continua». Durante gli Esercizi Spirituali dati alle Clarisse di Piperno, un giorno, par-lando dell’ immenso amore di Gesù nel donarsi alle anime nell’ Eucarestia, «ogni tanto rimaneva fuori di sé» e le buone suore erano li incantate a guar-darlo a lungo. «Andate le Suore a mensa, egli rimase in ginocchio ai piedi dell’Altare. Più tardi dalla portinaia recatasi in chiesa a metter olio nella lam-pada, fu veduto immobile come una statua, quasi stesse ad ascoltare una vo¬ce proveniente dal Tabernacolo». La suorina si guardò bene dal disturbarlo, ma poi, quando andò a confessarsi da lui, gli chiese con ingenuità quanto tempo fosse rimasto rapito in Dio. Gaspare si schermi rispondendo in modo evasivo: «Sempre, mia buona sorella, noi dobbiamo rimanere assorti in Dio». È unanime la testimonianza di tantissime persone qualificatissime nell’as-serire che il Santo «non trovava gusto che nella preghiera», che «protraeva per ore» ed era «tutto felice quando poteva ritirarsi tranquillo in camera o nascondersi in qualche angolo della chiesa per pregare senza essere disturba-to» «Oh! quant’é dolce la voce di Dio al nostro cuore nel ritiro della preghiera!» soleva esclamare. Erano dolcissime le tante giaculatorie, che, nell’impeto dell’amore verso Dio, gli sgorgavano dal cuore e da questo salivano sponta¬nee sulle sue labbra. S. Vincenzo Pallotti afferma: «Quando Gaspare pregava era un serafino». Quando, cosa davvero insolita, non arrivava con puntualità agli atti comuni, sapevano dove cercarlo: davanti al Ciborio! A S. Felice pas¬sava nottate intere in preghiera nella cripta. A Todi una sera, terminata la predica, si raccolse davanti al Tabernacolo. Giunta l’ora di chiudere il tempio, il sacrestano fece il consueto giro, agitan¬do rumorosamente le grosse chiavi per invitare gli eventuali ritardatari ad uscire. Scorse allora Gaspare in ginocchio, immobile come una statua. Fece «più fracasso», nulla! Gli si accostò e lo scosse più e più volte. Finalmente Ga¬spare «ai violenti strappi», ritornò in sé. S’alzò, chiese scusa e se ne andò sere-namente. Il suo volto era radioso! A S. Maria del Fosco, ad un km. da S. Felice, D. Camillo Rossi, entrando in chiesa, lo vide in estasi davanti all’Altare. Volendo ben accertarsene, lo chia-mò ad alta voce e lo scosse: «ma egli non sentì nulla». Le estasi non avvenivano solo in chiesa. D. Pedini e D. Primavera asseri¬scono che si verificavano anche durante la ricreazione ed in particolare quan¬do il discorso cadeva sul Prez.mo Sangue. La stessa cosa avveniva nei lunghi e frequenti viaggi di predicazione. Il Confaloniere di Albano narra che, un giorno, lo vide in estasi, con la corona del rosario in mano, in Piazza Monteci-tono; gli si accostò e gli baciò la mano, ma egli non se ne avvide. È il caso di dire: Meno male che allora non c’era quella bolgia di auto dei nostri tempi!. D. Giovanni Pedini racconta che tante volte, bussando alla sua camera e non ottenendo risposta, spingeva l’uscio e Gaspare era li in estasi davanti al Crocifisso. Anche Mons. Muccioli asserisce d’ avervelo sorpreso più volte. Fratel Panzini e Fratel Bartolomeo che gli furono vicini per tutta la vita, asse-riscono che tante volte, giunta 1′ ora della predica, mentre la gente che gremi-va la chiesa era in attesa del suo arrivo, erano costretti a correre a chiamarlo in camera sua, dove lo trovavano rapito davanti al Crocifisso, ed egli neppure si accorgeva della loro presenza! Nessuno può meravigliarsi che Dio abbia elargito al suo Santo un dono così straordinario, se legge quanto ci ha lasciato scritto il Ven. Merlini: «Il suo cuore languiva d’amore di Dio; era bramoso d’essere interamente suo; aspi-rava sempre di più al suo Signore… Bisognava conoscere in quale mare d’amore divino navigasse! E ciò posso dire io tanto meglio, perché conoscevo il suo interno…». L’anima di Gaspare navigava nel mare immenso di quell’ Amore che il San¬gue di Cristo era venuto ad accendere sulla terra! Nella tormenta Nella bellissima vita di S. Gaspare narrata dal Merlini nei Processi, trovia¬mo scritto: «Nel dicembre del 1822 il Servo di Dio si recò a Montorio. Cadeva molta neve e dové attraversare vie oltremodo pericolose per circa quattordici miglia a piedi, tra il fioccare e senz’altro riparo in capo che la sola berretta. Cercando dissuaderlo, egli mi disse che, come i rigori della stagione non ri-tengono i soldati, i cacciatori e i pescatori dall’attendere ai loro mestieri, così, e a più ragione, non debbono trattenere i banditori evangelici». Ma la frase più bella che soleva dire ai confratelli quando si lamentavano dei disagi dell’apostolato, era questa: «Se Gesù avesse badato alla fame e al freddo e a tanti altri disagi, non sarebbe mai venuto sulla terra». Può mai star fermo un apostolo, un missionario? Sarebbe un controsenso! Avrebbe potuto mai star fermo un apostolo e missionario come S. Gaspare? Ancora più assurdo! Il Valentini, compagno di tante Missioni, dice: «Anche con la febbre continuava il Ministero, dicendo che dopo avrebbe preso le me-dicine». Un dopo che non veniva mai! Quando gli si consigliava di cambiar clima per curarsi, rispondeva: «Trovatemi un clima dove non si muore e vi andrò». «Per il bene delle anime intraprendeva disastrosi viaggi, affrontando intem-perie, specie nei nostri disagevoli monti, senza badare a fatiche. Egli stesso confessava che, quando trattavasi del bene delle anime, non conosceva timo¬re né fatica, né pericolo, e fiducioso in Dio superava tutto». I suoi viaggi non erano mai corti e comodi, ora sulle carrette, ora su traini poco sicuri, ora con carrozze sgangherate, ora su cavalcature, che bene spesso lo disarcionavano. «Il più delle volte percorreva a piedi lunghe miglia di strade fangose fra l’imperversare della pioggia e il cadere fitto della neve, con febbre e tosse convul¬sa; e, mentre voleva che i compagni riposassero e si curassero, egli, imperter¬rito, non conosceva né riposo, né cure». «Nei lunghi e scabrosi cammini, assi¬derato dal freddo o soffocato dalla calura, soleva ripetere ai compagni: Spe¬riamo all’ arrivo di poter dare molte anime a Cristo!». «Andava di casa in casa, di paese in paese, di regione in regione, sacrifican-dosi nella sofferenza». Benché sfinito per la stanchezza, dalla febbre e dalle malattie, non voleva mai riposare. «Ora il Signore vuole tutto da me – diceva -mi riposerò in Paradiso». «Non lo fiaccavano la cattiva salute, la povertà, le scomode dimore, gli incomodi, l’indigenza, il cibo scarso o disgustoso, il fred-do, il caldo, la palude malsana, le opposizioni, i pericoli. Ecco una sua frase celebre, tante volte ripetuta: – Anche se si scatena tutto l’inferno, io, per sal-vare le anime, nulla temo: Dio è con me, Dio vuole così!». Il Merlini racconta ancora: «Un giorno, predicando all’aperto, sotto una tormenta di neve, la veste ne fu talmente coperta, ch’ egli sembrava amman-tato da un bianco lenzuolo. Un fratellone cercò di ripararlo con l’ombrello, ma egli lo rifiutò energicamente e additandogli il popolo, che lo ascoltava im-mobile, imbiancato come lui, disse: – Impariamo da loro! – A quelle parole, i sacerdoti che gli erano attorno con l’ombrello aperto, lo chiusero immediata-mente». Da Roccagorga a Prossedi «sorpreso da dirottissima pioggia, diede l’unico ombrello ai compagni e si prese addosso tutta quell’acqua». Arrivati a Frosi-none, entrò grondante in casa. Gli si fecero tutti intorno per aiutarlo ad asciu-garsi, ma anche per riprenderlo affettuosamente. Egli, come al solito, rispose sorridendo: «Si fa solo e tutto per l’amore di Dio!». Dal 17 al 21 dicembre 1827 tenne una Missione a Valcareggia, della quale il sindaco Baldassarre Rogai così scrive: «In quella stagione così rigida, il Can. Del Bufalo, dopo le due grandi prediche serali, in chiesa, ad un’ora di notte, non curante né di neve, né di geli, né della freddissima tramontana, si recava per le strade per invitare ad alta voce il popolo alle prediche e i peccatori a tor¬nare a Dio. Quando si trovava davanti a cuori duri come macigni, lì, all’aperto, dava di mano al flagello della disciplina, sua compagna indivisibile». Ora invitiamo il lettore, per farsi una pallida idea dell’ eroismo del santo, a seguirlo in uno di quei disastrosi viaggi, nei quali, anche chi l’accompagnava era costretto a fare 1′ eroe, pur non avendone la stoffa. Il Vescovo di Ariano Irpino lo pregava ripetutamente d’andarvi a tenere una Missione dal giorno dell’ Epifania in poi. Gaspare con alcuni compagni partì da S. Felice dopo il Natale dello stesso 1827. Seguiamolo su una carta geografica, così in rapida corsa: S. Felice, Spoleto, Rieti, Antrodoco, l’Aquila, Sulmona, Castel Di Sangro, Isernia, Venafro, Capua, Avellino, Ariano Irpino! Per quei tempi era il percorso più breve e… più comodo! Basti osservare il continuo succedersi di montagne innevate e frastagliate, di valli percorse da fiumi e torrenti vorticosi da guadare e dover viaggiare con mezzi di trasporto tanto precari! Una vera grande e terribile avventura! Non possiamo qui riferire le mille peripezie; ma ecco in breve almeno qual¬che appunto, che basterà darci un’idea più o meno esatta di quanto avvenne. A Sulmona, dove il Santo era già stato, saputo del suo passaggio, quell’ otti¬ma popolazione gli andò incontro per rifocillare i Padri con cibi caldi; furono offerti in dono anche i famosi confetti, che però Gaspare, come suo solito, do-po averne assaggiato un paio per non offendere i donatori, fece distribuire ai poveri. A Castel Di Sangro, per l’infuriare della tormenta, la carrozza, spinta da un vento furioso, si rovescio e rimase quasi sepolta dalla neve, sicché dovettero salire a piedi per qualche miglio su per quelle montagne. Dopo la mezzanotte finalmente scorsero un Convento, dove chiesero ospitalità, ma dovettero ac-contentarsi di passar la notte sul nudo pavimento, avvolti in una coperta. Isernia era stata sconvolta, in quei giorni, da un catastrofico terremoto – come si vede, da secoli quelle povere popolazioni ne sono tormentate a ripetizio¬ne! – e il Santo con gli altri Missionari, anziché chiedere ospitalità e riposo, si diedero ad aiutare per due giorni, come potevano, i poveri terremotati. Attra-versando fittissimi boschi e tanti dirupi, pericolosissimi non solo per le asperi¬tà e la neve, ma anche per i lupi e più ancora per i feroci malviventi che li infe¬stavano, raggiunsero Venafro, dove finalmente ebbero la gioia «d’essere ac¬colti con festa dagli ottimi Padri Cappuccini, che li rifocillarono e diedero ospitalità con tanto amore». Ariano è posta molto in alto e per arrivare furono costretti a far quella salita a piedi «per una strada lunga, a tratti ghiacciata e a tratti fangosa per la neve e per una pioggerella ostinata, scivolando e cadendo». Avuta notizia del loro arrivo, Vescovo, clero e popolazione gli andarono in-contro e si trovarono di fronte ad un gruppetto di Padri irriconoscibili, bagnati ed imbrattati, dal viso visibilmente segnato da tante fatiche, oramai sul punto di crollare! «Gaspare, inzaccherato e spossato, d’un tratto riprese tutto il vigore delle sue forze e, come nulla fosse, sali sul palco, s’infiammò ed in¬fervorò l’uditorio con una predica meravigliosa sulla perfetta letizia che inon¬da il cuore dell’ uomo quando soffre tutto per il Signore». «Il Signore interveniva di frequente, anche con miracoli, a tutelare la pre¬ziosa esistenza del suo Servo, or trattenendolo sull’ orlo d’un precipizio, dove il cavallo sdrucciolando l’aveva fatto cadere, or facendolo rimanere illeso da improvvisi e pericolosi ribaltamenti del legno, che 1′ aveva fatto ruzzolare tra il fango e la neve, or traendolo neppure bagnato, da fossi e torrenti». Nel recarsi da Offida a Montalto, malgrado che il torrente fosse talmente ingrossato da travolgere terra, sassi ed alberi, siccome il cavallo si impennava e rifiutava di traversarlo, scese e, tra la meraviglia dei presenti, si trasse su la veste e «lo guadò a piedi, sembrando a tutti che camminasse sull’acqua». Nell’andare da Cerreto a Colleamato il cavallo «sdrucciolò con le gambe di dietro, e precipitò col Santo in un fosso profondo; ma egli, invocato l’aiuto dall’Alto, non ricevette alcun danno». A Camerano una delle carrozze dov’erano i deputati della Missione, cadde in un precipizio. I Missionari, tra cui S. Gaspare, che seguivano immediata¬mente in altra carrozza, videro che «mentre l’altro legno precipitava egli le¬vando gli occhi al cielo tracciò un segno di benedizione». Scesero dalla carroz¬za, seguiti da alcuni contadini che erano stati testimoni della terribile disgra¬zia, e quale non fu la loro meraviglia nel constatare che né persone, né caval¬li, né carrozza avevano riportato danno. Da Casamari a Sora, ai confini del Regno di Napoli, Gaspare trovò i soldati dell’Esercito Reale, che, suo malgrado, vollero scortarlo. Il cavallo su cui viaggiava il Santo, ad un tratto «s’impennò e ruzzolò, trascinandolo lunga-mente col piede impigliato nella staffa». Gli uomini accorsero atterriti cre-dendo che certamente Gaspare si fosse, a dir poco, rotto una gamba; constatarono invece con grande gioia che non s’era fatto neppure una scalfittura. Nel salire su, verso Penne in Abruzzo, essendo la strada affatto comoda e molto ripida, Gaspare con i suoi avevano preferito farla a piedi. Indi «stimola-ti dal vetturino, salirono sul legno, il quale però, dopo poco cominciò a piega¬re. Gridarono al vetturino di fermare, ma essendo egli alquanto sordo, cre¬dette che dovesse sferzare i cavalli per farli andare più in fretta. Di conse¬guenza il legno ribaltò, rimanendo miracolosamente con due ruote sull’ orlo del precipizio e due sospese nel vuoto, così restando finché non arrivarono i soccorsi. Il Canonico, che v’era dentro, continuò imperturbabile in orazione, com’era solito far nei viaggi, come nulla fosse accaduto». È bellissimo il seguente episodio avvenuto tra Anagni ed Acuto, che ci vie¬ne raccontato dal Valentini. Questi, in pieno inverno, aveva accompagnato S. Gaspare ad Anagni, dove desiderava aprire una nuova Casa di Missione. «Il Vescovo, male informato sul conto di Gaspare e della sua Congregazione, non 1’accolse troppo bene e il segretario del vescovo giunse anche a dirgli: Le Missioni? Predicazione ormai sorpassata. Mi meraviglio come il Papa ancora le permetta». Gaspare, quando sentì quell’ offesa al Papa rispose al segretario per le rime! I due Missionari partirono da Anagni, col cuore ferito, ma lieti di aver sofferto quell’ affronto per 1′ amor di Dio, e si avventurarono su due ca-valcature, in una tormenta di neve, tra quelle montagne verso Acuto, senza neppure conoscere la strada! «Lungo il viaggio non 1’orma d’una bestia o d’uomo! Silenzio assoluto in un biancore assoluto!» Gaspare nel ricordare quel viaggio si lasciava andare ad immagini fantastiche e poetiche, com era di fatto il paesaggio, e diceva: «Si viaggiava in mezzo a quel niveo candore, so-migliante ad una tovaglia stesa su un immenso Altare». Fu invece assai tragico il viaggio da Roma a Bracciano nell’aprile del 1837, pochi mesi prima della sua morte, e che forse ne accelerò i tempi. Gaspare prese con sé D. Ricciardi, Fratel Sante Angelini e Fratel Bartolo¬meo e tutto andò liscio fino al bivio che da Cisterna porta a Sermoneta. Quel¬la mulattiera, a causa di una gran pioggia, già disseminata di grosse buche e molti sassi, era divenuta «così melmosa» che il cocchiere non s’accorse d’una grande radice d’albero, che l’attraversava da una parte all’altra. All’urto il le-gno sbalzò rovesciandosi e i cavalli, spaventati, spezzarono i finimenti e si diedero a correre all’ impazzata per la campagna. Tutti rimasero illesi, ma Ga-spare si ebbe una larga ferita alla fronte e fu sbalzato dalla carrozza, che gli andò a finire sopra, schiacciandolo nella melma. Solo a notte tarda arrivarono i soccorsi e finalmente, dopo diverse ore, fu liberato da quella pericolosa po-sizione. Ma in quale stato! Dalla ferita sgorgava sangue, e una tosse convulsa lo scuoteva con tale violenza che in due a malapena riuscivano a sorreggerlo. Furono anche costretti a continuare a piedi, al lume d’una torcia, e ad attra-versare un furioso torrente. Gaspare, anche se di tanto in tanto veniva porta¬to a spalla, dovette in quelle condizioni far molto cammino e fu assalito da febbre violenta. A Sermoneta, Ov’era atteso con ansia, fu accolto con amore, posto a letto e curato con ogni premura. All’indomani i compagni continuarono il viaggio per Bassiano, dove diede¬ro inizio alla Missione. Egli fremeva dal desiderio di parteciparvi e, contro ogni consiglio, dopo appena un giorno di riposo «avendo migliorato alquanto raggiunse i compagni. Assunse la direzione della Missione e le fatiche del mi-nistero con tanto vigore fino al termine, facendo la predica grande al popolo, conferenze al clero e ai vari ceti di persone, nonostante l’infermità, che sape¬va nascondere eroicamente. Non volle mai mettersi a letto, né prendere me-dicine, fidando solo in Dio!». Ma oramai la sua esistenza era minata! Questa volta, nei suoi mirabili dise¬gni Dio non intervenne a salvarlo con la sua Mano amorosa! Era vicino il pre¬mio delle fatiche terrene del suo Apostolo! Da quella caduta, infatti, una tosse secca e persistente lo faceva spasimare notte e giorno, e non lo lascio mai più! Fu il preludio di quell’ Ultim’Ora che s’appressava e che egli aveva tante volte predetta. L’attese con gioia, ripeten¬do continuamente la frase di Paolo: «Bramo ardentemente la dissoluzione della mia carne ed unirmi pèr l’eternità al mio Cristo Signore!». I suoi cari sacerdoti Siamo venuti narrando, qua e là, alcuni episodi che rivelano quanto grandi fossero l’amore, la carità, e le premure di Gaspare verso i confratelli nel sa-cerdozio, ed avremo ancora occasione di narrarne altri. Ci duole solo che, a volte, come in questo capitolo, siamo costretti a limitarci ad alcuni accenni, perché anche solo a farne 1′ elenco, occorrerebbero pagine e pagine. Racconta il Merlini: «Doveva andare spesso, or nell’una, or nell’altra Casa dell’ Istituto per togliere lo sbigottimento e talora supplire alla deficienza dei compagni, dei quali eran sempre di coloro che cadevano infermi. Parmi an¬cor vederlo ilare ed allegro giungere nelle Case, togliere l’abbattimento, co-municare quella santa allegrezza e fiducia, che tutta teneva nel suo Signore. Venuto a Velletri, ov’io mi trovavo infermo, m’incoraggiò, mi fece alzare dal letto, mi fece camminare per la camera, tenendomi sottobraccio, perché mal mi reggevo, poi mi disse di raggiungerlo subito per la Missione a Sezze. Così mi guarì!» Lo stesso Merlini narra anche che, giunto a Poggio Mirteto dopo lungo e disastroso viaggio a piedi sotto la pioggia, fu assalito da feb¬bre gagliarda da perdere i sensi. Dopo poche ore diletto, Gaspare s’accostò al suo capezzale e gli disse allegramente: «D. Giovanni, è già l’ora della sua predica, non si fa il missionario standosene comodamente a letto!» D. Gio¬vanni si alzò immediatamente e si recò in chiesa, dove tenne ben quattordici fervorini per la Via Crucis. Era guarito! Sempre D. Giovanni Merlini altra volta, essendosi ferito seriamente ad una gamba, fu guarito dal Santo con un semplice segno di croce. D. Pietro Spina narra, a sua volta, che mentre era gravemente infermo, ebbe una lettera con la quale il Santo gli ordinava d’andare a predicare il quaresima- le a Pievetorina. Lo scritto di S. Gaspare terminava cosi: «Se ubbidirete, guàri¬rete». D. Pietro ubbidì e guarì. Anche D. Pedini, malato da più mesi con febbre terzana, all’ ordine del Santo di recarsi a predicare, si sentì subito in forze e sen¬za febbre, e poté partire. Nell’ agosto del 1827 mentre S. Gaspare predicava a Pievetorina, ebbe noti¬zia che a Rimini un missionario era moribondo. Accorse subito al suo capezza¬le, lo confortò e benedisse, poi: «Su, su – gli disse – alzatevi, questa volta non morirete!»; e il missionario subito si alzò. Ad Albano, dopo il pranzo, era nell’ orto a conversare con i compagni, quando gli fu consegnata una lettera. La lesse e chiamò D. Ricciardi e D. Pedini: «Presto, andiamo in chiesa a pregare! D. Fontana è in fin di vita». In quella medesima ora, come poi si seppe, D. Fon¬tana, che si trovava a Frosinone, si senfi immediatamente bene e lasciò il letto. Ovviamente Gaspare, nella sua umiltà, attribuì il merito della guarigione alle ferventi preghiere dei due compagni. D’Angelo Primavera, che soffriva da tempo e molto di stomaco, mangiò il cibo benedetto dal Santo e cominciò ad avere più appelito, né senfi più al¬cun disturbo. Fra Bartolomeo, per una caduta durante un viaggio col Santo da Roma ad Albano, si ferì gravemente alla gamba, ma appena Gaspare vi fe¬ce sopra un tratto di croce, guarì. Un altro missionario, recandosi in Missio¬ne, cadde in malo modo dal cavallo e non riusciva a rimettersi in piedi. Si vi¬de, all’improvviso, davanti una donna con un fiasco di vino che lo rincuorò. «Mi manda P. Gaspare, bevete un sorso e fidate in Dio!» «Non bevvi mai vino così buono – affermò egli – né prima, né dopo, nella mia vita!». La donna corse via e spari ed egli montò a cavallo in piena forma. Gaspare in quel momento era lontano le mille miglia. Quando il missionario lo ringraziò, egli gli sorrise e disse: «Quella buona donna te l’ha mandata il Signore!». Come l’Apostolo dell’Apocalisse, Gaspare fu sempre preso, ammaliato, in-namorato del Sangue redentore. Entrato nel solco purpureo di quel Sangue, non per sentimentalismo, ma attratto dal concetto di redenzione universale, che quel Sangue esprime, ne riceveva anche la rivelazione dell’immenso Amore divino. Quel Sangue, perciò, non gli permetteva a lungo solitari voli mistici, ma lo spingeva ad essere un altro Cristo fra la gente. Sentì attraverso quel Sangue, tutto il male della vita, tutta la tristezza del peccato e fece sue, come il Cristo, le sofferenze e le miserie altrui, secondo l’intelligenza del Cal-vario, sanguinando a sua volta per il prossimo. Quando l’anima è colma di sì grande ricchezza, il prodigio della sua attivi¬tà, del sacrificio, della carità non è più un mistero. Il Sangue di Gesù non era per lui un tesoro nascosto riservato solo alla sua gioia, ma il tesoro che anda¬va riversato innanzi tutto nelle anime dei fratelli sacerdoti, come Cristo lo ri¬versò nelle anime dei suoi apostoli, affinché a loro volta lo donassero alle ani¬me. Ecco perché egli, più che per la salute del loro corpo, era in ansia per la perfezione del loro spirito. Da quest’ansia nacque il suo famoso progetto per la riforma per la dignità e per la santificazione del Clero. Quest’ansia lo por¬ro le sue Case di Missione e di Esercizi spirituali al Clero. Quest’ansia lo por¬tava ad erigere i Ristretti degli Apostoli e tenere corsi di conferenze al Clero, ovunque si recasse a predicare le Missioni. «Santi i Pastori, santo il gregge», soleva dire. Ascoltiamo ancora il Merlini: «Quando parlava al clero cercava con ogni mezzo di scuoterlo dall’ inerzia ed esortarlo ad una vita santa e santificatrice. Sebbene con gran rispetto ed affabilità, pure parlava con molta forza e deci-sione, riprendendo la non ordinata condotta, che si tiene talvolta dagli eccle-siastici. Si esprimeva con delicatezza… esortava alla santità , alla preghiera, allo studio, allo zelo, alla dolcezza nel portare le anime a Dio». Quando, con volto radioso, abbracciava il grande Crocifisso, uscivano dalla sua bocca parole dolcissime, che trascinavano all’ amore di Dio e alle lacrime quei sacerdoti ormai conquistati dal suo zelo e dalla sua vita di stenti, fatiche e penitenze! Quanti sacerdoti, anelanti alla perfezione, accorrevano a 5. Felice per rac-cogliersi in ritiro e passare ore indimenticabili di celesti delizie col Santo! Allorché Gaspare incontrava l’anima gemella, si appartava col confratello ed iniziava uno di quei rari colloqui nei quali la parola diventava preghiera, la preghiera estasi, la terra paradiso. Accadde una volta a S. Felice, – ma solo una volta? – che, affiancato, quasi in un abbraccio, da un sacerdote, s’incamminò lungo il viottolo che portava al Santuario del Fosco. Cominciò a parlargli sul tema a lui così caro del Sangue di Gesù e vi si immerse fino al punto da non accorgersi dello scatenarsi d’un fu¬rioso temporale, che gli rovesciava addosso acqua a catinelle. Anche il compa¬gno, trascinato dalla parola del Santo, perse conoscenza di quanto gli accadeva intorno! Qualche raro contadino che, con un fascio d’erba sulle spalle e un sacco vuo¬to a mò di cappuccio sul capo, tornava frettoloso dai campi, passandogli accan¬to dava la voce consigliando loro di rientrare subito in Convento. Non avendo risposta scuoteva il capo pensando: «O sono due matti, o sono due santi». Gaspare e il compagno non sentirono neppure il richiamo concitato di un fratello inserviente che era andato loro incontro con 1′ unico ombrello di casa e un mantello perché si riparassero alla meglio. Cosa possono importare fulmini, lampi, tuoni e pioggia a chi, pur con il cor¬po sulla terra, ha l’anima immersa nella gioia del cielo? La berretta Quante berrette avrà dovuto acquistare S. Gaspare nella sua vita? Stando alla storia e alla leggenda dovrebbero essere state molte, non perché consun¬te o smarrite, ma perché,… state a sentire. Abbiamo già narrato il piacevole episodio accaduto al buon canonico D. Aloysi, il quale, e per 1′ età e perché non abituato al pulpito, era preso sempre da gran timore quando si accingeva a parlare al popolo. Un giorno, mentre era in sacrestia ad attendere l’ora della sua predica, avendo veduto la berretta di S. Gaspare posata sul bancone, la scambiò con la sua, pensando che non solo quel contatto gli avrebbe dato coraggio, ma an¬che tanti lumi ed ispirazioni e sicuramente anche la sua predica sarebbe stata meravigliosa e fruttuosa come quella del Santo. Difatti avvenne che, o per effetto psicologico, o per intervento superiore, egli «tenne la più dotta ed efficace predica della sua vita». Il vecchio canonico rivelò il segreto a quanti gli facevano i rallegramenti per tanto sapere e tanta facondia e non cessava di raccontare ovunque 1′ epi¬sodio e, com’è naturale, il suo racconto fece il giro di tutto l’Istituto. Per que¬sto le berrette del Santo sparivano ovunque alla chetichella, anche se la sua misura non era sempre adatta a tutte le teste. La berretta di S. Gaspare era piuttosto grande. Diceva il Modena, suo pro-fessore, per significare non solo le proporzioni morfologiche della testa del Santo, ma anche la sua grande intelligenza: «Il Del Bufalo ha una bella scatola cranica!» Chi va narrando questi fioretti, nel lontano 1926, ai tempi felici dei suoi studi filosofici nell’Università di Propaganda Fide in Roma, ebbe, per la pri- ma volta, la sorte di visitare il Museo di S. Gaspare, dove si conservava, e si conserva tuttora, una berretta da lui portata. Prima ancora d’entrare, un mio caro comagno, Clemens Geiger di nazionalità austriaca e poi santo Vescovo Missionario nello Xingù, mi disse: «Lì dentro essere un bireto di Beato Gaspa¬re, dove tuo testo entrare tre volte». Chiesi al P. Rettore che ci guidava, di po¬terla «misurare», ed egli benevolmente me la pose in testa. Non ricordo se questa era tre volte più grande, ma ricordo che la mia testa vi sparì. Il Padre Rettore mi augurò che quel contatto mi ricolmasse della sapienza e della san¬tità di S. Gaspare. Certamente non sono riuscito a possedere né l’una, né l’al¬tra, ma non ho mai dimenticato il fascino di quel santo contatto, che, senza dubbio ha contribuito molto a tener salda la mia vocazione. Mi si perdoni questo personale e caro ricordo, e leggiamo assieme un altro dei tanti prodigi della famosa berretta. Ce lo racconta così lo stesso fortunato missionario miracolato, D. Beniami¬no Romani: «Nel 1826, volendo il Servo di Dio mandarmi a predicare una Missione a Civitavecchia, gli feci notare che da appena pochi giorni m’ero alzato dal let¬to per aver dato molto sangue dal petto (una lesione polmonare, male mortale a quei tempi), e che il medico mi aveva proibito severamente non solo di viaggiare, ma di camminare e parlare, tanto ch’ ero dispensato anche dalla re-cita del Breviario. Egli prima mi animò, poi mi mise la sua berretta in testa, mi cinse la sua fa-scia e mi impose il suo crocifisso; poi mi benedì e raccomandò di far tutto be-ne per la gloria del Divin Sangue di Gesù. La berretta la portai stretta sul mio petto malato per tutto il viaggio. Ubbidii in tutto, predicai, confessai e tornai a Roma in buona salute. Mi mandò poi a Vallecorsa a predicare il maggio e a confessare, e seguitai a star bene. Il Vescovo mi richiamò in Diocesi, ma fu lo stesso Gaspare a scrivergli che il Signore mi voleva Missionario e che la mia vocazione era stata confermata anche con prodigi. Anche se richiesto, mi son guardato bene dal restituire il Crocifisso, la fa¬scia e la berretta al Servo di Dio e non me ne sono mai separato fino ad oggi». Una tribolatissima donna I doni di cui il Signore arricchiva il suo Servo nel momento opportuno e sempre a profitto delle anime, erano proprio tanti! Sembrava si fosse ingag-giata una gara tra il Servo fedele e il suo amato Signore nel donarsi reciproca-mente. E si sa che Dio non si lascia mai vincere in generosità! Leggendo la vita del Santo, balza con grande evidenza l’eroicità delle sue virtù. Avendo egli avuto in vita l’unico scopo di portare anime ed anime al Cuore di Cristo, Dio, sapendo che, senza il suo divino aiuto, vano sarebbe ogni sforzo umano, semina a piene mani la strada del suo Apostolo di grazie, doni e prodigi. Leggiamo nei Processi: «Fra i doni di cui il Signore aveva insignito il suo Servo Gaspare Del Bufalo, spiccava anche quello di conoscere le cose occulte – così permettendo Dio per il bene delle anime – nelle menti e nei cuori di chi a lui accostavasi, avendo facoltà di scrutare nel loro più intimo, poteva rego¬larsi nel dare saggi consigli ed esercitare su di essi un grande ascendente, sempre per il loro bene». Gli episodi che potremmo qui riferire sono senza numero e ne citiamo ap¬pena qualcuno. «Lo sapevano bene i suoi Missionari, dei quali leggeva chiara¬mente i pensieri più riposti!» dice il Merlini! Ed a conferma narra di se stesso: «Il Servo di Dio viaggiava molto e io pensavo, senza per altro dirlo mai ad al-cuno, ch’egli vi provasse gran piacere. Mi vidi giungere una sua lettera, nella quale mi diceva chiaramente: – Sappiate che per me il viaggiare è un martirio. – Pensando altra volta che prendesse il caffè al pomeriggio solo per gusto, mi sentii dire: – D. Giovanni, prendo il caffè, perché me l’ha prescritto il medico per le mie sofferenze di stomaco nella digestione». Un Vescovo, e così altri dignitari, asseriva «ch’era così sicuro che Gaspare leggesse nella sua anima, che prima di riceverlo, si confessava». A volte èproprio scomodo vivere con i santi! «Mentre predicava la Missione a Prossedi – racconta D. Fontana – mi recai a chiedergli consiglio sulla mia vocazione missionaria. Prima che aprissi bocca e senza che avessi ad alcuno manifestata la mia intenzione, mi sentii dire: «Avete fatto bene a decidere di venire da noi». Il Santelli, il primo storico del Santo e testimone oculare di tanti avveni¬menti, asserisce che con certezza era evidénte la sua «rara introspezione di coscienze». Lo stesso D. Fontana dice ancora: «Non poche volte il Canonico mi scriveva, senza che ne gli facessi richiesta e dava consigli sui secreti della mia coscienza». Un giorno a Cannara, durante il pranzo smise improvvisa-mente di mangiare e disse: «Il confratello che in questo momento sta pensan-do d’uscire dalla Congregazione, ne partirà e non vi tornerà mai più!» D. Pie-rantoni, che proprio in quel momento stava pensando d’andar via, lì per lì fe-ce finta di nulla, ma dopo il pranzo corse in camera e scoppiò a piangere. Tut-tavia partì e non fece più ritorno nell’ Istituto. Anche D. Ricciardi affermava: «Talvolta mi dice cose intime da non dubitare che mi leggesse nell’ anima». Ed ecco un famoso episodio avvenuto a Terracina alla signora Teresa Spez-zaferro, che, pur soffrendo le pene dell’ inferno, non aveva mai avuto il corag-gio di aprire la sua coscienza ad un sacerdote. Era giunto Gaspare, accolto «al suon di campane, dal Vescovo, Clero e una marea di gente», a predicarvi la Missione, ma Lei guardava dal balcone con tristezza quel popolo in festa: «Io sono già dannata e neppure un santo potrà tirarmi fuori dall’ inferno!». Ma un mattino, senza spiegarsi come e perché, scese in piazza e, spinta da una forza strana, si ritrovò con la folla in chiesa a far la fila presso il confes¬sionale di Gaspare. Man mano che si avvicinava il suo turno, avrebbe voluto scappar via, ma, essendo molto conosciuta, se ne vergognava. Accostatasi al¬la grata, quale non fu la sua meraviglia nel sentirsi non solo chiamare per no¬me, ma, senza che aprisse bocca, ascoltare dal Santo con chiarezza e precisio¬ne tutto ciò che aveva nel cuore e svelarsi episodi tanto lontani dei quali alcu¬ni ormai dimenticati! La donna andava poi raccontando: «Mi diede consigli, fu affabile, m’impar¬ti 1′ assoluzione e aggiunse – State tranquilla e andate in pace – Tutti mi videro allontanarmi dal confessionale in pianto. Quanta serenità da quell’istante e per tutta la vita!». Ebbene, gli perdono… Uno degli episodi più frequenti, più commoventi e, dobbiamo dire, anche i più desiderati dal Santo, era la riconciliazione tra nemici, che avveniva quasi sempre pubblicamente o in chiesa o sulle piazze a coronamento della ispirata predicazione e perorazione del Missionario e della sua incessante opera di persuasione di casa in casa. Quanto però era difficile convincere quegli osti-nati antagonisti! Lo sappiamo anche noi, figli di S. Gaspare, che, sul suo esempio e com’egli ci ha comandato, andiamo di casa in casa, nei luoghi di predicazione, cercando di spegnere odi atavici nel nome del Sangue di Cristo! Credetelo, come ai tempi del Santo, così oggi, il momento dell’ abbraccio è an-che quello delle lacrime e della gioia profonda. Non vi fu Missione del Santo, dove non si verificassero numerosi episodi di riconciliazione, dei quali ne abbiamo già narrato qualcuno; qui ne riportiamo altri due commoventissimi. Il 20 marzo 1824 il Santo era a Guarcino, dove a Felice De Victoriis era sta¬to trucidato il figlio Francesco da tal Luigi Accetta. L’omicida fu assicurato al¬la Giustizia, ma, dopo alcuni anni di galera, rimesso in libertà, tornò in paese. Tra le famiglie, com’è facile immaginare, era rimasto un odio profondo, insa-nabile. Felice andò a confessarsi da S. Gaspare e gli manifestò sinceramente non solo tutta la sua angoscia, ma anche l’odio acerrimo che nutriva per 1′ uc-cisore del figlio. Restò male quando si sentì negare l’assoluzione fino a quan-do non avesse perdonato. «Se presenti la tua offerta sull’ altare e li ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro dite, lascia li il tuo dono e va prima a ri-conciliarti con lui e poi torna ad offrire il tuo dono». La parola di Cristo era chiara, né il Santo poteva venir meno ad un precetto divino. Felice, recatosi a casa, riferì tutto alla moglie, che da tempo giaceva a letto malata, e lei invei sia contro il marito che contro il Missionario. Felice tornò a dire tutto a Gaspare, il quale, levati gli occhi al cielo, disse: «Dio ci penserà». Dopo appena un paio di giorni la donna peggiorò di molto e sicura della fi¬ne imminente,chiamò un sacerdote, si confessò e al momento di spirare, «… lasciò per il nemico la parola di perdono, che prima aveva costantemente ri-cusato». Felice andò dall’Accetta e lo abbracciò anche a nome della defunta. Gaspare, una sera, scorgendo dal palco Felice e Luigi, 1′ uno accanto all’ al¬tro, parlò con meravigliosa eloquenza del perdono cristiano e li invitò affabil-mente sul palco. Egli stringeva tra le mani il grande Crocifisso e i due ex-nemici si inginocchiarono abbracciandosi nel bacio di pace. Un fremito per-corse l’uditorio. Anche il Santo cadde in ginocchio accanto a loro per ringra-ziare Dio che opera tante meraviglie nel suo popolo devoto. Il 13 febbraio del 1833, dopo una celebre Missione a Palestrina, nel viaggia¬re per Zagarolo a causa di un guasto al calesse, sebbene stanchissimo, fu co-stretto a percorrere a piedi la dura salita che portava al paesello lastri¬cata di neve ghiacciata. Così disponeva Dio ai fini della sua grande misericor¬dia. Lungo la strada s’imbatté in una donna vestita di nero; il volto, scavato da una traccia indelebile, diceva quante lacrime aveva versato. Il Santo, come sempre, commosso di fronte a tanto dolore, l’accostò: «Buo¬na donna, vedo che portate il lutto, il vostro volto è tanto triste…!» «Si, padre, mia figlia… Lui, un demonio, me l’ha assassinata!» «Comprendo, comprendo, buona donna. Non è soltanto il dolore che vi consuma, ma anche un odio pro-fondo…» «Sì, è vero, ho già pronto il pugnale e, non appena uscirà di prigione, glielo pianterò nel cuore!». «No, no, buona donna, non parlate così. A che ser¬virebbe? Risuscitereste forse vostra figlia?» Qui il Santo, facendo ricorso a tutto il suo zelo sacerdotale e alla sensibilità del suo grande cuore, disse parole che solo Dio poté mettere sulla sua bocca. Le parlò del Sangue di Cristo, del suo perdono dall’ alto della croce, della Ma¬dre, che pur vedendo uccidere il Figlio, perdonò come Lui. Tutto fu inutile! Quella donna covava nel suo dramma un’odio implacabile. «L’ucciderò!». S. Gaspare le si inginocchiò davanti, nella neve: «Signora, vengo di lontano nel nome di Cristo, son qui per portare anime a Dio!», e le mostrò il Crocifis-so. «Per Lui, dovete perdonare, non per l’uccisore, per queste ferite, per que-sto Sangue!» Le labbra della donna cominciarono a tremare… Gaspare incal-zò: «È vostra figlia che ve lo chiede, perché lei ha già perdonato». La povera donna, nel sentir nominare la figlia, crollò. Si inginocchiò davan¬ti al Santo, baciò il crocifisso, ruppe in lacrime, e mormorò: «Madonna mia, datemi voi la forza! Voglio, voglio perdonare». Qualcuno ha visto ed ha sentito; la notiza si sparge. Dalla torre si spande il suono delle campane, il popolo grida: «È arrivato il Santo, è arrivato il Santo!», e gli corre festosamente incontro. Il profeta S. Gaspare fu anche profeta. Il suo nome è citato, infatti, perfino nei testi dei così detti futurologi. Profeta, vate o veggente, è chiamato comunemente colui che illuminato da Dio, prevede e preannuncia il futuro. La vita del Santo è ricchissima di predi-zioni che riguardano eventi di ogni genere, sia di portata storica e d’interesse generale, sia di singole persone. Le profezie del Santo hanno una caratteristi-ca non comune: «Egli parlò con asseveranza – dice il Merlini – senza ambiguità e sospensione d’animo, né ebbe di mira alcuna temporalità». Vaticinava dun¬que con precisazioni impressionanti di epoca e di luogo, parlando diretta¬mente alle persone interessate e annunziando mutamenti di stato, guarigioni, morte, novità dolorose, splendide mete che sarebbero state raggiunte da chi nulla di simile si sarebbe potuto aspettare… L’unica frase un po’ oscura, dice il Merlini, era questa che il Santo gli ripeteva spesso in latino: «Desiderium pauperum exaudivit Dominus». Dal contesto del discorso, il Merlini ne dedu¬ce ch’ egli fosse stato esaudito da Dio nel desiderio di farsi santo e quindi allu¬desse non solo alla sua salvezza, ma anche alla propria glorificazione sulla terra: la canonizzazione. Ora vi narriamo alcuni eventi tratti dalle autentiche deposizioni nei Proces¬si da parte di persone che o ne furono testimoni diretti o addirittura oggetto, aggiugendo che tutte le profezie che riportiamo, e tante altre tralasciate, si so-no avverate, tranne una, come vedremo. Innanzi tutto S. Gaspare fu profeta di se stesso. Abbiamo già narrato e nar-reremo ancora di visioni, voci arcane e previsioni avute dal Santo riguardanti le pesanti croci e sofferenze che avrebbe dovuto subire; a queste occorre ag-giungere le chiare e ripetute profezie sul tempo e le circostanze della sua morte. Il Merlini negli ultimi anni della sua vita, per le continue visite che S. Gaspare faceva alle varie Case dell’ Istituto avrebbe voluto che in tutte vi fos¬se una camera a lui riservata e sempre pronta al suo arrivo. Il Sant~ si oppose perché ormai era certo che sarebbe morto quanto prima. Gli elencò anche al-cune Case nelle quali non si sarebbe mai più recato. A Fratel Bartolomeo dis¬se che sarebbe morto prima di lui e che egli avrebbe composto le sue spoglie. Più e più volte affermò con chiarezza che non sarebbe arrivato alla vecchiaia: «Presto vi leverò l’incomodo», diceva. Morì infatti quando mancavano nove giorni al compimento dei 52 anni. Predisse anche un particolare sulle circostanze della sua morte: «Morrò non appena mi caveranno sangue»; ed infatti morì dopo che gli praticarono un salasso. Mentre era in vita, non riuscì ad ottenere una casa ed una chiesa per il suo Istituto in Roma. Ai Missionari, che se ne lamentavano, diceva d’aver pazien-za: «Dopo la mia morte ne avrete più di una». Così avvenne. Non poche profezie riguardavano la sua amata Congregazione. Passeggian¬do con D. Camillo Rossi nell’ orto di Albano, gli disse: «Al presente l’Istituto èavvilito, ma dopo la mia morte si vedrà fiorire». Ai confratelli di Frosinone, due anni prima di morire, confidò: «Tutte le croci al momento sono riservate a me! Dopo la mia morte l’Istituto andrà bene innanzi e fiorirà». «Alcuni dei miei missionari verseranno il sangue per la Fede, ma io non avrò questa sor-te!» È questa l’unica profezia non ancora avveratasi, anche se nelle Missioni diversi missionari hanno perduto la vita per stenti e malattie. Si avvererà? Uno storico afferma: «Essendosi tutte le altre avverate, si avvererà anche questa,ma, se si avvererà, vorrà anche dire che per la cristianità verrano tem¬pi assai dolorosi». D. Biagio Valentini depose che Gaspare gli predisse chiaramente che sareb¬be stato il suo primo successore nel governo della Congregazione. Anche il Merlini racconta che il Santo accennò al Valentini, come a suo successore ag-giungendo: «Chi vorrà vedere D. Biagio ciavattare per Roma dopo di me!», a significare quanto dovesse darsi da fare per l’Istituto. Lo stesso Valentini, che ripetutamente fu consigliato da Gaspare ad entrare nella Congregazione, nar-ra che così il Santo rispose al Vescovo, contrario che il Valentini lasciasse la sua diocesi: «Oh! come sarete più contento quando egli verrà, dopo la mia morte, ad aprire la Casa di Porto Recanati nella vostra diocesi!» Prediceva co-sì l’apertura della Casa, che difatti avvene dopo nove anni, e anche la longe¬vità del vescovo. Aggiungiamo qui ancora un episodio della vita del Valenti¬ni. Questi si trovava in Albano agli estremi «per malattia mortale» (tubercolo¬si). S. Gaspare gli disse che non sarebbe morto di quel male, sarebbe vissuto a lungo e avrebbe aperto varie Case dopo la sua morte, tra le quali quella di Ancona. Predisse anche, come poi avvenne, che i nemici dell’ Istituto avreb-bero con inganni, ottenuto dal Papa l’ordine di chiusura delle due importanti Case di Terracina e Sonnino, site nel cuore del territorio infestato dal brigan-taggio. A Pievetorina, mentre era in conversazione con i suoi compagni, passò D. Pasquale Vigili, fiero avversario dei missionari. Additandolo esclamò: «Ecco¬lo il nostro futuro missionario!» Pensarono tutti che fosse una battuta e si mi-sero a ridere. Dopo qualche anno dovettero ricredersi, perché D. Vigili di-venne missionario di S. Gaspare e visse santamente nella Congreazione. A D. Giovanni Merlini e a D. Lipparelli, nei primi giorni del loro arrivo a 5. Felice con l’intenzione di rimanervi solo per qualche giorno di ritiro, predisse che presto sarebbero entrati definitivamente nell’Istituto. Ad un Vescovo di Terracina predisse: «Un giorno rinuncerete all’ episcopato e vi farete nostro Missionario». Anche questa predizione si verificò. Il Merlini, a sua volta, ci racconta un altro episodio che lo riguarda personalmente. «Era in progetto la costruzione della Casa a Vallecorsa (cittadina ciociara, covo di briganti) e mancando i mezzi chiedemmo un aiuto al Comune, che promise 500 scudi, senza mai mantenere la promessa data. Il Servo di Dio, che sapeva quanto fosse necessaria li la presenza dei Missionari, un giorno mi disse d’andare e cominciare subito la fabbrica. Gli feci osservare che non c’era un baiocco, ma egli mi ripeté: – Vada nel nome di Dio e cominci la fabbrica. – Quanto fu larga la Provvidenza, e nei modi più impensati!» Moltissime furono le profezie di guarigioni e, purtroppo, anche di morte. A quelle narrate aggiungiamo le seguenti: Mentre il Santo era a Pontecorvo venne a sapere che il missionario D. Inno-cenzo Betti, di casa a Benevento, .era gravemente malato e aveva mostrato il desiderio di vederlo. Con lui, in passato, Gaspare aveva avuto dei contrasti per via della veste talare ai Fratelli Laici, e, anche se il Betti era un santQ mis-sionario, S. Gaspare dovette essere un po’ drastico per il bene della nuova Congregazione. Per dimostrargli che non gli serbava rancore e per confortar-lo, accorse subito al suo capezzale. L’abbracciò e gli disse senza esitazione: «So che siete pronto a far la Volontà di Dio, ma non morrete ora! Dovrete la-vorare ancora molto per la nostra Congregazione». D. Betti mori nel 1850, tredici anni dopo la morte del Fondatore. A D. Nicola Maggiorano, moribondo, disse che non sarebbe morto, ma avrebbe vissuto a lungo. Invece a Spello fece amministrare d’urgenza i Sacra-menti ad un infermo del quale non si prevedeva imminente la fine e che quella sera stessa volò in Paradiso. Ricordiamo come, sempre a Spello, a Lui¬gi Fortini, in ottima salute, disse, sul finir della Missione, alla cui riuscita ave¬va tanto cooperato: «E ora preparatevi ad andar presto in Paradiso, perché il Signore vuol darvi presto il premio del vostro zelo». Il Fortini morì solo dopo pochi giorni. Fa tanta impressione un episodio avvenuto a Veroli. Come prescrivono le Regole dell’Istituto, subito dopo la mensa, i missionari si trovavano riuniti per un po’ di ricreazione. Gaspare interruppe, ad un tratto, la conversazione e, turbato in volto, rivolse a tutti a bruciapelo questa domanda: «Chi di noi sa¬rà il primo a morire?» Anche se il Santo usava parlare spesso della morte e della vita futura con i suoi missionari, non aveva posto loro mai una doman¬da così perentoria; perciò tutti ammutolirono e lo guardavano con ansia. Un vecchio missionario, il più anziano, rispose: «Sarò io senza meno, padre». «No, soggiunse Gaspare. Voi, D. Agostini, preparatevi ed anche voi, D. Ren¬zi, tenetevi pronto». D. Agostini non solo era giovanissimo, ma sprizzava sa¬lute! Anche D. Renzi era molto giovane e sano. Prima che finisse l’anno, alla distanza di qualche mese l’uno dall’altro, morirono entrambi nella Casa di Sermoneta. Durante una Missione a Norma, Gaspare si recò a visitare una persona di riguardo, il Sig. Coluzzi, del quale nulla faceva prevedere la fine imminente. Nel congedarsi il Santo chiamò in disparte il sig. Turchi, familiare del Coluz¬zi, e l’avverti della vicina morte del congiunto, che si avverò a puntino. A Mons. Manasse, vescovo di Terracina e suo grande amico, Gaspare pre¬disse con largo anticipo l’elezione a quella cattedra. Recatosi a fargli le sue congratulazioni nel giorno della consacrazione episcopale, gli disse: «Monsi-gnore, vi hanno caricato d’una croce invero molto pesante, ma coraggio, la porterete solo per sette anni. Quel santo Vescovo non faceva che ripetere: Il mio episcopato durerà solo sette anni, me l’ha detto il Can. Del Bufalo. Egli èun santo e sarà così». Quando il prelato era ormai agli sgoccioli, ebbe una im¬provvisa ripresa con un rifiorire di forze insperato e tutti credettero che la morte fosse scongiurata. Gaspare gli disse: «Monsignore, mi rallegro della ri-presa della sua salute, ma io so di certo che Dio per i suoi meriti, La chiamerà presto in Paradiso». Passarono solo pochi giorni e Mons. Manasse morì santa¬mente a Napoli. A D. Aloysi, salutista fino all’inverosimile e sempre pauroso di morire da un momento all’ altro, disse di non temere, perché sarebbe morto di tisi seni¬le. A D. Antonio Lipparelli predisse la data della morte con venti anni di anti¬cipo. Entrambe le predizioni si avverarono puntualmente. Abbiamo già narrato le predizioni che il Santo fece, nei minimi particolari, della morte di Pio VII, della breve durata del pontificato di Pio VIII, e del lun-go pontificato di Leone XII, che sarebbe stato tormentato da tristi eventi per la Chiesa, nonché i moti del ’48 che costrinsero Pio IX a rifugiarsi a Gaeta. A vari prelati predisse l’elevazione all’Episcopato e alla Porpora e le relative croci. Così a D. Muccioli, prima parlò della grande responsabilità dei vesco¬vi, poi aggiunse: «Perciò preparatevi, perché questo peso toccherà anche a voi». A D. Saverio Grimaldi disse: «Avrete la disgrazia di diventare vescovo e per quanto vi adoprerete, è una disgrazia che non potrete evitare». Il poveret¬to fu eletto vescovo di Sanseverino, ma le croci furono enormi! Molte profezie interessavano le mansioni e l’apostolato dei membri dell’ Istituto. Diceva apertamente che nei frequenti trasferimenti e nell’asse¬gnare i compiti e le cariche ai missionari era certamente illuminato da Dio. A chi lo criticava rispondeva: «Nella Valle di Giosafat vedremo il perché». I fatti dimostravano sempre che non c’era affatto bisogno d’aspettare il giorno del Giudizio Universale. E non poteva essere altrimenti, perché prendeva le sue decisioni dopo lunga preghiera e dopo aver celebrato la S. Messa. Agiva, poi, sempre con grande carità ed umiltà, quell’ umiltà che in lui fu purità dell’ ani-ma, e proprio perché sinceramente sentita più ricca di splendore. Un missionario afferma: «Mi nominò economo di Albano e mi diede solo uno scudo, benché la Comunità si componesse di quattro sacerdoti, il cuoco e il portinaio. Lo guardai interdetto con lo scudo sul palmo della mano, ed egli: – Abbiate fiducia in Dio! – e non disse altro. Quante inaspettate elemosine ci mandò la Provvidenza!». D. Marcello Brandimarte dice: «Intesi che un prete disonesto sarebbe en¬trato nella Congregazione e mi credei in dovere di scriverne al Servo di Dio. Egli mi rispose di star sereno, perché l’aveva già accettato e inviato in ritiro nella Casa di Terracina, aggiungendo che non solo si sarebbe mutato come dalla notte al giorno, ma sarebbe stato d’esempio agli altri. Così avvenne». Narra il P. Fontana: «Dovendo recarmi da Frosinone a S. Felice, Gaspare mi disse che mi avrebbe colà inviato una somma per la celebrazione di S. Messe. Poi, tornando sulla sua decisione prese del denaro e me lo consegnò subito: – Ne avrete bisogno per l’acquisto d’un ferraiolo – disse. Gli feci pre¬sente che l’avevo nuovo nuovo, comprato da poco. Fece un lievo sorriso e non aggiunse parola. Non replicai. Durante il viaggio mi resi conto di quel sorriso, perché fui derubato del ferraiolo e dovetti acquistarne un altro». Anche il canonico Locatelli ci narra un’altro episodio: «Gaspare passando per Terracina per recarsi a predicare la Missione a Gaeta, mi onorò di essere mio gradito ospite. Ripartendo mi disse che mi attendeva a Gaeta, dove avrebbe avuto bisogno del mio aiuto. – Vi imbarcherete come S. Francesco Saverio e verrete a Gaeta. – Non occorreva imbarcarsi per andare da Terracina a Gaeta e pensai che il sign. Canonico volesse celiare. Quando giunse la sua chiama¬ta, io e il Vescovo di Terracina, Mons. Manasse, dovemmo andare via mare, perché la strada, per il cattivo tempo, era impraticabile». Quando partì dalla mia casa Gaspare, era tempo bellissimo e la strada in buone condizioni S. Vincenzo Pallotti così depose: «Essendo io infermo e presso a morire mi disse che sarei guarito e mi consigliò d’istituire l’Oratorio notturno durante l’Ottava dell’ Epifania. Guarii e mantenni la promessa. La pia pratica celebra¬ta con tanta pietà e solennità richiamò tanti fedeli. Una notte, dopo il bacio del Santo Bambino, mi si presentò un signore, che piangendo mi confessò d’esser passato di lì per caso per recarsi ad uccidere per vendetta un suo ne¬mico; ma avendo vista la chiesa aperta entrò tanto per curiosare. S’appressò come gli altri a baciare il S. Bambino e cadde dalla sua mente ogni idea di vendetta». Oggi si celebra ancora quell’ Ottavario nella chiesa di S. Andrea della Valle in Roma e si prega per l’unità dei cristiani. Ancora una testimonianza, ed è di alcune suore di clausura di Piperno: «Parlandoci negli ultimi Esercizi spirituali, lo vedemmo come internato in un sentimento di spavento, poi ci disse: – Che dire dell’ imminente castigo, che farà tanta strage nel Regno?» Alludeva al colera che poi si scatenò nel Regno di Napoli. Le Suore gli chiesero se avrebbe colpito anche Roma, ma egli ri-spose: «Per quest’anno, no. Speriamo che il Signore voglia liberarcene, ma ci vogliono grandi orazioni. Alla divozione del divin Sangue è riservata la pace dei tempi». Anche il Merlini conferma l’episodio. «Un lume specialissimo lo ebbe nel consigliare la scelta dello stato e nel prevederne tanto il bene per chi aveva accettato i suoi consigli, tanto il male per chi non ne avesse tenuto alcun conto». Predisse alla giovinetta Maria An-tonietta Andreucci che «sarebbe andata suora e divenuta fondatrice». Infatti ella fondò l’Istituto delle Adoratrici Perpetue del S. Cuore di Lugo, e morì in concetto di santità. Sappiamo già tutta la mirabile storia della Beata Maria De Mattias e della fondazione dell’ Istituto delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ad un giovane ch’ era già alla vigilia delle nozze, predisse che sarebbe stato parroco. Quegli scoppio in una sonora risata. Dopo pochi giorni ruppe il fidanzamento, entrò in seminario e dopo dieci anni fu nominato parroco. A D. Innocenzo Betti, ch’era andato a S. Felice a chiedergli consiglio, per¬ché desiderava farsi cappuccino, disse: «Ne parleremo domani, dopo averci pensato e pregato». Intanto l’accompagnò nella camera più piccina del con-vento e gli augurò la buona notte. Al mattino gli chiese: «D. Innocenzo, come avete passata la notte?», «Male, malissimo – fu la risposta di D. Betti – Come si fa a dormire in una camera così angusta?» «E come farete nei Cappuccini a passare tutta la vita in celle assai più strette? Il Signore vi vuole mio missiona-rio». D. Innocenzo capì e rimase con lui e visse da santo. Al suo amico d’infanzia D. Berga, monaco basiliano a Grottaferrata, che vo-leva abbandonare l’abbazia per tornare in famiglia ad assistere la madre in avanzata età, non solo predisse che la madre ne avrebbe avuto ancora per po-co, ma che se fosse rimasto nella sua vocazione religiosa, com’era volontà di Dio, tutto sarebbe andato bene; al contrario, ne avrebbe molto sofferto. D. Berga volle lasciare la sua vocazione, ma in famiglia subito si trovò così a disagio, che in fretta se ne tornò nel Monastero. Ad una giovane che si preparava per le nozze, disse: «Non credo che sia questo lo stato assegnatovi da Dio; vi farete monaca». Di li a poco fu abban-donata dal fidanzato ed entrò in clausura. Così narra di sé D. Domenico Silvestri, che era già suddiacono. «Incontrai il Canonico e, senza avergli nulla chiesto, mi sentii dire: Voi sarete nostro mis-sionario. Gli feci osservare ch’ ero balbuziente e che avrei fatto piuttosto ride-re il pubblico anziché convertirlo. Ma egli soggiunse: Ci penserà S. Francesco Saverio. Entrai nell’ Istituto e nulla cambiò, finché non fui ordinato sacerdo¬te. Fin dalla prima predica, però, il difetto sparì e predicavo come gli altri, con gran frutto, grazie a Dio». Gigia, la nipote di S. Gaspare, così racconta: «Mentre viveva mio zio, capitò qui un missionario della sua Congregazione di nazionalità maltese, che si chiamava D. Francesco Zammite. Si preparava a lasciare l’Istituto, e mio zio l’avverti che se fosse rimasto fedele alla vocazione, sarebbe andato tutto be¬ne; altrimenti il Signore l’avrebbe assoggettato ad una croce pesantissima. D. Zammite se ne tornò a Malta, dove cadde in una fissazione delle più forti, tanto da non poter neppur dire Messa. Mio zio era già morto, quando con un suo parente venne a Roma e mi raccontò quanto egli gli aveva predetto». D. Saverio Tommasini di Cori riferisce che Gaspare consigliò un suo giova¬ne amico ad abbracciare il sacerdozio, essendo questa la Volontà di Dio. Il giovane iniziò gli studi in seminario, ma subito li interruppe e prese moglie. Pur essendo gran possidente, si ridusse alla miseria e soffrì moltissimo nello stato coniugale. D. Marcellino Brandimarte così narra di sé: «Da qualche tempo meditavo di lasciare la Congregazione del Prez.mo Sangue, quando mi trovavo nella Casa di Albano e cercavo di mantenere per me il segreto. Notai però che il Servo di Dio aveva verso di me particolari premure e mi guidava con paterni¬tà singolarmente affettuosa, come se leggesse il profondo turbamento che agitava la mia anima. Era per altro, sommamente discreto. Finalmente, con-vinto ch’egli sapesse tutto, mi decisi a confessargli il mio proposito. -Pàdre voglio andarmene! – Il Canonico non rimase affatto sorpreso e mi consigliò di riflettere e pregare ancora per qualche tempo. Un giorno, verso il tramonto, m invitò a fare una passeggiata con lui fino ai Cappuccini, non molto distante da noi. Giunti presso la croce eretta ai piedi della scalinata, ci fermammo ed egli richiamò la mia attenzione sull’incantevole tramonto sul mare di Porto d’Anzio. Quante meraviglie ha creato per noi il Signore! – disse. Poi m’invitò a baciare con lui la croce ed aggiunse: – Vedete figliolo, ho pregato molto per conoscere la Volontà di Dio nei vostri riguardi. Il Signore vuole che restiate missionario. – Io gli risposi con franchezza che quella vita di comunità non mi piaceva, pur volendo rimanere sempre sacerdote. Vidi scorrere qualche lacri-ma sul suo viso angosciato; poi, dopo qualche istante, per ben tre volte mi ri-peté – Voi lasciate una croce d’oro, e vi caricate di tante croci pesanti, che non potrete portare. – Piansi anch’io, m’inginocchiai ai suoi piedi e gli chiesi di be-nedirmi e di pregare per me. Tuttavia, fermo nel mio proposito lasciai la sua Congregazione. Ben presto ebbi però a pentirmene amaramente, perché mi caddero addosso tante di quelle pesantissime croci e, sebbene innocente, an-dai a finire anche nel carcere del Sant’Uffizio». Vogliamo concludere questo breve elenco con due altri episodi avvenuti entrambi nella Casa di Frosinone. Uno ce lo racconta lo stesso Mons. Pellei, vescovo di Acquapendente e allora Uditore dell’Arcivescovo di Benevento. «Ero in viaggio da Benevento verso Roma, ma per vari contrattempi quand’era da un bel po’ passato il mezzogiorno, stanco ed affamato ero anco¬ra nei pressi di Frosinone. Ricordai che c’erano li gli ospitalissimi Padri del Prez.mo Sangue e pensai di chiedere loro la carità d’una minestra, anche se, come avrebbe voluto l’educazione, avrei dovuto prevenirli del mio arrivo. Ma non ne ebbi il tempo. D. Gaspare era venuto di persona ad aprirmi il por¬tone e farmi gran festa come se mi aspettasse da gran tempo. Mi fece servire il pranzo e mi assegnò una camera per riposare. Poi seppi ch’egli aveva av¬vertito in mattinata il cuoco di tenere da parte il pranzo per un padre che sa¬rebbe arrivato con ritardo. Il cuoco se n’era meravigliato, essendo la Comuni¬tà al completo. Infatti, dopo aver servito il pranzo a me, sentii che diceva al Superiore: «Padre, che daremo al Missionario?» E Gaspare gli rispose che chi doveva arrivare era già arrivato. Dedussi che, non sapendo io stesso di quella sosta, Gaspare l’aveva prevista per Lumi Superiori. Se non fosse stato presente Gaspare a tavola quel giorno, il fatto che stiamo per narrare, avrebbe avuto conseguenze senz’altro tragiche. I missionari era-no a mensa, quando si scatenò improvvisamente un furioso temporale. Tuo¬ni, lampi e fulmini facevano tremare la casa! Gaspare, d’improvviso, fece in-terrompere la lettura e pregò D. Valentini, che sedeva al suo fianco, d’andare subito a prendergli un certo libro nella saletta attigua. Fu più lesto qualche al-tro ad alzarsi, desideroso di rendersi utile al Santo, ma questi fermò tutti e disse con decisione: «No, no, dovete andare proprio voi, D. Biagio e presto». D. Biagio s’era appena allontanato, che un fulmine s’abbatté dove egli era se-duto, bruciando la sedia e la tovaglia. La morte di D. Valentini, se si fosse tro-vato ancora li, sarebbe stata certa. Gli episodi narrati, e tanti altri simili che non abbiamo potuto qui raccon¬tarvi o che narriamo in altre pagine, ci incantano e fanno meditare. Sono tal¬mente lampanti che non si può davvero parlare di sotterfugi o fantastiche il¬lusioni, e fanno ad ognuno di noi nascere il desiderio di aver vicino un santo come lui a predirci il futuro, farci guidare nei momenti cruciali della vita e farci conoscere la Volontà di Dio senza equivoci. Noi suoi figli ce lo sentiamo sempre vicino! La profezia più cara per noi è la promessa fatta alla sua Congregazione prima di morire, pronunciata con so-lenne giuramento, con le parole della Scrittura: «Si inaridisca la mia destra se ti dimenticherò, mia amata Congregazione del Prez.mo Sangue!». Sono ormai passati quasi centocinquant’ anni dalla sua morte e la nostra Congregazione, pur fra tante tempeste e sull’orlo della soppressione, è stata dal Fondatore di-fesa e protetta, sicché, riemergendo dai violenti marosi, è rifiorita come pian¬ta novella, più solida e robusta. Anche oggi le crisi che non ci risparmiano, non ci abbattono, e dormiamo sereni fidando nell’ amabile, potente e santa protezione d’un Padre così grande. Lasciate passare prima lui… «Il solo piacere, il solo desiderio, la sola brama di guadagnare anime a Dio lo mosse, lo corroborò, lo confermò nella sua carriera». Così il Merlini, che poi seguita: «Le sue Missioni erano edificantissime e tutte accompagnate da celesti benedizioni; d’ogni parte i popoli accorrevano… per soddisfare all’an-sietà che avevano di sentirlo… di farsi ascoltare da lui in confessionale». Continuiamo a citare il Merlini: «Nella Missione in Pontecorvo fu tale il concorso di penitenti che il Servo di Dio dovette lasciare tre compagni, per al-tri otto giorni, per soddisfare la brama di quelli che non si erano potuti con-fessare nei quindici giorni che durò la Missione… e questo avveniva quasi ad ogni Missione predicata dal Servo di Dio». «Era tale l’affluenza alle confessio-ni, che dovevano chiamarsi altri confessori dai luoghi circonvicini. A lui, ch’ era sempre il più ricercato, la gente non dava tregua o riposo né giorno né notte». Questo grande afflusso al Sacramento della Penitenza per la riconciliazione con Dio dava la vera misura dell’efficacia della predicazione del Santo, e ne era lo scopo principale ed il frutto ch’ egli se ne riprometteva. Perciò «era assiduo nelle confessioni sacrificandosi abitualmente oltre la mezzanotte, usando modi cortesi e grande dolcezza verso i peccatori». Anche se passava molte ore ad ascoltare le donne «preferiva gli uomini, perché sole-va dire che, accomodata la testa ad un uomo, era accomodata la famiglia». Chiamato a Cerreto a confessare una gran Dama e vedendo che c’era un bel gruppo di contadini ad attenderlo, li confessò per primi dicendo che «il Signo-re «Mostravasi premuroso nell’accogliere i penitenti ed aveva una maniera si efficace d’attirare i peccatori e di compungerli, che niuno si partì mai da lui senza essere per davvero convertito, e pienamente contento». Anche il Betti aggiunge: «Paziente, prudente, benigno era il metodo da lui usato nel confes-sare e lo stesso inculcava ed esigeva dai suoi compagni». Ascoltiamo ancora il Merlini: «Accorrevano a lui ogni sorta di gente: eccle-siastici, signori, impiegati, artieri, contadini, soldati, dotti, ignoranti». «Nel dare le penitenze era molto discreto anche se esigeva perentoriamente la re-stituzione del rubato e la riparazione nei peccati di calunnia e d’ingiustizia. Inclinava del resto sempre per la parte più benigna, asserendo che Gesù e i Santi ci avevano lasciato lezioni di benignità». Abbiamo avuto modo di raccontare i non pochi episodi meravigliosi che ac-cadevano vicino al suo confessionale; a quelli ne facciamo qui seguire qual¬che altro. Una volta, essendo tanta la ressa di uomini, due signori si inginocchiarono assieme davanti a lui: «Figlioli, non posso confessarne più d’uno alla volta!» «Padre ci può confessare assieme perché abbiamo commesso gli stessi pecca-ti» fu la risposta, e 5. Gaspare non poté far a meno di sorridere. A Mergo una povera rattrappita, che non potendo camminare da sola, s’era fatta portare davanti a lui in confessionale, cominciò a gridare a squarciago¬la: «Santo Padre Gaspare, risanatemi!». Egli l’esortò a rivolgersi a S. France¬sco Saverio, il cui quadro era esposto su un altare in quella stessa chiesa, e la congedò benedicendola. La donna obbedì, ma mentre la portavano verso l’immagine, si sentì già libera da ogni male e continuò da sé il cammino, pro-strandosi a ringraziare S. Francesco; poi andò di corsa a ringraziare Gaspare, al quale attribuì la sua guarigione. A conferma del dono che Gaspare aveva di prevedere il futuro vicino e lon-tano, raccontiamo un fatto molto tragico, avvenuto nel 1832 a Sermoneta, mentre stava confessando un bel gruppo di uomini. Ad un tratto scostò la tendina e disse: «Usate la cortesia di far passare pri¬ma lui – e indicò un tale che stava tranquillamente aspettando il suo turno – perché ne ha urgente bisogno». Furono tutti gentili e si fecero da parte. Il po-veretto s’era appena confessato, quando, preso da grave malore, morì in po¬chi minuti. Un brivido corse fra gli astanti, che non facevano che ripetere: «Un santo è venuto tra noi!». Chiudiamo con un belì’ episodio avvenuto nel 1824 a Itri. Come ovunque anche in questa Missione sono molti gli uomini che lo asse-diano per essere ascoltati da lui in confessione e tra questi un famoso «pecca-tore del luogo». Questi, inginocchiato davanti al Santo, elencava uno ad uno i suoi tanti peccati, ma accorgendosi che egli non replicava alla sua accusa, al¬zò lo sguardo sul suo viso e rimase incantato nel vederlo illuminato e rapito come in una visione lontana. Non gli sembrava proprio vero potersi godere così da vicino… l’insolito spettacolo. Quanto tempo era passato? Né il Santo né il penitente se n’accorsero, ma ci pensarono gli altri a ride¬starli, stanchi d’attendere! L’uomo contrariato, se ne lamentò con loro: «Mi avete richiamato dal para-diso sulla terra, mentre io sarei rimasto per tutta la vita a guardare il volto di questo santo, che vedeva Dio!» L’Apostolo delle Marche Crediamo di non andar errati affermando che S. Gaspare consacrò alle Marche non meno di un terzo del àuo intenso cammino apostolico. I marchi-giani riconoscenti lo acclamarono Apostolo delle Marche e ne conservano tut-tora un indelebile ricordo e una fervida devozione. A S. Gaspare hanno dedi-cato anche una chiesa parrocchiale nella zona industriale del capoluogo. In quel tempo, dopo le Romagne, quella delle Marche era la Regione dello Stato Pontificio dove pullulavano i Settari e i Carbonari; Camerino, la bella cittadina famosa per la sua università, ne portava la palma. I giovani, è ben noto, sia nel bene che nel male, sono sempre all’ avanguardia. Abbiamo an¬che già messo in rilievo come insulti, lotte e attentati non riuscirono giammai ad atterrire, a mettere a tacere, e a fermare il santo nel suo cammino. Egli vi torna e ritorna, percorre la regione in lungo e in largo, dal capoluogo fino ai piccoli villaggi arrampicati sulle montagne o distesi placidamente sulla costa, divorato dalla sete di anime. Dio semina il suo passaggio di grazie e portenti a non finire. Seguiamolo nel cammino instancabile in alcune località dove lo spinge il suo ardore. Corre l’anno 1819 e lo troviamo a Caldarola: «Fin dall’ introduzione fu tale il rumore della missione per le commoventi funzioni e l’impressione che ne¬gli animi produceva la forza della predicazione, che vi accorsero molti anche da Camerino, Macerata e Sanseverino». Proprio a Caldarola il Signore volle ripagarlo di tante sofferenze con vari prodigi. Costretto a predicare all’ aperto per la gran folla, alla presenza del Vescovo, di notabili del Clero e civili, d’im-provviso s’oscurò il cielo e cominciò a venir giù acqua violenta e in gran quantità, costringendo tutti ad un pigia pigia in cerca di ricovero. Gaspare fe ce un cenno deciso con la mano, invitando a non muoversi e a recitare un’Ave con lui. S’inginocchiò, fissando intensamente le pupille sul quadro della Vergine, e a mani giunte, iniziò la preghiera, alla quale il popolo rispose con devozione. In pochi istanti cessò la pioggia e tornò il sereno! Gaspare aveva ottenuto ancora quel prodigio che anche in altre parti si era più e più volte ripetuto. Sempre a Caldarola un giorno venne chiamato al capezzale d’un malato ri-dotto pelle e ossa, con un fil di voce e le orbite incavate. Sul comodino era po-sto un piattino con una fetta di prosciutto. Per non dar l’impressione d’essere andato li per raccomandargli l’anima a Dio, gli disse in tono scherzoso, addi-tando il prosciutto: «Ci trattiamo bene, eh?» A quelle parole che suonavano quasi una presa in giro, la moglie del malato scoppiò in pianto dirotto: «È li da due giorni! Me l’hanno portato i vicini e glielo tengo bene in vista, per invo¬gliarlo a mangiare. Padre, è da lungo tempo che non trattiene più il cibo e perciò lo rifiuta. Devo imboccarlo come un bambino!». Il Santo, commosso, benedisse il prosciutto e glielo porse: «Su non fate i ca-pricci! Mangiatelo e sentirete com e squisito». L’infermo lo mangiò con avidi-tà, chiese altro cibo e volle alzarsi subito. La sera anch’egli era in piazza a sen-tire la predica di Padre Gaspare e a narrare agli amici com’era avvenuta la guarigione. Terminava sempre il racconto ripetendo: «Mai mangiato un pro-sciutto così buono!». Teresa Cecchini, da quindici anni era tormentata da un male che le scon-volgeva la mente; fuggiva di casa, strappandosi le vesti con urla selvagge e dava fastidio a tutti. Un giorno fu presentata al Canonico, al quale dissero che, credendola ossessa, già varie volte l’avevano inultimente fatta esorcizza¬re. Il Santo si tolse il crocifisso che aveva sul petto e la benedisse posandoglie¬lo sul capo. A quel contatto la malata si calmò e guarì per sempre. Anche il pievano di Caldarola, D. Massi, malato fino al punto da perdere spessissimo i sensi e giacere come morto, guarì ad un semplice segno di croce impartito da Gaspare. Da Caldarola Gaspare e i suoi compagni passarono a 5. Ginesio, dove, co¬me narriamo altrove, operò, disciplinandosi, la famosa conversione d’un ex sacerdote, che anche in punto di morte, rifiutava i Sacramenti. Sul finire della Missione in questa cittadina, gli abitanti di Caldarola lo «sequestrarono» sulla via del ritorno, costringendolo affettuosamente a rimanere con loro al¬meno un’altra giornata. Li accontentò e poi, a tappe, si portò in altri paesi, tra i quali Castelraimondo e Sarnano. Qui avendo perduta la voce e non essendo¬vi alcuno disposto a sostituirlo in una difficile predica sulla Credibilità della Religione Cattolica, sali ugualmente sul palco e la voce rifiorì in modo tale, che «tenne un discorso a voce alta e così convincente, ispirato e ricco di zelo, che, subito dopo, il Gran Maestro della Massoneria, con i suoi proseliti, volle-ro confessarsi e fare l’abiura». In settembre, cedendo a pressanti richieste, si recò a Moscosi, un villaggio nei pressi di Camerino. Sparsasi la notizia, vi si riversò «una fiumana di gente da ogni parte» e fu costretto a predicare ogni sera all’ aperto. Aveva saputo che alcuni devoti, presi dall’entusiasmo, avevano preparato una sera dei mortaretti da far scoppiare in segno di festa subito dopo la predi¬ca. Egli si oppose energicamente perché «tali chiassate non s’addicevano in tempo di Missione», ma i devoti fecero orecchi da mercante. Durante la pre-dica si scatenò un furioso temporale che non era… in programma, ma il Santo lo sedò benedicendo l’aria col Crocifisso. La pioggia cessò,ma sui fuochi d’ar-tificio continuò a cadere inesorabile, inzuppandoli a tal punto da renderne impossibile l’accensione. Pioggia intelligente! Portatosi a S. Anatolia, dove era avvenuta la conversione del giovane liber¬tino Domenico Loricato, da noi già narrata, mentre era a tavola con i compa¬gni gli fu condotto innanzi un pazzo, che più d’una volta aveva messo in peri¬colo la vita altrui. Prima lo benedisse, poi gli porse un pezzo di carne del suo piatto ed il giovane guari. La fama dei prodigi operata dal Santo volava ovunque e le richieste di pre-dicazione si moltiplicavano. Tutti lo desideravano nel proprio paese. Egli «si sentiva mortificato a doverle respingere e diceva, addolorandosene: Come si fa ad accontentare tutti i popoli che mi vorrebbero?» Insistettero però con successo, gli abitanti di Belforte, un piccolissimo villaggio presso Camerino. Gaspare vi andò con il Betti e il Valentini, perché voleva dimostrare che non abbandonava la gente umile ed anche presago del bene che vi avrebbe fatto. Per la presenza di Gaspare «il paesello fu assediato dai popoli vicini e diven-ne…. una città!». Furono molte le conversioni e le abiure, e si verificò anche un grande prodigio, che ci ricorda quello della discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo. Il popolo poté constatare a lungo che lingue di fuoco si posavano sul capo del Santo durante la predica. Nei pieni calori del luglio troviamo Gaspare con il Valentini, il Betti e il Moscatelli, a Torricchio, un paesino arrampicato sulla montagna vicino a Pie-vetorina. Durante il giorno Gaspare teneva gli Esercizi al Clero della Diocesi di Camerino, raccolto nella Casa di Missione di Pievetorina, e sul far della se¬ra s’inerpicava a piedi per un viottolo lungo tre miglia, ripido e ciottoloso, che portava a Torricchio, dove doveva tenere la predica grande in piazza. Somma era la sua gioia nel vedere che la gente delle campagne, che costeg¬giavano il viottolo, abbandonando tutto, s’univa a lui e lo accompagnava per ascoltare la predica e dopo lo riaccompagnava nel ritorno. I sacerdoti raccolti in ritiro, santificati dalla sua parola, ma ancor più «dalla sua vita così strappazzata, quasi vergognosi della propria inerzia, si dettero ad esercitare con zelo la loro vita pastorale». Da Torricchio si recò a Mergo. Questo villaggio è rimasto celebre negli annali della vita del Santo, e la di lui memQria, anche a distanza di anni, è vivissima tra i suoi abitanti. Mergo dista poco da Camerino, e li, «la calda parola del Servo di Dio e i suoi prodigi attrassero enormi folle dai paesi vicini, sicché egli era costretto a parlare sem-pre all’ aperto». «Una sera, non appena cominciata la predica sul Giudizio, so-pra la sua testa apparve una stella radiosa, spizzata in tre angoli, della gran-dezza poco più d’uno scudo romano, la quale si trattenne in tutto il tempo della predica, nella medesima località. Fu universale la commozione e tutti lo acclamarono santo. La stella non si muoveva mai dal suo capo, benché egli si muovesse continuamente sul palco». Gaspare confidò ai suoi confessori ed a persone di provata serietà e santità, tra i quali P. Michelangelo da Forlim-pompoli, che parlando della Madonna, ebbe più volte le vesti bruciate dalla parte del cuore «restando illesa la sua persona». Tale era il «bruciore del suo cuore versQ la Mamma Celeste». Il Merlini così ci narra un altro prodigio avvenuto a Mergo durante la stessa Missione, appreso dal Valentini e dal Betti, che ne furono testimoni. «Ad un signore, cui stava per morire il figlio, il Servo di Dio disse che avesse fatto do-dici sacchi di S. Francesco Saverio e il figlio sarebbe guarito. Quel tale comin-ciò subito a fare i sacchi e il figlio cominciò subito a migliorare. Ma poiché egli distette dal farli tutti e dodici, tornò il figlio a peggiorare. Tornato dal Ser¬vo di Dio, avendo questi inteso che non aveva compito il numero dei dodici sacchi, gli ordinò che li avesse fatti, se voleva guarito il figlio. Li fece infatti, e il figlio guarì». Da Mergo, prima di recarsi a Roma, si recò per una nuova Missione a Fa-briano. «Faceva una sera lo svegliarino sotto la casa di un sarto di facili costu-mi, quando la moglie di questi, irritata gli gettò addosso l’acqua bollente dalla quale aveva estratte le rape cotte». Un urlo si levò dagli astanti, che volevano salire in casa della donna per vendicare l’oltraggio al Missionario e che avreb-be potuto recargli grave danno, se Dio non l’avesse protetto. Gaspare li cal¬mò: «Lasciate stare che non è niente. Ci ha pensato il Signore. Vedete? Non mi ha neppure bagnato». Così ovunque per il Santo era un alternarsi di Osanna e di Crucifige… Ga¬spare preferiva il Crucifige. A Camerino, sulla Croce, che aveva impiantato a ricordo della Missione, i Settari in combutta con i Massoni, inchiodarono un cartello «in dileggio» del-la Croce e di chi ne predicava le glorie. Esso portava la scritta: Croce degna d’aver per Cristo un Bufalo. Dileggio? Onore più grande non avrebbero potuto tributare a chi di quella croce aveva fatto il perno di tutta la sua vita, all’ Apostolo che anelava quoti-dianamente d’esservi confitto col Cristo, che annichifi se stesso fino a darci il suo Sangue e la sua vita. Le amabili consorelle Desta sempre più meraviglia all’ attento lettore della vita di S. Gaspare la sua poliedrica attività da non poter fare a meno di chiedersi donde traesse egli tanto tempo e tante energie per dedicarsi, senza sosta, alla predicazione delle Missioni, a giornate, e a volte a nottate intere nel confessionale, al go¬verno dell’ Istituto, alla scrittura di migliaia di lettere ed anche alla guida spi¬rituale di centinaia di persone e d’interi Monasteri di Suore. Le chiamava «Amabili Consorelle nel Sangue di Cristo» e ne aveva la più alta stima, cura e rispetto. Prediligeva le Suore di stretta Clausura, essendo convinto che era dovuta alle loro preghiere anche la buona riuscita del suo apostolato, tanto che, quando si ritrovava in difficoltà per riportare a Dio i peccatori più ostinati, chiedeva loro di pregare e intensificare penitenze, affinché trionfasse la grazia del Signore. Ed era anche convinto che, se non vi fossero quei Monasteri di Clausura, il Signore avrebbe castigato più severamente il mondo per la sua malvagità. Tuttavia, quando ideò la fondazione del ramo femminile del suo Istituto, preferì che anche le sue suore si dedicassero non solo all’adorazione del Sangue di Cristo, ma anche all’apostolato della carità e all’insegnamento, particolarmente alla gioventù femminile. Abbiamo già detto della sua creatura prediletta, Maria De Mattias, confon-datrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo,e abbiamo già accennato a diversi episodi prodigiosi avvenuti in qualche monastero ad opera del Santo, ma ve ne sarebbero ancora tanti da raccontare. Il Valentini ci dice che, trovandosi Gaspare nel parlatorio del Monastero di Gesù e Maria in Albano, disse alla Superiora d’essere più vigilante perché v’erano tanti demoni nel Monastero, dentro e fuori, e bisognava pregare mol-to. I fatti poi gli diedero ragione. Il Merlini, a sua volta, narra che nello stesso Monastero ad una probanda che si accostò al suo confessionale, ancor prima che aprisse bocca, parlò di cose della sua coscienza, mai da lei palesate ad alcuno, e concluse: «Perché dubitate della vostra vocazione? Prendete il velo». Quella non soddisfatta re-stava titubante, temendo che un giorno dovesse pentirsene. Il Santo lesse nel-la sua mente e la rassicurò: «Non avrete mai neppure la tentazione di pentir-vene, perché è Volontà di Dio, e quando tornerò sarete già vestita». Infatti non passò molto che la probanda indossò l’abito religioso e fu sempre felice della sua vocazione. Ad altra suora, molto scrupolosa, che aveva la coscienza agitata e accusava peccati già confessati, come fossero…. nuovi, egli, che per la prima volta l’ascoltava in confessione, disse con chiarezza il tempo e le circostanze in cui se n’era confessata e la tranquillizzò facendole comprendere che quelle non erano colpe gravi. La poveretta finalmente poté vivere serena. Anche ad una postulante del Monastero delle Clarisse di Piperno, come narra lo stesso Merlini, Gaspare disse: «Per ora siete ancora piccola d’età -aveva soli 13 anni – e non in grado di decidere della vostra vocazione, ma nel¬la festa dell’Assunzione il Signore parlerà chiaramente al vostro cuore e vi fa¬rà conoscere la sua volontà». Infatti, in quella data, qualche anno dopo, allor¬ché la probanda fu più matura per fare una scelta, le si fece sentire una voce misteriosa: «Figlia mia, sta’ in questo luogo, non mi lasciare, fanne voto». I genitori, credendola fissata, erano contrari e la ritirarono dal Monastero. La ragazza, pur stando in casa, continuò a chiedere lumi nella preghiera e a sen-tire sempre quella voce, finché non fu lasciata libera di rientrare nel Mona-stero. Anche in un monastero di Clausura di Cori, nel 1836, Gaspare guarì una suora che era impazzita. A molte ragazze Gaspare predisse la vocazione, quando neppur ci pensava¬no; molte ne aiutò pagando la dote, ed altre che conducevano una vita poco onesta, al solo sentire le sue prediche abbandonarono il mondo e si chiusero in clausura. Sempre nello stesso Monastero di Piperno, del quale aveva assunto la dire-zione spirituale per desiderio del vescovo Mons. Manasse, avvennero altri episodi straordinari raccontati dal Ven. Merlini e da altri Missionari. Una suora era disturbata notte e giorno da fortissime tentazioni demonia¬che ed anche da orrende visioni. Ne fece parola a Gaspare e questi le disse: «Vincerete il Maligno in virtù del Sangue di Cristo»! e le diede un cartello da attaccare all’esterno della porta della sua cella con la scritta: «Viva il Divin Sangue»! Ogni tentazione svanì. Una suora dava in tali e tante stranezze, e pronunciava perfino bestemmie ed oscenità da essere ritenuta indemoniata. Fu presentata al Santo che accon-sentì a benedirla, ma disse chiaramente che non era indemoniata, ma solo gravemente malata di mente e che ben presto sarebbe morta. Così avvenne. Suor Maria Nazzarena, clarissa in Piperno, narra che nel 1823, trovandosi colà il Servo di Dio, «gli fu presentata una suora conversa che soffriva quasi una continua convulsione, che esternava con strepiti e dibattimenti tali che inquietava tutta la Comunità. La Superiora, con grande suo dispiacere, decise di dimetterla. Il Servo di Dio la benedisse e rassicurò la Comunità che presto sarebbe guarita, perciò potevano tenerla con loro, perché sarebbe stata una santa suora. Si avverò in tutto quanto aveva predetto il Servo del Signore». Guarì in quel monastero un’altra educanda malata gravemente di tuberco¬losi, benedicendola con l’acqua di 5. Francesco Saverio. E nello stesso Mona¬stero il Santo non beneficò solo suore ed educande, ma guarì con un segno di croce anche la moglie del Fattore, affetta da grave malattia. Purtroppo la fitta corrispondenza tenuta dal Santo con le tante persone d’ogni ceto da lui guidate nella via della perfezione fu da Lui stesso tutta di¬strutta, negli ultimi mesi di vita, con scrupolosa delicatezza. Non voleva,giu¬stamente, che altri conoscessero l’intimità spirituale delle persone che s’era¬no a lui affidate. Così prima di morire, ordinò che distruggessero anche ogni lettera che avessero rinvenuta dopo la sua morte. Il Merlini, suo segreta¬rio, afferma di averne bruciate diverse, senza neppur leggerle, per non viola¬re il segreto di coscienza tra il Servo di Dio e quelle anime. Chi sa quale teso¬ro di consigli, quante premure, e quante notizie di fatti prodigiosi esse conte¬nevano! Le Suore erano molto riconoscenti al Santo e cercavano di dimostrarglielo non solo con la preghiera, ma anche con qualche piccolo dono. Il Santo glielo proibiva con severità, ma esse a volte non tenevano conto del suo divieto. Come fossero accolti i doni lo sapeva bene Fratel Bartolomeo, che ogni volta che si presentava con qualche dolce, con severi rimbrotti, veniva dirottato imme¬diatamente verso un ospedale o un ricovero. S. Gaspare morì guardando un piccolo presepe di carta, inviatogli dalle buone Suore del Convento di S. Urbano in Roma, quando seppero che il gior¬no di Natale giaceva a letto agli estremi. E non ci si può neppure meravigliare se, come Gesù apparve per la prima volta dopo la sua Resurrezione ad una donna, Maria Maddalena, così Dio permise che il suo servo, nello stesso mo-mento in cui esalava l’anima a Dio, apparisse radioso in cotta e stola, ad un’umile suora in un convento di Cori nel Frusinate. Era una delle tante da lui guidate alla perfezione e alla santità. L’apostolo di Roma e del Lazio Così è stato sempre chiamato a Roma S. Gaspare; e ben a ragione, perché non v’è angolo della vecchia Roma, né paese del Lazio ov’ egli non abbia profuso il tesoro della sua carità e della sua parola. Ne abbiamo già parlato in tante pagine di questi Fioretti; ma ci vorrebbe più d’un volume, solo per nar¬rare quanto ha fatto a Roma e nel Lazio, se volessimo seguirlo passo passo: dalla giovinezza, ancor prima del sacerdozio, fino agli ultimi giorni della sua vita, nel giro degli ospedali, ospizi, carceri, tuguri, viuzze, piazze, chiese! Ro-ma non fu solo la città che gli diede i natali, ma anche la città del suo martirio e della sua gloria! Era fiero d’essere un figlio della Città dei Martiri e del Vica-rio di Cristo. Dei Romani aveva il carattere bonario e spiritoso, nonché la for-tezza incrollabile della fede! La storia non parla mai di alcun miracolo operato dal Santo nella sua città «perché, dice un biografo, gli era più facile difendersi dallo sguardo indiscre¬to della folla» e perciò nessuno ha potuto trasmetterci una testimonianza di eventi costatati di persona; né ci si poteva aspettare che fosse egli stesso a parlarne, schivo, umile e riservato com’era! Solo S. Vincenzo Pallotti, come abbiarno già narrato nel capitolo il Profeta, ci ha tramandato il miracolo della sua guarigione, avvenuta ad opera di Gaspare, e fa capire, senza per altro en-trare in particolari, che egli operò ivi altri prodigi. Ci siamo presi la briga di seguire su una carta geografica il lungo e variato cammino apostolico del Santo attraverso il Lazio e i paesi confinanti con il Regno di Napoli, fino a Benevento. Così abbiamo potuto notare, con vero stu-pore, com’egli abbia percorsa sì vasta Regione in lungo e in largo, evangeliz-zando tutte le grandi città e la quasi totalità dei paesi e dei villaggi, ivi com-presa la distesa delle Paludi Pontine, a quei tempi invase da acque stagnanti e mefitiche, fonte di malaria e di mille altre malattie. Come abbia fatto, con i mezzi di comunicazione di allora, la pessima viabilità in ogni stagione, lui di fisico gracile, fiaccato dalla lunga prigionia, è un mistero, che può essere spiegato solo dall’ ardentissimo suo zelo per la salvezza delle anime e dall’ aiu-to continuo e straordinario di Dio. Non per nulla dicevano: «Il Can. Del Bufalo è un miracolo vivente!». Il Santo aprì nel Lazio ben sette Case, le quali, ad eccezione di quella di Al-bano, si trovavano tutte nella così detta zona della Ciociaria e di marittima e Campagna e cioè: Velletri, Frosinone, Vallecorsa, Sonnino, Sermoneta e Ter-racina; praticamente nel territorio abbandonato alla mercé dei briganti, che vi scorazzavano da padroni assoluti! Abbiamo già ampiamente parlato delle fatiche e sofferenze di Gaspare e dei suoi Compagni per la conversione dei briganti e la loro gioia quando riuscirono ad eliminare quella piaga funesta solo con l’arma del Crocifisso, la dolcezza, la comprensione e la grande cari¬tà. Un esempio rimasto unico nella storia di tutti i Paesi e di tutti i tempi, che sta a dimostrare quanto possa un uomo guidato da Dio e senza mire umane. Gaspare, non avendo allora potuto ottenere né una Casa, né una Chiesa in Roma, dietro insistenze del Card. Galeffi, Vescovo Suburbicario di Albano, ne apri una il 24 marzo del 1821 in questa ridente cittadina dei Castelli Roma¬ni, distante appena venticinque chilometri da Roma. Per la sua vicinanza alla Città Eterna, essa divenne la Casa Generalizia dell’Istituto e la base logistica di tutto il movimento Missionario finché, dopo la morte del Santo, non si eb¬bero in Roma la Casa di S. Salvatore in Campo nel 1841, e di S. Maria in Tn¬vio in Piazza dei Crociferi nel 1854. Il Capitolo di S. Giovanni in Laterano cedette a Gaspare, in Albano, il Mo-nastero, cui era unita la Casa Abbaziale di S. Paolo, abbandonati dai Gerolo-mini. Il 21 marzo ne prese possesso il Ven. Merlini, delegato da S. Gaspare, ed il 24 dello stesso mese egli ne fece l’apertura ufficiale e solenne, predican¬do nella chiesa di 5. Paolo un Triduo in onore del Prez.mo Sangue. Anche qui le cose cominciarono male, come del resto tutte le altre opere del Santo. Il convento era interamente occupato da inquilini, che non vollero cedere ai Missionari neppure una camera, costringendoli così ad adattarsi alla me¬glio nella sghangherata Casa Abbaziale. Nella prima domenica di luglio, proprio nel giorno della Festa del Prez.mo Sangue, mentre erano in chiesa intenti alle funzioni, si presentò un tizio con regolare contratto d’affitto ed occupò l’Abbazia, cacciandoli con ingiurie, bestemmie e minacce di percosse. Ai Missionari non restò altro che trasferirsi, con le loro misere cose, all’ aperto, in cortile, tra gente d’ogni sorta ed uno stuolo di ragazzi curiosi e ladruncoli. Meno male che era il mese di luglio! Prevalse poi la bontà e la pazienza del Santo, che esortò innanzi tutto i suoi alla calma e alla rassegnazione dicendo: «Non c’è da meravigliarsene! Lo sapete pure che, in tutte le nostre Case, nel giorno della festa del Prez.mo Sangue, il demonio, per la rabbia, ce ne combi-na di tutti i colori!». La vittoria finale fu di Gaspare, perché, colui che li aveva così maltrattati ed umiliati, ammirato e conquistato dalla sua pazienza e dal suo zelo, gli con-segnò «una buona limosina e chiese scusa». Come Dio volle gli inquilini abu-sivi lasciarono il convento, ma in che stato! Così, con l’aiuto del Card. Cri¬staldi e del generoso popolo albanese, poterono farvi dei restauri e renderlo in parte abitabile. Oggi quel vecchio convento non esiste più, perché raso al suolo dai massic¬ci bombardamenti dell’ aviazione americana, durante la seconda guerra mon-diale. Al suo posto sorge, imponente, il nuovo fabbricato; sono rimaste inve¬ce miracolosamente intatte le mura perimetrali dell’ ampio giardino, costruite dalle mani del Santo e del Ven. Merlini, improvvisatisi muratori. Intatta è ri-masta anche la bellissima chiesa. Durante quei terribili bombardamenti fu tangibilissima la mano salvatrice di S. Gaspare. Infatti, il Padre, che con la partecipazione degli allievi, nella cappella privata del Collegio, nel primo mattino stava celebrando la Messa, subito dopo la consacrazione ebbe un’improvvisa ispirazione e di corsa si tra-sferì con i ragazzi a continuare l’Eucarestia in chiesa. Dopo pochi istanti co-minciò il furioso bombardamento. M cessato allarme si notò la mancanza del vecchio ortolano che dormiva nel piano alto dell’edificio, ridotto ormai in fu-manti macerie. Tutti lo ricercarono e non trovandolo capirono la tragedia e si misero a pregare e a frugare tra le macerie. Da esse sentirono salire un flebile grido: «aiuto! aiuto!». Un vero miracolo! Il poveretto fu tirato fuori incolume, perché sebbene sepolto tra le macerie fino al collo, era rimasto con la testa protetta da una trave di ferro curvatasi ad arco. Neppure un graffio in tutto il corpo, pur essendo precipitato con le macerie da un’altezza di quattro piani! Seguiamo ora il Santo in un lungo itinerario di predicazioni, oper~di bene e grandi prodigi nel Lazio; ci fermeremo qua e là a raccontare gli episodi più si-gnificativi. Sappiamo che in tantissime circostante egli dovette ricorrere all’intervento divino per fugare piogge e tempeste! Nel 1817, mentre trovavasi a Sermone¬ta, fu invitato con insistenza dalla popolazione di Cori a tenere una funzione propiziatrice in onore della Vergine per implorare la cessazione della siccità, che, da mesi e mesi, aveva inaridito la campagna e pregiudicato ormai il rac-colto. Una sera Gaspare vi si recò e, adunata la popolazione in piazza dinanzi al simulacro di Maria SS.ma, invitò i fedeli a recitare il Rosario e i Salmi Peni-tenziali. Poi iniziò a parlare. «Non aveva ancor terminata la predica che il cie-lo, fin’allora stellato, si cosparse di nuvole oscure e divenne plumbeo, indi cominciò a scendere una pioggia leggera, stemperante, rigeneratrice, che du¬rò tutta la notte e il giorno appresso. Il raccolto quell’anno fu più abbondante che negli altri». Il Parroco di Cori in quell’occasione invitò Gaspare a tenere, in segno di gratitudine alla Vergine, anche una Missione. Egli aderì volentieri e non è a dire quanto fu il concorso della popolazione, memore del prodigio della piog-gia. Durante la Missione il sig. Francesco Cataldi, figlio del conte Giuseppe, si presentò a Gaspare e gli espresse il suo rincrescimento di non poter portare, come aveva fatto voto, il grande Crocifisso durante la processione, perché, nel bucare una candela di tre libbre, s’era trapassato il dito medio della mano destra con lo spuntone del candeliere. Aveva fasciato la ferita, ma sentiva grande dolore e continuava a gettar sangue. Gaspare prese nelle sue la mano ferita del giovane contino e l’invitò a recitare con lui tre Ave; poi gliela bene-disse aggiungendo: «Ora prendete pure il Crocifisso». Lungo la processione verso il Santuario del Soccorso, Francesco prima avverti che il dolore andava man mano scemando, fino a sparir del tutto; poi, guardando la fasciatura si accorse che non gettava più sangue; infine, la vide cadere senza averla sciolta e con meraviglia notò che il dito era tornato sano, senza alcuna traccia della ferita, come se mai si fosse fatto male! L’episodio è narrato dal Ven. Merlini, che ne fu testimone oculare. Il vetturino Mandrella di Cori racconta che, durante quella Missione, «pas-sando per un luogo pericolosissimo, dove si dovevano staccare i cavalli e tira-re il legno a mano, essendo scesi i missionari, io azzardai a proseguire sul le-gno con i cavalli, ma ecco che già ero per precipitare, quando intesi il Servo di Dio gridare: Madonna mia, salvatelo!. Come avvenne non so spiegarlo, ma è certo che in quel tratto cavalli e legno volarono senza toccare terra… perché c’era solo il vuoto e mi trovai miracolosamente al di là del baratro». Era scritto in cielo che Cori, in quell’ occasione, dovesse essere una cittadina privilegiata dal Signore, perché i prodigi di Gaspare non erano ancora finiti. Ci racconta infatti Sr. Teresa Cherubini, delle Clarisse di Cori, che: «Una madre presentò al Sig. Can. Del Bufalo una figlioletta cionca affatto, che non si reggeva in piedi da sola. Egli fece un segno di croce sulla sfortunata creatu-ra e suggeri alla madre di portarla davanti all’effige della Madonna ed invo-carne la guarigione, confortandola con queste parole: Non dubitate, la Ma-donna vi aiuterà e col crescere la figlioletta si reggerà e potrà camminare da sola. La donna ubbidì e già mentre pregava davanti al quadro, la bambina poggiò i piedini per terra e cominciò a fare qualche passo da sola. So che in seguito guarì completamente». Dice il Rey nella sua bella vita del Santo: «I piedi di tanto Apostolo, come se provino anch’essi l’ardenza del fuoco che è serrato nel cuore, non possono star fermi! Corrono, corrono sempre, per portare ovunque la pace e il bene, anche se debbano ridursi a brandelli. Nel cuore di Gaspare c’è lo stesso grido di Paolo: «L’amore di Cristo mi brucia l’anima». All’ inizio del 1821, dietro invito del Card. Galeffi, Gaspare inizia un largo giro nei Castelli Romani, nella Ciociaria e in Marittima e Campagna. Quantunque la stagione sia rigidissima, in gennaio lo troviamo già a predi¬car la Missione ad Ariccia e Galloro con altri cinque Missionari, tra i quali an¬che il Merlini, che ci racconta diversi episodi. Calca enorme ovunque, chiese e piazze assiepate! Ed ecco il primo prodigio. «Una donna era inchiodata sul letto, né si poteva muovere. Mi ricordo che in tale circostanza il Servo di Dio benedi un ‘imma-gine di S. Francesco Saverio e la mandò all’ inferma, facendole anche dire che l’aspettava alla Missione. Nello stesso pomeriggio vi fu accompagnata guari-ta». Il Merlini continua: «Trovandomi, come sopra, ad Ariccia, nell’ ultimo giorno della Missione, nell’andare che facevamo in processione, trovai un ra-gazzo che stava appoggiato alla madre e che mal si reggeva. Io gli feci cenno e dissi che si fosse fatto benedire dal Servo di Dio, che veniva appresso. Andato innanzi vidi che il Servo di Dio benedì quel ragazzo col Crocifisso che usiamo portare al petto. Il giorno dopo incontrai quel ragazzo che camminava da solo per la via che conduce a Galloro. Dopo la morte del Servo di Dio, lo stesso che si chiamava Giuseppe Schiaffini, mi venne a trovare in Albano e precisa¬mente il giorno 5 maggio 1839 e mi ricordò l’accennato fatto. Aveva ora circa diciassette-diciotto anni». Un altro Missionario ci dà sul fatto ancora un parti-colare: «Il ragazzo, dopo la benedizione del Santo, si aggrappò alla sua veste e non volle staccarsene durante tutta la processione». Da Ariccia, Gaspare, si recò processionalmente a Marino, accompagnato dalle Confraternite e da tanti devoti. Trovò la cittadina illuminata a giorno! La predica d’apertura fu così commovente e toccante che già quella stessa notte molti peccatori vollero da lui confessarsi. I «Ricciaroli» che avevano ac-compagnato S. Gaspare ed altri sopraggiunti, si fermarono per tutta la Mis-sione, perché i marinesi, dimenticando ataviche rivalità, facevano a gara per ospitarli nelle proprie case. Il 27 gennaio i Missionari passarono nella vicina Castelgandolfo, anche al¬lora residenza estiva dei Pontefici. Salito sul palco, Gaspare si pose una corda al collo e una corona di spine sul capo e cominciò a disciplinarsi. I suoi com-pagni fecero altrettanto, destando in tutti grandissima commozione. L’ultimo giorno si verificò un episodio singolare, meraviglioso e commo¬vente, che ci ricorda quello famoso della mula di 5. Antonio di Padova avve¬nuto a Rimini. Era tanta la folla che la predica conclusiva dovette essere te¬nuta in piazza. Mentre il Servo di Dio predicava, si trovò a passare un fore¬stiero del tutto incredulo, che, col suo asino, si dirigeva verso Marino. In cuor suo cominciò a deridere e a commiserare quella «povera gente che stava li a perder tempo per ascoltare quel prete chiacchierone… .» Ma ecco che, mentre egli pensa così, il somaro s’impunta e non vuol andare avanti, poi si inginoc-chia e rizza le orecchie come a voler meglio sentire la parola di Gaspare. Il pa-drone, irritato, dà di piglio al bastone e comincia a percuotere la,bestia per farla rialzare. Il ciuco, per quante bastonate gli calino sul groppone, è irremo-vibile e, solo dopo che il Santo ha concluso il suo discorso e ha benedetto gli astanti con il grande crocifisso, si rizza spontaneamente. Il singolare e prodi-gioso episodio valse a convertire molti increduli, a cominciare dal padrone del somaro. Da Castello Gaspare il 13 febbraio si conduce a Civitalavinia e poi, come abbiamo detto, va in Albano per l’apertura della Casa di Missione. Il 22 aprile lo troviamo nella Diocesi di Viterbo, dove predica la Missione a Barberano e Brieda, durante la quale riesce ad abbattere odi che sembravano indistruttibi-li. Vi si era adoperato per un’intera giornata il Merlini, come confessa egli stesso, senza riuscirvi; invece Gaspare con poche parole ottenne la pacifica-zione. Il Vicario di Albano, dove ormai il popolo ha ben conosciuto lo zelo dei Missionari e si reca quotidianamente alla Chiesa di S. Paolo, dopo essere sta¬to informato degli eventi di Ariccia, Galloro, Marino e Castelgandolfo, insiste con Gaspare perché predichi una Missione anche in Albano. Gaspare vi dà inizio il 26 agosto con le solite modalità, e subito il popolo vi partecipa con entusiasmo. Il Merlini, che era del gruppo dei predicatori, dice che questa Missione fu accompagnata da speciali benedizioni di Dio e che «si dovette sempre predicare nella grande piazza del prato, accanto alla Cattedrale, la quale pur vastissima, s’era resa insufficiente a contenere tanta folla». E dice anche che, malgrado i Missionari fossero occupati a confessare da mattina a sera, «non si poteva arrivare a soddisfare le istanze dei penitenti». «Per il ca-rattere fervido degli Albanesi – è sempre il Merlini che parla – ed anche per le pubbliche e private vicissitudini, molti odi aveano divise le famiglie, cagio-nando efferati delitti e scandali. Gaspare, vero angelo di pace, riuscì a pacifi-care la città, anzi vi riuscì così bene che in seguito non vi fu mai più alcun dis-sapore». Istitui il Ristretto dei Fratelloni di 5. Francesco Saverio, quello di S. Luigi, la Congregazione delle Figlie di Maria e delle Sorelle di Carità, le quali si prodigavano notte e giorno per l’assistenza agli infermi. Dai Luigini e dalle Figlie di Maria, guidati dai Missionari, «sortirono negli anni sacerdoti e suore, alcuni dei quali morirono in concetto di santità». Durante le Missioni avvenne che: «Un dissoluto ingolfato in degradanti peccati, beffeggiava e derideva i Misteri di Religione, seducendo i semplici e gli ignoranti con gran danno delle anime. Una notte, sognando, gli parvero entrare in camera Gaspare e il Valentini che lo invitavano a penitenza e con grande fiducia gridavano: «Viva Gesù! Viva Maria!» Al mattino si svegliò gri-dando, inconsciamnete, Viva Gesù! Viva Maria! – e completamente mutato, corse ai piedi del Servo di Dio, al quale aprì il cuore tra amare lacrime». Fin qui il Merlini. Dopo un periodo di predicazione nelle Marche, Gaspare tornò nel Lazio e l’8 settembre si recò a Genzano, dove «il suo lavoro fu davvero immane». Ba¬sti dire, per averne idea, che in una sola giornata, portò la S. Comunione, ri-vestito di cotta, stola e piviale, come allora usava, a ben settanta infermi, sa-lendo e scendendo scalini, per viuzze strettissime in abitazioni a piu piani. Anche qui non mancò la conferma di Dio ed è sempre il Merlini a traman-darcene la memoria. «Un tale, immerso in ogni sorta di vizi, assente nei gior¬ni della Missione, né avendo voluto ascoltare la parola di Dio, sopraggiunta la sera al termine della Missione, dicevasi lieto che finalmente era finita la sce-neggiata. Il Servo di Dio, a chiusura avvenuta, mi ordinò di recarmi a predi-care l’ultimosvegliarino detto di semina, colà dove Dio mi ispirava. Andai in una parte isolata quasi deserta della città, e cominciai a predicare con tutto lo zelo possibile. Non vedendo alcuno, stavo per andarmene, scoraggiato, te-mendo proprio d’aver sbagliato la località… Invece abitava proprio là il nomi-nato peccatore, il quale, mosso da curiosità per la novità della cosa, pur non volendo, ascoltò la divina chiamata e penetrato il cuore ed altamente com-mosso con amare lacrime ripeteva: Gesù Cristo è venuto a chiamarmi in ca¬sa! Che onore, che grande misericordia!». Il Santo chiuse l’anno a Segni con una Missione che destò tanto entusiasmo ed i Segnini volevano che anche nella loro città fosse aperta una Casa di Mis-sione. S. Gaspare, nella grandezza del suo cuore avrebbe voluto essere pre-sente ovunque, sia di persona, che con i suoi Missionari, ma ce ne sarebbe voluto un esercito, e Dio non gliene aveva ancora concessi tanti! Quella sera Gaspare era ansiosamente atteso a Segni ed egli stesso aveva gran fretta di arrivarvi; lui solo ne sapeva il perché. «Un’anima, disse ai com-pagni, ha urgente bisogno di noi, dobbiamo affrettarci». Il vetturale però si ri-fiutò di salire la ripida strada che portava in città, mentre imperversava la bu-fera; egli allora, lasciò i compagni e se ne andò solo a piedi. Era notte inoltrata e il Vescovo, che ormai non l’aspettava più, fece ugual-mente suonare subito le campane e Gaspare tenne nel duomo la predica d’in-troduzione. A Segni c’era un uomo da vent’anni lontano dai Sacramenti. La sua vicenda, narrata dal Valentini, ha dell’allucinante. Appunto, vent’anni prima della Missione, due uomini a lui sconosciuti, lo avevano avvicinato, confidandogli ch’erano alla ricerca di un tesoro e gli fis-sarono appuntamento nei pressi d’una caverna. Vi si recò puntuale, ma non li vide. Sentì rumori di picconi nella caverna ed entratovi li trovò che scava¬vano. Gli dissero che, per arti magiche avevano saputo che li c’era un tesoro, che solo in tre avrebbero potuto trovare e dividerselo. Al suo arrivo compiro¬no un rito, invocando il demonio. Si presentarono due esseri spettrali, che straziarono quei due e li portarono via. Forse una vendetta bene organizzata? Egli, atterrito, ebbe la possibilità di darsela a gambe e tapparsi in casa. Preso dal terrore gli sembrava di vedere un mostro e invocò la Vergine. Il mostro scomparve per tornare con un foglio di carta da firmare: dare l’anima a Satana, in cambio di pace e ricchezza. Firmò, ma da quella notte la sua fu una vita d’inferno. Più riceveva danaro e più aumentava il terrore e la mise¬ria. Così passarono vent’ anni, finché, proprio quella sera della venuta di Ga¬spare, straziato aveva deciso di togliersi la vita. Stava per compiere il gesto fatale, quando sentì il suono delle campane. In-curiosito andò anch’egli in chiesa, la trovò gremita e sentì parole ricche di speranza. Gaspare stava predicando sulla Misericordia Divina e della poten¬za del patrocinio della Vergine. Vuol parlare col P. Missionario, confidargli tutto. Quando la gente è tutta uscita, egli resta li, tremante. Ad un tratto si sente posare una mano sulla spalla e trasalisce. È Gaspare che lo incoraggia. La sua voce è tenera e sicura, il suo sguardo dolce e penetrante. «Coraggio, fi¬gliolo, Dio è misericordioso e la Madonna vi ama!» L’uomo scoppia in pianto: «Padre santo, se tardavate ancora pochi minuti a venire, mi suicidavo! Ho venduto l’anima al demonio ed egli non mi dà più pace». «Lo immagino, fi¬ gliolo, ma ora, riconciliato con Dio, torna a casa tranquillo, ritornerà la pace. Satana è sconfitto e troverari sul letto la tua carta. Non dimenticare mai la tua preghiera al Sangue di Gesù e alla Madonna». Cosa pensare di quest’episodio riportato da tutti i biografi del Santo e perfi¬no dall’ insospettabile Prof. Papasogli? Anche allora erano in voga le sedute spiritiche, guaritori e fattucchieri… Chi ha tramandato l’episodio è degno di fede. D’altronde, a cominciare dal Vangelo, di apparizioni e possessioni demoniache è piena la storia e, un certo potere diabolico, nei limiti da Dio permessi, è innegabile. La vita dei santi ne è stracolma, compresa quella di S. Gaspare. Non sono, questi episodi, verità di fede ed ognuno potrà interpretarli alla propria maniera. Una cosa è certa: il potere del male è enorme e sconcertante, e solo con l’aiuto divino potremo sottrarcene. Il 1822 comincia per Gaspare con vari eventi dolorosi. «Stando io di stanza a Velletri, racconta il Fontana, uscimmo per il solito svegliarino e ci fermam¬mo nei pressi d’una casa scandalosa, dove ci presero a sassate. I malvagi, aiz¬zati, purtroppo, anche da preti e frati in gran numero nella città, sparsero ca¬lunnie contro i Missionari, onde Gaspare fu costretto a chiudere quella Casa, solo rammaricato che si venisse a impedire il servizio di Dio. Ci inculcò di perdonare ed amare i nostri nemici e di pregare per il loro ravvedimento». Come questo non bastasse, recandosi a Terracina, trovò la Casa chiusa a sua insaputa e fu proprio uno dei suoi a tradirlo. Don Giacomo Gabellini, privo di vocazione per il ministero apostolico, aveva tradito la fiducia del Santo e scritto lettere in Alto, per le quali anche il Card. Cristaldi ne era rimasto tanto male. In esse Gaspare vi è descritto come «uomo imprudente, privo di discer-nimento e di gran superbia». Il Cristaldi disse al Santo: «Sono questi gli uomi¬ni di cui vi fidate tanto!». Con l’animo straziato Gaspare si recò a dar le Missioni a Vallecorsa, Ana¬gni, Acuto, Alatri e Benevento. Solo nel suo ministero e nel bene ~he riceve¬vano le anime trovava conforto. Non mancavano però neppure le gioie che gli donava il Signore. Ad Alatri, narra il Merlini, un ragazzo guarì da un male al piede, lavandolo con l’acqua di S. Francesco Saverio benedetta dal Servo di Dio. Gaspare si portò anche a Bassiano, dove, nel ripartire, lo fecero passare at-traverso gli oliveti, che da anni non davano più frutti, pregandolo di benedir¬li. Egli impartì volentieri la benedizione col Crocifisso che portava sul petto. «Mirabil cosa! – scrive 1′ arciprete D. Santangeli – da allora hanno sempre frut¬tificato in abbondanza, fino al giorno d’oggi, mentre i circonvicini sono rima¬sti com’erano». Un prodigio simile avvenne anche a Lenola, presso Gaeta. Una grande consolazione gli recò, al ritorno dalle Romagne e dagli Abruzzi, il permesso di riaprire la Casa di Terracina. L’Istituto, pur fra mille difficoltà e grande miseria, cresceva in modo prodigioso! Il 1823 vede ancora Gaspare in vari paesi del Lazio. Abbiamo già parlato a lungo delle predicazioni a Piperno, Veroli, Prossedi, Maenza e Pisterzo; ora vogliamo aggiungere un belì’ episodio avvenuto a Supino, dov’ egli si tratten-ne per vari giorni dal 26 dicembre di quest’anno. Stanco e intirizzito dal fred-do, vi giunse con i suoi compagni ad un’ora e mezza di notte. Il popolo non vedendoli arrivare, temendo un’aggressione brigantesca, era in trepida atte¬sa. Non appena li scorsero spuntare, come fantasmi imbiancati dalla neve, che cadeva in abbondanza, suonarono le campane a festa, sicché giunti, sen¬za alcun riposo e ristoro furono accompagnati in chiesa per dar inizio alla Missione. Gaspare, avendo notata l’estrema miseria della popolazione, «sgrassata anche dai briganti» e causa di gravissimi mali morali nelle fami-glie, convenne con i capi delle Confraternite e il clero di fare una questua per provvedere i più poveri di paglioni, letti e biancheria. All’ ora fissata, non es-sendosi presentato alcuno, com’era stato deciso, perché si vergognavano di andare a bussare alle porte e chiedere carità, non si perse di coraggio ed egli stesso, accompagnato dagli altri Missionari e da Fratel Bartolomeo, si posero in giro con bisacce e sacchi sulle spalle e, al suono d’un campanello, si diede¬ro a percorrere le vie del paese. All’insolito spettacolo, la gente commossa, donava quanto più poteva e molti di quelli che prima s’erano tirati indietro, si accodarono ai Missionari per aiutarli. Nei primi di gennaio del 1824, Gaspare, «trentanovenne, ma logoro innanzi tempo, per le immani fatiche e i dispiaceri», non tralasciò le Missioni e si recò in Diocesi di Gaeta. Si portò subito a Itri, la Regione dominata da Fra Diavolo. Nessun vetturale ve lo vuole condurre e perfino il clero e le autorità lo sconsigliano, essendo già calata la notte da un’ora, e anche perché le vie disastrose, impervie e sel¬vagge si sarebbero prestate ai trabocchetti dei malvagi. Gli stessi compagni tremavano e borbottavano. Ma Gaspare li persuase a seguirlo a piedi e li ras-sicurò: «Non ci accadrà nulla di male e in questa Missione condurremo molte anime a Dio». Quando arrivarono a notte inoltrata, assiderati e stanchi, do-vettero ricoverarsi in chiesa, perché non era stato approntato alcun alloggio. A Itri rimase a lungo la memoria della grande Processione di Penitenza con la statua della Vergine Addolorata, portata a spalla, in un alone di luce e seguita da una fila interminabile di donne vestite di nero con ramoscelli di cipresso e ceri tra le mani. Furono senza numero le conversioni e in questa cittadina, come abbiamo narrato, avvenne l’episodio dell’estasi del Santo in confessio-nale. Da Itri si recò a predicare a Mola, poi a Castellone. Qui, pur senza voce, ini¬zio i quattordici fervorini della Via Crucis. Faceva pena! Ma giunto alla quar¬ta stazione, la voce gli tornò più squillante che mai. Narriamo ora qualche episodio, cominciando da quello che il Merlini rac¬conta di se stesso. «Chiamato che io fui dal Servo di Dio, mentre mi trovavo a Sermoneta, durante il viaggio fui morso da certi insetti in una gamba. Questa mi si gonfiò in modo che a gran stento, giunto qui in Albano potevo cammi-nare. Vi feci alcuni bagnoli e il giorno appresso andato in Roma, sentivo an-cora forte l’incomodo. Il Servo di Dio mi voleva far camminare per la came¬ra, ma io dissi che non potevo. Mi disapprovò i bagnoli che avevo fatti e poi¬ché insisteva per farmi camminare, gli dissi che mi avesse benedetto il piede, mi pare di certo con la Reliquia di 5. Francesco Saverio. Trovandomi bene¬detta la gamba, camminai liberamente, né più sentii alcun incomodo». «Stando il Can. Del Bufalo a Pontecorvo, – narra il P. Berra dei Dottrinari – ov’era un ragazzo deficiente, che non riusciva ad apprendere nulla di quanto gli si insegnava con tanta pazienza ed amore, egli fu invitato in casa del ragaz-zo ad assistere all’ora di lezione e gli pose le mani sul capo. Avveniva che mentre D. Gaspare gli teneva le mani in quella posizione, apprendeva tutto a meraviglia, appena le staccava non capiva più nulla. I familiari piangendo pregarono il Servo di Dio di non staccarle mai». – Figlioli, egli rispose, ho tan-to da fare e non posso rimanere sempre qui con voi, come anch’io vorrei. Ora preghiamo il Signore affinché schiarisca la mente a questo bravo ragazzo! e recitata una preghiera, lo benedisse e se ne andò. La famiglia continuò a pre-gare e nella lezione dell’ indomani e in quelle dei giorni seguenti, il ragazzo si manifestò d’una intelligenza non comune. In quella stessa circostanza, pure a Pontecorvo, il contadino Paolo Turchi, il cui cavallo, imbizzarrito, lo aveva travolto in una voragine, fu salvato dall’intervento del Santo. Trovandosi Gaspare a Zagarolo, dove già aveva indotto una donna a perdo-nare il giovane che le aveva ucciso la figliola, guarì il servo del Principe, col-pito da grave apoplessia. Il miracolato, per riconoscenza, vestì per tutto il re-sto della sua vita il sacco di S Francesco Saverio. Un altro fatto prodigioso avvenne nella Campagna Romana ad opera di S. Gaspare. Fu chiamato da un parroco, D. Felice De Benedictis, presso un gio-vane ventenne, che era vicino a dar l’ultimo respiro. Il Santo vi si recò e con-sigliò il Parroco di pregare con lui S. Francesco Saverio. Mandò quindi a prendere in chiesa il quadro del Santo suo Patrono, che soleva sempre porta¬re durante le Missioni ed esporre alla venerazione dei fedeli, lo pose sul letto dell’infermo e pregò col sacerdote e i familiari del malato. Questi nella stessa giornata cominciò a migliorare, poi guarì ben presto e del tutto. Siamo ora al 1825 e già agli inizi lo troviamo a Roccagorga, poi a Traetta (oggi Minturno), a Castelforte e di li a Ferentino e quindi a Prossedi. Fu que¬sto l’anno in cui dové subire le più umilianti e spietate lotte, scatenate da ne¬mici d’ogni sorta, che riuscirono ad ingannare anche l’amico Pontefice Leone XII, che gli vietò di predicare altre Missioni! Era l’Anno Santo e Settari e Massoni tramavano la sovversione dello Stato e della Chiesa. Gaspare cerca di fare quel bene che può, ma soffre pene indici-bili per il gran male che ne viene alle anime. Nulla dice di sé, ma esclama: «Come darei volentieri anche il sangue in difesa della Chiesa!» Il santo vesco-vo di Terracina, Mons. Manasse, che ben lo conosce, accennando alle soffe-renze di quel periodo, così scrive: «Nelle sue grandi sofferenze, il Can. Del Bufalo, ovunque passò, diede, nel silenzio e nell’ adesione alla Volontà di Dio, fulgidi esempi di pietà, disinteresse, mortificazione, umiltà e santità». Un salto da fare e non posso rimanere sempre qui con voi, come anch’io vorrei. Ora preghiamo il Signore affinché schiarisca la mente a questo bravo ragazzo! e recitata una preghiera, lo benedisse e se ne andò. La famiglia continuò a pre¬gare e nella lezione dell’ indomani e in quelle dei giorni seguenti, il ragazzo si manifestò d’una intelligenza non comune. In quella stessa circostanza, pure a Pontecorvo, il contadino Paolo Turchi, il cui cavallo, imbizzarrito, lo aveva travolto in una voragine, fu salvato dall’intervento del Santo. Trovandosi Gaspare a Zagarolo, dove già aveva indotto una donna a perdo-nare il giovane che le aveva ucciso la figliola, guarì il servo del Principe, col-pito da grave apoplessia. Il miracolato, per riconoscenza, vestì per tutto il re-sto della sua vita il sacco di S. Francesco Saverio. Un altro fatto prodigioso avvenne nella Campagna Romana ad opera di S. Gaspare. Fu chiamato da un parroco, D. Felice De Benedictis, presso un gio-vane ventenne, che era vicino a dar l’ultimo respiro. Il Santo vi si recò e con-sigliò il Parroco di pregare con lui S. Francesco Saverio. Mandò quindi a prendere in chiesa il quadro del Santo suo Patrono, che soleva sempre porta¬re durante le Missioni ed esporre alla venerazione dei fedeli, lo pose sul letto dell’infermo e pregò col sacerdote e i familiari del malato. Questi nella stessa giornata cominciò a migliorare, poi guarì ben presto e del tutto. Siamo ora al 1825 e già agli inizi lo troviamo a Roccagorga, poi a Traetta (oggi Minturno), a Castelforte e di li a Ferentino e quindi a Prossedi. Fu que¬sto l’anno in cui dové subire le più umilianti e spietate lotte, scatenate da ne¬mici d’ogni sorta, che riuscirono ad ingannare anche l’amico Pontefice Leone XII, che gli vietò di predicare altre Missioni! Era l’Anno Santo e Settari e Massoni tramavano la sovversione dello Stato e della Chiesa. Gaspare cerca di fare quel bene che può, ma soffre pene indici-bili per il gran male che ne viene alle anime. Nulla dice di sé, ma esclama: «Come darei volentieri anche il sangue in difesa della Chiesa!» Il santo vesco-vo di Terracina, Mons. Manasse, che ben lo conosce, accennando alle soffe-renze di quel periodo, così scrive: «Nelle sue grandi sofferenze, il Can. Del Bufalo, ovunque passò, diede, nel silenzio e nell’adesione alla Volontà di Dio, fulgidi esempi di pietà, disinteresse, mortificazione, umiltà e santità». Un sacerdote, sul quale anche se non è citato il nome crediamo di scorgere lo stile di S. Vincenzo Pallotti, così depone: «Gaspare visse l’Anno Santo confitto con Cristo sulla stessa Croce del suo dolore!». A conclusione di questo lungo capitolo non possiamo tacere alcuni episodi di note conversioni, che tanta gioia davano al cuore di Gaspare. Essi vanno aggiunti a quelli già narrati, limitandoci però qui solo a quelli avvenuti nel Lazio. Erano conversioni molteplici e sincere in ogni ceto di persone, che riguar-davano Settari, Massoni, giovani, che abbandonavano la loro vita peccammo-sa per rinchiudersi nei più austeri cenobi. A Sora un ufficiale superiore, osti-nato incredulo, si converfi e nei dodici anni che passarono fino alla morte, condusse una vita esemplarissima, tanto che, dopo il trapasso se ne scrisse la vita ad edificazione. Anche a Sora «una giovane, che fin’allora aveva sempre taciuto i peccati in confessione, per l’azione sollecita del Servo di Dio, si tro¬vò l’anima rifatta». In altra città del Lazio, «un giovane alla fine della Missio¬ne, vedendolo partire sulla cavalcatura, gli corse dietro chiedendo di confes¬sarsi e gli disse che s’era tanto commosso e pentito dei suoi peccati quand’egli nella predica, presentando il Crocifisso, aveva scongiurato i pec¬catori, redenti dal suo Sangue, di far ritorno a Dio». Nel Frusinate, il servo di Dio «trovò un tale ch’era stipendiato per eliminare le Sette, e invece le favoriva, prendendo da esse altro stipendio perché non le denunciasse. Lo esortò all’onestà ed egli gli cadde in ginocchio ai piedi e divenne onesto». Anche un sacerdote coltissimo e brillante, al sentirlo predicare, smise la sua vita leggera e divenne esemplare Ministro di Dio. Un altro sacerdote, che abbandonandosi, per errata vocazione, alla vita mondana non si era più confessato da 40 anni «soggiogato dalle sue dolci ma-niere, dal suo zelo e dalla sua vita austera, gli cadde ai piedi compunto». «Un civile, da trentotto anni lontano da Dio, fu da lui ricondotto alle prati¬che religiose; e così altri, chi da dieci, chi da ancor più anni e perfino anziani coi piedi nella tomba, ritrovarono nell’apostolo la salute delle loro anime tra-viate». A Prossedi un pubblico peccatore, che si era tappato in casa per non sentir¬lo, preso da curiosità – «che dirà mai costui da potermi convincere?» – apri la finestra e, sebbene il Santo stesse predicando in chiesa, udì distintamente le sue parole contro la disonestà e, toccato dalla Grazia, cambiò subito vita e ri-parò agli scandali dati. Se tanti si convertirono, o commossi dalla predica sulla Misericordia divi¬na, o atterriti dai terribili castighi di Dio cui sarebbero andati incontro, un li¬bertino fu invece affascinato dalla predica del Paradiso, tanto da esclamare tra la folla: «Cosa sono le mie effimere gioie, che poi mi tormentano l’anima? Se c’è felicità vera è quella predicata dal santo Missionario!» e mutò vita. S. Vincenzo M. Strambi, passionista, vescovo di Tolentino, si domandava: «Perché Gaspare ottiene tanti frutti e strepitose conversioni con la sua paro-la? Perché è Dio che predica per bocca di questo suo Servo!» «Ed è per questo, aggiunge il dotto P. Romani, che le prediche del Can. Del Bufalo illuminano le menti più ottuse e commuovono i cuori più ostinati nel peccato». Nel 1827 Gaspare si trattiene in Albano a predicarvi il mese di giugno in onore del Prez.mo Sangue nella chiesa di 5. Paolo. È immensa la sua gioia nel potersi tuffare nel Mistero che affascina sempre di più il suo cuore e ne trae l’anima al Cielo! La sua parola è un inno, un canto continuo, e «la foga del suo dire meraviglia e conquide la folla che ricolma la chiesa». Viene a saperlo il Card. Barberini, che si trova nella sua villa di Castelgandolfo; egli depone gli abiti cardinalizi e, come un qualunque semplice sacerdote, si confonde ogni sera tra i fedeli per ascoltarlo. Gaspare viene a saperlo, e, nella sua grande umiltà, ne resta confuso e si ritiene indegno di tanto onore. Non gli è difficile trovare una scusa per farsi sostituire; non si sarebbe più trovato a suo agio! Il Merlini ci dice che spesso si sfogava un po’ con lui sulle traversie della Congregazione, passeggiando nei viali dell’orto, e che ne soffriva tanto per i suoi cari Missionari. Così ne scrive: «Per tutte queste vicende, ognuno vede quanto deve soffrire il nostro Fondatore, che a volte diceva: – Si è speso, si so-no gettati danari a sacchi, ci siamo dispendiati, logorati la vita! I Missionari raminghi, sperduti qua e là, col fardello sempre al collo e poi? – Se la debolez-za dell’ uomo gli faceva uscire dal labbro dei ma, che parevano distruggere la sua eroica virtù, uno sguardo al Cielo, lo faceva ritornare nella divina, invin-cibile forza di rassegnazione e raccogliersi in preghiera! » Ci piace chiudere questo lungo capitolo con un episodio che si dice avvenu¬to a Sonnino e che io stesso nel 1931, appena sacerdote, sentii narrare dagli anziani di quella cittadina così cara a 5. Gaspare, dove, forse ancora oggi, se lo tramandano di padre in figlio. Narrano dunque che Gaspare un giorno fu invitato a pranzo da un signorot¬to del luogo e, contrariamente alle sue severe abitudini, accettò senza farsi neppure troppo pregare. Se i compagni se ne meravigliarono, la popolazione ne restò addirittura scandalizzata! Sapevano infatti che il Santo declinava sempre quest’inviti, anche se pressato da Vescovi e Cardinali; anzi rifiutò, col dovuto garbo, perfino l’invito del Re di Napoli, che lo voleva presente ad un pranzo di gala a corte. «Non sapeva forse Gaspare – diceva la gente – quanti delitti portava sulla coscienza quel manutengolo di briganti, che aveva getta¬to sul lastrico tante povere famiglie?» Quei bravi Sonninesi, delusi e rammaricati, accorsero a curiosare quando il Santo, accompagnato da un paio di confratelli, entrò in quella casa tra gli in-chini e i baciamani del padrone e dei suoi degni compari, accorsi a riceverlo sul portone. Erano rimasti li ad attendere con pazienza per vederlo uscire, forse anche… brillo, dopo il lauto banchetto! Ad un tratto, e con sorpresa, notarono che l’al-legro vociare dei commensali s’era interrotto di colpo; avevano sentito la vo¬ce severa di Gaspare, e quindi lo videro uscire di fretta con i compagni col volto molto turbato. Cos’era mai avvenuto? Si sparse subito la notizia che il Santo, nel momento più allegro del pranzo, tagliò un pane e tutti i commensali, allibiti, poterono vedere che grondava sangue. «Questo pane, aveva detto Gaspare con voce tagliente, è stato impa-stato col sangue dei poveri e delle vostre vittime!»; e lasciò in fretta la mensa e la casa. Miracolo o leggenda? Gli storici non ne parlano. L’episodio però dimostra quale concetto s’erano fatti i Sonninesi del loro caro Santo, e rispecchia genuinamente la coscienza di Gaspare, che mai tacque, di fronte a chiunque, quando si trattava di difen¬dere i diritti degli umili e dei perseguitati. Ne andasse anche la vita! Le avventure di D. Ferretti Di episodi simili a questo che stiamo per narrare, ne avvennero tanti du¬rante il periodo della vita apostolica di S. Gaspare e dei suoi primi compagni. Lo si deduce dagli accenni che, qua e là, ne fanno i biografi del Santo e gli sto¬rici dei primi anni della sua Congregazione. Abbiamo scelto questo fra gli altri, perché il Rey ce lo racconta nei suoi mi-nimi particolari. Chi legge la vita del Santo capirà da sé ch’ era del tutto naturale che, nelle tante novelle Casa dell’ Istituto e durante le Missioni accadessero episodi, tra i più impensabili tristi o esilaranti, umilianti o esaltanti, penosi o ricchi di gioia. Al loro fiorire si prestavano il vasto campo d’azione di Gaspare, le loca-lità fra loro più eterogenee, la semplicità delle popolazioni di tanti paesi ta-gliati fuori da ogni consorzio umano, le particolari condizioni delle vie e dei mezzi di comunicazione, il grande zelo dei novelli missionari, la passione del¬le folle, il terrore, l’esaltazione, il diverso temperamento di tanta gente! Narrando quest’ episodio, che ci fa conoscere un certo D. Ferretti, che altri-menti nessuno avrebbe mai ricordato, vogliamo rendere testimonianza a tan¬ti umili e santi discepoli di Gaspare, sacerdoti e fratelli laici, che, come D. Ferretti, nel silenzio, nell’ ubbidienza, nell’ abnegazione e nella sofferenza consacrarono interamente la loro vita alle anime e allo sviluppo della novella Congregazione intitolata al Sangue Divino di Cristo. * * * Sono tante le testimonianze di Missionari, sacerdoti e laici che asseriscono che, quando ubbidivano ai suggerimenti del Santo, si appianavano anche le più irte difficoltà e tutto finiva bene. Il Santo, da parte sua, sempre ubbidien¬te nella sua vita, anche a costo di dolorosi sacrifizi, soleva dire: «Ubbidite e tutto sarà facile!». E lo conferma anche l’episodio che stiamo per narrare. Gaspare avrebbe dovuto recarsi da Pontecorvo a tenere una predicazione a Vallecorsa, ma chiamato d’urgenza al capezzale di D. Betti, morente a Bene-vento, delegò al suo posto D. Ferretti. Questi, per altro, di natura molto pau-roso, non se la sentiva proprio di affrontare quel viaggio da solo, sia per le asperità, sia perché battuto dai briganti, ma anche perché, sinceramente umi-le, non si riteneva all’ altezza di sostituire un oratore e un santo qual’ era il Del Bufalo. Ma Gaspare insisté: «Ubbidite alla Volontà del Signore e tutto andrà bene. Siate certo che vi sarò sempre vicino, passo passo». E D. Ferretti ubbidì, ma.. Per non guastare la genuinità del racconto, preferiamo riportarlo più o me¬no come lo narra il Rey nella sua vita del Santo. «La mattina stessa nella quale Gaspare partiva per Benevento, il Ferretti, da Pontecorvo, si dirige a piedi verso Frosinone. Giunto al ponte di confine sul fiume Melfa, trovò che l’inondazione lo aveva rotto. Per passarlo conveni¬va o guadarlo con grave pericolo della vita o affidarsi alle robuste spalle di qualche montanaro. Ma… qui sta il guaio! Per noleggiare le spalle di qualche volenteroso contadino, avrebbe dovuto mettere mano alla scarsella ed egli non vi aveva dentro che un solo paolo, giacché non prevedendo il caso e lusingandosi di presto tornare a Frosinone, non s’era azzardato di chiedere denaro a Gaspare. Fattosi tuttavia coraggio, chiama uno dei villani ch’ erano nel dipresso, pregandolo cortesemente di far-gli guadagnare 1′ opposta riva. Restò meravigliato D. Ferretti allorché vide quest’uomo non soltanto annuir volentieri, ma chiedergli anche di volersi confessare, asserendo essere un grande peccatore. Lo aveva riconosciuto co-me missionario. Caricatoselo perciò sulle spalle, prese a muoversi entro l’acqua del fiume in piena ed ogni tanto per lo sforzo che doveva durare, si lamentava col Mis-sionario dicendogli: – Oh! Quanto pesi! – D. Ferretti cercava di incoraggiarlo ma quando quegli si trovò nella parte più profonda, sicché l’acqua già gli ol-trepassava le anche, pensando di non poter più durare alla fatica gridò: – Io non ti posso più reggere! – Il povero Missionario, preso da spavento, temendo che la cosa provenisse da una vendetta del demonio, rivolge il pensiero alla Madonna, offre all’eterno Padre il Sangue preziosissimo, e con parole bupne rianima lo scoraggiato, che come Dio volle, riuscì a raggiungere finalmente la riva. Cavata dalla borsa l’unica moneta, D. Ferretti gliela porse, ed il contadino la gradì ringraziandolo ed aggiungendo: – Voglio confessarmi – Il Missionario avrebbe annuito volentieri, ma non sapendo in quale diocesi fosse ed incerto se avesse o meno la facoltà, si dové rifiutare, con suo grande dispiacere, non omettendo però di benedirlo. Ma il contadino, ignaro com’era di Morale e Fa-coltà ed alquanto rozzo, non volle convincersi, credette anzi di trovarsi di fronte ad un prete ingrato e si allontanò brontolando. Rimasto solo il Ferretti, riprese di buona lena la strada, ma pervenuto sul margine d’un affluente del Melfa, trovò anche qui rotto il ponte. Ventura vol¬le che vi si trovassero degli operai i quali, fatto alla meglio un ponticello dita-vole, lo fecero passare. E… cominciarono le dolenti note. Il capo muratore, ch’era stato il primo ad adoperarsi per costruire la passerella, richiedeva la mercede del suo lavoro, e D. Ferretti l’unica moneta che possedeva l’aveva data al contadino. Come fare? Pensa e ripensa… ricorda d’aver sulle scarpe le fibbie di argen¬to. Toltasene una la dié in pegno all’artiere che… rimase scontento. Giunto a Ceprano, sperava d’imbattersi in qualche conoscente. Invano at¬tese sulla piazza. E dire che gli stimoli della fame si facevano insistenti! Ver-gognoso di manifestare il suo miserevole stato, adocchiato un bel palazzo e fatto ardito dalla necessità, ne imbocca il portone e, salito al primo piano, pic-chia ad una porta. Viene ad aprire la Nobil Donna Ferrari, alla quale apparte-neva l’aristocratico stabile. A lei, in poche parole, il sacerdote racconta la po¬co piacevole avventura, chiedendole un boccone. Siccome la tavola era im-bandita, egli fu accolto volentieri e fatto accomodare in posto distinto, perché la sua non era davvero la faccia di un truffaldino! Dopo aver seguitato il racconto della sua avventura nei suoi minuti partico-lari, pregò la signora di fargli anche la carità di un paolo onde pagare il mura-tore a cui in pegno aveva lasciata la fibbia d’argento e dargli un cavallo, es-sendo già tardi e dovendo viaggiare per luoghi infestati dai briganti. La Nobil Donna non solo gli diede il paolo, ma anche il cavallo ed una guida. Licenziatosi con grande espansione e profusi ringraziamenti, il Missiona¬rio, montato in arcione, intraprende il viaggio. Ma il corsiero, che durante il giorno aveva molto lavorato, per quanto venisse stimolato con gli speroni, procedeva lentissimo, sicché egli dovette rassegnarsi a rinunciare alla caval-catura e a proseguire la strada a piedi, recitando preghiere alle quali il pio contadino che gli faceva da guida rispondeva. Giunsero incolumi alla Casa di Frosinone che scoccava la mezzanotte. I Missionari svegliati all’ insolita bus-sata, corsero ad aprire ed accolsero con giubilo fraterno il disavventurato compagno. Il giorno dopo il Ferretti raggiunse Vallecorsa. Durante il Triduo la calca dei penitenti fu tale che dové chiedere aiuto ai Francescani del locale Convento. Terminato il ministero prende la via del ritorno per Roma. Montato su un buon cavallo e seguito da un valido ciociaro di questa terra, cammina tra roc-ce e boscaglie. Accortosi quegli che il Missionario aveva una paura indicibile dei briganti e che, ad ogni stormir di fronda si piegava sulla criniera del caval-lo gli disse: Non abbiate paura, avete confessato parenti e mogli di questi no-stri fuorusciti paesani e volete aver paura? Quando vi sarà pericolo di abbat-terci in essi, io vi avviserò e voi canterete. Avete una buona voce e dovete sa-pere che piace ai briganti di udire le belle canzoni intonate dai missionari. Infatti allorché il contadino si avvedeva della presenza dei malviventi, o giungeva in luoghi sospetti, dava l’ordine: «Cantate ora!» E D. Ferretti, con voce che non riusciva a spogliarsi completamente del tremolo, dovuto a ra-gionevole paura, intonava una canzoncina in onore della Madonna! Così fra canti e meditazioni giunse a Frosinone». Il buon Missionario anche in tarda età, raccontava quest’avventura ed asse-riva con fermezza: «Sentivo sempre Gaspare al mio fianco e bastava pensare a lui per sentirmi rinfrancare. Però… però… ripensando al contadino che mi accompagnò da Vallecorsa a Frosinone, più lo guardavo, più ne ricevevo l’impressione che fosse o fosse stato, anch’ egli un brigante convertito dal Ser-vo di Dio! Concludevo: C’è da farsene meraviglia? Dio non si serve anche di gente malvagia per aiutare un povero Missionario che muore dalla paura?». I suoi cari allievi Più volte abbiamo avuto occasione di mettere in risalto le grandi premure di Gaspare per i suoi Missionari. Il Merlini ci dice: «Le premure che ebbe per i suoi compagni di Congregazione non è facile a dirlo. Conferenze in comune, discorso in privato, consigli, avvertimenti; la direzione a voce e per lettera era una delle sue principali occupazioni. In ciò fare era tanto industriosa la sua carità, che cercava in tutti i modi far penetrare nel cuore, inorpellando anche le amare pillole, secondo il bisogno, perché più facilmente venissero digerite e con destrezza induceva a far per virtù, ciò che non si faceva per ge¬nio. Egli era il primo a darne 1′ esempio». Ma la pupilla dei suoi occhi erano i suoi cari Allievi. Man mano che la Con-gregazione prendeva piede, Gaspare sentiva l’urgente bisogno di nuovi sog-getti, perché le richieste d’apertura di nuove Case erano molte e pressanti da ogni parte. Un Fondatore sa che per assicurare la stabilità della sua opera an-che per il domani, occorre innestarvi la linfa vitale della gioventù. Prima d’accingersi a tale realizzazione, pregò molto e chiese consiglio a chiunque riteneva potesse illuminarlo ed aiutarlo, finché lo stesso Leone XII encomiò la sua idea e l’incoraggiò. Quando gli sembrò che i tempi fossero maturi e che era quella la Volontà di Dio, si ritirò nel convento dei Padri Pas-sionisti sul Monte Cavo, nei pressi di Rocca di Papa, vicino ad Albano, dove tra preghiere, digiuni, penitenze e discipline, scrisse la Regola dei Convittori. «In quella solitudine eccelsa – dice il suo biografo G. De Libero – da dove 1′ oc¬chio spazia in orizzonti sconfinati e la contemplazione della natura e dell’in¬cantevole paesaggio rende più facile all’ anima il colloquio con Dio, tracciò con mano maestra un insieme di norme dettagliate e precise che hanno l’im-pronta inconfondibile della genialità». Non amava i grandi complessi, ma formò piccoli nuclei, così i giovani avrebbero potuto essere meglio seguiti, istruiti e formati. Dove, se non a 5. Felice culla dell’ Istituto, poteva nascere anche il primo Convitto? Ivi, infatti, accolse con amore i primi giovani nel 1824. «In questo tempo egli è tutto ap-plicato al Convitto dei giovani in S. Felice, dove sono 25 di Comunità. Ivi dà lezioni ed ama comunicare ciò ch’egli ha imparato. In questa occasione mette in esecuzione le Regole da lui compilate. Edifica in S. Felice i convittori aiu-tandoli a preparare le tavole per il Refettorio, nel lavare i piatti e le stoviglie, nel rifare i letti e rassettare le camere e nella pulizia della casa. Li educa nella carità dell’ assistenza ai malati, a dar mano ai più deboli, e soprattutto nello zelare il decoro del tempio del Signore». «Dà loro lezione di Logica e Teologia, dettando la Regola, della quale raccomanda l’osservanza più esatta, anche nelle più piccole prescrizioni, soddisfatto della loro condotta». Ecco come scrive in ripetute lettere al Card. Cristaldi: «Questi giovani sono la mia delizia e vanno benissimo, perché veramente edificano». «E inesprimi¬bile il mio gaudio nel veder qui in S. Felice una Comunità così piena di tanti giovani, che si preparano alle aspettative della Chiesa e si maturano nella pie-tà e nella scienza. Sono queste le novelle piante dell’ olivo che circondano la Mensa dell’Altare e Dio ne rimane glorificato!». Nello stesso anno segue l’apertura del secondo Convitto a Sermoneta, al quale poi seguono quelli di Sonnino, Terracina, Albano, Benevento, Rimini, Cesena. Dei giovani è sempre più soddisfatto, anzi entusiasta. Ascoltiamolo: «Il Convitto di Sonnino presenta una schiera di giovani veramente di grande aspettazione». «Qui in Rimini forma il decoro dell’ Istituto l’avere cinque gio-vani, che sono cinque angeli!». A ben riflettere ci volle solo il coraggio del Santo ad aprire tanti Convitti in tempi di estrema povertà e in quei paesi, dove i briganti sequestravano interi seminari per averne poi lauti riscatti prima di restituirli alle famiglie. Qual’ era il suo criterio educativo? Se è convinto che solo la Grazia di Dio feconda l’azione dell’ apostolo, ren-dendolo capace di opere grandi, è altrettanto persuaso che, non si può diveni-re un bravo e buon missionario, senza unire ad una soda pietà, una soda dot-trina: «Non si può essere buoni predicatori, e molto meno buoni missionari, senza pietà, scienza e dottrina». Pertanto cercò di formare i suoi giovani com’egli era stato educato e formato, dedicandosi di persona all’insegnamen¬to di Filosofia, Teologia e Sacra Eloquenza. Quando ne era impedito, si faceva sostituire dai Missionari più capaci e navigati. Nella Regola arriva addirittura a prescrivere che gli Allievi si «facciano dei cartolari per segnarvi – com’egli aveva fatto a suo tempo – appunti e schemi e che si esercitino i giovani nel re-citare a turno fervorini in cappella ogni sabato, narrando un esempio della Madonna». Il Servo di Dio, pur fra tanti impegni di apostolato e di Governo, sapeva tro-vare il tempo di recarsi a visitare molto spesso i vari Convitti e trattenersi con i giovani. Per creare fra gli Allievi di tutti i Convitti uno spirito di fraternità e d’emulazione, promoveva incontri or in un Convitto or in un altro, e teneva nella festa dell’ Immacolata un’Accademia in Albano alla quale, col Cardinale suburbicario della città, presenziavano vescovi, autonà civili e religiose, emi-nenti personalità della cultura e il seminario. Questa celebrazione era dive-nuta così famosa che vi si recavano dai vicini Castelli Romani e perfino da Roma. Intermezzati da canti e recite, venivano lette e premiate le migliori compo-sizioni di filosofia, teologia e letteratura, e premiati i giovani che durante l’anno s’erano distinti nello studio e nella condotta. Non mancava la farsetta finale. Manco a dirlo, Gaspare gongolava di gioia, si sentiva giovane fra i gio-vani ed era ottimo regista. Quanto egli amasse gli Allievi ce lo dimostra il seguente episodio, avvenuto nel Convitto di Albano, dove tra gli altri Allievi, si trovava anche Agostino Campodonico. Era questi un giovane prediletto dal Santo per la sua intelli-genza, la grande volontà nello studio, per la sincera pietà ed illibatezza. Era passato appena un anno dal suo ingresso in Convitto, quando decise di ab-bandonarlo. Lasciamo a voi immaginare quanto dispiacesse a Gaspare una si-mile decisione e possiamo anche immaginare «quante industrie mettesse in opera per dissuaderlo». Pregò, fece digiuni e discipline, ma a volte anche le preghiere dei santi non ottengono il risultato sperato. Lo tratteneva in lunghi colloqui in camera sua, lo conduceva con sé a cqm-piere qualche opera di carità nella cittadina. Lo conduceva anche a fare qual-che passeggiata e gli parlava della bellezza dell’ apostolato missionario, rac-contandogli episodi del brigantaggio o di commoventi conversioni, nonché della scialba e pericolosa vita nel mondo. Era come parlare ad una roccia, anzi sembrava che tante premure ottenes¬sero l’effetto contrario. Il Signore squarciò agli occhi del Santo anche il velo del futuro di Agostino e lo rivelò al giovane alla presenza del padre: «Voi sbagliate la vostra scelta e avrete da menare una vita angosciosa!». Agostino, nonostante tutto, mise in atto il suo disegno. «Mal gliene incolse, perché la predizione si avverò a puntino». Finì proprio male e Gaspare cercò di stargli a contatto per aiutarlo. Ne parlava a volte ai compagni rimasti in Convitto e «gli tremavano le labbra dalla commozione e gli occhi gli si inumi-divano». Non sappiamo se i Santi qualche volta piangano anche… in paradiso, ma crediamo che Gaspare nel vedere oggi il suo Convitto di Albano con pochi ra-gazzi e tanti giovani e famiglie non corrispondere alla chiamata del Signore e divenir preda di un mondo corrotto, pianga con amarezza sulla loro rovina! La barca affonda Siamo nel maggio del 1824 e S. Gaspare con alcuni suoi compagni e il pussi-mo vescovo di Terracina Mons. Manasse, si porta da Gaeta alle isole di Ven-totene e Ponza per evangelizzare quelle popolazioni, che da gran tempo ne in-vocavano la presenza. «Poco prima dello sbarco a Ventotene – scrive D. Fontana, ch’era sulla stes¬sa barca con Gaspare – insorse una fiera tempesta e il capitano aveva già co-mandato il taglio delle sarti e, allorché Gaspare…» La terribile scena è narrata con ricchi particolari e tinte di folclore da un altro testimone che descrive l’improvvisa e furibonda tempesta, 1’accavallarsi di onde altissime, che pare sommergano e poi riportano a galla la barca; marinai e missionari inzuppati fino alle midolla e sferzati dal vento e dall’ acqua; oggetti che galleggiano den-tro e fuori la barca; gli isolani che assistono impotenti alla scena dalla riva, is-sando lo stendardo della Vergine, che sembra anche Lei lottare contro i venti; le loro preghiere, il continuo suonare delle campane a martello, l’accorrere di altra gente sulla spiaggia o in chiesa a pregare! Gaspare, che per natura non è un eroe di… mare e per giunta ha lo stomaco malato e quindi in… eruzione, per singolare grazia divina, in quel frangente alza la voce e ricorda con fermezza a tutti la scena evangelica di Gesù, che dalla barca di Pietro seda la tempesta. Come Gesù, anch’ egli dice ai compa-gni: «Uomini di poca fede, di che temiamo? Preghiamo Gesù come gli Apo-stoli e restiamo tranquilli, perché nessuno perirà». Alza quindi la mano bene-dicente sul mare, che, come ad un ordine possente, prima rallenta la sua fu¬ria, poi si calma del tutto. Molti storici hanno paragonato Gaspare a Gesù, perché anche a lui nel no¬me del Divino Maestro obbediscono gli elementi della natura, come ci con-fermano tanti episodi della sua vita. Dalla vita del Santo conosciamo quanto egli amasse la gente del mare e i pe-scatori. Gaspare, grande apostolo, si esaltava al ricordo della chiamata dei primi Apostoli di Cristo, scelti tra i pescatori e al pensiero che fu un pescatore il prescelto a divenire il suo Vicario in terra! A Rimini si recava sempre al porto, quando si trovava in quella Casa, e si fermava a parlare con i pescatori proprio li dove S. Antonio parlò ai pesci; es-si, sebbene stanchi ed assonnati per la notte passata in mare e, più arrendevo-li dei loro antenati, che s’erano rifiutati di ascoltare il Santo di Padova, lo ascoltavano volentieri, presi dal suo parlare semplice, affettuoso, persuasivo e commovente. Era facile a Gaspare portare il discorso dalla vastità del mare alla immensi¬tà del cielo che lo sovrasta e quindi alla grandezza e alla bontà di Colui che lo ha creato! Così faceva a Terracina, ad Anzio, ad Ancona, sulle coste marchi¬giane, ovunque. Quante volte lo troviamo a consumare con loro un pesce ar¬rostito e, mentre si mangia, parlare a quegli uomini rudi delle meraviglie create da Dio per rendere l’uomo felice. Perché ricambiarlo con tanta ingrati¬tudine? Riesce con la sua dolcezza a penetrare in quei cuori dimentichi di Dio, che una vita dura costringeva a star lontano dalla famiglia e dalla chiesa, ma il cui animo certamente era ancora schietto. Gaspare, maestro della parola e conoscitore di cuori e di anime, accennava alle loro donne, che forse in quella stessa ora mettevano a letto i piccoli, ai quali prima di addormentarsi, facevano congiungere le manine e pregare per la incolumità del loro papà. Accennava anche a qualche fanciulla in attesa di qualcuno di loro, per coronare il suo sogno di amore. Qualche lacrima scorre-va allora da quegli occhi bruciati dalla salsedine… Il cuore di quegli uomini si apriva alle confidenze, alla confessione e Gaspare li stringeva a sé e assolveva dai loro peccati. Anche a Ventotene e a Ponza, come altrove, Gaspare ottiene conversioni ed opera prodigi e si… guadagna la vendetta del demonio, sempre più suo acerrimo nemico. Un uomo che da tantissimi anni aveva «contratto patto col demonio, col quale, per vie misteriose, riusciva anche a parlare» pentitosi e sottratto al maligno con l’assoluzione di P. Michele Calamita, soffri tremende vendette, e perfino il Missionario ne fu tanto molestato. Ne fa testimonianza lo stesso Mons. Manasse, che era bene a conoscenza dell’episodio. Gaspare non s’abbatte mai, anzi, proprio nel dolore il suo volto diviene più radioso, perché il Sangue di Cristo trionfa. Gioia e dolore, gaudio e sofferenza, com’era scritto in Cielo, dovevano es¬sere i compagni inseparabili del santo Missionario! La mano di Dio La parola di Gaspare ai peccatori non aveva mai un tono di minaccia, ma era un’accorata supplica di ritornare al bene. Parlava con dolcezza, imploran¬do il ritorno a Dio, grande nella sua misericordia e nel perdono. Mostrava, sia dal palco, che ai singoli, le piaghe del Crocifisso, il Sangue che ne sgorgava a redenzione di qualsiasi colpa, purché a quelle piaghe ci si accostasse col pen-timento. Sappiamo che la predicazione del Santo fu aspramente contrastata, perché era franca e flagellava il vizio e le ingiustizie, e quindi ledeva troppi interessi. Due erano le categorie dei suoi acerrimi nemici: i Settari, che miravano alla distruzione della fede nel cuore dell’uomo e coloro che, profittando di posi-zioni di responsabilità e fiducia, miravano, senza scrupoli e con qualsiasi mezzo, al proprio tornaconto. Di conseguenza pochi soffrirono tante lotte ed umiliazioni, calunnie e ingiustizie, come il Can. Del Bufalo! Eppure egli per-donò tutti e sempre, e così volle fa&essero anche i suoi Missionari. Tuttavia, pur con dolcezza, quand’ era necessario egli non nascondeva con tutta franchezza che «il Dio della Misericordia era anche il Dio della Giusti¬zia, vindice dei deboli e degli oppressi e a volte non risparmiava i suoi casti¬ghi ai duri di cuore». Ci si può domandare: Era lecito non ascoltare le esortazioni di un santo co¬me Gaspare, burlarsi di lui, continuare a calunniarlo e a martirizzarlo, restan¬do indenni dal castigo di Dio? Gli eventi ci dicono proprio di no. Ricordate come in Romagna alcuni Settari ch’ erano andati per sopprimer¬lo, appena al suo cospetto fuggirono atterriti e morirono tutti nella precipito¬sa fuga, finendo con la carrozza nel fiume? Racconta, il P. Michelangelo da Forlimpopoli che un canonico di Pennabilli, nel Montefeltro, che si opponeva con accanimento alla fondazione d’una Casa Missionaria in quella cittadina, ricorrendo anche a nere calunnie contro i Missionari, «fece una morte improvvisa ed orrenda». Durante una Missione ad Ascoli nel giugno del 1821, i Settari, nel vedere con quanto entusiasmo la gente gremiva il Duomo, lasciarono la città per non ascoltarlo, ma due rima-sero per «dileggiarlo». Uno dei due, compreso del disinteresse, delle fatiche snervanti, e dello zelo del Santo, si convertì, mentre l’altro, che invece si die¬de a deriderlo e a disprezzarlo pubblicamente, una sera, appena tornato a casa, morì improvvisamente. «Nella Provincia di Campagna, ad un maldicente che non la smetteva di ordire calunnie contro il Servo di Dio, gli si seccò la lingua». «Due signori che disturbavano la Missione, dando pubblico scandalo e mal parlando di Gaspare e dei suoi Compagni, a breve distanza morirono entrambi di morte improvvisa. Tutti furono unanimi nell’affermare che quel castigo era 1′ effetto delle loro calunnie». Se non pochi settari e carbonari convertiti andavano nottetempo a conse-gnargli armi ed emblemi, se molti cadevano pentiti ai piedi del Santo, presi dall’anelito incontenibile di liberarsi dal peccato, e alcuni, particolarmente giovinastri e donne di malaffare, entrarono trasformati in Monasteri della più rigorosa osservanza, non pochi, al contrario,rispondevano con insulti e bestemmie, rimanendo ostinati nel peccato. Per questi, purtroppo, in non po-che circostanze, non mancò la terribile mano di Dio! A Basciano, racconta il Bellini, in quel di Penne in Abruzzo, un giovane fa¬ceva il gradasso e non smetteva di porre in cattiva luce i Missionari con le più luride calunnie, giungendo perfino a parodiare con voce stentorea il Santo che predicava. Ebbene, pur essendo in perfetta salute, una mattina, durante la Missione, fu trovato stecchito nel suo letto. È tanto terribile anche 1′ episo¬dio d’un povero prete, che, non credendo ai terribili castighi che gli predice¬va Gaspare «s’ostinò a frequentare un luogo innominabile e venne trovato li, colto da morte improvvisa». A Forlimpopoli molti che si ostinavano contro Gaspare «fecero orribile fine». Morì all’improvviso anche un tale che, a Pennabilli, avversava con tena¬cia la Missione. A Bassiano, ad un uomo che aveva calunniato Gaspare venne il cancro alla lingua. Sempre a Bassiano alcuni, ostinati detrattori del Santo, morirono improvvisamente a pochi giorni 1′ uno dall’ altro. Gaspare all’udire così tristi episodi si ritirava in preghiera per implorare pietà dal Dio della Misericordia per le loro anime. Fu visto piangere e sentito esclamare: «Signore, tu sei il Dio della Giustizia, ma anche della grande Mise-ricordia. Ti prenda pietà delle loro anime, che costano Sangue al tuo Figlio di-letto!». Una bellissima donna Gli episodi della vita di S. Gaspare fin qui narrati, forse hanno fatto sorgere nella mente del lettore due interrogativi. Tante sofferenze fisiche e morali, la satanica lotta dei suoi nemici, 1′ atteggiamento dei Papi, fiaccarono mai il suo morale, smorzarono il suo zelo, raffreddarono la sua fervida azione missiona-ria? Ed è mai possibile che il Signore, il quale 1′ aveva prescelto in modo così lampante ad essere il fondatore d’una Congregazione in quel tempo tanto ne-cessaria alla società e alla Chiesa, 1′ abbia dato in totale balia dei suoi avversari? No, Dio non abbandona mai i suoi santi, né le sofferenze e le lotte fiaccaro¬no giammai lo zelo e l’azione del Santo. Proprio mentre un Papa sembrava volesse far chiudere le Case di Missione, Gaspare s’adoperava con tutto il suo impegno per consolidare la sua amata Congregazione cercando nuovi proseli¬ti tra il clero più qualificato, e ingrossare così le file dei suoi compagni. Il Signore, poi, manifestò apertamente la sua predilezione verso di lui, ar-ricchendolo di doni meravigliosi e taumaturgici e, in molti casi, insorse con tutta la sua Giustizia contro coloro che con perfidia cercavano di distrugger¬ne l’Opera. S. Gaspare, però, nel suo cuore non ha nemici, non chiede e non brama vendetta; stronca il peccato, ma ama il peccatore e prega affinché si converta e salvi. A Cori è salutato «Angelo di pace» dal popolo che lo segue con straordinario trasporto; guarisce e converte due peccatori ostinati. I Settari fremono duran-te la predica della pacificazione sulla piazza e, mentre cataste di armi, stampe cattive ed emblemi vengono consegnate per farne un falò, «mani ignote» lo gettano giù dal palco, causandogli una vasta ferita alle labbra e la perdita di un dente. Per nulla impressionato si rialza, pulisce la bocca insanguinata e continua con voce più calda la sua predica. Perdona gli aggressori e invita la popolazione, che insorge, a fare altrettanto. Ma, durante la notte, uno degli aggressori viene ucciso in un alterco da un suo compagno. L’ultima sera della Missione, con un segno di croce, il Santo Missionario ferma un furioso tem-porale che si era scatenato sulla folla. Da Cori passa a Sermoneta, dietro insistenza di quella popolazione che ha saputo le cose strepitose di Cori. Mentre il popolo lo accoglie ed ascolta con gioia, non mancano peccatori incalliti e tenaci persecutori. Una sera, durante la predica, Gaspare ad un tratto si ferma, si oscura in volto e dice: «Chi sa se qualcuno di voi che mi ascolta, avrà la sorte di udire la voce di Dio, domani sera». A quella stessa ora, la sera seguente, un tal Pasquale Tomarosi giaceva nella bara in chiesa. Quella sera la predica la fece lui! C’è addirittura tanto da pensare e tremare nel leggere quanto accadde a Ci-vitanova Marche dove i Settari non gli davano tregua. Ne fu testimone ocula¬re D. Biagio Valentini che ce lo racconta. Una donna bellissima, ma di facili costumi, si ostinava nel mettere pubbli-camente in burla il Servo di Dio, lanciandogli anche la sfida: «Dio non c’è e, se c’è, non mi mette paura!» Abitando in una casa, sita proprio sulla piazza antistante la chiesa dove Gaspare predicava, dal balcone rideva del Santo e invitava gli uomini che si recavano in chiesa a salire in casa sua per divertirsi con lei, anziché andare ad ascoltare tante frottole di quel prete romano. Il Santo ne era stato messo al corrente e l’aveva chiaramente avvertita degli im-minenti castighi di Dio, ma non era stato ascoltato. Ebbene l’infelice, proprio in un momento in cui più insolentiva, fu colpita da morte improvvisa. A chi accorse si presentò 1’orrido spettacolo d’un cadavere scomposto, dal volto di-sperato e stravolto, nel quale alla bellezza era subentrato l’orrore. Esposto in chiesa, il cadavere deforme inorridì tutti. Il Santo pianse per la dannazione di quell’anima! I drudi e le amiche presso quel cataletto ritrovarono la loro anima. Anzi un’ amica volle ricevere la Co-munione con in capo la corona di spine, chiese perdono ai fedeli e pregò il Si-gnore di richiamarla presto da questo mondo per non ricadere in simili sozzu-re. Morì dopo pochi giorni e, vestita di abito bianco, il suo corpo fu deposto nella bara con la stessa corona di spine che portava sul capo il giorno della Comunione». Molti, colti da salutare spavento, tornarono a Dio; due intere Logge Masso-niche gli consegnarono tutti i loro simboli ed insegne; e il popolo commenta¬va ovunque: «Con Dio e i suoi Santi non si scherza!» Le catene d’oro Pievetorina, presso Camerino nelle Marche, era tanto cara a S. Gaspare, perché vi aveva aperta la seconda Casa dell’Istituto e, per quanto a noi possa sembrare una cosa strana, anche perché aveva causato al suo cuore non po¬che sofferenze. Il 19 aprile del 1819 Gaspare col Valentini e D. Adriano Tarulli prese il via da Roma verso le Marche. A Serravalle si imbatté con Mons. Pervisani, Ve¬scovo di Nocera, e il suo Vicario Generale; reputò quell’ incontro disposto dalla Divina Provvidenza. Erano suoi carissimi amici e, senza preamboli, li invitò a lasciar tutto e recarsi con lui a predicar la Missione a Pievetorina, cit¬tadina che godeva triste fama di «nido di vizi e di ladri». Qui l’Abate Parroco e i notabili del posto avevano imbandito una cena lu-culliana, tanto che la popolazione, venuta a conoscenza di tanti preparativi, diceva: «I preti romani vengono a far qui carnevaletto!» Non conoscendo an-cora S. Gaspare, ne avevano tutte le ragioni. Sentite un po’: Pietanze appeti-tose, vini prelibati, rosoli di vario genere, dolci, confetti e quant’ altro può sol-leticare le voglie di un buongustaio. A tal vista Gaspare si turbò, fece subito portar via ogni cosa e propose di vender tutto a beneficio dei poveri. I signori e perfino il Parroco (una congiura?…) si opposero, credendo di poter vincere agevolmente la ferrea volontà del rigido apostolo con parole melate; ma ogni sforzo fu vano. Quella sera Gaspare e i suoi commensali, vescovo compreso, fecero digiuno. Fu in quella circostanza che nel popolo sorse il desiderio di avere anche colà una Casa di Missione. Leggiamo lo stringato racconto che di quell’ apertura ne fa il Merlini: «Ve-nendo a parlar del progresso della Congregazione, dirò che nel dicembre 1819, essendo il Servo di Dio andato in aprile a dar la Missione in Pievetori¬na, si accrebbe in quel popolo il desiderio di avere colà una Casa di Missione, nella quale prese impegno Mons. Cristaldi con Mons. Arcivescovo di Cameri¬no, il quale, avendo a sua disposizione il locale di S. Agostino, già abbandona¬to dai Padri Passionisti, lo dette all’ Istituto… così il Servo di Dio vi mandò i Missionari, i quali furono ricevuti con allegrezza e con giubilo». A chi conosce la storia delle prime Case della Congregazione non sarà sfug¬gita la strategia del Santo, che non aveva, nell’aprir le Case, preferenze di luo¬ghi e popolazioni, ma mirava solo al bene da compiere. Il suo era un vero e proprio «piano d’attacco contro il male»; le Case perciò dovevano essere «po¬sizioni avanzate» dalle quali i Missionari dovevano balzare con prontezza per recarsi dove lo richiedeva la salute spirituale delle popolazioni. Così Pieveto¬rina ed Ancona nelle Marche; Velletri, Terracina, Sermoneta, Frosinone, Val¬lecorsa e Sonnino nel Basso Lazio; Rimini, Cesena in Romagna; Pennabilli sul Montefeltro, Benevento in Campania. In queste Regioni spadroneggiavano briganti, settari, eretici, rivoluzionari, e Gaspare le privilegiò di questi centri di preghiera e spiritualità, e riuscì a cambiarne il volto! Ma torniamo a Pievetorina. Il Merlini accenna alle «grandi difficoltà frapposte, tanto che – si narra negli Annali dell’ Istituto – l’apertura poté avvenire solo dopo quattro anni di tratta-tive. Inoltre, superate le opposizioni degli uomini, cominciarono i contrasti dell’Inferno, che, «anche con strane apparizioni, disturbava i Missionari, che tuttavia si mantennero saldi!» Il Merlini, in proposito conferma: «Mandato colà, provai delle tentazioni, che non avevo mai avute, né più in alcun modo ho provato fino al dì d’oggi, e che, grazie a Dio, erano e sono contro il mio modo di pensare». A Pievetorina le amarezze del Santo furono veramente tante e atroci! Basti riportare un episodio narratoci sempre dal Merlini: «Della Casa di Pievetori-na, che si reggeva fra mille travagli, dirò in particolare un fatto. Sul principio della fondazione, due compagni del Servo di Dio, che poi si partirono, venne¬ro a contesa fra loro, non so per qual punto di conferenza morale, e se ne sparse l’ingrata notizia con avvilimento dell’ Opera nascente. Stava il Servo di Dio nel punto di partire per la Missione di Velletri, quand’ ebbe una tale noti¬zia. Se ne rimase egli afflitto, ognuno lo può immaginare, pur tuttavia non si perdé di coraggio ed appostovi subito riparo, mettendo la causa nelle mani di Dio, senza scomporsi si partì per eseguire la Missione». Sarebbe lungo narrare qui ancora tanti altri fatti incresciosi avvenuti in quella Casa, ma Gaspare non si lasciò mai abbattere, e vi si recava spessissi¬mo. Anzi, D. Rossi fa le sue meraviglie e resta edificato vedendo che «il Servo di Dio, tornato appena da faticosissime Missioni, accorreva a Pievetorina, ed ivi prendeva a predicare più volte al giorno, rispondeva a numerosissime let¬tere, interessavasi a tutte le cose, anche minime, riguardanti la Casa, serviva a tavola non meno di venti individui e recavasi poi in cucina a dar mano e nettar stoviglie». Pievetorina, però, non è conosciuta nella storia della Congregazione solo per la sua caratteristica negativa, ma anche, anzi di più, per lo spirito di pre-ghiera, carità e santità di cui l’ornarono, oltre che S. Gaspare, anche eminenti figure di Missionari suoi compagni; e basti citare il Merlini e il Valentini fra tutti. E rimasta anche celebre per alcuni fatti prodigiosi del Santo, di cui qui ne riportiamo solo due. Racconta un missionario: «Nel 1834, stando in Pievetorina mi disse il Servo di Dio volersi ritirare un poco in cappella a far orazione, raccomandandomi di non disturbarlo. Passata un’ora andai anch’io in cappella e lo vidi genufles¬so e tutto assorto in Dio e ritornò in sé, con gli occhi lagrimosi e il volto acce¬so, sol dopo che lo scossi più volte con la voce e con le mani». Accadde anche in Pievetorina uno degli episodi più belli e significativi del¬la vita del Santo, che il Merlini ci racconta con estrema semplicità: «Trovan¬domi io con lui (S. Gaspare), nel 1830 in Pievetorina, reduce dagli Esercizi dati al clero di Ancona, mi confidò un giorno che, celebrando quella mattina la S. Messa, gli pareva di aver veduta una quantità di catene d’oro che dal cielo scendevano sul calice e che per quelle la sua anima era portata in Paradiso. Il che gli servì di conforto». Meno male che di tanto in tanto accorreva premuroso il Signore a raddolci¬re un po’ le sue grandi pene! Questa volta lo confortò ed esaltò facendogli gu-stare dolcezze di Paradiso, promananti dal Mistero del Sangue Prezioso, che il Santo stesso aveva consacrato allora allora sui candidi lini dell’Altare. Gaspare sa che è la via del dolore 1′ unica che porta al Cielo, né desidera ve ne sia un’altra per raggiungerlo. Sa anche che, fra non molto la virtù di quel Sangue rapirà per sempre la sua anima e quel fuoco, quella vivida luce che ora la inondano gli fanno gridare: «Patire, sempre più patire per Te, mio Cro-cifisso Signore!». Vieni Signore! Un giorno a S. Felice, recandosi a far visita al Santuario del Fosco, Gaspare chiese, lungo il cammino, al Fratello Laico che lo accompagnava: «Secondo voi, quanto tempo mi toccherà passare in Purgatorio?» Il giovane fu pronto a rispondere: «Padre, voi andrete volando in Paradiso, subito dopo la morte». Il Santo dubitando d’essere degno di tanto, rifletté un istante e poi, alzando gli occhi al cielo, rispose: «Dio lo voglia!». Paradiso! Quante volte ne aveva parlato nella sua predicazione, estasiando l’uditorio! Quante volte, nelle difficoltà e sofferenze, aveva incoraggiato i suoi Missionari: «Se è così dolce patir sulla terra per il Signore, pensate quan¬to lo sarà goderlo in Paradiso!» E cosa rispondeva ai medici e a chiunque gli consigliava di prendere un po’ di riposo e d’aver cura della sua salute? «Mi ri-poserò in Paradiso!» Dopo il terribile incidente di Bracciano, Gaspare non s’era più ripreso. Ec¬colo aggirarsi nella Casa di Albano come un’ombra… Tuttavia non rimane in ozio e predica addirittura e con tanto ardore tutto il Mese del Prez.mo San¬gue; dà un ultimo sguardo alle sue carte, detta al Merlini i ritocchi alla Regola e gli impartisce gli ultimi avvertimenti nei riguardi dell’ Istituto. Si sente spes¬so esclamare: «Si secchi la mia destra, se non mi ricorderò dite, amata Con-gregazione del Preziosissimo Sangue!» Ed in segno di venerazione, nel pro-nunciare il nome del suo Istituto, si scopre il capo. Chiede spesso d’essere la-sciato solo «per parlare con Dio», e lo trovano rapito in contemplazione da-vanti ad un quadro dell’Addolorata, che è posato sul suo scrittoio. Lo si sente esclamare: «O dolcissima Madre mia, quanto avete sofferto e pianto per noi!» mentre lacrime gli rigano il volto. A chi gli chiede perché piange, risponde: «Mi vado preparando agli anni eterni!» A tarda sera si trascina spesso alla fi-nestra, contempla il cielo sereno e stellato e mormora: «Paradiso! Paradiso!». Ed ecco che arriva, come aveva predetto il Santo, la terribile notizia. Anche l’Italia, dopo la Russia, la Germania e la Francia, è colpita dal colera! Il Papa, dopo aver preso le opportune misure sanitarie, indice pubbliche preghiere e processioni di penitenza. L’icona della Madonna della Salute viene portata in processione dalla basilica di S. Maria Maggiore a quella Vaticana; lo stesso Pontefice vi prende parte scalzo e in abito penitenziale, e con lui il Collegio Cardinalizio e tutto il clero. Non appena la notizia giunge a Gaspare, egli, dimenticando i suoi mali, sente che Dio lo vuole nella sua Roma, per lenire tanti dolori ed asciugare tante lacrime. La carità brucia più che mai nel suo cuore! S’aggira nelle strade percorse dai carri della morte, sui quali, senza pietà, sono stati gettati in fret¬ta e alla rinfusa i cadaveri, dei quali non pochi spogliati da mani sacrileghe per rubarne i vestiti e i preziosi. Dalle vie e dalle case giungono al suo orec¬chio gemiti, pianti ed urla, che raggelano il sangue! Sale e discende a stento le ripide scale delle case più povere per portare qualche aiuto e 1′ umano confor-to: pregare, assolvere e benedire i morti. E se ne trova, abbandonati da chi èfuggito precipitosamente per scampare al pericolo, dimenticando anche le persone care, se li carica sulle spalle per deporli sui carri che passano. Chi l’aveva visto partire da Albano e coloro che l’avevano incontrato, fuggendo da Roma verso i Castelli, gli dicevano: «Signor Canonico, tutti scappano da Roma e voi ci andate. Lo sapete che il colera fa strage?» Gaspare rispondeva: «Lo so, lo so, figlioli, ma Dio mi vuole a Roma». Il Card. Odescalchi, Vicario di Roma, ignaro delle condizioni di salute di Gaspare, nell’àmbito delle manifestazioni di penitenza nell’Urbe, per propi-ziare dal Signore la cessazione del colera, lo invitò a predicare nella chiesa di S. Maria in Vallicella, detta anche la Chiesa Nuova. «Quantunque logoro, sfi-nito, emaciato e mal ridotto, tanto da parer l’ombra di se stesso, sempre nel cuore l’ardente desiderio di chiudere la sua vita sul palco da missionario, coll’arma del Crocifisso in mano» vi aderì volentieri, pensando che finalmen¬te questo suo antico e perenne desiderio, sia per avverarsi. Si era nei pieni calori di agosto e Gaspare, trascinandosi a stento, si recava nella chiesa rigurgitante di fedeli. Il suo nome attira non solo la massa, ma prelati, vescovi, cardinali e autorità. «Faceva pena a vederlo montare sul pal¬co lentamente, poggiandosi, con tutto il peso del corpo sfinito, al passamano della scaletta». Però al momento di prender la parola, come d’incanto torna-vano le antiche energie e predicava con ardore e facondia. Finita la predica il male riprendeva il dominio e «il petto si ribellava cagionandogli un conato pauroso che inteneriva gli astanti fino alle lacrime». I Padri Filippini, che offi-ciavano la chiesa, erano lietissimi di averlo con loro e gli prestavano amore-volmente ogni soccorso. Gaspare si recava a pregare all’altare dove sono ve-nerati i resti di S. Filippo Neri, e ripeteva come lui: «Paradiso, paradiso, ecco la mia patria!». Il Santo aveva anche predetto che sarebbe stata la devozione al Prez.mo Sangue a debellare l’immane flagello e invitò il popolo ad invocarlo con insi-stenza. Ultimata la predicazione, per ordine del medico, tornò subito in Albano. Ai primi freddi il colera si calmò, poi scomparve del tutto e i «Romani de Roma», per non smentire il loro carattere, ringraziarono il Signore con pre¬ghiere e grandi abbuffate di bucatini all’amatriciana e abbacchio alla brace. Grazie all’ aria più ossigenata dei Colli Albani, Gaspare sembrava essersi un po’ ripreso e volle, con pensiero delicato ed affettuoso, dedicarsi tutto ai suoi cari giovani Allievi, dando loro anche lezioni di Teologia. Ma, dal suo modo d’agire, appariva ben chiaro ch’ egli non si faceva illusioni, anzi faceva capire d’essere certo e felicissimo della fine imminente, che tante volte aveva pre-detto con precisione impressionante. Il Rey così ci descrive i suoi ultimi giorni vissuti in Albano. «Ilare sempre, per quanto gli acciacchi lo comprimano, come sotto un frantoio spaventoso, conversa, lavora, non sta mai un minuto in ozio. Lo han visto, verso l’ora del tramonto, guardare all’orizzonte, nella campagna romana, vaniente giù verso lo specchio lucente del mare, rotta spesso da archi di acquedotti e possenti rovine, guardare il cielo che si accendeva di croco, risonante del canto dei vetturali e dell’ eco dei carriaggi sul basilato dell’ Appia, mentre le campane lanciavano nell’aria le onde d’un invito a levar la mente a Dio. Gli occhi in-cantati verso la luce più pura che vi sia, le mani serranti al petto 1′ estasi d’una preghiera, le labbra sonanti tenuamente delle parole dell’angelo a Maria. Lo han visto… con lacrime pioventi da quegli occhi suoi opali, come quelli d’un fanciullo! Tra poco, catene d’oro lo solleveranno lassù, oltre il mare, oltre il cielo!» Questo giorno tanto bramato non avrebbe tardato molto. Una lettera del Card. Franzoni, informato dell’ aggravarsi della sua salute, gli ordinò di tra-sferirsi a Roma, dove il clima invernale più mite di quello d’Albano, gli avrebbe certamente giovato. I Missionari se ne dispiacquero assai, perché, certi della fine ormai imminente, avrebbero essi voluto chiudergli gli occhi nella Casa di Missione e sigillare nel cuore l’ultimo anelito del loro Padre e Fondatore. Gaspare, come sempre, obbedì e tornò nella sua angusta casa di piazza Montanara e si chiuse nella sua camera, una soffitta dell’antico Teatro Mar-cello, per non uscirne mai più, se non trasportato in una bara. Passava lunghe ore del giorno, e notti insonni, sconvolto da un’orribile tosse, stremato di for-ze, costretto su d’una poltrona. Le giornate scorrevano in ininterrotta pre-ghiera, la celebrazione della Messa e la recita del Breviario. In un rigido esa-me di coscienza, dimentico del gran bene operato, correva con la mente alla ricerca di difetti e manchevolezze, forse inesistenti, per pentirsene e chiedere perdono a Dio nell’ imminenza del giudizio. Si studia di recare il minimo fasti-dio alla cognata e alla nipote Gigia, che l’assistono con affetto. Sembra incredibile, ma i maligni non rispettano neppure una larva d’uomo di fronte alla maestà della morte! Quanta raffinata crudeltà! «Quel santo – è la diceria che spargono negli ambienti ecclesiali e tra gli ammiratori e i Mona-steri femminili di Roma, che se ne scandalizzano – proprio lui, ha paura della morte e non si rassegna alla Volontà di Dio!» Allarmata, Sr. Maria Tamini, la sua compagna di fanciullezza, che già lo ve-nera come santo, accorre al suo capezzale e gli «tiene unpredicozzo», anche se affettuoso e velato. Gaspare, che ha ben compreso, neppure la lascia finire e di rimando: «Ho capito cosa volete dirmi. Proprio io, che nella vita non ho fatto altro che predicare agli altri la necessità di sottomettersi alla Volontà di Dio, ora che tocca a me… No, no! State tranquilla, sono pronto e felicissimo. Ora inginocchiatevi e facciamo orazione assieme, affinché il Signore mi aiuti a sottomettermi ancora di più alla sua volontà». E continuava a ripetere: «De sidero ardentemente Solo il mio annientamento ed unirmi al mio Signore Crocifisso». Perfino il Merlini1 che pur conosceva a fondo la sua anima per i tanti anni vissutigli a fianco, ascoltando spesso anche la sua confessione, per un po prestò fede alle dicerie e sentì il bisogno di sussurrargli in punto di morte: «Bisogna conformarsi alla Volontà di Dio». Il Santo, con un fil di voce, non potendo ormai quasi più parlare per l’ingrossamento della lingua, mormorò sorridendogli: «Sì, sì…». Nonostante il continuo peggiorare del male, con la sua ben nota e ferrea vo-lontà, aveva resistito e continuato a passar le giornate in poltrona, fino all’an-tivigilia di Natale; poi «la carne divenuta fragilissima, non rispose più agli sti-moli della volontà» e stremato, fu costretto a mettersi a letto, di dove non si alzerà mai più. Eppure non perse il suo abituale humor romanesco. Alla co-gnata, che non avendo il coraggio di vederlo così mal ridotto, e che da qual¬che giorno non si faceva più vedere, disse: «Signora, vi siete fatta preziosa?» e a Gigia, che non riusciva più a trattenere il pianto: «Cosa sono queste nebbie? Su, toglietele! ». Accorrevano al suo capezzale tanti suoi cari amici, specialmente missionari e sacerdoti. Un giorno andò a confortarlo anche il Card. Franzoni, che «l’amava assai». Gaspare rimase, nella sua umiltà, «confuso per tanta degna¬zione». Nella vigilia di Natale le Suore del Monastero di S. Urbano in Roma, sue penitenti, con gli auguri di guarigione e di buon Natale, gli mandarono in dono un presepe di cartone da loro confezionato. Lo gradì moltissimo e volle fosse collocato di fronte al letto per poterlo avere sempre davanti agli occhi. Il Pallotti, che durante la malattia ne ascoltava quasi ogni giorno la confessio¬ne, non faceva che ripetere: «Che santo! Quanta uniformità alla Volontà di Dio!» Era la risposta ai maldicenti. Gaspare chiese sempre con insistenza il Viatico e 1′ Estrema Unzione. A quel tempo non si amministravano gli ultimi conforti se il sanitario non di¬chiarava il malato in imminente pericolo di vita. Ma il Santo tanto insistette che convinse il medico e, solo quando fu accontentato, disse con serenità: «Ora, finalmente son contento!» e da quel momento, finché le forze glielo consentirono, tenne sempre il Crocifisso stretto tra le mani, passando le ore tra sommesse preghiere e devoti baci alla dolce immagine del Cristo. Sopraggiunto un ulteriore aggravamento, il medico curante, il Dott. Maz-zucchelli, gli praticò per due volte il salasso. Ci domandiamo: Non aveva Ga-spare predetto che quando gli avessero cavato sangue, sarebbe morto? E allo-ra perché vi acconsentì? Misteri dell’ anima di un Santo! Gaspare si è sempre inchinato alle disposizioni divine e certamente si sarà detto: Morir per una causa o per un’altra non fa differenza, e se Dio ha scelto la decisione del me-dico per attirarmi a Sé, faccia come Egli ha stabilito. Non appena gli fu prati-cato il secondo salasso, peggiorò di colpo; nulla disse, e la rassegnazione e l’abbandono al Creatore segnarono ogni suo atto ed ogni sua parola. Il Merlini, a quella notizia, s’affrettò a correre da Albano per assistere al trapasso di Gaspare. Egli però non riusciva a darsi pace, quando, giunto a Ro-ma, apprese che il Fondatore in un estremo atto di umiltà e di annichilimen¬to, aveva disposto nel testamento che il suo corpo fosse sepolto nella fossa co-mune dei Sacconi Bianchi, in S. Teodoro al Campo Vaccino, dei quali faceva parte. Tutta la Congregazione avrebbe sofferto nel vedersi sottrarre le amate spoglie, sia pure per un atto di profonda umiltà. Con 1′ aiuto di Fratel Bartolo-meo, il Merlini persuase il Santo ad aggiungere un codicillo al testamento, col quale acconsentiva che il suo corpo fosse sepolto nella chiesa dei suoi Missio-nari in Albano. Lo sforzo sostenuto per apporre la firma al codicillo redatto dal notaio fece crollare definitivamente le poche forze rimastegli, tanto che il Merlini riten¬ne opportuno iniziare la recita delle preci degli agonizzanti. Giunse in quell’istante anche il Pallotti, che passando tra la gente che assiepava l’in-gresso di casa, disse: «Vado ad assistere alla morte di un santo!» Il Pallotti do¬vette sostituire subito il Merlini nella recita delle preghiere, perché questi, non reggendo all’ emozione e al dolore, era scoppiato in pianto dirotto. È lo stesso Pallotti a dirci: «Il moribondo era come nella più perfetta tranquillità. Nel suo volto risplendevano tale dolcezza, ilarità e tali segnali di pace, che, considerando il tutto cristianamente, eccitava una voglia, una brama di met-tersi in agonia». E così conclude: «Alle ore 21,30, come immerso in una gioia di paradiso, tranquillamente spirò». Era il giorno 28 dicembre del 1837 e Gaspare aveva anni 51, mesi 11 e gior¬ni 21. Il referto medico è, allo stesso tempo, terribile e meraviglioso. «Suppurazio¬ne dei polmoni per flogosi al petto trascurata. Non avendo voluto sospendere le sue fatiche apostoliche, non si sottopose a quella cura, che, fatta a tempo, avrebbe potuto giovargli; per cui s’era reso vittima di carità». Nell’istante del trapasso il Pallotti, santo a sua volta, trasalisce, seguendo il salire luminoso di una stella, spiccata dal corpo riverso; in ascesa a Dio, ed esclama: O anima benedetta, già sei in Paradiso! Confiderà poi al Merlini d’aver visto l’anima di Gaspare salire al Cielo in forma di luminosissima stel¬la, e Gesù con la Vergine e uno stuolo d’angeli andarle incontro. «Stelle, sempre stelle – esclama il Rey – nella vita di S. Gaspare! Sembra che egli ci giochi in vita e nel momento della morte!». Infatti: nacque nel giorno dell’Epifania e, come per i Re Magi, una stella il-lumina tutto il cammino della sua santa vita terrena; stelle si posano sul suo capo un po’ ovunque, mentre predica alle turbe; sale a Dio in forma di lumi-nosa stella tre giorni dopo Natale, mentre ancora risuona 1′ eco del Gloria de-gli angeli che si diffonde nel cielo stellato di Betlem! Quale fulgida stella, 1′ anima di Gaspare, s’immerge nel vivido fulgore, che si sprigiona dal Sangue dell’Agnello e inonda l’immensità del Cielo! Egli non è soltanto 1′ anima beata che si è lavata nel Sangue del Divino Agnello, ma è l’apostolo insigne, il serafino, il martire di quel Sangue, che continuerà per 1’eternità nel Cielo il canto d’amore ripetuto continuamente, nell’ innocenza e nella sofferenza sulla terra: «Tu sei degno, o Signore, di prendere il libro ed aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo Sangue, uomini di ogni tri-bù, lingua, popolo e nazione! A Colui che siede sul Trono e all’ Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli. Amen!» L’apoteosi La Chiesa, madre di Santi, chiama il giorno della loro morte terrena Dies Natalis – Giorno della Nascita, perché dal momento dell’esalazione dell’ultimo respiro sulla terra, comincia veramente la vita, quella senza tramonto, nel se-no di Dio, premio e corona di chi per Lui ha lottato e vinto la buona battaglia nel mondo. Mentre in quella stanza, dove S. Gaspare esalò l’ultimo anelito, S. Vincenzo Pallotti ne vide 1′ anima in forma di stella fulgente, salire al Cielo, accolta fe-stosamente, tra canti angelici, dallo stesso Gesù e dalla Vergine, nella stessa sera una suora del Monastero delle Clarisse di Cori, nipote del Card. Sala e già penitente del Servo di Dio, senza nulla sapere del suo transito, «… se lo vi¬de apparire in cotta e stola salmeggiare con i suoi Missionari, quindi sollevar¬si dalla terra verso il Cielo in un nimbo di luce». Ne parlò alle consorelle, anch’esse ignare della morte di Gaspare, che appresero solo il giorno dopo. Altra suora, mentre era in preghiera in altro Monastero, vide S. Francesco Saverio andar incontro a Gaspare, dalla cui figura emanava una luce abba-gliante. Nel Seminario di Sezze, un sacerdote, tanto amico di Gaspare, non appena venne a sapere la notizia della sua morte, si recò in chiesa a celebrar Messa in suo suffragio, ma durante la celebrazione «… scorge in visione il Servo di Dio, che vibrando raggi di luce, s’innalza al Cielo». D. Santelli, il pri-mo storico del Santo, così scrive: «Una persona, il di cui nome si tace per giu-sti riguardi, mi ha riferito che, alcuni giorni dopo la morte del Servo di Dio, postasi in orazione, pensando di suffragarne l’anima, vide subito il suo spirito elevato a godere una visione di cui mai ebbe una più luminosa e senti una vo-ce che gli dise «non esservi bisogno di suffragi». Anche Sr. Maria Clementina delle Suore della SS.ma Trinità sognò il Santo che si innalzava al Cielo in un nimbo di luce. La Contessa Ginnasi, che nel periodo della prigionia, ebbe lun-ga corrispondenza con lui e 1′ aiutò moltissimo, ricevéndone a sua volta con-forto e guida nella vita spirituale, sognò la figura trasumanata del Santo, che saliva al Cielo. Ma, se in Cielo aveva avuto inizio la sua immortale apoteosi, quasi per ga-reggiarvi, anche in terra segui alla sua morte, ed ovunque, un grandioso tri-buto d’affetto e di trionfo. Il «primo grandioso funerale con gran concorso di popolo, fu celebrato in Roma, presente la salma scoperta, nella Chiesa di S. Angelo in Pescheria, con la partecipazione di Porporati, Vescovi, Prelati e la Nobiltà romana». Quindi la salma fu affidata al Valentini e al Ven. Merlini, che la traslarono in Albano Laziale, dove giunse dopo la mezzanotte. Depostala in cappella, i suoi figli ad-doloratissimi ed in ansiosa attesa, vollero rivedere subito per l’ultima volta quel volto a loro così familiare e caro. Tolto il coperchio, fu un raggrupparsi appassionato e devoto di visi in lacrime, che, al chiarore delle candele, si chi-narono sulla salma, dalla quale, tra lo stupore di tutti, esalava un misterioso profumo. Quel corpo conservava ancora una freschezza certamente non na-turale: membra flessibili, carne morbida, gote rosee. Il giorno dopo, capodan-no 1838, fu esposto in chiesa. Dice così la Santandrea: «Capodanno! Vita nuo-va! una fresca gioia pende nell’ aria, intorno a quel feretro, puro e profumato come un cesto di fiori; capodanno, primo giorno d’una gloria senza tramonto, perché conclusa in Dio!» La notizia della presenza delle spqglie del Santo, tanto conosciuto ed ama¬to, esposte nella chiesa di S. Paolo, corse veloce nella città e nei dintorni, e fu subito un accorrere dai Castelli Romani e dai paesi più lontani. Tutti brama-vano vederle e toccarle con fazzoletti, rosari, medagline e portar via, in ricor-do, un, lembo delle vesti, una ciocca di capelli e perfino la colatura delle can-dele che bruciavano attorno alla bara. Un tale tentò di recidergli un dito! Fu perciò necessariò circondare il fere¬tro con uno steccato e i Missionari dovettero a turno restar di guardia per contenere quella fiumana di devoti. Il 3 gennaio il Clero di Albano volle ren-dere pubblica testimonianza di affettuosa stima al Santo, celebrando un funerale solennissimo. Onoranze funebri continuarono in altre chiese di Roma, in tutte le Case di Missione e, man mano, nelle varie località dov’ era stato a pre¬dicare. Quelle di Gaspare erano le spoglie di un Santo ed era più che ovvio che in S. Paolo accorresse una schiera di infermi, colpiti dai più svariati malanni. Quella salma non incuteva né spavento, né ribrezzo. Gaspare, come in un sonno sereno, sembrava immerso in arcane visioni: quel volto ancora roseo e sereno infondeva, in chi lo contemplava, visioni celestiali, accese di speran¬za. La bocca dei sofferenti si scioglieva spontaneamente in accorata preghie¬ra. Da quella salma si prigionarono subito virtù taumaturgiche ed avvennero i primi fatti prodigiosi, continuazione e conferma di quanti ne aveva operati in vita, e l’inizio d’una fioritura di grazie che non avrebbero avuto e non avranno mai termine. Raimondo Marazzi di Castelgandolfo, da un anno tormentato da alte febbri, entrò in chiesa, si prostrò accanto al feretro e subito ne venne liberato. Cle-mentina Brugiaferri accostò alla salma il suo piccino muto e rattrappito, e se lo vide scappare dalle braccia e correre per la chiesa guarito all’istante. Orsola Pietrangeli guarisce ad una guancia; Orsola Marazzi è liberata da acerbi dolori alla testa. Un giovane gravissimo per «lue celtica», entrato solo per curiosare si sentì spinto interiormente ad inginocchiarsi e pregare. Tornò a casa guarito dall’orribile male e cambiò vita. Lo scalpellino chiamato a preparare il loculo della sepoltura, mentre lavorava, si raccomandava al Sauto affinché lo liberas-se dai terribili dolori reumatici, che lo tormentavano da anni, e fu esaudito. Dopo sette giorni la folla non accennava a diminuire. Dal corpo, che con-servava ancora la sua meravigliosa freschezza, continuava ad emanare sem¬pre quel misterioso profumo, sicché le Autorità ecclesiastiche stabilirono di riesaminarlo «in via ufficiale e giuridica». Erano presenti il Vicario Generale della Diocesi di Albano, il Cancelliere Vescovile, i Canonici del Capitolo della Cattedrale, e, come testimoni, i Padri Cappuccini. Il Dott. Bussanelli e il chi-rurgo Prof. De Angelis eseguirono 1′ esame e stesero il seguente verbale: «Ca-davere ritrovato a temperatura fredda naturale, incorrotto, flessibile in ogni sua parte; la lingua rubiconda e molle di saliva, capelli bene aderenti alla cu¬te, vescicanti aderenti quasi fossero stati attaccati di fresco, occhi non vitrei, ma freschi come di persona viva. Constatato che il corpo, non essendo stato imbalsamato, fu conchiuso che quella così integra conservazione, non era cosa meramente naturale». Dopo quest’esame il corpo fu chiuso in una sola cassa di legno, munita dei sigilli della Curia e deposto sotto il pavimento, davanti all’ altare della cappel-la di S. Girolamo, cioè nella cappella ove adesso sono venerate le sue Reli¬quie. Dopo due anni il Card. Giustiniani, vescovo di Albano, ordinò una nuo¬va ricognizione e quel corpo fu trovato ancora intatto. La cassa di legno fu chiusa in una di piombo. Quando le due casse furono riaperte nel 1905 per la beatificazione, la salma non era più intatta. Le ossa e le ceneri furono rac-chiuse in due urne, delle quali una lasciata in Albano e 1′ altra fu portata a Ro-ma nella chiesa di S. Maria in Trivio, dove gli fu dedicato un altare. La fama di santità, da Gaspare già goduta in vita e subito dopo il trapasso, si divulgò in modo fulmineo ovunque. Il suo sepolcro in Albano fu mèta mm-terrotta di pellegrinaggi. «Talvolta erano processioni interminabili». Il Merli-ni asserisce di avervi veduto pregare Cardinali, Vescovi, Prelati, sacerdoti, religiosi e religiose, uomini illustri per pietà, dignità e scienza. Vi accorreva¬no da tutte le località dov’egli era stato in vita. Quella fama si estese in tutta Italia, valicò le Alpi e i mari, giunse in Francia, Germania, Svizzera e nelle lontane Americhe. Si susseguivano richieste di immagini con reliquia e di preghiere da ogni parte del mondo. Gaspare, per divina disposizione, non re-stò insensibile a tante suppliche, grazie e veri miracoli «fioccavano ovunque!». Racconta il Pallotti: «Donna Barbara dei Principi Massimo, maritata Ruspo¬li, dopo sette anni di matrimonio si vedeva ancora priva di prole. Le detti una piccola parte d’un fazzoletto usato da Gaspare. Passato alcun tempo mi disse: …. Il Canonico Del Bufalo mi ha esaudita – e dette alla luce un figlio ma¬schio». D. Giovanni Merlini racconta uno strepitoso prodigio avvenuto nel 1839, nella persona del conte Lorenzo Soderini a Roma, colpito da gravi dolori alla parte inferiore degli intestini. Il dott. Satti diagnosticò ernia libera. Sebbene sconsigliato, volle recarsi a piedi nella Basilica dei SS. Apostoli per le funzioni di S. Giuseppe, ma lungo la strada i dolori divennero atroci e fu ri-portato a casa «mentre emetteva urla selvagge». Sopraggiunto il chirurgo gli praticò una «sanguigna», che poi, aggravatesi ulteriormente le , condizioni dell’infermo, ripeté altre due volte. Il conte sentendosi ormai morire e perdu¬ta ogni fiducia nei rimedi dei medici, si affidò al Servo di Dio Gaspare Del Bu-falo, che aveva ben conosciuto in vita. Avendo avuto, a suo tempo da D. Bia¬gio Valentini lo zucchetto da lui usato, se lo pose sulla parte offesa; si sentì subito placare ogni dolore, prendendo placido sonno. Dormi tutta la notte e al mattino ridestatosi come nulla avesse mai sofferto, portò la mano alla parte malata e si trovò guarito perfettamente». La guarigione fu testimoniata dai re-ferti dei medici curanti. Il Merlini racconta ancora un altro miracolo avvenuto a Nepi. Il Can. Gavi¬no Sassa, chiamato il 13 dic. 1838 a portare il Viatico a Francesca Tolomeo Mariani di anni 48, la trovò agli estremi tanto che appena appena poté con-fessarsi. Divenuta «fredda e perduta ogni conoscenza, stava già per rendere l’anima al Creatore». Due persone, Anna Rebeschi e Teresa Paglia, che nutri-vano speciale devozione verso il Servo di Dio Gaspare Del Bufalo, esposero la sua immagine al capezzale dell’inferma e la invitarono a pregarlo con loro. Quasi improvvisamente l’inferma riprese conoscenza e vigore, strinse l’im-magine tra le mani e si unì alle invocazioni con voce chiara e sonora. Il giorno dopo era perfettamente guarita. La guarigione completa fu confermata con certificato del Dott. Vincenzo Silvestroni. Il Parroco della chiesa di S. Nicolò in Porto a Rimini attestò nel Luglio del 1838, che il suo parrocchiano Mariano Ballerini di anni 24, affetto da gravissi-ma forma di idropisia, disperando della guarigione con le cure prescrittegli, le abbandonò del tutto ed invocò l’intercessione del Servo di Dio e presto guarì. Ne fa testo anche un certificato del Dott. Felice Lancellotti che lo curava. D. Giovanni Francesco Palmucci, in data 25 aprile 1839, scrisse da Ascoli Pi-ceno al Ven. Merlini che Sr. Costanza Vitali delle Suore del Buon Consiglio era da molti anni presa da orrende convulsioni, le quali, ad ogni assalto, la la-sciavano come morta. Avendo avuto nell’ ottobre del 1838 un attacco più vio-lento, tanto che il medico curante dichiarò non potervi fare più nulla, le conso¬relle che avevano conosciuto il Servo di Dio Gaspare Del Bufalo, circondando il letto dell’inferma, ne invocarono l’intercessione. «Prodigio! – scrive D. Gio¬ vanni – finita l’orazione la Suora riaprì gli occhi, si ridestò dal torpore, tornò perfettamente sana». Anche il Professore che la curava, nel vederla, esclamò: «Miracolo!» e rilasciò dichiarazione giurata della completa guarigiòne. Nelle sue Deposizioni per la beatificazione di Gaspare, il Ven. Merlini rac-conta che Agnese Marazza di Castelgandolfo aveva una figliolina afflitta da una natta all’occhio destro, che cresceva sempre di più in durezza e grandez¬za. Quando la bambina aveva sei anni le si era ingrossata quanto una noce di media grandezza, e due professori ne proposero il taglio. La mamma, prima di sottoporla ad intervento, la portò a pregare presso il sepolcro del Servo di Dio, appoggiandone la parte malata sulla lapide. Con loro pregavano anche alcune amiche venute li da Castello. Poi, a piedi, iniziarono il cammino di ri¬torno. Lungo il tragitto la bambina domandò alla mamma se aveva visto quel bel prete che le aveva toccato la natta, carezzandola. Agnese pensò che la sua piccola avesse avuto le traveggole, ma quella insisteva nel dire che l’aveva veramente visto. Il giorno dopo la mamma e le amiche dovettero ricredersi, perché la natta era scomparsa. Ora ascoltiamo quanto ci dice il Dott. Marcutelli di Sezze Romano, che, il giorno 9 novembre del 1839, accorse al capezzale di Sr. Eletta Margherita De Cesaris del Monastero di S. Chiara, trovandola assai grave. «Le prescrissi del-le cure e lasciai l’inferma; però, dopo qualche ora fui richiamato, perché il vomito, il dolore al basso ventre e allo stomaco erano cresciuti, il polso appe-na sensibile, la perfrigerazione delle estremità avanzatissima… da concepire il grave imminente pericolo di vita». In quei terribili momenti le Consorelle somministrarono alcuni fili d’una camicia portata in vita da Gaspare e si po-sero in preghiera. «Istantaneamente cessarono vomito e dolori, i polsi riac-quistarono la loro naturalezza. Era guarita a colpo d’occhio». D. Girolamo Sciamplicotti, parroco di Rocca Di Papa, trascrive con la mag¬gior brevità e precisione la guarigione ottenuta dalla Signora Maria Antonia d’Ottavio, sua parrocchiana, per intercessione del Ven. Servo di Dio D. Ga-spare Del Bufalo. «Soffriva di fierissimi dolori ai denti ed aveva la guancia tanto gonfia, da non vederci più con 1′ occhio destro. La donna asseriva anche d’aver visto, appena entrata nella chiesa di S. Paolo, dove s’era recata a pre-gare sulla tomba del Can. Del Bufalo, lo stesso Servo di Dio farle cenno di ac-costarsi e giunta al sepolcro egli disparve, ma si sentì sparire di colpo ogni do-lore e toccandosi s’accorse ch’era sparito anche il gonfiore». Il Parroco con-clude affermando che «la mattina l’aveva vista partire malata e la sera dello stesso giorno, l’aveva vista guarita». Il 18 marzo 1839 Cecilia Mariotti di Castelgandolfo, che soffriva per gravis-sima infermità e che «un dottore curava in unmodo ed un altro in maniera di-versa», non potendone ormai più si rivolse al Servo di Dio e guarì del tutto. Maddalena Dipietro di Marino, nell ‘ottobre 1841, soffriva d’un terribile gonfiore al collo, tanto che il medico, vedendolo sempre più ingrossare, vole¬va incidere in diciassette punti. La malata spaventata si rifiutò e si mise al collo una medaglina che aveva toccato il feretro di Gaspare. In qualche gior¬no sparì tutto il male. Giacomo Vicini di Marino soffriva di sciatica, dichiarata incurabile da tutti i medici. Nel dicembre del 1838 vi applicò la corona del rosario con la quale aveva toccato la salma di Gaspare e guarì subito. Il calzolaio Stefano Mondelli, residente a Roma in via della Scrofa, gravissi¬mo per tubercolosi, ed essendo vana ogni cura che gli prestava il Dott. Mat¬tioli, si pose al collo una medaglietta che aveva toccato il corpo del Servo di Dio e guari in otto giorni. Gaetano Biagioli dichiarò, per iscritto, a D. Biago Valentini che, per le rei-terate e continue emottisi, sentiva fortissimi dolori intercostali. Il 20 settem-bre 1838 ingoiò una reliquia del Ven. Del Bufalo e i dolori cessarono all’istan-te, e guarì da ogni male. A Monte Cerignone, la suora conversa Costantina Rolli, trascurando un mal di stomaco, si aggravò in modo tale che giunse in fin di vita. Le Suore in-vocarono l’aiuto del Servo di Dio e la malata guarì in quella stessa notte. Il giovane Cardone di Albano, il 25 settembre 1840, aveva già avuto 1′ Estre-ma Unzione ed era in agonia quando gli posero sul petto l’immagine di Ga-spare, invocando per suo mezzo la guarigione. In breve tornò in piena salute. D. Nicola Santarelli di Roma asserisce che Maria Falcietti di anni 19, colta da inguaribile infiammazione cerebrale (tumore) fu esortata a rivolgersi al Can. Del Bufalo, del quale ebbe anche l’immagine. La tenne sul capo per tut¬ta la notte del 19 luglio 1838, riposò tranquillamente ed al mattino si ridestò completamente sana. Torniamo ad ascoltare il Merlini che ci racconta un fatto, davvero più che straordinario, avvenuto in Albano nel 1867 al sig. Agostino Bianchi, durante il colera. I Zuavi pontifici, accompagnati dai medici, passavano di casa in casa per caricare i cadaveri sul carrozzone, ed entrarono in casa di Agostino «già mor-to». Era presente la figlioletta di appena tre anni che, nel vedersi portar via il papà, si attaccò con forza alla sua «salma» gridando: «Non è morto! Non èmorto! Dategli a mangiare la figura di D. Gaspare e vedrete che non è morto». Quei giovanotti si commossero e fecero venire da S. Paolo un missionario del Prez.mo Sangue (lo stesso Merlini?) che riuscì ad infilare nella bocca del «morto» la Reliquia di Gaspare. Agostino cominciò a muoversi lentamente, poi aprì gli occhi e, come nulla fosse, disse: «Sono arrivato alle porte dell’ Eternità e nessuno mi ha voluto aprire». Si alzò all’ istante e’ dopo tre gior¬ni era di nuovo a coltivare la sua vigna. A Nepi, dove c’era la Casa di Missione, fu chiamato l’allora Superiore D. Giuseppe Alterisi, perché accorresse al capezzale d’un uomo, che durante una lite aveva avuto ben otto coltellate al basso ventre e vomitava feci dalla bocca. Gli posò ,l’immagine del Servo di Dio sulle ferite e quegli si addormen¬tò profondamente. In pochi giorni guarì. Sr. Maria Maddalena della Trinità rilasciò testimonianza sulla guarigione miracolosa della sua Vicaria, Sr. M. Giuseppina, che soffriva di stomaco, sen¬za poter ritenere nulla. A questo male s’aggiunse l’asma bronchiale e più tar¬di una polmonite, che la ridusse in fin di vita. Don Giovanni Merlini le man¬dò la reliquia del Ven. Gaspare Del Bufalo, che ella ingoiò subito. Dopo un triduo di preghiera la suora guarì. La seguente testimonianza è del Can. D. Carlo Lattanzi di Civitalavinia: «Nel 1839 fui chiamato al capezzale di Pietro Paolo Pochini, colpito da perni-ciosa e ormai giunto al termine di sua vita. La madre dell’infermo mi pregò che gli applicassi la reliquia del Can. Del Bufalo, e 1′ effetto immediato di quel contatto fu la ripresa dei sensi. Poi l’infermo migliorò e passati sei giorni, uscì diletto completamente ristabilito». Ecco due miracoli, l’uno più meraviglioso dell’altro, ma in certo qual modo uguali, perché entrambi avvennero in Francia nella persona di due signorine, sofferenti della stessa malattia. Francesca, della nobilissima famiglia De Maistre, erasi consacrata a Dio tra le Figlie di Carità di S. Vincenzo De’ Paoli e stava compiendo il noviziato a Torino. Fu improvvisamente colpita da atroci spasmi ad una gamba, che si rattrappì in modo orrendo, tanto che la pianta del piede batteva sull’anca. Fu ricondotta a Nizza, in famiglia, per essere curata. Dopo sei mesi di cure vane, i medici decisero l’amputazione dell’arto. Dovettero attendere, perché lo sta¬to di estrema debolezza della fanciulla non lo permetteva. Col passar dei giorni il male si estese ad altre parti del corpo, e la povera in-ferma non riusciva più a trattenere il cibo e a dormire né giorno, nè notte. Francesca aveva una carissima amica, Natalia Kolmar, di nazionalità russa, che le teneva quasi sempre compagnia e la confortava. Più volte Natalia le aveva suggerito di implorare la guarigione dall’intercessione del Ven. Cano-nico Del Bufalo, del quale tanto si parlava per i prodigi che andava operando un po’ dovunue. Francesca se ne riteneva indegna! Natalia nori si diede per vinta e il 7 ottobre del 1842 le applicò sulla gamba l’immagine di Gaspare e quindi le fece ingoiare la sua reliquia. Inginocchiata¬si accanto al letto, invitò Francesca a recitare con lei le preghiere delle Sette Offerte al Sangue Prezioso di Gesù. Le avevano appena terminate che Natalia disse all’ amica: «Ora, con tutta la fede di cui sei capace e con convinzione, prova a muoverti». Francesca ubbidì, continuando a pregare. La gamba si di-stese facilmente e non sentendo più alcun dolore l’inferma saltò giù dal letto, 5 inginocchiò e scoppiò in pianto dirotto. Insieme pregarono ringraziando la bontà divina e l’Apostolo del Prez.mo Sangue. L’altro episodio è narrato in un suo libro da Giorgio Schouvanoff di Pietro-burgo, un nobile appartenente ad una delle più aristocratiche famiglie russe del tempo, facente parte della Corte di Alessandro 1°. Purtroppo era rimasto vedovo d’una dolcissima moglie di religione cattolica, mentre egli era orto-dosso. La povera moglie gli aveva anche lasciato una bambina paralizzata. Giorgio Schouvanoff si trasferì in Francia, dov’ era anche sua madre, che trovandosi a Nizza, aveva saputo del grande prodigio operato da Gaspare a favore di Francesca De Maistre. La signora ne informò subito il figlio, il quale già aveva cominciato le pratiche per abiurare e passare dalla Chiesa Ortodos¬sa alla Cattolica. Ebbe dalla madre le preghiere delle Sette Offerte e la reli¬quia di Gaspare il 5 gennaio, proprio nel giorno precedente la sua abiura. Quella sera ricevette anche la visita dell’ amico Principe Galitzin, fervente cattolico. Nel suo libro egli confessa che aveva quasi ritegno di invocare dal Signore una grazia d’ordine temporale, qual’era la guarigione della sua cara figliola, proprio la sera della vigilia del gran giorno in cui lo Spirito Divino gli avrebbe donato la grazia incomparabile della conversione. Tuttavia, sollecitato dall’ amico, iniziò la recita delle Sette Offerte insieme a lui e alla figlia. Il mattino seguente, finita di buon’ora la cerimonia del battesimo, tornò a casa dalla figliola, senza nulla dirle di quanto era avvenuto in chiesa, temen¬do di emozionarla eccessivamente. Prese la reliquia e la mostrò alla figlia, e le disse: «Tu conosci, figliola mia, il miracolo di Nizza; ne saremo noi degni? Preghiamo e, se le nostre preghiere non ti gioveranno per il corpo, gioveran¬no certamente alle nostre anime». Posò l’immagine con la reliquia sul corpo malato della giovane e con lei iniziò la recita devota delle Sette Offertead alta voce. Nel racconto egli così dice: «Tu sai, Signore, che io pregavo con fede, ma ero ben lungi dall’aspettarmi la grazia insigne e instantanea che la tua Bontà mi aveva riservata!» E continua: «Appena terminata la preghiera, vidi che mia figlia piegava il ginocchio – Che fai? – le chiesi. Ella piangeva dirotta¬mente e gridava – Papà, sono guarita! – e si slanciò tra le mie braccia. Io pian¬gevo con lei… non è cosa facile esprimere ciò che nel mio cuore avveniva… Voi solo lo sapete, mio Dio, mio Amore, mia Vita!» Giorgio Schouvanoff, dopo aver sistemata la figliola, si recò a Torino, dove entrò tra i Padri Barnabiti, col nome di P. Agostino e scrisse un libro, ora in-trovabile nelle librerie, La mia conversione e la mia vocazione, nel quale ci fa provare quasi le stesse emozioni delle Confessioni di 5. Agostino. Dopo aver letto la carrellata di sì mirabili episodi, il lettore ignaro della me-ticolosità della Chiesa nel sancire la supernaturalità d’un evento, che all’ oc-chio comune risulta prodigioso, dirà: «Ce n’è anche di troppo per proclamare Beato e Santo Gaspare Del Bufalo». Eppure, esaminatili tutti, nessuno di essi è stato ritenuto sufficientemente valido! Però questi eventi e tante altre testimonianze mossero la Chiesa ad istituire in forma ufficiale, in varie Diocesi, il Processo informativo sulla fama di santità, sulle virtù e i miracoli da lui operati. Uno fu aperto ad Albano, uno in Ancona, un altro a Roma. Passarono lunghi anni e finalmente il 19 marzo 1891, Leone XIII, con suo decreto, ne riconobbe la eroicità delle virtù. Quali furono i due miracoli approvati per la sua Beatificazione? Il primo si verificò nel 1838, solo un anno dopo la morte di S. Gaspare, e ci viene narrato nei più minuti particolari dal Ven. Merlini. Lo riassumiamo. Il fortunato fu Ottavio lo Stocco di Lenola, una cittadina dove il Santo era stato più volte a predicare e dove, come ricorderete, operò il miracolo degli oliveti. Ottavio, fin dalla fanciullezza, era stato soggetto a in-fermità di vario genere, sicché si sviluppò in condizioni generali assai gracili e con gran difficoltà nel respirare. Di famiglia assai povera, fu costretto a gua-dagnarsi la vita facendo il pastore, e nella rozzezza e ignoranza credé bene di darsi al bere e al fumo per dimenticare i guai della vita. Aveva appena 22 anni e fu colpito da gravissima malattia polmonare. Riu¬scì tuttavia a superarla e prese moglie, continuando, per necessità, a far la vi¬ta del pastore, esponendosi così alle intemperie e a inevitabili ricadute nel male. Infatti nel febbraio, mentre era sui monti col gregge, per il gran freddo, fu preso improvvisamente da acuti dolori in tutto il corpo. Fu portato in pae¬se e il dott. Terella cercò di curarlo nel migliore dei modi ed anche con buon esito. Osservando stretto riposo, superò anche un grave attacco di pleurite. Tornò dopo 10 giorni a pascolare il gregge, ma venne nuovamente assalito da dolori «più fieri e violenti». Questa volta il Dottore fu esplicito: Era in perico¬lo di vita. Ai dolori s’era aggiunta una gran febbre, l’impossibilità di respiro e una tosse secca e persistente. In tali condizioni i vomiti erano continui e dalla bocca uscivano, misti a sangue, «minutissimi pezzi di polmone». In quelle condizioni il poveretto passò ben due lunghi mesi, durante i quali s’era enor-memente gonfiato in tutto il corpo e fu preso da inarrestabile dissenteria. La famiglia, con grandi sacrifici, raggranellò la somma necessaria per un consul-to dell’ allora celebre tisiologo prof. Notarianni, che sentenziò trattarsi di tisi fulminante, con imminente pericolo di vita, senza via di scampo. Una zia di Ottavio, appena seppe del suo gravissimo stato, gli suggerì di invocare la guarigione dall’intercessione del Can. Del Bufalo, che anche il ma-lato aveva conosciuto. Solo lui poteva aiutarlo ora che ogni speranza era per-duta. Tutta la famiglia gli si fece attorno, inginocchiandosi in preghiera, men-tre egli ingoiava alcuni fili d’un panno adoperato da Gaspare. Nella notte, co¬sa insolita, il malato cadde in un sonno sereno e profondo e al mattino si de¬stò guarito. Dopo vari anni Ottavio Lo Stocco fu meticolosamente controllato dai medici più celebri del tempo, i quali lo trovarono in ottima salute. Del ter-ribile male sofferto neppure una labile traccia! Non meno stupendo è il secondo miracolo approvato per la beatificazione, avvenuto nel 1861 nella persona di Clementina Masini di Albano. Correva l’anno 1858 e la donna venne colpita da «peritonite essudativa cro-nica, fattasi poi acuta da collezione purulenta del peritoneo stesso, avente forma di cisti, con perforazione delle pareti addominali e del sottoposto inte-stino». La poveretta sopportò dolori atrocissimi per tre anni; poi, a causa dell’insopportabile fetore che emanava dal corpo straziato, fu scacciata di ca¬sa dal marito. Così depone la stessa Clementina: «Scacciata da mio marito, con l’aiuto di mia madre, me n’andai a casa di lei, la quale rimane non lontano dalla chiesa di S. Paolo, dove mi feci condurre a stento, per invocare l’aiuto del Ven. D.’ Gaspare Del Bufalo. A lode della verità devo dire che, stando io boccone per terra, toccando col mio corpo la lapide del sepolcro, non mi sentivo affatto il dolore. Debbo qui dire che, quando mi mettevo a letto nella stessa posizione, sentivo ugualmente il dolore. Nella notte del 21 gennaio, mentre giacevo a letto, tra veglia e sonno, mi apparve il Canonico D. Gaspare Del Bufalo. Stando io quasi seduta sul mio letto con dietro i cuscini, avendo il piccolo lume di latta acceso, intesi d’un tratto scuotere il letto e, con qualche apprensione di timore, vidi ai piedi del letto un sacerdote vestito in sottana, con la berretta in testa, crocifisso avanti al petto e nella mano un bastone che sogliono portare i Missionari, quando vanno a predicare; quale sacerdote, riconobbi con tenerezza essere il Venera-bile Canonico Del Bufalo, che avevo anni addietro veduto esposto morto in S. Paolo. Pregai con queste parole: – Santo mio avvocato, fatemi questa grazia, perché io sono da tutti schifata e bisogna mi vada a buttare in una chiavica! – Egli mi rispose: – Va’, donna, non aver timore, che domani mattina ti alzerai e non avrai più niente. – Ed in così dire alzò il bastone e mi toccò in quella parte del mio corpo ove esisteva il buco del tumore e disparve. Mi posi a recitare dei Pater ed Ave e dopo mi addormentai. Mi svegliai la mattina sana dal male». Clementina tornò al lavoro dei campi e di lavandaia, godendo sempre otti¬ma salute. Dopo il rigoroso esame di questi due miracoli, il Sommo Pontefice Pio X, il 29.8.1904 ne decretò la solenne beatificazione ed egli stesso venerò il Beato Gaspare, nella Basilica di S. Pietro, nel fulgente splendore della gloria del Bernini, pronunciando per la prima volta, e in forma ufficiale e solenne, l’in-vocazione: «Prega per noi, Beato Gaspare!». * * * Dopo la beatificazione è più che comprensibile l’ansia dei figli e dei devoti del Beato di vederne subito la glorificazione definitiva sulla terra con la Ca-nonizzazione. Ma fu necessario attendere circa mezzo secolo! I miracoli approvati, dopo il solito rigido esame, avvennero uno a Campoli Appennino, nel Lazio, e l’altro a Sezze Romano. Chi conosce la vita del Santo sa quanto gli era cara la cittadina laziale, dove era stato più volte a predicare ed aveva operato in vita vari prodigi. I campolesi, grati a Gaspare, ne celebravano la festa, e la celebrano tuttora, con grande solennità il 19 maggio, portandone in processione la statua per le vie del paese riccamente adorne, accompagnata dal suono di rinomati con¬certi bandistici, da fuochi d’artificio, ma soprattutto da grande folla devota. Nel maggio del 1929 un giovane di 20 anni, Francesco Campagna, era da vari giorni a letto colpito, in modo gravissimo, da broncopolmonite e menin¬gite acuta. Durante i deliri, che gli causavano la febbre altissima, se non fosse stato energicamente trattenuto, si sarebbe buttato dal balcone. I medici fece¬ro l’impossibile per salvarlo, ma ogni sforzo fu vano; così essi stessi prepara¬rono la famiglia al peggio. Per quegli inscrutabili disegni della Provvidenza a noi sconosciuti, il malato ebbe la sorte d’abitare in una via, dove di solito pas¬sava la processione di S. Gaspare. Al suo passare svincolandosi cialle braccia della mamma, che temeva qualche gesto insano, si slanciò verso il balcone e cominciò a gridare: «Grazia, grazia, Beato Gaspare!» Al grido implorante fece¬ro coro i suoi parenti dalla camera e tutto il popolo dalla strada. Tornato a let¬to s’addormentò d’un sonno tranquillo e profondo. Dopo molte ore si ridestò sereno e disse alla madre di sentirsi bene e d’avere un grande appetito. Alla strepitosa notizia, diffusasi in un baleno, accorse anche il medico e dopo ac¬curata visita di controllo, dichiarò ch’era perfettamente guarito. Il secondo miracolo avvenne nel gennaio del 1934. La signora Orsola Pon-tecorvi, grande devota del Santo e sorella di D. Ciro Pontecorvi, missionario del Prez.mo Sangue e arcivescovo di Urbino, aveva due figli sacerdoti, di cui uno Missionario di S. Gaspare, e due figliole Suore Adoratrici del Prez.mo Sangue. La poveretta, che godeva ottima salute, fu colpita improvvisamente da tu¬more maligno agli intestini, come risultò dalle radiografie eseguite nell’ospe¬dale di Latina. Essendo il male pervenuto ad uno stadio avanzato, non poteva essere operata. Il Primario si senti in dovere di avvertire i suoi familiari della fine imminente. Ne ebbe lei stessa la certezza e si abbandonò nelle braccia di S. Gaspare. «Non ci sei rimasto che tu, caro Beato Gaspare!» Ricondotta a ca¬sa, le due figliole suore le fecero ingerire la reliquia del Beato e non cessava-no d’invocarlo assieme alla mamma. In pochi giorni la malata restò senza pa¬rola e paralizzata. Una notte, com’ella depose, vide chiaramente un sacerdote, che credette essere suo figlio D. Francesco; ma quel sacerdote, circonfuso di luce, le disse: «No, non sono D. Francesco, ma il Beato Gaspare». Orsola~si sciolse in pianto e lo implorò: «Fammi guarire, fammi la grazia». Il Beato le toccò la fronte e le disse: «Coraggio, fra poco sarai guarita». E così fu. Portata di nuovo nell’ospe¬dale di Latina e ripetute le radiografie, risultò che il tumore era del tutto scomparso. Il giorno 12 giugno del 1954, al rito solenne della Canonizzazione di S. Ga-spare, celebrato da Pio XII in Piazza 5. Pietro; erano presenti ricolmi di gioia e con lacrime di riconoscenza, anche Francesco Campagna e Orsola Ponte¬corvi, che oggi sono con lui nel cielo. * * Nel Decreto, così detto del Tuto, che porta la data dell’ 8 maggio 1954 e co-mincia con le parole latine Sanguinis Christi, Pio XII, iscrivendo Gaspare nell’Albo dei Santi, presenta la sua figura «… nel modo più solenne ed ampio coinvolta nel Mistero del Sangue di Cristo» ed afferma: «Nessuno celebrò con affetto più grato dell’ apostolo Paolo le glorie e 1′ efficacia del Sangue di Cristo. Pietro, prima guida e capo della Santa Chiesa, ricorda ai cristiani che sono stati redenti non a prezzo di oro o d’argento, ma dal Sangue purpureo di Cri¬sto, Agnello immacolatissimo e santissimo di Dio… Ma nella nostra età, tra coloro che, con vigile premura ed amore sollecito, predicarono con grande eloquenza i benefici del Sangue sparso, essendo stato ravvivato l’amore e il culto in Esso, risplende, unico fra tutti, il beatissimo Gaspare del Bufalo». Il nimbo dei Santi pone Gaspare sull’altare! O che troneggi sotto le arcate di ampie basiliche, ricche di ori e di arte, tra incensi e fiori, o che la sua immagine, chiusa in povera cornice, sia posta fra due candele su una tavola coperta da una bianca tovaglia, nessun trono uma-no fu mai eccelso quanto questo! Una balaustrata e qualche gradino separano il Santo dal resto dell’ umanità e a lei lo ricongiungono. Solo dinanzi a questo trono tutti, senza distinzione alcuna, possiamo accostarci ed unirci per eleva¬re suppliche, trovare ascolto e ricevere conforto e grazie. Anche dal suo altare Gaspare rimane sempre il missionario, che, con amo¬re e insistenza, ci chiama per condurci a Dio, e implora dal Sangue Divino perdono e redenzione. Il rubino Preghiamo il lettore, che ha avuto la pazienza di seguirci fino a quest’ ulti¬ma pagina, di voler cortesemente riandare con la mente a tutti gli episodi così meravigliosi che siamo andati narrandogli. Il nostro intento non è stato solo quello di fargli conoscere fatti non comuni e di presentargli esclusivamente la figura taumaturgica di S. Gaspare, dotato di virtù e doni straordinari. Se questo fosse stato il nostro intento, avremmo senz’altro falsata la sua immagine. Nostro proposito – e speriamo di esserci riusciti – è stato invece quello di far conoscere un Santo rimasto, prima e dopo la sua morte, tra di noi, che ha sentito le pene dei suoi simili, che ha pianto tra i poveri, i diseredati, i condannati, gli emarginati e per essi ha speso tutta la vita. Egli ha sofferto pene inimmaginabili e crudeli, pur essendo un benefattore dell’ umanità. Gaspare ci dà la dimostrazione lampante di quanto possa fare un sacerdote, che ha fede eroica e si abbandona totalmente nelle braccia del Signore Croci-fisso, per lasciarsi trasfigurare in Lui, compiendo con Lui la Volontà del Pa-dre. La vita di Gaspare ci dice anche che, rispondendo alla Grazia Divina, tutti possiamo diventar santi come lui, perché la vera santità non consiste nell’ operare prodigi, ma nell’ amare Dio, nel servirlo disinteressatamente, farlo conoscere ai fratelli e, per suo amore, amare il prossimo fino al dono completo di tutte le proprie forze. Il cammino della santità non è facile, perché è quello della croce! Ecco l’eroismo dei santi! L’immagine di S. Gaspare, che deve stamparsi nel nostro ricordo, dev’esse¬re quella della sua intima e personale realtà, cioè: Colui che tutto fece e tutto soffrì nel Sangue e per il Sangue di Cristo! È questo il motivo centrale e co-stante che coordinò sempre ed in ogni istante la sua esistenza; anzi, possiamo aggiungere con certezza, che è stata sempre la nota predominante del canto sublime della sua anima di serafino. Il Sangue di Cristo fu il motivo ispiratore della sua fede e della sua interiorità, della sua carità, della sua umiltà, della sua mansuetudine nel sacricifio, del suo eroismo, che, a somiglianza di Cristo nudo e piagato sulla croce, lo portò a perdonare ai tanti suoi persecutori. Il mirabile suo apostolato, la dimenticanza di sé, la prediletta ed estrema povertà, la somma e continua sollecitudine per le altrui sventure, potenziate dalla contemplazione del Mistero del Sangue di Cristo, lo portarono alla vetta della santità, così da imprimere ad ogni parola e ad ogni azione il suggello del soprannaturale. Gaspare, operando sulla terra, guardava il Cielo, donde gli derivava ogni forza ed ogni conforto. Uscito dalle file del popolo, egli si dedicò alle folle. La fiumana di gente, che ovunque si accalcava intorno a lui – lavoratori, sofferenti, peccatori – lo scaldava, lo entusiasmava, gli apriva il cuore, gli strappava lacrime. I tuguri, le prigioni, gli ospedali, i patiboli, gli appestati, i briganti, gli oppressi, erano il suo mondo. Se accostava i grandi, i burocrati e i ricchi, era solo per rivendi-care giustizia per i reietti dalla società, i quali più degli altri capirono il segre¬to della sua spiritualità, cioè il contrassegno del Sangue di Cristo, che infiam¬mò il suo grande cuore. Egli predilesse quel «Segno vermiglio», perché segno unico ed insostituibile della vera fraternità universale e l’unico, che corri-spondesse alla logica dei suoi patimenti, della sua sete di giustizia, del suo inestinguibile amore. Gaspare ci ha dimostrato che, quando l’umanità dimentica quel Sangue, cade nell’ abbiezione, si schiavizza, si autodistrugge e sparge inutilmente il proprio sangue, spinta dall’orgoglio, dall’odio e dalla vendetta. Un’insigne biografa del Santo immagina che dal suo Cuore trafitto Gesù faccia cadere una goccia del proprio Sangue sulla fronte di Gaspare, mentre gli angeli la recingono dell’ aureola della santità. È il rubino fulgente di quella immarcescibile corona! Il suo fulgore richiamerà nei secoli i devoti di Gaspa¬re al Mistero del Sangue Divino, il quale, anche per sua intercessione, guarirà ogni ferita dell’anima e sanerà le sofferenze umane!
È logico anche che, colui che aveva osato scrivere con rispetto e franchezza al papa Pio VII evidenziando il metodo errato e controproducente di estirpare il bri¬gantaggio con la ferocia e la violenza, ottenendo così la sospensione della distru¬zione di Sonnino, già iniziata, e la ricostruzione delle case già abbattute, e che ave¬va presentato coraggiosamente un «Progetto di Riforma», che toccava interessi e reputazione della Corte Pontificia, della Curia Romana e delle alte sfere del clero e del laicato, esaltasse le masse dei popoli. * * * Anche se la parola Fioretti, di per sé, ci porta a pensare a leggende e a fatti fan¬tasiosi, è bene precisare subito che gli episodi che leggerete non sono né leggende, né fatti immaginari o inventati. Essi hanno tutti un fondamento storico. È da com¬prendere, d’altra parte, come accade in libri di questo genere, che, a volte, l’autore li arricchisca di particolari, che di solito in realtà si verificano in quelle date circo¬stanze, sempre fondati però sulla storia del tempo, sulla cognizione del carattere del Santo e dei suoi compagni, su gli usi e costumi delle popolazioni dove essi sono avvenuti. Qualcuno avrebbe preferito che questo libro fosse meglio intitolato Vita di S. Gaspare narrata per episodi, o, più propriamente, Episodi meravigliosi della Vita di S. Gaspare. A noi è piaciuto invece intitolarlo Fioretti di S. Gaspare per ricollegarlo, come abbiamo detto, a tanti anni – dal 1952 ad oggi – del giornale Primavera Missiona¬ria, al quale tutti i devoti del Santo sono così affezionati. Leggendoli, pensiamo, succederà anche a Voi, com’è avvenuto a noi, che la mente Vi porti al ricordo di tempi lontani, a qualche evento della vostra vita, forse alla venuta in Albano per pregare presso 1′ Urna del Santo, a grazie ricevute, e a persone care, forse ora scomparse, con le quali tante volte l’avete letto e commentato, pregando assieme. Tutti gli episodi da noi narrati sono stati tratti dai due volumi di A. Rey Gaspare Del Bufalo. È questa la narrazione più completa della vita del Santo finora pub¬blicata. il padre Rey con pazienza certosina e grande maestria ha spulciato l’enor¬me archivio, i libri dei Processi, le migliaia di lettere di S. Gaspare, altri suoi Scrit¬ti e quelli dei suoi compagni. Di ogni avvenimento, prodigioso o no, cita la fonte con tale scrupolo, che alcuni lo tacciano di pignoleria. Vogliamo rendere qui il devoto omaggzo e un tributo d’affetto a questo dotto Missionario, poeta, scrittore, letterato e grande oratore da noi conosciuto, per un lavoro davvero improbo, al quale tutti i biografi successivi hanno largamete attin¬to. Pur troppo la morte ne stroncò la preziosa esistenza immaturamente e non gli diede la gioia di vedere pubblicata la sua Opera così preziosa e che portò largo contributo alla storia di quel periodo. Il protagonista quasi assoluto dei Fioretti è sempre 5. Gaspare, dalla nascita all’apoteosi del Cielo e della stupenda Gloria del Bernini. La sua fisionomia, però, com’è naturale per un Fondatore, si rivive e si completa nei primi Compagni e Di¬scepoli, che lo seguirono e con lui cooperarono imitandone le virtù. In fatti al loro amore di figli dobbiamo la ricchezza inesauribile di tante notizie. Essi non ci hanno tramandato solo quanto sapevano di meraviglioso, di visioni e rivelazioni, di profezie e miracoli del loro Padre, ma hanno tenuto a far emergere, quasi a dipingerli con fedeltà e vivezza, i tratti più sublimi delle sue virtù eroiche e il suo messaggio all’umanità. Anche noi, perciò, nella nostra narrazione abbiamo cercato di fare altrettanto. Non vi presentiamo un & Gaspare romanzato o leggendario, ma di lui narriamo fatti concreti che, se da una parte ne delineano la statura possente di Santo e Tau¬maturgo, dall’altra ce ne danno anche la spiccata figura d’uomo come noi, con le sue sofferenze fisiche e spirituali, dal carattere irrompente e con taluni difetti, ch’egli d’altronde riuscì a dominare con l’aiuto divino e con la forza che gli deriva¬va dalla pratica costante ed eroica della virtù. Non si aspetti il benevolo lettore la narrazione cronologica dei fatti. Esigenze d’òrdine pratico e di brevità ci hanno consigliato di raggruppare alcuni episodi omogenei in un solo capitolo, anche se avvenuti in epoca e località diverse. Così abbiamo ritenuto opportuno parlare dell’apostolato del Santo, e quindi di prodigi, svolto in alcune Regioni, come Romagna, Marche e Lazio, raggruppando in un so¬lo capitolo la cronaca di anni diversi. Ci siamo anche sforzati, in qualche modo, sperando d’esservi riusciti, di non sco¬starci troppo dallo stile dei cronisti del tempo, innestando tra virgolette le loro pa¬role e a volte interi brani per conservare al periodare quel gradito sapore di antico e mettere in maggior evidenza la genuinità e la veridicità dei fatti. Né abbiamo voluto, noi che scrittori di vaglio non siamo, cambiare la nostra prosa semplice e piana, destinata a lettori senza grandi pretese letterarie e paghi più del contenuto che della forma. Osiamo sperare, per altro, di non far arricciare il naso ai lettori di gusti… prelibati. Le illustrazioni sono di Francesco Di Maria, che ama definirsi «principiante» in questo genere di pittura e che, tuttavia, spera d’éssere riuscito ad esprimere in modo accettabile alcuni momenti di vita del grande Santo. Anche se – per non smentire le abitudini degli artisti – ci ha fatto alquanto sospirare la consegna dei disegni, credia¬mo che sia riuscito nel suo e nostro intento, e lo ringraziamo ed apprezziamo since¬ramente, nutrendo fiducia che le illustrazioni siano anche di vostro gradimento. Speriamo che questo libro, che non vuole solo accontentare coloro che da tempo lo aspettavano, ma anche stimolare la curiosità e spingere alla lettura coloro che non sono abituati a leggere vite di santi, sia gradito e bene accolto. Soprattutto, però, l’autore ha voluto rendere un filiale tributo d’amore e devozio¬ne al suo Padre Fondatore, e mettere in risalto la sua grande dolcezza verso i pec¬catori e l’amore senza confine verso i sofferenti. Da tanti episodi, e da altrettante testimonianze, bòlzi al nostro sguardo l’eccelsa figura di S. Gaspare, la cui vita fì’ sempre conforme a quella del Cristo Crocifisso, nel quale soltanto, come l’apostolo Paolo, volle gloriarsi. Ci spinga alla devozione al Sangue di Cristo egli che ne fu il più grande apostolo, e susciti in noi tanta fidu¬cia nella sua valida intercessione. R. BERNARDO Quando Dio manda i suoi santi… È Dio che sceglie tempi, luoghi e persone per attuare il suo disegno d’amo¬re sull’Umanità e condurla alla salvezza. Lo stesso suo Figlio fu elargito al mondo nella «pienezza dei tempi», cioè quando il Padre ne stabilì il momen¬to, secondo una mirabile disposizione in vista della redenzione del mondo. Così è dei santi, prescelti da Dio a continuare, in modo privilegiato e più in-cisivo, la missione salvifica di Cristo. Il Signore ha sempre arricchito la sua Chiesa di figure radiose di martiri e confessori della Fede, i quali configurandosi a Cristo, hanno trascinato, con l’esempio e la parola, le anime alla salvezza. Tuttavia Egli nel corso dei secoli e secondo le necessità della Chiesa suscita figure particolari, gigantesche e lu-minose, la cui attività corrisponde mirabilmente ai molteplici ed urgenti biso-gni delle diverse epoche storiche. Questi santi, illuminati e guidati dallo Spi-rito, dotati d’intuito e virtù eccezionali, indomiti e coraggiosi lottano contro il male e riconducono il mondo alla fede, alla giustizia, alla carità. Grazie alla loro opera la Chiesa si rinvigorisce nella sua ricca vitalità e bellezza, proprio quando sembrerebbe sia per essere travolta! Ci basti qui ricordare le radiose figure di Benedetto da Norcia, Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Ignazio di Loyola, Vincenzo de’ Paoli, Camil¬lo De Lellis, Giovanni Bosco. Nella schiera di questi giganti della santità va, a pieno diritto, annoverato anche il santo romano GASPARE DEL BUFALO (1786-1837). Quando, nel fervore delle prime lotte per l’Indipendenza e la costituzione del Regno d’Italia, accanto alle nobili figure dei patrioti, sorgono anche sov-versivi, Logge Massoniche e Sette di Carbonari, che ne macchiano la purezza degli ideali, camuffando di patriottismo un viscerale livore anticlericale e scatenando una lotta furibonda, non tanto contro lo Stato Pontificio, ma con-tro la Chiesa, quale istituzione sacra; quando Napoleone, che aveva sbandie-rato al mondo ideali di libertà ed uguaglianza ed il proposito di realizzare il Regno d’Italia, si rivelò in effetti un despota sanguinano, imprigionò il Papa, cardinali, vescovi e sacerdoti e saccheggiò le chiese e promulgò un nuovo ca-techismo, il Signore mandò S. Gaspare! Egli, avendo rifiutato il giuramento di fedeltà al tiranno, pagò coll’esilio e le carceri il suo coraggio e, tornato a Roma dopo lunga prigionia, si dedicò inte-ramente a sanare le piaghe morali e i disastri sociali, seguiti alla dittatura na-poleonica. Così esclama Gaspare: «In altri tempi la Chiesa è stata combattuta or contro un dogma, or contro un altro; nei nostri tempi, però, la guerra è alla Religione nella sua totalità, è al Crocifisso Signore. Ora necessita ridire ai po-poli a qual prezzo sian ricomprate le anime! Il Sangue di Cristo è l’arma dei tempi!». S. Gaspare inalbera così il vessillo del Sangue di Cristo e, nel suo segno, ini¬zia un apostolato instancabile ed eroico, che ci lascia attoniti. Dopo lotte inaudite, mossegli proprio da coloro che avrebbero dovuto asse-condarlo, ottenne da Pio VII il permesso di fondare una nuova Congregazio¬ne religiosa, che volle fosse chiamata Congregazione dei Missionari del Prezio-sissimo Sangue. Presentò al Papa un coraggioso ed ardito progetto di riforma della Chiesa e dello Stato e, con un drappello di santi sacerdoti, che abbrac-ciarono il suo ideale, percorse tutto lo Stato Pontificio, l’Abruzzo e gran parte del Regno di Napoli, dove allora spadroneggiavano i più feroci briganti e i lo¬ro protettori e ovunque dilagava il malcostume, il sopruso, 1′ oppressione, l’ingiustizia, l’ignoranza, la miseria. La sua voce tuonò inesorabile contro il male, dolce e ricca di misericordia verso i peccatori. Egli si inerpicava sulle alte montagne alla ricerca dei covi dei briganti, ne ammansiva la ferocia, li commuoveva fino alle lacrime e li convertiva. Trascinava le folle: non bastando le chiese a contenerle doveva predicare sulle piazze gremite. Ovunque passava si spegneva 1’odio, tornava la pace, si restituiva il mal tolto e si ripristinava la giustizia e la vera fraterni¬tà. Intere popolazioni abbrutite dal vizio, cambiavano vita. Durante le sue prediche si bruciavano sulle piazze cumuli di armi, stampe perverse, emble¬mi di Settari. Gaspare ovunque era acclamato santo, tromba del Divin Sangue, martello degli eretici. Né attentati, né libelli infamanti, né calunnie, né adulan¬ti promesse, né miraggi di mitria e di porpora, valsero a fermarlo: «Sono mis¬sionario – egli affermava deciso – e morrò sul palco, da missionario!». S. Gaspare fu paragonato a S. Bernardino da Siena e chiamato «Nuovo S. Vincenzo Ferreri». Dio era chiaramente con lui. Come un uomo, per natura delicato di salute e minato nel fisico per le sofferenze patite nelle carceri, abbia potuto affrontare fatiche, privazioni e disagi così immani per le condizioni dei tempi, è cosa per noi inconcepibile senza il palese aiuto divino. Allorché sembrava irrimediabilmente fiaccato dal male, d’incanto sorgeva¬no nuove energie! Davanti a lui i sicari gettavano il pugnale, si convertivano o fuggivano atterriti; le pallottole cadevano fredde al suolo senza scalfirlo, la sua benedizione rendeva innoqui i veleni propinatigli nei cibi e nelle bevan¬de. La conferma di Dio è ancor più evidente nei fatti strepitosi che il Santo operava e che verremo narrando in questo libro. Però la vittoria più grande di questo gran Santo rimane sempre, dopo quel¬la su se stesso, con la pratica di tutte le virtù cristiane in grado eroico, la tra-sformazione della società del suo tempo. Nei pochi anni, circa 22, del suo in-tenso apostolato, egli ha lasciato un’impronta indelebile, che ancora oggi fa sentire il suo benefico influsso nella società moderna. Il suo segreto? Così lo esprime il celebre Card. Carlo Salotti: «Egli passò tra triboli e spine. Non respinse quelle spine, ma le baciò e se ne cinse la fronte, tenendo gli oc-chi fissi al Calvario. Non era forse scaturito da quella vetta sanguinante il ri-scatto del genere umano? Le piaghe del Cristo morente parlavano alla sua anima sacerdotale e le stille di quel Sangue purissimo ne stimolavano mag-giormente l’ardore apostolico. E, allorché i nuovi farisei si scandalizzavano, perché il Sangue del Salvatore fioriva continuamente sul suo labbro e forma¬va l’oggetto ed il fine primario delle sue predicazioni, egli s’immergeva sem¬pre più in quel Sangue, che era il suo alimento, la sua forza spirituale, la sua ispirazione, il segreto meraviglioso del suo grande cuore». La sua venuta Due predizioni, a significare con notevole anticipo la statura della santità di Gaspare e l’importanza del suo apostolato nella Chiesa di Dio, ne preannun-ciarono la venuta. Una alquanto vaga, 1′ altra ben precisa. Nel 1807, una fanciulla di appena 8 anni, poi divenuta Sr. Amante M. Sofia e morta in concetto di santità, avendo appreso sulle ginocchia della mamma che non esisteva alcun Istituto intitolato al Prez.mo Sangue, esclamò: «Signo¬re, fate che un giorno sorga un’Istituzione che prenda il nome del Vostro San¬gue Prezioso». Dell’altra, dovuta a Sr. Maria Agnese del Verbo Incarnato, (1757-1810) parleremo ampiamente in altro capitolo. Ed ecco che il 6 gennaio 1786, in una casetta molto modesta, sul Colle Esquilino, a Roma, quasi accanto alla più famosa basilica del mondo dedicata alla Vergine – S. Maria Maggiore – nasce da Antonio Del Bufalo e da Annun-ziata Quartieroni un bambino assai gracile, ma bello, che il giorno dopo viene battezzato nella chiesa di S. Martino ai Monti, sempre sull’Esquilino, con i nomi regali dei santi Magi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Il babbo, sebbene da documenti incontestabili risulti autentico discendente dei Marchesi Del Bufalo, è ridotto a fare il cuoco del Principe Altieri. Gaspare trova già un fratellino, Luigi, e passa con i genitori ad abitare due umili stan¬ze del grandioso Palazzo Altieri, che si affaccia sulla piazza che prende il no¬me dalla famosa chiesa del Gesù. Ed è proprio in questa chiesa che si manife¬sta prodigiosamente la grande predilezione del Signore su di lui. Abbiamo detto che è nato di gracilissima costituzione e già dopo un anno e mezzo deve ricevere il sacramento della Cresima, perché in fin di vita. Ma, quando è stato appena scongiurato questo grave pericolo, ecco che il bambino viene colpito dal vaiolo in forma così violenta che 1’abbondante eru-zione cutanea, propria del male, gli inonda gli occhi col pericolo d’una com-pleta cecità. La buona mamma, disperando ormai dell’efficacia dell’opera dei medici, piena d’angoscia, si volge, come fa ogni credente in casi disperati, ad impe-trare l’aiuto divino. Nella chiesa del Gesù si venera S. Francesco Saverio, il meraviglioso e grande Apostolo delle Indie, del quale è tanto devota. Prostra¬ta al suo altare, leva in alto il piccolo e, come impetuoso ed ostinato è il male, così è più sentita ed accorata la sua preghiera al Santo. La guarigione del bambino avviene prontissima e totale! Da Gaspare, al quale la mamma racconta spesso quell’ evento prodigioso, il Saverio non sarà mai dimenticato. Si può dire che quel segno di predilezione del Saverio accese nel suo cuore una fiamma che andò man mano ingiganten-dosi, fino a diventare fuoco d’amore. Quella scintilla fu l’inizio d’una gara tra Benefattore e beneficato, nella quale i due giganti dell’ apostolato cercarono di vincersi in generosità. Una gratitudine perenne, più sentita di qualsiasi vo¬to, scaturirà di giorno in giorno nel cuore di Gaspare, il quale non solo cer¬cherà di emulare la santità e il fervore apostolico del grande Francesco Save¬rio, ma lo eleggerà a protettore della sua Congregazione, gli erigerà altari e chiese, ne predicherà ovunque le grandezze suscitandogli schiere di devoti, porterà ovunque nelle Missioni al popolo un suo quadro, che diverrà famoso. Dal canto suo il Saverio moltiplicherà grazie e protezione ed opererà grandi prodigi quando Gaspare lo invocherà. Così si amano i santi e sanno intrecciare il loro cuore, nei quali avvampa sempre e al di sopra di tutto, l’immenso amore di Dio! Il letto I lettori, ovviamente, vorranno subito far conoscenza con quei genitori, che donarono al mondo un Santo così straordinario come Gaspare. Essi conoscono già i loro nomi: Antonio e Annunziata. Antonio, genuino romano de Roma, ne aveva anche i difetti e le virtù. Alle-grone, amante della compagnia spensierata e contenta, alquanto grossolano e un po’ spendereccio, piuttosto irruente, attaccato alla buona cucina – era cuo-co d’un Principe! – con uno spiccato debole per gli spettacoli e il gioco del pal-lone, anche allora in auge nell’Urbe! Anzi, questa passione lo portò ad im-provvisarsi addirittura impresario con catastrofiche conseguenze finanziarie, sicché comprese ch’era meglio tornare al mestiere più sicuro dell’umile cuo¬co. D’altra parte era uomo di provata onestà, di profonda fede cristiana, gran lavoratore, fedelissimo alla consorte e premuroso verso i figli, dei quali pren-deva ogni cura, seguendoli, passo passo, negli svaghi, negli studi, nella scelta di sane compagnie. Annunziata era di carattere mite, delicata, dal tratto distinto, di fine senso estetico. Le due modeste stanze dove alloggiavano nel Palazzo Altieri, erano tutto lindore ed ordine, sicché – dicevano – esser lei, e non il marito, la vera di-scendente dei nobili marchesi Del Bufalo. L’elogio più grande da lei meritato, senza meno, è questo: Era madre temprata nella fede, educatrice perfetta, eroica quando, oltre che le pazzie del marito, dové affrontare le durissime prove della povertà, dell’ immatura morte del primogenito, dell’ esilio di Ga-spare, che la portò ben presto alla tomba. Gaspare prese un po’ della mamma e un po’ del papà. Riprodusse in sé, perfezionandola con gli anni, la soda pietà della genitrice, il di lei gusto delle cose linde e fini, i tratti cortesi, il senso dell’ ordine e della pulizia, fino al pun-to che, la buona Annunziata, anche intimamente orgogliosa, soleva dire: «Con questo figlio ho da star sempre con la scopetta in mano»! Stile ch’egli conservò sempre e inculcò ai suoi missionari, tanto da essere chiamato: Ca-valiere nato! Dal padre ereditò il carattere vivace e schietto, l’impazienza, a volte impe¬tuosa e stizzosa, ma sempre ben repressa e controllata, fino a dire: «Scusate… Mi arrabbio, perché m’arrabbio!» Mai arrivò ad offendere alcuno. Ereditò dal babbo anche la passione per le folle, la parola calda, che affascinava 1′ udito-rio, ed il genio organizzativo. L’anima del piccolo Gaspare, precocemente mistica, plasmata dalla madre, divenne anche precocemente attiva ed apostolica, sicché, fin dall’infanzia, espresse quello zelo che lo avrebbe consumato per tutta la vita. Dopo i fervo¬ri della prima Comunione e l’assidua frequenza dei corsi di predicazione e fe¬ste religiose, si diede ad erigere altarini in casa, ad organizzare funzioni, salir sulle sedie e, come da un pulpito, ad arringare l’uditorio – babbo, mamma, fratello, compagni, servi del Principe – e ad esortar tutti con gran calore alla… conversione! Nel contempo è proprio convinto esser lui più peccatore di tutti e, per scon-tare… i tanti peccati, passava intere notti ginocchioni, in preghiera, sul nudo pavimento. Annunziata, sempre tenera e vigile, è costretta spesso a sollevarlo di peso e portarlo a letto, mentre esclama angosciata: «Questo figlio, mi si storpia!». Una mattina, nel riassettare il lettino, allibì: le lenzuola erano striate di san-gue! Gasperino, con tutto candore, le mostrò il cilizio, che circondava i suoi fianchi. Un vero ordigno! «Una funicella, munita di pezzi di latta tagliati a stellette, le cui punte ritorte, penetrando nelle teneri carni, ne facevano spriz-zare sangue». La madre, inorridita, glielo sciolse e medicò le profonde ferite. Gaspare, comprendendo il dolore e le apprensioni della buona mamma, le si gettò al collo, la carezzò e promise: «Mamma, volevo imitare S. Luigi. Non lo farò più». L’episodio è autentico. Il cilizio, tenuto gelosamente a ricordo da Don Ber¬ga, dopo la morte del Santo, fu consegnato al suo secondo successore, D. Gio-vanni Merlini. Quel sangue innocente, versato da Gaspare fanciullo «in isconto dei propri peccati e degli altrui» è come l’albore della sua vita missionaria, quando nelle chiese, sulle piazze e al capezzale dei moribondi, si flagellerà con strumenti ben più terribili per indurre a pentimento i peccatori più ostinati. La fuga Mamma Annunziata e papà Antonio, impressionati dall’ esagerato fervore di penitenza del piccolo Gaspare, lo affidarono alla guida dotta e saggia di Mons. Marchetti. Il pio sacerdote gli fece comprendere che Dio non voleva da lui così dure penitenze, bensì preghiere fervide, ubbidienza, impegno nel¬lo studio e, soprattutto, uno sforzo continuo nel dominare i difetti del suo ca¬rattere. Con una guida così premurosa ed oculata, Gaspare, con sorprendente precocità, continuò l’ascesa nelle cose dello spirito. Il piccolo accompagnava ogni mattina la mamma nella chiesa del Gesù, dove ascoltava la Messa e non mancava di ringraziare il Saverio per la singolare guari¬gione ricevuta per la sua intercessione. Riceveva spesso la S. Comunione e «guardava 1′ Ostia Consacrata acceso in volto come un cherubino». Mirando l’immagine del Saverio, «una volta – com’egli stesso raccontò da grande – si sentì inondare il cuore da tanta dolcezza, che gli sembrò d’essere in paradiso». Ripeteva spesso da allora: «Potessi diventare un apostolo come lui! Potessi morir martire per la conversione degli infedeli»! Ora Gaspare, nel palazzo e nei dintorni, era chiamato da tutti il santarello. Ma un giorno, il santarello, ne combinò una proprio grossa! Capitò in casa il frate cercatore della Terra Santa e, mentre Annunziata an¬dò a prendere 1’obolo nel cassettone, i ragazzi lo circondarono, ascoltando a bocca aperta quanto il frate narrava dei luoghi bagnati dal Sangue di Gesù, e dei Turchi che, non credendo a Gesù, martirizzavano i missionari che cerca¬vano di convertirli alla vera Fede. Non ci voleva altro per sbrigliare la fanta¬sia dì Gaspare. Quel frate era stato proprio mandato da Dio! Era la chiamata, era giunto il momento di partire per predicare il Vangelo e morire martire per la Fede! Passò la notte a rimuginare sotto le lenzuola il piano della fuga nei suoi minimi particolari. Non riusciva più a frenare la smania! Senza confidar¬si con qualcuno, gli sarebbe scoppiato il cuore in petto! Nello stesso palazzo abitava Maria Tamini di anni sette; era la figliola del Dispensiere del Principe – ottima famiglia, come quella di Gaspare e sua com-pagna di studio, di preghiera e di giochi. «Maria – le disse – io fuggo di casa e vado a predicare il Vangelo ai Turchi. Vieni anche tu?» La bambina, sulle pri-me, restò titubante, poi si entusiasmò anche lei ed accettò. «Però – dice – i Turchi sono tanti; che facciamo noi due soli? Diciamolo anche ai nostri com-pagni». Gaspare convocò subito una riunione segreta e ne parlò ai piccoli amici. Es¬si, abituati a subire il fascino del santarello, e a imitarlo e seguirlo nella vita d’ogni giorno, si entusiasmarono immediatamente. Discussero il piano con massima serietà. «Sì, andiamo tutti! Ma… i Turchi dove sono? Chi ci insegne-rà la strada?» Gaspare aveva sempre la risposta pronta: «Domanderemo… e poi il Signore ci manderà la sua stella come ai Re Magi». «E per mangiare?» «Lo chiederemo alla buona gente. Chi rifiuterà un pezzo di pane ai missionari che vanno a morire per la Fede?». «Deve venire anche Maria…». «Sì, verrò, dice la ragazza, ma io sono una donna. Che dirà la gente?» «Ti travestirai da uomo – risponde subito Gaspare – prendi il vestito di tuo fratello.» Maria, nella notte, trafugò il vestito del fratellino che dormiva; ma poi que¬sti, non trovandolo sulla seggiola al mattino, scoppiò in lacrime. Maria, con¬fusa, rivelò tutto alla mamma… e il piano andò in fumo, anzi, finì a scapac¬cioni! Oggi fuggire di casa è cosa d’ordinaria amministrazione per i nostri ragazzi, ma allora, che i bambini erano sempre appiccicati alle gonnelle delle mamme e non osavano da soli neppure ficcare il naso fuori dell’ uscio, il piano di Ga-spare era davvero ardito e straordinario. La bella compagnia non si sciolse; rimase compatta per attuare a Roma quello che non poterono andare a fare tra i Turchi. I cari compagni di Gaspare rima-sero tra loro uniti anche da grandi. Sotto la sua guida Maria divenne una santa suora, Filippo Berga monaco basiliano a Grottaferrata, Carlo Valletta divenne cardinale, Domenico Girometti canonico di 5. Marco, come S. Gaspare. Quella fuga, per Gaspare, fu solo rimandata. Nessuno riuscì mai a fermarlo nel continuo peregrinare missionario, alla ricerca di anime da salvare, per tutta la vita. Hanno più fame di me L’amore di Dio andava sempre riscaldando il cuore del piccolo Gaspare e lo rendeva più operoso. Avendo egli avuto rigoroso divieto di macerarsi le carni col cilizio, trovò altre forme per mortificarsi. Così si diede a digiunare il ve-nerdì, limitando il cibo alla sola minestra e ad un pezzetto di pane. Altrettan¬to faceva durante la quaresima, nelle vigilie, nel mese mariano per «fioretto» alla Vergine. Annunziata era costretta a vigilare con la massima attenzione, e, a volte, anche a far la voce grossa: «Alla tua età, non sei obbligato al digiuno!» Ed egli di rimando: «Se ho 1’età per peccare, l’ho anche per digiunare! » Ma quando leggeva tanta preoccupazione sul volto della madre, la carezzava e diceva: «Su, mamma, non vi agitate, state serena, mangerò… Sappiamo che la famiglia Del Bufalo abitava nel «cortile antico» del Palazzo Altieri e che le finestre delle due modeste stanze, difese da robuste inferriate, davano su via della Gatta e sul vicolo di S. Stefano del Cacco. Attraverso quelle grate il ragazzo poteva scorgere il panorama delle grandi miserie uma¬ne della sua Roma. Accattoni sudici e nauseanti, storpi e minorati d’ogni spe¬cie, che facevano tanto ribrezzo! Ad essi s’univano veri disoccupati e fannul¬loni di mestiere dediti all’accattonaggio; non mancavano ladri e truffatori. Le barbacce e i capelli incolti brulicanti d’insetti e i corpi, a malapena ricoperti di stracci, lasciavano intravedere piaghe rognose e purulente non curate. Al¬cuni, specie d’estate, passavano anche la notte sdraiati su quelle vie sudice e insicure. L’occhio di Gasperino li passava in rivista, il cuore gli si stringeva e qual¬che lacrima gli bagnava le ciglia. «Poveretti! Io ho tutto: affetto, pulizia, cibo. Loro nulla!» Dal profondo del suo animo generoso sorse naturale l’impulso di far subito qualcosa, almeno per aiutarli un po’. Fece un cenno con la mano, come un timido invito, e di tra le sbarre passò un po’ di cibo. Come succede sempre, quel primo tenue soccorso fu un ri¬chiamo. Si diffuse la notizia e i poveri si moltiplicarono. «A Palazzo Altieri c’è un principino tanto buono!» Ormai quell’aiuto divenne un diritto! Se le vetra¬te, a quella data ora, non s’aprivano, era un picchiar di bastoni forte e prepo¬tente sull’inferriata: un baccano infernale. Allora Gaspare, di corsa, faceva man bassa di quanto poteva arraffare ed accorreva. Non distingueva cosa da cosa e spesso dava fondo anche a ~uanto era destinato al pranzo o alla cena della famigliola. Era davvero commovente vederlo privarsi anche di qualche dolciume: un vero eroismo per un ragazzo della sua età! Non poche volte diventava egli stesso un accattone per poter dare di più. A Maria e ai piccoli amici diceva: «Su, procurate anche voi qualcosa per chi muore di fame…». I poveri avevano ormai studiato ogni abitudine del loro piccolo benefattore e all’ approssimarsi dell’ ora di scuola, si dicevano: «Su, andiamo, il santarello sta per uscire.» «A me, a me…» gridavano in coro, e Gaspare estraeva la cola-zione che di soppiatto aveva infilato nella cartella, facendo credere alla mam-ma d’averla mangiata, e la dispensava. La stessa fine faceva qualche mezzo baiocco che gli veniva regalato nelle ricorrenze. Una mattina Annunziata, scoprendo il trucco, lo sgridò con severità. Se avesse continuato a quel modo sarebbe diventato tisico. Gaspare col più ge¬nuino candore le rispose: «Mamma, quei poveretti hanno più fame di me!». La buona mamma, con apprensione, ma anche con intima gioia, serbava tutte queste cose nel suo cuore. Tra i barozzari Gaspare, ormai, già scorge, al di là dei muri di casa, orizzonti più spaziosi ed invitanti per il suo apostolato. Ha compreso, dopo la fuga fallita, che certi pro-positi vanno maturati con gli anni, e cosa significhi e comporti la vocazione. Ottiene, intanto, di far parte del Piccolo Clero e d’indossare la talare o, co¬me si diceva allora, vestirsi da abatino. Sa che nella veste c e un impegno più solenne, una responsabilità più manifesta di progredire in virtù. La porta, perciò, con tale decoro e dignità da destare meraviglia e rispetto in tutti. Un giorno, nel rientrare da scuola, incontrò nel cortile del palazzo il principe Al-tieri con la consorte e il figlioletto. Il Principe, cosa da far sbalordire in quei tempi, si tolse il cappello e lo salutò rispettosamente, mentre la Principessa ordinava al figlioletto di baciare la mano al santarello, che, allibito e confuso, arrossì in viso come un peperone, cercando di schermirsi. Il Principe in fine si raccomandò alle sue preghiere. «E mio dovere, Eccellenza!» rispose Gaspa¬re in tutta umiltà. Gaspare già frequenta il famoso Collegio Romano e si cimenta con profitto in materie difficili, guadagnando ottimi voti e medaglie. S’è fatto la nomèa di sgobbone e non mancano compagni burloni che, di tanto in tanto, gli giocano tiri a volte anche atroci. Egli, per altro, riesce a mantenersi calmo ed imper-turbabile e giunge perfino a sorridere. Fra tutte le iniziative, cui prende parte, predilige le opere più umili e schi¬vate dagli altri, cioè quelle che impegnano molto e non procurano gloria alcu¬na. Tal’è l’Opera dei Barozzari. Essa, per la verità, non ebbe origine da altri, fu esclusiva iniziativa dovuta al suo zelo e da lui prese una fisionomia tutta particolare, nella quale si intra¬ vedeva già lo stile del futuro missionario. Una turba di contadini, provenienti dall’Agro Romano, portava a Roma il fieno raccolto nei campi per rivenderlo a miglior prezzo. Il fieno veniva am-massato a Campo Vaccino, il famoso Foro Romano, ridotto così a deposito e a terreno da pascolo. Ai barozzari si univano lavoratori d’ogni tipo, che afflui-vano dalle Marche, Abruzzi e Campania, per essere chiamati a «giornata», an-che per pochi baiocchi, per non morir di fame. Non si udivano che parolacce e bestemmie, grida ed invettive! Annebbiati dal vino, tra litigi e risse, ci scap-pava non di rado anche il morto. «Da quanto tempo – si domandava Gaspare – quei poveretti dalle mani incallite, bruciati dal sole e dal gelo, cenciosi e sudici e con grosse cioce ai piedi, non hanno sentito parlare di Dio?» In quel Campo Gaspare scrisse la più bel¬la pagina della sua preparazione al sacerdozio, convinto che il vero sacerdote non era un privilegiato, ma un mandato da Dio, come lo fu Cristo. Si vide un pretino tutto lindo e gentile aggirarsi in quel groviglio di uomini e bestie, fatto segno a sberleffi, a gesti equivoci e perfino a minacce. Ne avvi¬cinò qualcuno: una parola ed un piccolo dono servirono a rompere il ghiac¬cio. Quei ceffi, dagli insulti passarono alla curiosità, poi all’interesse, in fine al rispetto. Seduto su un fascio di fieno il pretino raccontava le parabole del Vangelo, parlava dell’amore di Dio, del Sangue versato da Gesù anche per lo-ro. Toccò tasti sensibili: la loro fanciullezza, la preghiera imparata sulle gi-nocchia della mamma, ora forse scomparsa, e mai più recitata, la Prima Co-munione. Su quei visi induriti e barbuti si vide scorrere qualche lacrima. «Gesù ha vinto!» esclamava il pretino. Così nacque 1’Opera dei Barozzari con un programma ben preciso: Innanzi tutto, conoscere Dio, rispettarne la Legge, non offenderlo più; organizzarsi per trovare lavoro onesto e dignitoso per tutti; aiutarsi e rispettarsi a vicenda; coalizzarsi per la difesa d’un più giusto salario e far arrivare la voce anche all’Autorità, se necessario. Un vero e proprio Sindacato in anteprima per il bene dell’anima e per una vita più umana. Manco a dirlo, quei primi successi davano fastidio a qualcuno e comincia¬rono le prime invidie e malignità. Non c’è da meravigliarsi: questa è la via dei santi! Bambini e anziani «Molti insigni personaggi e molti Santi hanno dato la loro attività e portato il loro contributo a quella immensa ricchezza spirituale di tradizioni, di istitu-zioni, di opere di bene di cui andava giustamente superba la Roma dell’ 800 e che ne fecero la capitale dello Spirito e della carità, ma certamente nessuno come S. Gaspare» (De Libero). Egli, impegnandosi a fondo, bruciò le tappe, S innestò di slancio nella vita romana religiosa e sociale d’allora e non fu solo uno che partecipava, ma il creatore e l’animatore. Come sempre, si preoccupa dello spirito e del corpo. Crea Gruppi di Pre-ghiera; promuove l’Adorazione Perpetua, diurna e notturna, al SS.mo; tiene conferenze, forma un gruppo di Catechisti ben preparati per l’istruzione ai fanciulli e agli adulti nell’ Urbe e nei paesi limitrofi. Organizza visite agli in-fermi negli ospedali e nelle case, e promuove molteplici iniziative di carità. Forse nessuno sa che il giovane Gaspare fu il primo a ideare il teatrino par-rocchiale, perché ci teneva che i ragazzi fossero santamente allegri; scriveva egli stesso drammi e commedie ed era anche ottimo regista, tanto vero che, tra gli spettatori, non mancavano uomini di cultura, personalità e perfino Cardinali. Qui è proprio il caso di domandarsi se ci sia una sola parte della Roma dalle mille Chiese e dalle mille Opere di bene dove non abbia svolto il suo aposto-lato il giovane Gaspare. «Mosso da grande amore per il prossimo – è riferito nei Processi – si sarebbe spezzato in cento per abbracciare tutte le Opere di Carità». Un giorno passò davanti all’ Ospizio di S. Galla, eretto da Papa Gregorio al piedi della Rupe Tarpea, dove la patrizia Galla aveva fatto del suo nobile pa-lazzo il centro di carità al tempo dei primi cristiani. In quell’ Ospizio tanti sa-cerdoti romani, tra cui i santi De Rossi e Parisi, avevano fatto a gara per alle-viare le sofferenze dei romani poveri e malati. Gaspare, nel vederlo negletto e andare in rovina, provò una stretta al cuore e gridò a se stesso e agli altri: «Deve risorgere!» e passò immediatamente all’ azione. «Sei pazzo – gli diceva-no – non ci sono riusciti finora tanti personaggi più importanti di te! Pecchi di superbia, povero pretino!» Non capivano che l’amore abbatte ogni ostacolo! Rintracciò vecchi benefattori, e ne cercò di nuovi; trascinò gli incerti, tese la mano, bussò alle porte, iniziò le pulizie e qualche restauro, ripristinò fun¬zioni ed usanze, istrui e soccorse. Nel suo cuore il fuoco divampava e ne ac¬cendeva gli altri! Andava per le strade, sulle piazze, nelle stamberghe, nei tu¬guri. Raccoglieva bambini, vecchi, malati che pullulavano un po’ ovunque, pieni di pidocchi, tignosi, ripugnanti, appena coperti da brandelli che lascia¬vano intravedere sudiciume e piaghe. «Venite, venite a S. Galla!» Egli che non poteva tollerare neppure una macchia sulla sua veste, si caricava sulle spalle quei relitti umani e li portava nell’Ospizio. Li trovavano pulizia e cure, un piatto di minestra, che gli riscaldava lo stomaco, ed il grande amore di Ga-spare che gli riscaldava il cuore. Egli ne curava il corpo e ne redimeva l’ani¬ma. «Essere poveri, cari fratelli, non è un disonore! – egli diceva – Cristo fu po¬vero e voi siete l’eredità di Cristo!». Lo zelo lo spinse anche nella Casa Correzionale. Quei ragazzi, abituati allo scudiscio, restavano affascinati da quel giovane prete che parlava loro con tanta dolcezza e non tradirono la sua fiducia, quando, sotto la sua responsabi-lità, li conduceva a passeggio liberi per le vie di Roma. Quando adulti usci-ranno da quella Casa sapranno da chi andare. Gaspare trovò anche il tempo di passare tante ore nell’ Ospedale dei Cento Preti, dove erano raccolti quei vecchi sacerdoti, che l’età e il male tenevano ormai li dimenticati da tutti. Quadro bellissimo quello del giovane che, sulla soglia dell’ Ordinazione Sacerdotale, spinto da un pietoso affetto, è attirato e trattenuto presso quei vecchi, che l’hanno preceduto e che sono lì li per scomparire. Certo non sono tutti fiori! Gaspare è tacciato di chi sa quali mire e pretese e perfino di profitto! Ma, ovunque passa, è un coro di benedizioni. Frotte di bambini lo chiamano e gli corrono dietro, i vegliardi si scoprono, le mamme lo guardano con tenerezza. Il popolo comprende sempre chi gli vuole veramente bene. Fortezza romana Tutte le porte, ormai, si aprivano al giovane apostolo. L’ascesa continuava senza ostacoli. Terminati gli studi ricevé il Suddiaconato e venne nominato ca¬nonico della Basilica di S. Marco in Roma. Il 12.3.1808 fu ordinato Diacono. Possiamo immaginare con quanto fervore e quanta gioia andava preparan¬dosi al Sacerdozio! Una notte, assorto in preghiera, mentre meditava sulla grande dignità e responsabilità alla quale stava per ascendere, gli balenò in¬nanzi la grande figura di Francesco D’Assisi, che non se ne ritenne degno e ri¬mase sempre Diacono. Abilmente il demonio, conoscendo quante anime un giorno gli ruberà quel pretino, s’insinuò nella sua mente e lo atterri. «No, non salirò l’Altare, non ne sono proprio degno!» esclamò Gaspare. Si raccomandò alle preghiere di tante pie persone affinché il Signore lo illuminasse, chiese consigli, scrisse alla compagna d’un tempo, Maria Tamini, ora suora a Mace-rata. Questa, con fine intuito, mostrò le lettere al Vescovo di Tolentino, Mons. Vincenzo M. Strambi, che godeva grande fama di santità, e che cono¬sceva bene Gaspare, il quale, a sua volta, aveva per lui grande venerazione. Il santo Vescovo rifletté un momento, poi, sicuramente illuminato dall’Alto, disse con sicurezza: «Scrivete a D. Gaspare che vada subito all’Altare, poiché questa è la Volontà di Dio». L’umiltà, di cui il demonio s’era servito per atter¬rirlo, è proprio la virtù che fece chinare il capo di Gaspare all’ordine del san¬to Vescovo: il 31.7 dello stesso anno, venne ordinato sacerdote e il 2 agosto celebrò la sua Prima Messa in S. Marco. Con rinnovato ardore si gettò nell’ apostolato, restaurò la chiesetta di S. Ma¬ria in Vincis e vi fondò due Ristretti: quello di S. Francesco Saverio per gli uo¬mini e quello delle Sorelle di Carità per le donne,col compito d’una fervida attività spirituale e l’impegno d’assistere il vicino ospedale. La chiesetta era nei pressi della Basilica di S. Nicola in Carcere, dove si venerava una celebre Reliquia del Prez.mo Sangue. Qui Gaspare conosceva un santo sacerdote, Mons. Francesco Albertini, e si unì a lui nella fondazione della Confraternita del Prez.mo Sangue. L’Albertini, come presto vedremo, divenne suo Padre Spirituale ed assunse un ruolo importantissimo, anzi decisivo, nella vita di Gaspare e del suo Istituto. Il 2 febbraio del 1808 il Gen. Miollis, per ordine di Napoleone, occupò Ca¬stel S. Angelo e la piazza del Quirinale, allora residenza dei Papi. Le ostilità tra il Papa e Napoleone si fecero aperte. Si sa che sono sempre i prepotenti e i più forti ad aver partita vinta. Pio VII, che non volle e non poté piegarsi ai vo¬leri dell’Imperatore, venne deportato in Francia e ai sacerdoti romani e dello Stato Pontificio, che godevano di qualche Beneficio Ecclesiastico, venne inti-mato il giuramento di fedeltà all’ usurpatore. È la mattina del 13 giugno 1810, quando Gaspare riceve l’ordine di presen¬tarsi al posto di Polizia. Il padre vuole assolutamente accompagnarlo. Sappia¬mo anche il cognome del poliziotto – un certo Olivetti – che senza preamboli gli ingiunge di giurare. La risposta è fiera e secca: «Non posso, non debbo, non voglio!» Gaspare ha appena 24 anni e il suo coraggio desta ammirazione. Il poliziotto passa all’ adulazione, alle promesse ed infine alle minacce. La ri-sposta è sempre uguale: «Non posso, non debbo, non voglio!». Come ultimo tentativo si cerca di indurre il padre a persuadere il figlio a sottomettersi. E qui insorge la fierezza romana del bravo cuoco, che, nonostante i suoi difetti, è d’indefettibile fedeltà alla Chiesa e al suo Capo. Erige la testa, guarda fieramente l’Olivetti ed esclama: «Cittadino, fucilate prima me e poi mio figlio, ma non si parli di giuramento!». Padre e figlio non fanno politica e non difendono il Potere Temporale dei Papi per capriccio, ma non accettano la prepotenza, il sopruso e 1′ imposizio¬ne di colui che ha fatto saccheggiare le chiese di Roma e trafugare le opere d’arte più preziose, arrogandosi perfino il diritto di trasformare la dottrina cattolica. La condanna per Gaspare è decisa e immediata come la sua fiera risposta: Esilio e carcere! Il giovane non batte ciglio. Nel suo cuore è lieto di patire per Cristo e il suo Vicario. L’atroce distacco Gaspare e il babbo tornano lentamente a casa. Gaspare vorrebbe tardare il più possibile l’annuncio della terribile notizia alla mamma, che è li in ango¬sciosa attesa. Ma appena giunto, davanti al babbo ammutolito e alla mamma che chiede, già presaga del peggio, s’accascia su una sedia e dà in pianto dirotto. Questo suo umano ed accorato pianto ce lo fa tanto amare! Da questo momento egli potrà accostarsi ad ogni sofferenza e tergere le infinite lagrime di tutti, perché affinato egli stesso dal dolore. Quel pianto dice tutto alla madre, che si accosta al figliolo, lo solleva, gli fa coraggio, vincendo e dominando la propria anima in tumulto. Quindi va a preparare il baule, riponendovi quanto crede possa essergli necessario. Tutti i fili della vita benefica e zelante di Gaspare sono stati recisi di colpo! Dopo aver raccomandato ai suoi collaboratori tutte le opere di carità ed aver preso commiato dai più intimi, si prepara per recarsi a piazza S. Marco, dove la carrozza con i gendarmi l’attende. Partono con lui tre amici tanto cari: Mons. Albertini, il Marchetti e il Gambini, anch’ essi coraggiosi e fieri nel ri-fiutare il giuramento. Pur conoscendo in anticipo il giorno e l’ora della partenza, l’aveva tenuti nascosti alla cara mamma. Lasciarla gli tornava insostenibile! Né si sentiva d’andarsene nascostamente, senza un bacio, senza quella benedizione, ch’era abituato a chiedere sempre ai genitori, prima d’uscir di casa. Quando si accostò a lei per baciarle la mano e chiedere di benedirlo, la ma¬dre comprese ch’ era giunto il tanto temuto momento del distacco definitivo e ruppe in singhiozzi. Da poco s’era spento Luigi, il primogenito, che le aveva lasciato la vedova ed una bimba; ora perde il figlio migliore, quello che aveva saputo avverare in sé tutti i suoi sogni materni! Per non farla soffrire di più, Gaspare, col volto rigato di lagrime, rompe ogni indugio, si precipita per le scale e corre verso piazza S. Marco. Antonio gli va svelto dietro. Ma vi è appena arrivato che Annunziata, accompagnata da Pao¬la, la nuora, e Luigia, la nipote, lo raggiunge. Prende tra le sue mani la destra del figlio e gliela stringe forte forte, come può stringerla una madre che ha il presenfliflento di non vederlo mai più sulla terra. Paola ci ha tramandate an¬che le ultime parole di Annunziata: «Figlio, lascia che per l’ultima volta io ti baci la mano sacerdotale, poiché già presento che non ti vedrò mai più su que¬sta terra». Dall’acerbità del dolore aveva misurato la brevità della sua vita. Saliti i prigionieri, il postiglione sferza i cavalli; chi è a terra cerca per un tratto di seguire la carrozza, ma crescendo la velocità desiste. Annunziata, impietrita dal dolore, ma con calma sovrumana dice: «Preferisco morire sen¬za dì lui, che vederlo a Roma spergiuro». Madre degna di tanto figlio! Da quel giorno un sottile languore la prende, logorandola a poco a poco, e i movimenti di lei, un tempo tanto attiva, vanno facendosi più lenti. Vi sono dei giorni nei quali si sente terribilmente stanca e si aggira sperduta come in un vuoto di stanze, di strade, di vita, di pensieri. I prigionieri si sono raccolti in preghiera. Gaspare, con gli occhi ancor bru¬ciati dalle lacrime, si sforza d’atteggiare il volto a sorriso. È il più giovane, ma cerca dì rincuorare i compagni, mentre la carrozza, ora svelta, ora con lentez¬za, percorre la via che li porterà al calvario dell’esilio e delle carceri. È lì che il Signore forgerà nel dolore il futuro Apostolo del suo Sangue Divi¬no! Il topo! Il viaggio dei quattro deportati fu un vero disastro! Immaginiamo le strade di quei tempi e la carrozza traballante, che, tra Roma e Firenze e Firenze Bo-logna, dovette valicare l’Appennino, prima di scendere nella vasta pianura che conduce a Piacenza, prima tappa di quel penoso viaggio. Gaspare, come tutti i romani di quel tempo, era attaccatissimo alla sua bel¬la Roma, dalla quale non era solito metter fuori il naso, tranne che per il cate-chismo in qualche paesello dei dintorni e le rarissime gite domenicali nei vi-cini Castelli. A Piacenza, anche se fin d’allora ricca di palazzi e di chiese bellissime, che testimoniavano la fede di quel popolo e la munificenza dei Duchi, il giovane sacerdote si sentì subito oppresso dalla nostalgia della maestosa Cupola di S. Pietro, delle stupende Basiliche e degli antichi monumenti. Giunsero a notte piena il 15 luglio. La città era immersa nel sonno e nel buio; l’aria afosa ed umida, per le acque del Po e del Trebbia, penetrava nelle ossa. I prigionieri eran ridotti «come quattro cenci» e «Gaspare si sentiva pro¬prio male e si reggeva appena». Mentre numerosissimi sacerdoti e prelati, che, come loro avevano rifiutato con coraggio il giuramento, erano stati rin¬chiusi nelle Prigioni Correzionali, dette di S. Sepolcro, essi vennero fatti scen¬dere ed abbandonati in una piazzetta con 1′ obbligo di non lasciare mai la città e costretti a trovarsi un alloggio a proprie spese. All’angolo della piazza vide¬ro una lanterna e la scrittaLocanda; bussarono e chiesero di potervi dormire. Furono accompagnati in due stanze sudicissime, con i pagliericci stesi sul nudo pavimento, senza neppure un lume. Insieme a Gaspare, con gioia di en¬ trambi1 dormiva l’Albertini che, maggiore di lui di vent’anni, lo prese sotto la sua paterna protezione. Gaspare non riusciva a prender sonno. Tanti ricordi, lieti e dolorosi, dall’ infanzia al momento del distacco, affioravano nella sua mente. E poi la mamma… già, la mamma cara, premurosa, affettuosa. Cosa stava facendo a quell’ ora? Certamente lo pensava e neppure lei, in lacrime, riusciva a pren¬der sonno. Ad interrompere questi suoi pensieri gli giunsero strani rumori gutturali e l’agitarsi improvviso dèll’Albertini. Gaspare saltò dal pagliericcio e, a tastoni, gli andò vicino. «D. Francesco, cos’ha? Si sente male? Parli…» Preoccupato gridò forte e chiese aiuto. Il «cameriere», vecchio cadente e fiemmatico, che dormiva in una stanza del medesimo piano, irritato per l’insolita chiamata, brontolò: «Adesso, adesso!». Ma cosa stava succedendo al povero Albertini? Dormendo s’era sentito mancare il fiato. Qualcosa di viscido gli era penetrato nella bocca e la graffia-va, non potendo né penetrare oltre, né uscirne… Il poveretto si sentiva soffo-care, rantolava ormai. Finalmente riuscì a tirar fuori un grosso topo e lo sbat-té con violenza contro la parete. Dopo una mezz’oretta giunse il vecchio e, sa-puto di che si trattava, disse arrabbiandosi: «E per così poco mi avete distur-bato a quest’ora! Che roba! Che roba!». Gaspare, sensibile com’era anche nel fisico, ne ritrasse tale ribrezzo che, fin quando ebbe vita, provò un orrore indicibile per i topi. I quattro sacerdoti erano, per il momento, solo degli esiliati e non dei dete-nuti. All’ alba si recarono alla parrocchiale di S. Matteo e chiesero ospitalità a pagamento. Il parroco li accolse con molto rispetto, premura e venerazione a motivo della loro condanna. Le prime settimane passarono tremendamente uguali: isolamento, noia, tristezza cupa, monotonia in una città umida e piatta, che fece scrivere a Ga-spare: «Piacenza! No! Dovrebbe, piuttosto, chiamarsi Dispiacenza!». La profezia Il Signore, quando sceglie i suoi apostoli, prima di lanciarli nell’ azione, li fa passare attraverso il crogiolo del dolore. La prova, per Gaspare, comincia a Piacenza… per non finire mai più, fino all’ ultimo anelito. Dopo pochi giorni dall’arrivo, Gaspare è preso da una debolezza sempre più grave, accompagnata da inappetenza, da vomiti e da continue emicranie. Nessuna cura gli giova, i nervi s’irrigidiscono e scattano all’urto più lieve, in-fine la febbre lo assale e lo prostra, complicando paurosamente la nevraste¬nia già in corso. Apprende che la madre, nello stesso tempo, come lui, sta de-clinando nella salute. Il dolore 10 deprime ancora di più, lo soffoca! I medici ammettono che la loro prestazione si è esaurita. Gli vengono amministrati i Sacramenti; è dunque la fine! Marchetti e Gam-bini sono accanto al giaciglio impietriti dal dolore: Gaspare è tanto giovane! Stranamente 1′ Albertini ha il viso sereno; proprio lui che lo predilige! Anzi sembra che il suo sguardo sia luminoso, ridente. Marchetti e Gambini, per lasciar soli il Padre Spirituale e il suo pupillo in quegli ultimi istanti, escono. Non è bene disturbare l’ultimo colloquio tra di loro sulla terra. Ecco l’Albertini che si siede con calma al capezzale dell’infermo e racconta: «Ascoltami, figliolo. Nel Monastero delle Paolotte, in Roma, conobbi Sr. Maria Agnese del Verbo Incarnato, al secolo Barbara Schiavi, e ne divenni confessore». A quel nome Gaspare trasalisce. Di quella Suora, tenuta in vene-razione dal Vescovo Vincenzo Strambi, dal Pignatelli e da Clotilde di Savoia, aveva sentito tanto parlare. «Era in fama di grande santità – continua l’Alber-tini – favorita da Dio del dono dei miracoli, di profezia, del consiglio. Ora ella così mi disse: – Conoscerete nelle angustie della Chiesa un giovane sacerdote, zelante della gloria di Dio e, con lui, nell’ oppressione dei nemici e nelle pene stringerete amicizia e ne sarete il Direttore. Il distintivo carattere del medesimo sarà la devozione a S. Francesco Saverio. Egli verrà destinato Missionario apostolico ed una nuova Congregazione di sacerdoti missionari, sotto l’invocazione del Divin Sangue, sarà da esso fondata per la riforma dei costumi e per la salvez¬za delle anime, per promuovere il decoro del Clero secolare, per destare i po¬poli dall’indifferentismo e dall’ incredulità, richiamando tutti all’ amore del Crocifisso. Fonderà un Istituto di Suore, che egli però non dirigerà. Egli final-mente sarà la tromba del Divin Sangue, onde scuotere i peccatori ed i settari nei difficili tempi della cristianità». L’Albertini conclude: «Figliolo, il designato di Sr. Maria Agnese sei certa-mente tu, non posso ingannarmi. Tu hai accettato nel tuo cuore il sacrificio supremo, la morte, rassegnato alla Volontà di Dio. Ma i disegni della Provvi-denza sono diversi, non puoi morire». Gaspare obbedisce con docilità e, contro tutte le previsioni, la febbre scen¬de, lo stomaco comincia a tenere il cibo, gradatamente tornano le forze e il volto riprende 1′ abituale colorito. Gaspare sente nel cuore, come un sussurro, la voce di Gesù: «Questa infer-mità non è per la morte, ma perché in te si manifesti la Gloria di Dio. Alzati e cammina!». Gaspare si alzò e si pose in cammino. Il canto dei prigionieri Un ordine alla Polizia di Piacenza dispose la traduzione dei deportati da Piacenza in Corsica, mentre i malati e i più anziani dovevano essere trasferiti a Bologna. Grande fu la gioia di Gaspare quando apprese che, come lui, an¬che i suoi tre compagni erano stati destinati a Bologna. Il clima più salubre di quella bella città e le più facili comunicazioni con Roma gli furono di grande sollievo e giovarono non poco anche alla sua salute. Ai prigionieri fu tolto il modesto appannaggio di cui godevano a Piacenza e ingiunto di provvedere da sé al vitto e all’alloggio: senza volerlo fu data loro praticamente la libertà vigilata. In quella circostanza le famiglie bolognesi di ogni oeto scrissero una delle più belle pagine della loro sensibilità e generosi-tà. Fecero a gara nell’ aiutare quei santi sacerdoti, liete, d’altra parte, di poter esprimere in qualche modo il loro spirito di indipendenza e di condanna ver¬so l’Usurpatore, ch’ era giunto perfino ad arrogarsi il diritto di indire Sinodi e Concili. L’Albertini e Gaspare furono ospitati dalla nobile Famiglia dei Bentivoglio. Gaspare alla grande camera preferì l’umile stanza del cameriere, adducendo il motivo che li, più appartato, avrebbe potuto dedicarsi meglio allo studio ed alla preghiera. Finalmente poteva interrompere il forzato ozio di Piacenza! Si risvegliò in lui e proruppe lo stesso zelo che già lo bruciava a Roma. Predica¬va Esercizi Spirituali, teneva conferenze ai giovani; prese contatto ed ascoltò i grandi Maestri di lettere e scienze di quella celebre Università; fece scorrere clandestinamente tra quegli studenti foglietti che confutavano gli errori delle dottrine materialistiche che li avevano allontanati dalla Fede. Il suo nome or-mai correva sulla bocca di tutti: il giovane Del Bufalo è un dotto e un santo! Le famiglie nobili facevano a gara per averlo precettore ed educatore dei loro figli. Poteva mai durare a lungo quel paradiso? Ecco che la croce cade all’im-provviso e più pesante sulle sue spalle e lo invita alla sofferenza. D’improvviso si ammala gravemente l’amico carissimo D. Gambini. Ga¬spare fa appena in tempo ad accorrere al suo capezzale e a raccoglierne l’ulti¬mo anelito. Presto si sparge la luttuosa notizia in città: È morto un confessore di Cristo! Gaspare organizza, da par suo, solenni funerali, ai quali, col clero bolognese e i duecento sacerdoti deportati, partecipa una folla interminabile. Il Prefetto di Polizia trema; teme una sommossa! Gaspare è immediatamente chiamato a prestar giuramento e, al rinnovato e netto rifiuto, segue nella not-tata l’arresto. Una squadra di sbirri dal Palazzo Bentivoglio lo trascina al car-cere di S. Giovanni in Monte, ove viene rinchiuso in cella d’isolamento. L’in-domani lo raggiungono altri 37 sacerdoti. La Polizia, sperando vanamente di fiaccare la resistenza dei giovani, spedisce in Corsica i sacerdoti più anziani e agguerriti, tra i quali l’Albertini. Gaspare è così rimasto senza il suo Padre Spirituale ed amico più caro. Nel carcere furono uniti ai delinquenti comuni e il trattamento fu dei più deprimenti: poca luce, sudiciume e insetti, cibo ributtante! Ma anche qui, pur fra tanto patire, Gaspare riuscì ad organizzare conferenze di spirito; ser-vendosi poi della complicità di qualche custode, al quale donava le leccornie che di tanto in tanto riceveva dagli arditi e bravi bolognesi, poté accostare an-che i delinquenti più incalliti e parlar loro dell’ amore di Cristo. Per suo merito in quelle carceri, dove di frequente avvenivano ribellioni e non s’udivano che bestemmie, subentrò la quiete. Le Autorità restarono di stucco: S. Giovanni in Monte era divenuto un carcere modello! C’era, senza dubbio, lo zampino di quel pretino cocciuto e così intraprendente! Ai soprusi dei carcerieri, i sacerdoti e gli altri cominciarono a rispondere col canto. Nel buio della sera si levava un coro solenne di lodi al Signore! «Cos’hanno quei preti da cantar tanto?» si domandavano i carcerieri prima stupiti, poi irritati e furibondi. Da superstiziosi cominciarono ad aver paura: «Non canteranno in anticipo i nostri funerali? Basta, uccellacci di mal’augu-rio!» Ma si può far tacere con la forza la voce di un cuore in perfetta letizia, perché soffre per il suo Signore? Certamente no. E allora… inasprimento di pene, celle d’isolamento, trasferimento in altre prigioni, dove più aspra sarà la disciplina. Gaspare è tradotto nelle carceri dure di Imola! Come i primi cristiani Gaspare era da pochi mesi nel carcere di Bologna, quando apprese la ferale notizia della morte della sua carissima Mamma., Madre e figlio, nella rara cor¬rispondenza, che avevano potuto scambiarsi, si celavano amorevolmente a vicenda le tristi condizioni di salute e le pene del cuore. Tuttavia, per quelle misteriose vie, che coloro che si amano sanno trovare, Annunziata aveva sa-puto della grave malattia del figlio e Gaspare delle precarie condizioni della mamma. Notizie gravi da ambo le parti, anche se addolcite e ridimensionate dalla pietà di chi le portava. Annunziata, dalla partenza del figlio, non si era ripresa più e «andava bevendo la morte a sorsi». Sul letto di morte, quasi col sorriso sulle labbra, mormorò: «Sia fatta la volontà di Dio; rivedrò mio figlio in Paradiso». E s’addormentò nel Signore il 20 ottobre 1811. L’Albertini si assunse il delicato e penoso compito di comunicare a Gaspare la dolorosa notizia. Egli ne rimase impietrito! Sulle prime si sforzò quasi di non credervi e riuscì a trattenere le lacrime, poi prevalse la legge del cuore e scoppiò in pianto dirotto. Ecco come scrisse a Sr. Tamini: «Fra le altri tribola-zioni, colle quali piace al Signore di visitarmi, si è aggiunta quella, fra tutte la più pesante, della perdita, cioè, della mia santa ed incomparabile genitrice. L’uniformità ai divini voleri non esclude nella mia umanità, il peso grande che risento per tale mancanza. Non mi trattengo molto su questo per ora, per¬ché troppo viva è la ferita… Sono stordito! Il dolore per mia madre è inespri-mibile!». Con il cuore straziato e le membra intirizzite dal gelo, Gaspare, con otto sa-cerdoti, viene trasferito dal carcere di Bologna a quello di Imola. L’amorevole gara dei cittadini bolognesi e imolesi nel dar loro aiuto e conforto irritò il Go-verno, che ne ordinò il trasloco alla Fortezza, dove 1′ inasprimento della pena fu di tutt’altro genere. Più umano il vitto e l’alloggio, ma rigoroso divieto di qualsiasi contatto anche epistolare con 1′ esterno, e severa proibizione di cele-brare Messa. Era l’apice della persecuzione, la catacomba. Il massimo dei pa-timenti per un sacerdote. La fama di quei prigionieri, e di Gaspare in particolare, li aveva preceduti. Gli Imolesi sapevano tutto della fierezza di quel giovane prete romano, della sua santità e dottrina e della sua abnegazione a favore dei compagni di sven¬tura. Ecco perché, al momento del loro trasloco, il popolo era tutto li a fian-cheggiare la carrozza che li portava alla Fortezza per applaudirli. Gli Imolesi, poi, avendo saputo del divieto di celebrar Messa, cercarono in un primo tem-po di fargli pervenire per vie misteriose, l’Eucarestia, proprio come al tempo dei primi cristiani – ricordate S. Tarcisio? – poi, con la complicità dello stesso personale di custodia, anche l’occorrente per dir Messa. Così nella notte quella severa fortezza splendeva di luce agli occhi dei cittadini, come un faro. Lì, otto sacerdoti, tra i quali un santo – Gaspare Del Bufalo – levavano al Cielo per sé e per loro 1′ Ostia consacrata e il Calice del Sangue di Cristo! Intanto Napoleone era riuscito a strappare a Pio VII, prigioniero a Fontai-nebleau, un concordato, ovviamente tutto a proprio vantaggio, e se ne servi subito per convincere i sacerdoti prigionieri che il giuramento era voluto pro-prio dal Papa. Due dei compagni di Gaspare, nonostante egli li scongiurasse, caddero nel trabocchetto, mentre gli altri, più che mai fermi nel diniego, fu-rono rinchiusi nella Fortezza di Lugo, dove vennero sottoposti ad un tratta-mento ancor più duro ed iniquo. Affidati alla sorveglianza d’un terribile cu-stode soprannominato lupo, questi non smentì la triste fama del suo nome. Fu un vero aguzzino! Ne chiuse quindici in tre anguste celle. Ben presto si sacri-ficarono in quattordici in due sole di esse, per lasciarne una interamente a di-sposizione di un compagno in fin di vita per etisia, che così avrebbe potuto al-meno godere d’un po’ di aria. L’aguzzino dimezzò il già magro e rivoltante ci-bo, sequestrò libri e corrispondenza e rubò i loro pochi oggetti. Infine vietò la celebrazione della S. Messa e di ricevere la Comunione. Un mattino però giunse una lieta notizia: il Commissario aveva lasciato Lugo; le cose per Napoleone stavano prendendo una cattiva piega. La libertà era dunque imminente. Quel drappello di eroi fu portato a Bologna con l’intenzione di farli prose¬guire per la Corsica. Essi però, approfittando della confusione, se ne partiro¬no per Roma. Gaspare, invece, dopo aver salutato e ringraziato gli amici bolo¬gnesi, fece sosta a Firenze, dove si fermò a lungo a diffondere la devozione al Preziosissimo Sangue. Perché tanta fretta? A Roma, ormai, non c’era più la cara mamma che l’aspettava con ansia! Il mandato Gaspare, di ritorno dalla prigionia, nell’ avvicinarsi a Roma, scorse da lon¬tano la grande Cupola e sentì il viso rigarsi di lacrime. Ora che Dio, infinito nelle sue misericordie, lo riconduceva nella sua Città, sapeva che sarebbe co-minciata una nuova vita, quella di apostolo di Cristo e che per Lui avrebbe dovuto soffrire senza sosta fino alla morte. L’esilio era stato solo il prologo. Al suo rientro l’attendeva il vuoto della casa; è davvero tanto triste il ritornare dove si è vissuti accanto ad una persona cara e non trovarla più! Si portò subi-to a pregare e a sfogare il suo pianto sulla tomba dell’amata genitrice. Il babbo aveva ripreso moglie e, pur non criticando il suo operato ed aven¬do grande stima per la matrigna, non se la senti di coabitare con loro. Cercò di sistemare dignitosamente la cognata e mise la nipotina nel Collegio delle Maestre Pie. Per sé cercò un misero alloggio dove avrebbe potuto pregare e studiare indisturbato; manco a dirlo, ne fece subito la base per il rilancio del suo apostolato in Roma, allargandolo anche fuori la città per protenderlo poi nel futuro. Chi già lo conosceva disse: «Ecco nuovamente in azione il moto perpetuo». Rifiorirono le Opere morte nella sua assenza: S. Maria in Vincis, S. Galla, S. Nicola in Carcere e tante altre. In S. Nicola, dov’ era tornato l’Albertini, predi-cò una grande Missione. La Provvidenza mandò sui suoi passi Mons. Belisa¬rio Cristaldi, Tesoriere di S. Romana Chiesa, uomo di larghe vedute e di gran cuore. Egli sarà il suo più grande benefattore e protettore, 1′ amico vero dei giorni difficili finché avrà vita. Nello Stato Pontificio regnava il caos e la stessa Roma era stata scristianiz-zata. Non bastavano più le leggi, ma occorreva qualcunoche scavasse profon-damente nelle coscienze. Gaspare, al quale l’amico Bonanni aveva già scritto a Firenze, si associò vo-lentieri agli Operai Evangelici, un gruppo di sacerdoti fondato dallo stesso Bonanni: le Missioni erano il suo sogno! Subito emerse in primo piano e poté convincerli a mettersi sotto la protezione di S. Francesco Saverio e a propaga-re la devozione al Prez.mo Sangue. La predicazione semplice e chiara espri-meva il suo fuoco e la sua accorata passione. La dolcezza paterna e 1′ incrolla-bile convinzione fecero colpo anche in Alto; così fioccarono offerte di posti di grande prestigio, Vescovadi e Nunziature. Rifiutò sempre! Non era tornato a Roma per cingere l’aureola di martire! Non aveva sofferto le carceri per onori così effimeri! Egli anelava a chiese e piazze gremite di folla per convertire i peccatori, sostenere gli onesti, chiedere giustizia per gli inermi, i reietti e i perseguitati e per debellare eretici e settari. Voleva, insomma, convertire tan¬te anime! Ma il contatto con sì alti personaggi, senza scrupoli, avidi soltanto di privi¬legi e laute prebende, lo sconvolse e temè d’essere trascinato anch’egli in per-dizione. Così decise, con l’amico Odescalchi, d’entrare tra i Gesuiti. Chiese consiglio all’Albertini e questi lo incoraggiò. I lettori si chiederanno: «E la profezia?». L’Albertini, temendo d’essersi sbagliato, non se la sentì di contra-riare la vocazione di Gaspare pensando: «Se non è questa la Volontà di Dio, Dio stesso in qualche modo si manifesterà». Aveva ragione. Pio VII conosceva bene i due giovani sacerdoti e, sapute le loro intenzioni, li invitò a colloquio e, senza mezzi termini, ordinò all’ Odescalchi d’intrapren-dere la carriera diplomatica e a Gaspare di dedicarsi totalmente alle Missioni. Il velo cadde dagli occhi di Gaspare che, nella voce del Papa, sentì la voce di Cristo, e subito si mise all’opera. La Congregazione di S. Gaspare, come tutte le Opere di Dio, nacque tra mille difficoltà. Per una Fondazione sono necessari un «nido» e uomini adatti, disposti ad ogni rinuncia. Mancavano 1′ uno e gli altri! Finalmente il Cristaldi ottenne dal Papa un vecchio Cenobio nella diocesi di Spoleto, dopo non po¬che difficoltà. Ma sia il Bonanni che gli Operai Evangelici, finché si trattava di rimanere a Roma, erano entusiasti delle Missioni, ma quando sentirono di dover andare lontano, non ne ebbero il coraggio. Gaspare non era proprio l’uomo da arrendersi di fronte a queste difficoltà. Fece loro capire che quella era la Volontà di Dio e riuscì a convincerli. Il Cristaldi fece sapere che anche il Santo Padre voleva che la nuova Congregazione fosse intitolata al Prez.mo Sangue, e che desiderava riceverli in udienza. Il 26 luglio con il Mandato e la benedizione di Pio VII, quel primo drappello partì da Roma. La Culla del nuovo Istituto sarebbe stata il vecchio Cenobio di S5. Felice in Umbria, la terra di S. Francesco d’Assisi. La profezia si stava avverando. La culla Dire che il 26 luglio del 1815 il drappello dei futuri Missionari della nuova Congregazione di Gaspare partì tutto per S. Felice non è esatto. Gaspare sì, volò solo e immediatamente, per precedere di vari giorni i compagni. E c’era anche un perché. Gaspare conosceva già lo stato del vecchio convento e te-meva che i compagni, già tanto restii a lasciare Roma, ne sarebbero restati talmente… inorriditi, da non aprire neppure le valige e ripartire immediata-mente con lo stesso legno, col quale sarebbero arrivati. Infatti era stato a Gia-no a predicare il Triduo della festa d’Ognissanti nell’anno precedente ed era andato a dare uno sguardo. Per lui quel vecchio convento era una manna del cielo, ma per gli altri? S. Felice è in posizione incantevole, come del resto incantevole è tutta l’Umbria per i suoi colli dolcissimi, il suo verde, i suoi campi, i suoi monu-menti; sorge fra alberi poderosi, su uno spiazzo abbastanza largo. La costru-zione è vasta per ampiezza di locali: cortile monumentale, col pozzo, portica¬to e loggiato; molte celle, refettorio, l’interno tutto affrescato ad ispirazione das-sicheggiante o a sostanzioso barocco: pure barocco e affrescatissimo è l’interno della chiesa. Però… qua e là è tutto sgretolato e cadente! Soffitti sforacchiati, dai quali, in qualche parte, si vedeva il cielo; porte innumerevoli senza battenti, spalancate su stanze alle quali è crollato il pavimento, sicché dalla soglia si possono vedere i locali inferiori. Mucchi di calcinacci e di mattoni ostruisco¬no i corridoi… Vetrate sporche e rotte, ragnatele in abbondanza. Al minimo rumore svolazzano pipistrelli. Ovunque, diciture latine e pitture chiassose che contrastano col silenzio quasi sepolcrale del tempio, dove da anni non entrava più nessuno. Le panche rigonfie dall’umidità e in disordine, ingom¬brano il pavimento; fuggono pipistrelli anche dai confessionali e rondini in alto passano da un finestrone all’altro. Nella mente di Gaspare s’affaccia, con la leggendaria storia di S. Felice martire, chiuso in un sarcofago nella cripta, la schiera di Benedettini, Agosti-niani, Passionisti che 1′ avevano popolato, molti dei quali giacevano nella cripta o sotto il pavimento della chiesa. Gaspare si trovò come disperso in quella possente rovina! Chiunque sarebbe fuggito, quasi il Cenobio stesse per crollargli addosso, ma egli, in quell’edificio desolato, salutò nel segreto del cuore, la prima Casa, la Culla, il sospirato Nido dell’ Istituto dei Missionari, che di li sarebbero partiti per recare nel mondo l’insegna del Sangue di Cri¬sto! Per il momento l’avv. Paolucci, cui sta tanto a cuore la fondazione, lo ospita in casa sua a Giano. Di li Gaspare scende tutti i giorni a S. Felice e, aiutato da volenterosi contadini, s’improvvisa muratore, falegname e fabbro per i re-stauri più urgenti onde far trovare ai compagni qualche camera e 1′ indispen-sabile per i primi giorni. Il Papa gli aveva donato un gruzzoletto; la generosità di quei contadini si esprimeva in tutti i modi e le famiglie più abbienti faceva-no doni e prestiti, garantiti dalla cambiale della… Provvidenza! La voce dell’ arrivo dei Missionari si sparse ovunque! Gaspare non stava in sé dalla gioia e ne scriveva a Mons. Cristaldi e ai compagni per entusiasmarli. Giunse finalmente 1′ ora di Dio! D. Gaetano Bonanni, D. Adriano Giampedi, D. Vincenzo Tani – i primi tre congregati con Gaspare nel nome del Sangue di Cristo – giunsero accolti dalla gran folla, che acclamava e benediceva, confon-dendo la propria voce col festoso suono delle campane. Nella chiesa, ripulita e addobbata a festa, cantarono il Te Deum.«Nella mattina seguente – tiene a scrivere Gaspare al Cristaldi – si mise subito l’esatta osservanza delle Regole». Gaspare si moltiplicava! Dopo un Triduo solenne, il 15 agosto 1815 la novella Congregazione ebbe ufficialmente i suoi Natali! «La folla è immensa – scriveva Gaspare – e accorre da tutte le parti». Alle funzioni parteciparono il Clero e le Comunità Religiose dei paesi vicini. I pre¬ti romani, prima così incerti, quel giorno dimenticarono perfino di prendere cibo. La letizia fu piena e gioconda. Gaspare raggiava! Mai fu più felice e mai lo sarà come quel giorno. A notte, quando i compagni stanchi cadono in sonno profondo, egli al lumi-cino d’una candela, scrive una meravigliosa lettera al Cristaldi. La lettera co-mincia così: «Converrebbe scrivere la presente più con lacrime di tenerezza, che con l’inchiostro» e termina: «Ho affidato 1′ Opera alla Madonna, Ella pen-serà a proteggerla dal Cielo e a benedirla amorosamente». Non avevano piu vino Abbiamo posto in rilievo come S. Gaspare, fin dal primo giorno della fon-dazione, instaurò la «perfetta osservanza delle Regole» ch’egli stesso aveva dato alla novella Congregazione. Ed è proprio questo il primo segreto dello sviluppo meraviglioso dell’Istituto: la perfetta osservanza. Diceva ai compa¬gni in disagio per il cambiamento del tenore di vita, cui erano abituati a Ro¬ma, dove non mancavano comodità, parenti ed amici: «I certosini fanno i voti e noi li osserveremo!» Infatti egli volle una Congregazione che sembrò strana a quei tempi, cioè senza voti e senza particolari obblighi, all’infuori di quelli cui ogni buon sacerdote era tenuto. Essa doveva basarsi sulla carità! Non per nulla S. Paolo aveva scritto che la carità è il vincolo della perfezione. La volle povera: «Se la Congregazione un giorno dovesse diventar ricca, non sarebbe più la mia Congregazione». Accettare tutto, ma servirsi del puro necessario, il resto doveva essere per i poveri. Non si poteva davvero parlare di ricchezza in quei giorni! Si mangiava e si beveva quel tanto che donavano i benefattori. Si dormiva in un vecchio con-vento, addirittura cadente, ove topi e pipistrelli la facevan da padroni. Mai un Missionario o un Fratello Inserviente se ne lamentò. Erano un cuore ed un’anima sola e vivevano in perfetta letizia. La benedizione del Signore era con loro. Ed ecco cosa accadde un giorno a S. Felice. Un episodio che richia¬ma alla memoria la bellezza dei Fioretti di S. Francesco e la semplicità di Fra Ginepro. Erano così anche i primi compagni del Santo. Uno di essi era Fratel Alessandro Pontoni di Camerino, il quale, avendo do-vuto interrompere gli studi nel seminario nel periodo dell’ invasione napoleo-nica, chiese al Fondatore d’essere accolto come fratello inserviente a S. Feli¬ce, perché «si sentiva chiamato alla vita religiosa». Di lui così è scritto nella cronaca di quella prima Casa: «Fu esemplare nell’osservanza delle Regole e per l’accuratezza e la bravura nel disimpegnare le faccende assegnategli». Era di forme imponenti e dotato di forza fisica considerevole, in vero contrasto con la sua dolcezza ed incantevole semplicità. Per le bestie, poi, aveva un amore tutto francescano, fino al punto che, su per le strade in salita, si carica-va sulle spalle parte della soma degli asinelli, che ormai esausti arrancavano senza fiato. Ne aveva tanta compassione che rimproverava con severità i pa-droni che li frustavano senza pietà. Così – è storico! – i somarelli, più ricono-scenti degli uomini, carichi o scarichi, quando l’incontravano, gli andavano incontro trotterellando e ragliando. Or avvenne che i Padri che stavano a S. Felice, a causa della cronica pover¬tà da giorni non bevevano più neppure un bicchier di vino, anche se la Rego¬la gliene assegnava uno a pranzo e un altro a cena. Un giorno, mentre erano a tavola, un somarello carico di due bei barili di quello buono, entrò diritto nel refettorio, ch’era a pian terreno, trascinando dietro il padrone, che gli si era aggrappato alla coda per fermarlo. Ci fu una risata generale! Quei buoni Pa¬dri invitarono quel signore a sedere a mensa con loro: «Non c’è gran che, ma ci dia l’onore di dividere con noi quel che passa oggi la Provvidenza». Il buon uomo accettò con piacere, ma, osservando che sulle mense c’erano soltanto bottiglie d’acqua, «Come si fa a mangiare – disse – senza nemmeno un bic¬chier di vino? Possibile che il vostro santo Superiore non vi permette di berlo neppure a tavola?» «No, amico, non è colpa del Superiore, anzi egli ha messo perfino nelle Regole che ce ne toccherebbe uno a pranzo e uno a cena; ma… quando ci sono i baiocchi per comprarlo. Ora è da tempo che i baiocchi non ci sono e il vino non si può comprare». Il buon uomo si commosse e rivolto a Fratel Alessandro: «Vieni, gli disse, dammi una mano!» Scaricarono i barili e ridendo aggiunse: «Il somaro e il suo padrone pregano i santi Padri d’accetta-re questo dono. Ora beviamone un bicchiere assieme alla nostra salute. Però qui c’è il tuo zampino, caro Fratel Alessandro, ammaliatore di somari!» Gaspare ch’era presente, aggiunse, lieto e bonario: «Lei ha ragione, ci sarà senz’altro lo zampino di Fratel Alessandro, ma c’è senza dubbio anche la ma-no del Signore. Chi ci dice che il somarello, creatura di Dio, non abbia, men¬tre passava di qui, sentito quella esortazione evangelica: Date da bere agli as-setati?». Vedrà il danaro moltiplicarsi La nuova Congregazione, benedetta dal Sangue Divino di Gesù, faceva grandi progressi. Gaspare, di tanto in tanto, era costretto a recarsi a Roma per disbrigare pratiche, provvedere fondi, cercare nuove reclute. Le richieste di Missionari in Umbria e altrove si moltiplicavano. La fama di quei santi sacer-doti ormai andava diffondendosi ovunque! Non mancavano tribolazioni. Gaspare, quando doveva assentarsi, scriveva lettere per incoraggiare, spronare, consigliare. E, in esse, insisteva sempre: «Uniti nella carità del Sangue di Cristo, zelanti per la sua gloria e la salute del-le anime; poveri con Cristo sulla croce». «Siamo poveri, ma c’è sémpre chi èpiù povero di noi; i poveri sono i padroni dei nostri averi, guai a mandarli via senza almeno un piccolo aiuto». «Noi siamo stati mandati come Cristo ad evangelizzare i poveri, cioè le popolazioni umili e i ricchi, tanto poveri nell’anima!». Sarebbe un errore pensare che Gaspare facesse soffrire fame e disagi ai suoi figli. Sorvegliava di persona a che la povertà non fosse scusa per la spor¬cizia e per far patire la fame. Cibo semplice, ma abbondante; casa e camere arredate del necessario per una vita tranquilla e la salute di chi l’abitava. Egli dava in tutto il più luminoso esempio. Ecco cosa si legge nella cronaca di quella casa: «Quante volte il poverissimo Can. Del Bufalo si toglieva scar¬pe, biancheria, mantello ed altro per darlo ai poveri! Poi cercava di rientrare di soppiatto per non farsi vedere quasi spogliato!» In altra cronaca si legge: «In tempo di pioggia non possono uscire più di due missionari, perché in casa c e un solo ombrello». S. Gaspare stesso, di suo pugno, annota: «Nella fonda-zione di questo Istituto assai vi fu da patire non soltanto per la mancanza di soggetti, ma del necessario sostentamento. I Missionari vanno a due a due, come gli Apostoli, a predicare la parola di Dio. Siano rese grazie alla Provvi-denza e alle buone popolazioni, che mai ci hanno fatto mancare il pane quoti-diano». Non poche volte anche Gaspare si trovò a dover far fronte alle scadenze con i fornitori! Non esistevano cambiali ed essi furono sempre fiduciosi nella sua parola. Ma, a volte, anche i fornitori non navigavano in buone acque ed allora, in qualche caso, intervenne chiaramente la Provvidenza. Avvenne che, nell’ assenza del Fondatore, D. Biagio Valentini, economo della casa di S. Felice, era rimasto proprio al verde. Non avendo più coraggio di chiedere dilazioni e nuovi crediti al negoziante, scrisse al Santo che, con quei quattro baiocchi rimasti nel cassetto e senza alcuna probabilità di poter¬sene procurare altri, non sapeva proprio dove battere la testa. La risposta di Gaspare fu immediata e precisa: «Abbia fede e vedrà il danaro moltiplicarsi nelle sue mani». D. Biagio era anch’egli un Santo, conosceva bene S. Gaspare (poi ne divenne il primo successore) e la sua vocazione e l’ingresso nella Congregazione furono accompagnate da una sequela di circostanze che ebbero del miracolo¬so. Pensò: «Il Canonico è un santo e… se lo dice lui, così sarà! » Volle il caso – o il Signore? – che la lettera di S. Gaspare gli fosse recapitata proprio alla pre¬senza del fornitore venuto da Giano a… bussare a danaro. Gli fece leggere il foglietto e quegli, tentennando il capo, osservò: «Senza dubbio il sig. Canoni¬co è un santo e fa miracoli, ma se i soldi in quel cassetto Lei, Padre Biagio, non ce li ha messi, non vi possono essere nati da soli!» D. Biagio si segnò, apri il cassetto e… uno, due, tre… Quando raggiunse la cifra esatta da pagare, la ciotola rimase pulita pulita! Il volto di D. Biagio, mentre contava, era rimasto sereno, senza mostrar per nulla meraviglia, come fosse tutto più che naturale. Il creditore invece guar-dava trasecolato ed allegro: stava per avere tutto, fino all’ ultimo baiocco! Uscito dal convento, andò in giro mostrando il gruzzoletto, e dicendo: «Fate pure credito al Canonico Del Bufalo, tanto, se non paga lui, paga sempre il Si-gnore!». Una corona di calici Ogni santo ha un proprio segreto che lo ispira ed anima: il carisma, che lo distingue nella sua vita. Il segreto è, ovviamente, sempre il Cristo vissuto, ma ognuno si sente da lui attratto in maniera peculiare, anche secondo la propria natura. Gaspare può essere in molte cose paragonato all’ Apostolo prediletto sia per la sua mai offuscata purezza, sia per il suo filiale abbandono sul Cuore san-guinante del Signore; può essere anche paragonato a Paolo di Tarso per la sua predicazione calda e accorata del Cristo Crocifisso. Il nostro Santo, però, sarà per tutta la vita particolarmente preso, ammaliato, innamorato del Sangue Redentore, che ogni mattina consacra nel Calice della sua Messa. Prima a S. Nicola in Carcere, poi nell’ orrore dell’ esilio, i trasporti d’amore per quel San-gue lo confermano nella incrollabile scelta di vita: versare anche il proprio sangue per quel Sangue! Nel carcere già vede la sua futura Congregazione che inalbererà lo stendar¬do del Sangue Prezioso. A Firenze, prima sosta dopo la liberazione, sorge l’aurora dell’apostolato per la diffusione del culto al Sangue di Cristo. Gaspa¬re è convinto che il suo apostolato, per 1′ espressione del massimo pegno che Cristo ha dato del suo amore all’umanità, debba andare molto al di là del quo-tidiano dovere sacerdotale. Egli vorrebbe sentire in sé quello stesso slancio col quale Cristo ha effuso il suo Sangue. Chi ha osato accusare Gaspare di sentimentalismo non ha capito proprio nulla della maschia statura spirituale e mistica di questo Santo. Egli infatti è il santo che si accosta più d’ogni altro a Pietro e Paolo nel concetto fondamentale della Redenzione universale operata da Cristo versando il suo Sangue. E di tale verità ne fa costante norma di vita. Vita verginale, distaccata dal mondo, dalle persone e cose più care per una pratica eroica d’ogni virtù cristiana. Vita di preghiera e di meditazione che lo inoltri sempre di più nel solco purpureo di quel Sangue e lo assimili maggior-mente al Martire del Golgota. Vita d’apostolato, affinché quel Sangue, dal Cuore squarciato di Cristo, raggiunga tutte le anime e a Lui le riconduca. Alla luce di quel Sangue comprende tutto il male della vita e la tristezza del pecca-to. Cristo vuol lavare le sordidezze del male col suo Sangue e l’ha messo nelle mani dei sacerdoti per compiere con la loro cooperazione questo ministero d’amore. Gaspare fa sue le sofferenze e le miserie altrui e si sente sanguinare per il prossimo lontano da Cristo. Adora quel Sangue, trabocca d’amore per quel Sangue, distribuisce quel Sangue, chiama attorno a sé uno stuolo di apo-stoli di quel Sangue, lotta per il trionfo di quel Sangue! «E l’arma dei tempi, l’arma più potente per vincere ed umiliare Lucifero!» È di suo pugno la frase che troviamo in una lettera al Cristaldi: «Il demonio mi divorerebbe, se non fosse una corona di Calici dei quali parmi vedere il mio spirito circondato». Come si rileva da altri suoi scritti non era un modo di dire, ma una visione reale e quasi costante. Il Pallotti, santo, amico e confes-sore di Gaspare, afferma: «Il demonio perseguitava il Servo di Dio, perché propagava la devozione al Prez.mo Sangue» e così tanti altri testimoni ed epi-sodi della vita del Santo lo confermano. «I contrasti del demonio – scrive an-cora Gaspare – confermano che l’Opera è da Dio. Teme il Nemico per le tante anime che gli strappa il Sangue Divino e gli strapperà in futuro per la diffu-sione che ne faranno gli Operai Evangelici di questo Santo Istituto». Gaspare sa che il Sangue è l’emblema insuperabile della carità non solo in chi l’aveva versato, ma anche in chi se ne sarebbe fatto tramite per portarlo alle anime. Il Sangue di Gesù non conosce la legge della stasi, ma è il divenire perenne, il perpetuarsi per la moltiplicazione dei credenti. Gaspare ne divie¬ne il serafino, il più grande apostolo, la tromba squillante delle sue glorie fino alla morte, ed oltre, tramite i suoi figli. Egli vuole che, come tutta la sua vita, anche la nostra sia un continuo inno d’amore al Sangue di Gesù. Parla con la Madonna Subito dopo la fiamma del Sangue di Cristo, che al di sopra di ogni altra, ar-deva nel cuore di S. Gaspare, sì da renderlo un vero serafino in terra, il suo cuore palpitava d’intenso amore per Maria, che quel Sangue donò all’umani¬tà. «Questa Madre celeste egli amò col cuore di un serafino; la vedeva tutta inondata di sovrumano splendore, irradiante dal Mistero del Sangue, che sta all’origine di tutte le sue grandezze». Il Santo seppe mirabilmente intrecciare i due Misteri del suo cuore facendo dipingere un quadro, ove la Vergine è rappresentata col Bambino in braccio, che leva con la destra il calice del suo Sangue e lo mostra all’umanità, mentre ella, con un gesto della mano, invita i peccatori a ricorrere a quel Sangue che per essi Gesù sparse con tanto amore. Questa dolcissima immagine, che il Santo portava sempre con sé nella predi-cazione, fu da lui chiamata Madonna delle Missioni, perché, diceva che, dal momento in cui quel quadro veniva esposto sul palco, la Missione prendeva fuoco, perché la Missione la faceva la Madonna. E soleva anche darle tanti al-tri titoli affettuosi, come: Grande Missionaria, condottiera della Missione, Rapi¬frice dei cuori. Il popolo la chiamò subito Madonna del Prez.mo Sangue e Regina del Prez. mo Sangue, titolo col quale viene invocata e venerata ai nostri giorni. «Parlando della Madonna – troviamo scritto in molte testimonianze – Gaspa¬re tutti eccitava a ricorrere a Lei, cavando lacrime di tenerezza dagli occhi de¬gli astanti». Quando invitava i fedeli ad inneggiare a Maria, gridava: «Evviva Maria!» Quel grido sembrava un tuono, al quale tutto il popolo rispondeva con un boato che faceva tremare la volta del tempio: «Viva Maria!». «Quando esaltava le glorie della Vergine, lo faceva con tale foga ed ardore da parer unserafino d’amore in lei rapito e si portava via il cuore di tutti». Così annunzia¬va dal palco la predica prediletta, che lo faceva arrossare in volto come un in¬namorato: «Sapete di chi vi parlerò ora? Della cara Mamma nostra!». Nelle Missioni, nelle Case dell’ Istituto e in quelle private, durante i viaggi, nelle buie ridotte delle prigioni, negli ospedali, invitava tutti ad amare Maria. Quest’amore così grande e così dolce l’aveva appreso sulle ginocchia della Madre. La buona Annunziata, tenendolo in braccio o per mano, lo portava a pregare nelle belle chiese di Roma dedicate alla Vergine, e per strada sostava-no ad ammirare e salutare le tante bellissime nicchie, che il devoto popolo ro-mano soleva erigere sui cantoni dei palazzi e negli incroci delle vie. Soleva raccomandare vivamente la recita del Rosario, la devozione all’Ad-dolorata e la celebrazione delle grandi solennità dell’ Immacolata e dell’ As-sunta. Nella sua Regola prescrive che al sabato i Missionari recitino i Cinque Salmi, le cui iniziali compongono il Nome di Maria, e tengano una predica con l’esempio della Madonna. Fu tra i grandi promotori della pratica del Mese Mariano e, come abbiamo già detto, volle aprire la prima Casa della Congre-gazione il 15 agosto, ponendola sotto la protezione della Vergine. Volle in fine che nello stemma della Congregazione fossero incrociati i nomi di Gesù e di Maria. Come potremmo meravigliarci che la Vergine abbia detto ad un’anima pia (il Merlini?) che Gaspare era la pupilla degli occhi suoi e ch~alle preghiere del Santo abbia operato tanti strepitosi prodigi? Sappiamo che Gaspare aveva, come fratello inserviente, Fratel Bartolo¬meo, che con le sue stranezze lo fece tanto soffrire; per altro gli era fedelissi¬mo, lo seguiva sempre e si sarebbe fatto fare a pezzi per lui. Bartolomeo ne sapeva perciò più di tutti sulla vita del Santo e a volte spiava anche per scoprire cosa avvenisse di straordinario, quando il Santo si chiudeva in camera, e dagli spi-ragli della porta vedeva sfuggire raggi di luce. Bartolomeo raccontava: «Il Ca-nonico parla con la Madonna!» «Certo – gli dicevano – prega ad alta voce!». «No, no, – precisava – parlano assieme, è un colloquio, non una preghiera. Èvero, sento solo le parole del Canonico, ma si capisce bene che è una conver-sazione. Quanto egli ami la Vergine lo so io, che, dopo questi colloqui, trovo perfino bruciacchiate camicie e vestiti dalla parte del cuore!». C’era una vecchietta Fino a non molti anni fa, i vegliardi delle ridenti colline ed ubertose vallate che circondano S. Felice, narravano ai figli e ai nipoti le belle funzioni che si praticavano nella chiesa del Convento, quando la campana squillante chia-mava a raccolta su quel colle, dai circostanti villaggi e casolari, quei buoni terrazzani, che si recavano a frotte al Santuario dei preti santi. Narravano, come avevano appreso a loro volta dai nonni, dell’arrivo di Ga-spare, il Padre santo, della sua dolcezza, della sua bontà e dei miracoli che operava. Quanti aneddoti, quanti fatti veri! Traviati che tornavano a Dio, dopo averlo sentito predicare una sola volta, malati guariti da una sua semplice benedizione, previsioni buone per i timo-rati di Dio e cattive per chi rifiutava pentirsi dei propri misfatti. I buoni che, al suo passaggio, correvano a baciargli la mano e i perversi che prendevano il largo temendo che leggesse nelle loro coscienze. E quando pregava e celebrava Messa? Un angelo, un vero angelo! E narravano che c’era a quel tempo in Arrone, un paese non molto lontano da S. Felice, una vecchietta che… non si decideva a morire. Era sempre li, con l’anima stretta tra i denti, senza che la morte riuscisse a strappargliela. Forse anche il Signore aveva dimenticato che sulla terra c’era pure lei. La chiamavano la svampita cioè una che non era più tanto a posto col cervello, perché, vaneggiando, ripeteva sempre, perfino al parroco, che cercava di convincerla a prendere l’Estrema Unzione: «Quando verranno i Missionari di S. Felice a confessarmi…» Al sentirla cadevano dalle nuvole, perché S. Felice allora era ancora un vec-chio Convento, che nessuno abitava, nel timore di sentirselo crollare improv-visamente addosso. Ma la vecchia era irremovibile: «Verranno, verranno!» Passarono mesi ed anni finché, un pomeriggio, le campane di Arrone co-minciarono all’improvviso a suonare a distesa. Le strade s’affollavano; a gruppi ed alla spicciolata venivano su in paese gli abitanti della campagna, cantando canzoncine sacre. Le Confraternite in divisa ed il Clero in cotta e stola si portavano in processione, anch’ essi cantando, all’ ingresso del paese. Ed ecco salire su dal piano una carrozza con dei sacerdoti cinti d’una fascia, col crocifisso sul petto, appoggiati ad un bastone, come quelli che usavano gli antichi pellegrini. La gente li guardava con rispetto e curiosità. Non ne aveva-no mai visti’ vestiti a quel modo. «Sono i Padri santi, i Missionari di S5. Felice! Chi è Gaspare, il padre santo fondatore? Forse quello più anziano…, no, sì… Ecco; si inginocchiano, baciano la terra… abbracciano i sacerdoti dì Arrone; il Parroco porge loro un grande crocifisso… Lo prende il più giovane… Possi¬bile sia proprio lui Gaspare, colui che fa i miracoli?» La processione s’incammina alla Matrice, cantando: «Perdono, mio Dio!». In quel momento alla vecchietta non pensa più nessuno. Dopo la funzione d’apertura, Gaspare chiede d’essere accompagnato ad un’umile casetta. Va di filato, come se la conoscesse da sempre, eppure non era mai stato ad Arrone. Bussa, entra… La vecchietta è all’ istante come illuminata da un raggio che scende dal cielo. «Oh! Ecco il Santo Missionario di S. Felice!» Si confessa, ri-ceve i sacramenti, si addormenta placidamente nel Signore. Era l’11 novembre 1815. Al funerale nessuno restò in casa. La Missione ebbe un successo strepitoso. Angeli e demoni «Mille saluti di paradiso a fratel Giosafat, abbiategli gran carità; ve lo racco-mando più che me stesso e ditegli che preghi per me e che, quando andrà in Paradiso, baci la mano per me a Maria». Così scriveva da Roma S. Gaspare a fratel Sante Angelini, che stava a S. Felice. «Fratel Giosafat, degno di tanta stima, fu uno dei primissimi laici, fratelli inservienti o coadiutori, di gran virtù, che lasciò nell’Istituto grande,odore di santità». Da pochi giorni era stata aperta la prima Casa dell’Istituto a S. Felice quan¬do, sull’ imbrunire, un uomo sulla settantina, d’aspetto raccolto e dignitoso, suonò alla porta del vecchio Convento. Fu proprio Gaspare ad aprirgli e l’uo-mo, saputo chi egli fosse, gli si inginocchiò dinanzi, gli baciò la mano e lo im-plorò: «La fama di santità di questi Padri è giunta fino a noi nelle Marche; vi prego, padre santo, accoglietemi qui con voi, come vostro umile servo». Ga-spare lo fissò un istante, l’abbracciò e disse: «Siate il benvenuto tra di noi, fra-tello, e Dio vi benedica». Il Fondatore aveva letto nella sua anima. Infatti, fratel Giosafat Petrocchi, nato a S. Elpidio nelle Marche, allevati i fi-glioli e morta la sua ottima consorte, s’era dato all’ apostolato tra le famiglie. «Era uomo di straordinaria pietà, di singolare innocenza, d’umiltà la più gran¬de, di viva carità, semplice come una colomba». Insomma una di quelle ani¬me candide che Dio ama e alle quali preferisce rivelarsi. A S. Elpidio tutti sapevano che Giosafat dall’ alto della terrazza della sua ca¬sa amava contemplare in preghiera la S. Casa di Loreto e che, nelle notti stel¬late, il Signore si compiaceva fargli vedere gli angeli, che dal cielo scendeva¬no sul Santuario. Il sant’ uomo si presentava nelle case: il volto soave, i modi cortesi; la dol¬cezza della parola e la compostezza gli spalancavano tutte le porte. Com’era piacevole intrattenersi con quel vecchietto che sapeva radunare Je famiglie, leggere buoni libri, raccontare storie delle vite dei santi e recitare con lui la corona del S. Rosario. E come sapeva cogliere il momento e la buona occasio-ne per parlare in modo semplice e accorato dell’amore di Cristo e ricondurre a lui i peccatori! Eccolo a S. Felice. «Sebbene d’età avanzata – dice il Merlini – si prestava a tutti i servigi, girava per la questua, insegnava il catechismo ai fanciulli e ai suoi confratelli coadiutori, e passava lunghe ore e a volte intere notti, in pre¬ghiera. Chi non trovava in casa Giosafat, sapeva dove cercarlo: era sempre nascosto nella cripta della chiesa di S. Felice, raccolto in fervida preghiera». «Purtroppo, Dio permettendo – dice sempre il Merlini – soffrì pure moltissi¬mo per parte di alcuni dei nostri. Iddio voleva con quelle tribolazioni matu¬rarlo ancor meglio per il Cielo. Egli però fu sempre paziente e tollerò con mi¬rabile ilarità, senza mai portarne lagnanze ai superiori». «Predisse – citiamo sempre il Merlini – ad altro fratello inserviente, sicuro di sé, che avrebbe invece abbandonato la Congregazione, e ad altro, tanto incer¬to e combattuto, che avrebbe perseverato fino alla morte. Esortava poi che nessuno si sbigottisse per l’Istituto quando era in difficoltà, perché ci avrebbe pensato la Vergine». «Soffrì pure non poco da parte del Maligno, che gli appa-riva sotto varie forme e spettri». Anche D. Camillo Rossi narra che a volte Giosafat gridava forte, come per mettere in fuga qualcosa di orribile. S’udiva, alla fine, un gran rumore per tutta la casa: era segno che Satana aveva perdu-to la battaglia. Come sapeva quest’uomo di Dio nascondere le sue sofferenze! Soffrì anco¬ra di più negli ultimi giorni. La sua morte, già da lui predetta con largo antici¬po, fu preziosa davanti a Dio e agli uomini. Molti asserirono d’aver ricevuto grazie per sua intercessione. Sepolto nella cripta di S. Felice, dopo alcuni me¬si il corpo fu trovato ancora intatto. Quest’uomo, che passò la vita nell’ amore di Dio e del prossimo, tra la visio¬ne di angeli e il tormento dei demoni, fu pianto a lungo da quelle buone popo-lazioni che dicevano inconsolabili: «Abbiamo perduto il nostro santo Fratello Giosafat!». Il puzzo dei peccati Tra le luminose figure di sacerdoti che, guidati da Gaspare, lo affiancarono nella fondazione del nuovo Istituto e ne furono anche i capisaldi, vi fu quella «candidissima» del giovane D. Vincenzo Tani, della nobile famiglia dei Mar-chesi Tani. Nonostante la ferma opposizione del padre, essendo egli il primo-genito, rinunciò al marchesato e accorse tra quei primissimi che, commossi dalla sapiente eloquenza e dalle virtù di Gaspare, lo avevano seguito. Gaspa¬re aveva avuto da Dio, tra gli altri doni, quello d’una potente attrattiva per cui tanti, sia sacerdoti che laici, pronti ad abbandonare tutto chiedevano di diventare dei suoi. Sappiamo come a Roma, quando Gaspare parlava del nuovo Istituto che sa-rebbe stato intitolato al Prez.mo Sangue, molti sacerdoti si dichiaravano prontissimi a farne parte. Invece, quando arrivò il momento di cambiare la vita di città con il vecchio Convento di S. Felice, quasi tutti si ritirarono. Ma il giovane D. Vincenzo, che con l’Albertini e Gaspare, faceva parte della Con-fraternita del Prez.mo Sangue eretta nella basilica di S. Nicola in Carcere, lo seguì immediatamente. Anzi, fu proprio la sua grande devozione al Sangue di Gesù, che gli fece prediligere la Congregazione di S. Gaspare ad altri Istituti, che, per le sue virtù, se lo contendevano. Così fu tra i quattro presenti alla na-scita della Congregazione nel Convento di 5. Felice il 15 agosto 1815. Di lui scrive il Merlini: «Di costumi candidissimi, per conservarsi tale face¬va grandi penitenze fino al punto di grave nocumento alla sua gracile salute. Fece voto di dedicarsi all’assistenza dei carcerati e dei malati negli ospedali e di far lunghi pellegrinaggi a piedi, anche quando, per motivo di ministero, doveva recarsi in lontani paesi, sfidando i grandi calori estivi e le intemperie e rigidità d’inverno». Narrano testimoni oculari degni di fede, che il Signore gradiva molto tali penitenze, perché più volte lo incontravano senza ombrello sotto 1′ imperver-sare del temporale, imperturbabile, come nulla fosse, rapito nella lettura del breviario. Notarono che un misterioso raggio di sole, pur nella tormenta, pre-cedeva i suoi passi. Con la scusa di baciargli la mano lo avvicinavano e nota-vano con stupore che le vesti erano perfettamente asciutte. Con umiltà si prestava ai servizi più bassi; non aveva mai un baiocco in ta¬sca, perché donava tutto ai poverelli, perfino vesti, scarpe, coperte, lenzuola e materassi. Altro dono di Dio era quello di leggere nelle coscienze, fino al punto di sen¬tire il puzzo dei peccati. Si racconta, e non è una favola, che accostando un giovane lo esortò a con-fessarsi. Avendogli quello risposto che non aveva nulla da confessare, D. Vincenzo gli rivelò le colpe delle quali s’era macchiato. Il giovane irritato co-minciò a percuoterlo col bastone ed egli, anziché reagire, s’inginocchiò e ai colpi rispondeva con la preghiera. Ma fu il giovane a stancarsi per primo, si ravvide e, inginocchiatosi al suo fianco, si confessò. D. Vincenzo aprì il catalogo dei morti della Congregazione. «Fu il primo – disse S. Gaspare – a presentarsi davanti a Dio con le insegne della Congrega-zione. O felice presagio per tutti noi, che un santo ci abbia preceduto!». Devotissimo della Madonna scrisse anche un toccante libro: L’inferno chiu¬so ai veri devoti di Maria – e spirò col suo soave nome sulle labbra, all’ età di soli 50 anni! Così è scritto nelle cronache dell’ Istituto: «D. Vincenzo Tani fu il primo col titolo glorioso di Missionario del Prezioso Sangue ad entrare per le porte bea-te del Cielo. Gli eletti si rallegrarono accogliendo questo primo fiore di una pianta novella che Dio suscitò nella sua vigna, ripetendo commossi con lui il canto sublime dell’ Apocalisse: «Ci hai redenti, o Signore, col tuo Sangue!». Il merlo vola alto! Era appena volato al cielo D. Vincenzo Tani che il Signore volle rimpiazzar¬lo con un’ anima altrettanto candida e dotata di virtù ancor più spiccate: D. Giovanni Merlini, nato a Spoleto il 25 agosto 1795. Aveva tanto sentito parlare di Gaspare, e di quei santi sacerdoti di S. Felice, che senti il desiderio di salire al Convento, senza però intenzione alcuna di ri-manervi. Ma appena conobbe S. Gaspare ne restò affascinato, e Gaspare di lui: il santo lo guardò, lo amò e gli disse: «Rimani con me, diventerai missio-nario e, nel nome del Sangue di Cristo, salverai tante anime». D. Giovanni ri-mase. Alla scuola di tanto Maestro, volenteroso solo di obbedirgli e d’imitar¬lo, raggiunse le più alte vette della perfezione, tanto da essere ritenuto addi-rittura più santo del Fondatore. Gaspare lo nominò, così giovane, suo segretario; lo condusse con sé nella predicazione e, se impedito, si faceva da lui sostituire nelle Missioni più im-portanti e delicate. A L’Aquila, in Abruzzo, autorità e popolo in attesa di Ga-spare restarono delusi e irritati all’ apparrire di quel pretino biondo e scarno, ma quando lo sentirono!… A lui Gaspare affidò, sebbene giovanissimo, il compito più arduo che possa mai esservi per un sacerdote, anche il più pro-vetto e virtuoso: la direzione spirituale della giovinetta Maria De Mattias, la futura fondatrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ne fece un gioiello di santità ed oggi la veneriamo sugli altari. Altro evento importantissimo della sua vita fu l’apostolato per la conversio¬ne dei terribili briganti della Ciociaria. Riuscì ad accattivarsene la fiducia fino al punto che, di notte, uomini così feroci si recavano ad aprirgli 1′ animo, di-sposti ad eseguirne le raccomandazioni. Negli Archivi della Congregazione si conserva una famosa lettera scritta a D. Giovanni dai briganti, nella quale si dichiarano pronti alla resa e chiedono, suo tramite, l’intercessione di Gaspa¬re per ottenere clemenza dal Papa. Le fiamme che bruciavano nell’anima di D. Giovanni e ne accendevano mistici ardori e ardente zelo, erano il Sangue di Cristo e la Vergine. La vita di D. Giovanni è costellata di tanti episodi meravigliosi. Fu il secondo successo¬re di S. Gaspare nel governo della Congregazione e la condusse a larga espan¬sione in Italia e all’Estero, ne perfezionò le Regole e tradusse in atto con sag¬gezza e fermezza lo spirito del Fondatore. Ottenne da Pio IX l’estensione del¬la Festa del Prez.mo Sangue a tutta la Chiesa, e quel grande Papa lo ebbe ca¬rissimo, fino al punto da volerlo suo consigliere e confessore. Sebbene sordo, nei colloqui di spirito con coloro che si affidavano alla sua direzione e in confessionale, sentiva benissimo. Leggeva con acutezza nel se-greto delle coscienze, prevedeva il futuro e dava i consigli più adatti per il be-ne spirituale di chi 1′ ascoltava. Riuscirono sempre esatti! I prodigi da lui ope-rati non si contano; guarì ogni sorta di malattie e in particolare chi era affetto da cecità. A Sonnino, la cittadina salvata da S. Gaspare dalla distruzione decretata dal Papa, perché nido dei più feroci briganti, lo chiamavano il santo che non si ba¬gna, perché era stato visto più volte camminare frettolosamente per le vie del paese sotto una pioggia torrenziale, senza ombrello, forse dimenticato per ac¬correre in fretta al capezzale dei moribondi. I Sonninesi si facevano curiosi dietro i vetri delle finestre a guardarlo. «Chi è quel prete così pazzo – doman-dava chi non lo conosceva – che se ne va in giro senza ombrello con questo tempaccio?» «E’ D.Giovanni il santo missionario che non si bagna!» risponde¬vano. E gli increduli, che andavano a constatare di persona erano costretti ad ammettere con stupore: «È proprio vero!» Vittima dell’investimento d’un vetturino anticlericale, mori a Roma il 12 gennaio 1873. Negli ultimi istanti coloro che circondavano il suo letto, ebbe¬ro la certezza che D. Giovanni avesse avuto la visione confortatrice della Ver¬gine. Infatti spirò col volto luminoso e lo sguardo in alto esclamando: «Ma¬donna mia, speranza mia!». Di lui 1′ elogio più grande, mentre erano entrambi ancora in vita, lo fece proprio 5. Gaspare, alludendo al suo alto grado di santità: «Il Merlo vola alto, molto alto! D. Giovanni è uomo di santità e miracoli». Vieni su, bambino! Si tolse la fascia che gli cingeva la vita, la calò nel pozzo, dove galleggiava il corpo esanime d’un bambino, e disse forte: «Vieni su, bambino!» Lo tirò fuori e lo restituì alla madre che si disperava in pianto. Un giorno si sentì un urlo dalla gente: «È morto, è morto!» Un fulmine ave¬va stecchito un povero venditore ambulante. Gaspare gli disse: «Vada D. Bia¬gio, vada a soccorrerlo». D. Biagio accorse e lo richiamò in vita. L’uomo, ap¬pena aprì gli occhi, risvegliandosi come da un incubo, disse: «Ero già condan¬nato e sull’orlo dell’inferno, perché ero morto in peccato. Che grande grazia ho ricevuto!» Quando domandavano a D. Biagio se erano proprio veri questi miracoli, egli rispondeva: «Si, sono veri, ma non li ho fatti mica io. E stato il Fondatore che me lo ha ordinato». Chi era questo missionario che compiva sì strepitosi prodigi con o senza or-dini di S. Gaspare? D. Biagio Valentini, nato a Porto Recanati, nel 1792. Sacerdote assai colto e di ottima e santa vita, era di carattere assai timido e incerto. Recatosi per consiglio dal Santo, che predicava a Loreto, questi lo fece inginocchiare con sé davanti alla Vergine e dopo aver pregato assieme, lo invitò ad unirsi a lui. D. Biagio predicò col Santo qualche Missione, ma poiché la famiglia era contra-ria al suo distacco, se ne tornò a casa. Gaspare, dopo un anno, tornò ad insi-stere, ma D. Biagio tentennava, anche perché aveva avuto emottisi. Allora il santo gli scrisse:«Venga! Per quanto riguarda la sua salute, non ne soffrirà alcun danno; anzi!…». A queste parole D. Biagio fuggì da casa e lo seguì. Era guarito! Avendo capito, senza più dubbi, che era volontà di Dio ch’egli diven-tasse missionario e che Gaspare era uomo di Dio, s’abbandonò completa-mente alla sua direzione. Era a predicare con Gaspare a Gualdo Tadino, quando gli giunse una lette¬ra del fratello: «Mamma è moribonda e vuole assolutamente vederti». Gaspa¬re indisse pubbliche preghiere in chiesa e disse a D. Biagio: «Non abbandoni questa popolazione, Dio provvederà». Ma ecco il ferale annunzio della morte della buona donna, il cui trapasso però era stato lieto perché, negli estremi, aveva avuto la gioia di vedere il figlio, d’avergli parlato e d’essere stata da lui confortata e rasserenata». Eppure D. Biagio non s’era allontanato neppure un istante da Gualdo Tadino, distante 80 miglia dal suo paese. La vita di questo santo missionario è ricchissima di eventi prodigiosi, ma più ancora di tanti aneddoti sulla sua carità, dei doni soprannaturali, della maniera tutta sua di commuovere i peccatori fino alle lagrime e di riportarli a Dio. Amava soprattutto passare il tempo tra gente umile. A Rimini, per esem-pio, passava intere giornate tra i pescatori al porto, dove S. Antonio aveva predicato ai pesci. Era d’una pietà profonda e frequenti erano anche le estasi; prevedeva il futuro e leggeva nel segreto delle coscienze. Percorse con S. Ga-spare ed altri confratelli tutta l’Italia Centrale, predicando con grande zelo, senza curarsi di stenti e fatiche e sottoponendosi ad ogni sorta di privazioni e disagi; eppure non risenti mai dell’antico male. Era dunque un miracolo vi-vente. Il demonio per vendicarsi delle anime perdute per il suo zelo lo vessa¬va continuamente con palesi persecuzioni e violenze. Molti furono i testimo¬ni difatti umanamente inspiegabili. Morto il Fondatore, tutti i Missionari, con voto unanime, lo elessero suo successore. Seppe, in un momento così delicato, guidare l’Istituto e continua-re l’Opera di S. Gaspare. Si spense serenamente e santamente il 22 novembre 1846, lasciando largo rimpianto. Non possiamo qui tacere, prima di concludere, altri due episodi tanto straordinari. A Frosinone, sceso in chiesa a celebrare, trovò la signora Teresa Chiappini, che piangeva dirottamente: la sua bambina era cieca. D. Biagio benedisse la piccola e la restituì alla madre: era guarita. A Rimini D. Biagio assisteva spesso negli ultimi terribili istanti i condannati a morte; uno di questi rifiutava ostinatamente i sacramenti. D. Biagio abbrac-ciandolo gli disse: «Fratello prima che sul tuo collo cada la scure, recita con me almeno un’Ave Maria». Quando giunsero al «Prega per noi peccatori ora e nell’ ora della nostra morte» il condannato scoppiò in lacrime e chiese l’asso-luzione. Ancora una volta la grazia del Signore aveva trionfato per la dolcezza di D. Biagio! È S. Giorgio, Monsignore «Siamo in bisogno di molte cose… qui, però, trovo le mie delizie, perché vi è solitudine e campo di far del bene alle anime». Così scriveva da S. Felice D. Gaetano Bonanni, romano, nato il 16.6.1776. Si racconta anche che la mam-ma, prima di darlo alla luce, avesse visto dalla terrazza un raggio luminoso, come di una stella, venuto a cadere sulla sua casa, e interpretò il fenomeno di lieto auspicio per la futura santità del figliolo. E non si sbagliò. Per Gaspare il Bonanni, già prima della prigionia, fu come fratello, a lui unito in tutte le opere buone della città di Roma, e poi compagno nel porre la prima pietra spirituale nella fondazione della nuova Congregazione, sorta in S. Felice. Anzi, siccome anch’egli, senza saper nulla di Gaspare, aveva avuto l’idea di riunire volenterosi sacerdoti, che si dedicassero alla predicazione delle Missioni – idea che poi lasciò cadere – Gaspare, nella sua grande umiltà e per la stima che aveva di questo suo fraterno amico, fece del tutto per farlo apparire come fondatore fino al punto da volere che fosse a lui intestato il Re-scritto col quale Pio VII donava a Gaspare quel vecchio Convento. Il Bonanni da giovane fu guarito miracolosamente da tumore al collo e vide nel prodigio la chiamata di Dio, per cui rinunziò alle ricchezze della famiglia e prese la via del sacerdozio, unendosi a Gaspare «in un solo cuore per lavora¬re nel campo del Signore». Ospedali, infanzia abbandonata, carceri, ospizio di S. Galla, visite a famiglie povere, li videro sempre assieme. Li separò per qualche anno solo la prigionia di Gaspare. Al Bonanni non fu imposto l’ini¬quo giuramento e poté restare a Roma. Subito dopo la prigionia si ritrovarono uniti, prima nella Confraternita del Prez.mo Sangue di S. Nicola in Carcere e poi a S. Felice. Non è davvero facile dire dell’ operosità di quest’ Uomo di Dio! Nella cronaca di S. Felice è elencato il numero stragrande delle sue predicazioni in Um¬bria ed in altre parti d’Italia. A tali fatiche, come non bastassero, aggiungeva le più dure mortificazioni, digiuni e discipline. Così anch’ egli fu tra quei pri¬mi santi missionari, che fecero di S. Felice una Casa di Santi ed attirarono su quel colle un gran numero di anime desiderose di tornare a Dio. «Andiamo al paradiso di S. Felice!» dicevano i fedeli, e accorrevano da ogni dove. Lo zelo apostolico e la santità attirarono su di lui l’attenzione di Pio VII, che lo volle vescovo di Norcia, nonostante il suo reiterato umile rifiuto. Ma per lui fu solo questione di «cambiar posto», perché anche nel vescovado conti¬nuò la sua vita missionaria. In Diocesi e nei dintorni era chiamato il Vescovo Santo, tanta era la sua modestia, il rifiuto di ogni onore e lusso, l’estrema po-vertà, la dedizione assoluta al bene della Diocesi. Perfino i rivoluzionari e i settari deposero ogni idea di ribellione e rigettarono le loro idee atee in osse-quio alla santità del loro Vescovo. Di lui sono rimaste anche numerose testi-monianze difatti straordinari. Mons. Bonanni, com’era naturale, dedicava particolari premure ai giovani seminaristi e si recava spesso a pregare, a studiare e a desinare con loro. Un giorno capitò, inatteso, nello studio dei più grandi, i quali, invece di studiare, stavano giocando a… carte! Furono lesti a nasconderle tra i libri, ma non tan-to da non lasciare sul tavolino un cavallo col suo bravo cavaliere. Il buon Ve-scovo, che non aveva mai giocato a carte in vita sua, chiese: «Che santo è?» Il seminarista accortosi dell’ingenuità del suo Vescovo, s’affrettò a rispondere: «E S. Giorgio, Monsignore». Il Vescovo santo baciò la carta e soggiunse: «Sia-tegli devoti, fu un gran santo». Qualcuno sorriderà a quest’episodio e si domanderà: «Un Vescovo di molta dottrina e di tanta esperienza sulla malizia umana e, per giunta, vissuto a Ro-ma, così sempliciotto?» Già S. Gregorio Magno così scriveva: «Quelli del mondo nulla sanno della genuina semplicità dei santi e chiamano stoltezza l’innocenza dei giusti». Il candido cuore del santo Vescovo, come avrebbe po-tuto pensar male dei suoi giovani, che avevano scelto di dedicarsi a Dio nel sacerdozio? E poi cosa c’era di così grave in quei giovani che, pur trasgreden-do la disciplina, volevano solo divertirsi un po’? Il Vescovo Santo, santamente morì il 17 agosto 1848. Il lancio delle Missioni Ricordate 1′ episodio della tentata fuga da casa del piccolo Gaspare per an-dare, come S. Francesco Saverio, a predicare la fede ai Turchi? Si pensò ad una fatuità fanciullesca, ma non era così. Quella fiamma sbòcciata nel suo animo in tenera età, da sacerdote andò man mano ingigantendo, fino a sprigionarsi in tutto il suo vigore, particolarmente dopo la fondazione della nuova Con¬gregazione. In lui lo spirito missionario era tutt’uno con il desiderio di propa¬gare la devozione al Prez.mo Sangue di Gesù, che sosteneva, fondandosi sul¬la Scrittura e i Padri, era alla base di tutte le altre. L’azione missionaria dove¬va avere il precipuo scopo di portare a tutte le anime tiepide o lontane da Dio quel sangue che Gesù aveva sparso per la redenzione del mondo. Una volta a capo dell’ Istituto, le sue Missioni ebbero subito un lancio nutri-tissimo. Gaspare condusse a fondo il suo colossale apostolato missionario e vi si dedicò per anni, cioè per tutta la vita, dopo la fondazione dell’ Istituto, con un crescendo che, a poco a poco, superò anche le sue forze fisiche, scarse e non sempre floride, ma dominate da una forza di volontà e da una tenacia che hanno del prodigioso e che, non poche volte, divennero martirio. Le sue prediche, così dette di massime, duravano abitualmente due ore; a voke ne teneva anche 14 al giorno. A Nocera Umbra in un solo giorno predicò 14 voke e in quello stesso giorno tenne anche 16 fervorini per la Via Crucis! E il popolo lo ascokava perché egli – e così i suoi – rifuggivano dalla facondia oratoria, attenendosi unicamente al Cristo Crocifisso, alla verità evangelica, all’ ansia del bene per il prossimo, alla carità, alla giustizia. S. Gaspare seppe dare uno stile tutto personale al suo Metodo delle Missioni, che dovevano essere un vero e proprio «assedio spirituale ai popoli» tanto da esser chiamato Terremoto spirituale. Le preparava con meticolosità. col clero e le autorità del luogo; voleva che l’accoglienza dei Missionari all’ingresso in città o paesi, fosse tra le più solenni: suono di campane e partecipazione del Vescovo, del clero, delle autorità civili, delle confraternite e istituzioni con labari. I Missionari baciavano il suolo e ricevevano il Crocifisso; quindi ,tra canti di penitenza, si snodava la processione fino alla chiesa matrice, dove egli teneva la predica d’introduzione e, flagellandosi, invitava i fedeli alla pe-nitenza. Durante la Missione a tarda sera i Padri si sparpagliavano per le vie e nelle piazze, ove, recando il Crocifisso e suonando un campanello, richiamavano l’attenzione di chi passava, o era chiuso in casa, invitandoli alle funzioni sacre. Si presentavano anche nelle bettole e nei ritrovi, dove l’accoglienza non era sempre delle più cordiali. A volte subivano umiliazioni cocenti! Dalle finestre non piovevano certamente né fiori, né acqua pulita, e nelle bettole non venivano davvero invitati a bere un bicchiere! Gaspare, inoltre, non si li-mitava alle prediche in chiesa, ma organizzava conferenze per ogni ceto di persone, mandava i suoi compagni a far… propaganda nei paesi vicini; così sull’imbrunire si vedevano giungere da quei borghi processioni con torce e stendardi, che, cantando accorrevano ad ascoltarli. Non bastavano più le chiese e Gaspare doveva predicare nelle piazze. I Missionari andavano anche di casa in casa a visitare i malati, a convincere i più ostinati a tornare a Dio, a pacificare le famiglie e a visitare i carcerati. Tre erano le manifestazioni più commoventi: l’improvviso ingresso della statua dell’ Addolorata in Chiesa, durante la predica sull’ inferno, tra suoni di campane, di campanelli e d’organo, e al grido di «Viva Maria!»; la Comupione solenne ai malati, la processione di penitenza che chiudeva la Missione. Il popolo si entusiasmava, piangeva, faceva ressa ai confessionali; peccatori inveterati si convertivano; si riappacificavano individui e intere popolazioni. Né mancavano miracoli autentici, che man mano verremo narrando. Il fine delle Missioni era quello di risanare una morale generale gravemen¬te scossa; perciò, affinché tanto bene non fosse effimero, Gaspa~ inculcava al clero di continuare l’opera dei Missionari ed erigeva Piè Unioni, Confrater-nite, Ristretti che tenessero vivo il ricordo delle Missioni e le pratiche in ono¬re del Prez.mo Sangue! L’ultima sera si erigeva la croce-ricordo, ai piedi della quale si bruciavano le stampe e i libri osceni, emblemi blasfemi, enormi quantità di armi; i nemi¬ci si riconciliavano pubblicamente, abbracciandosi fra la commozione gene¬rale. Dopo successi così trionfali, Gaspare e i suoi, ad evitare umane compiacen¬ze e tentazioni di vanagloria, se ne ripartivano alla chetichella. Ogni merito, ogni gloria a Dio solo! Una candida colomba Subito dopo 1′ apertura della prima Casa dei Missionari a S. Felice, Pio VII chiamò a sé S. Gaspare e i suoi compagni ed ordinò loro di recarsi a predicare una Missione a Benevento; li benedisse e sorridendo raccomandò loro: «Lì non dovete dire Madonna mia,ma Maronna mea». Il Delegato Apostolico aveva descritto a tinte nerissime il miserando stato morale di quella città. La predicazione di quei Padri, e quella di Gaspare in particolare ne cambiò il volto, tanto che lo stesso Delegato, prima tanto allar-mato, sentì il bisogno di scrivere così al Santo Padre: «Non vi sono più né odi, né omicidi! Molti sono i settari convertiti, la città ha cambiato faccia!». Di-ciassette studenti, imbevuti nelle scuole pubbliche di dottrine ateistiche, ave-vano affisso dei manifesti in versi ridicolizzando Dio e la Missione. Vollero, o per curiosità o per fischiare o per rimbeccare, ascoltare una predica del Santo e ne restarono talmente affascinati che si gettarono pubblicamente in pianto ai suoi piedi. Quella Missione è rimasta famosa fino ai nostri giorni, anche perché nella tremenda seconda guerra mondiale, mentre i bombardamenti a tappeto degli Alleati rasero al suolo gran parte della città e distrussero com-pletamente il suo famosissimo Duomo, lasciarono del tutto intatta la croce-ricordo eretta da 5. Gaspare proprio nella piazza del Duomo. Da Frosinone, in Ciociaria, dov’ era giunta l’eco della strepitosa Missione a Benevento, reclamavano a loro volta Gaspare. La presenza del Santo era rite-nuta «indispensabile». L’audacia dei briganti in quella zona si faceva sempre più ardita, i delitti non si contavano più, le lotte intestine, il malcostume e la corruzione dilagavano! Il viaggio da Benevento a Frosinone nel colmo del rigidissimo inverno fu disastroso! Di notte, sui monti sotto la pioggia e la neve, il legno si sfasciò. Co-sì riporta la cronaca del tempo: «Gaspare e i compagni sono giunti con tre giorni di ritardo e rovinati! Era notte; in un momento si vedono tutte le strade e le finestre illuminate e si ode un grido generale di commozione: «Sono arrivati! Sono arrivati!». Tutte le chiese risultano inadeguate a contenere le folle e sebbene la stagione sia pessima, fuor di piazza, si vede una lunga coda di popolo, che non è potu¬to entrare in chiesa. «Durante la Missione la quantità di armi portata ai piedi della Madonna è infinita. Alle confessioni corrono a folla. Frosinone sembra una città santa. È bello vedere i fedeli disciplinarsi con i Missionari». È facile capire perché la popolazione, a più riprese, impedì a Gaspare di partire e per-ché nella piazza principale campeggi uno striscione con un’espressione «sof-fusa di amorosa delicatezza»: D. Gaspare, ci hai rubato il cuore! Lo zelo del Santo non ha tregua e, dopo la Missione di Frosinone, dove, per unanime desiderio del popolo, apre presto una Casa di Missione, e alcune predicazioni a Roma, si reca, sempre per desiderio del Pontefice, a Civitavec-chia e il 22 maggio 1816 a Rieti, da tempo desiderato da quel santo Vescovo, suo caro amico. Fin dalle prime prediche il concorso del popolo fu straordinario. Vi accorse gente dalla campagna e dai paesi limitrofi. Gaspare e i suoi compagni molti-plicavano le proprie energie: funzioni, confessionale, visite ai malati e ai car-cerati, prediche in chiesa, prediche sulle piazze. E proprio sulla piazza del Duomo, alla presenza di grande folla, di tutto il clero con a capo il Vescovo, il popolo ad un tratto si agita, si commuove, piange… cosa sta mai accadendo? Il Santo sta parlando col suo ben noto fervore, s’infiamma, la parola pene¬tra nei cuori… ed ecco che una candidissima colomba appare all’improvviso, come venuta dal nulla, e vola a lungo intorno al suo capo. No, non è una co-mune colomba, è qualcosa di veramente straordinario. Quella colomba ema¬na un vivissimo fulgore, non si turba alle esclamazioni della folla, rimane a lungo sospesa a pochi centimetri sul capo del Santo, come simbolo dello Spi¬rito Celeste che ispira le sue parole e le infiamma di ardore divino affinché tocchino i cuori e le anime tornino convertite a Dio. La folgore Ben presto la notizia dell’ episodio straordinario della colomba misteriosa si sparse ovunque in città, e da Rieti ai paesi vicini, nei villaggi, nelle campa¬gne. Il nome di Gaspare correva su tutte le bocche e le popolazioni accorreva¬no sempre più numerose, per vederlo, ascoltarlo, toccare il lembo della sua veste e confessarsi proprio da lui. La Missione a Rieti era terminata, ma Ga¬spare non poté ripartire. Il Vescovo lo scongiurò di rimanere ancora per qual¬che giorno; non si poteva deludere il desiderio di tanta gente. Quanto bene si poteva fare ancora; quanti peccatori, toccati dalla Grazia, per mezzo della sua calda parola, sarebbero tornati a Dio! No, il desiderio della folla non era do-vuto a morbosa curiosità per i fatti prodigiosi; forse c’era anche quella; ma non era forse 1′ esca gettata da Dio per richiamare quella gente ad una fede più viva ed ad una maggiore coerenza nella vita cristiana? I frutti erano davvero strepitosi! Di giorno in giorno le chiese si affollavano sempre di più; i campagnoli si partivano di buon’ora dai loro casolari, sparsi nel vasto territorio reatino, per recarsi ad ascoltare le prediche. Frequentatis-sime erano anche le belle funzioni delle prime ore del mattino. Incurante del lungo tragitto, la gente tornava poi svelta e soddisfatta ai duri lavori dei cam-pi. A sera folti gruppi giungevano dai paesi più vicini ed era uno spettacolo toccante vedere dall’alto della città le fiammelle delle torce, sparse qua e là nella pianura, portate da questi gruppi che da Rieti tornavano alle loro case.I confessionali erano sempre presi d’assedio. La stampa locale così commenta-va l’avvenimento: «Non si può bastantemente descrivere il frutto che qui pro-ducono le prediche del Can. Del Bufalo e dei suoi compagni in ogni ceto di persone; restituzioni di somme vistose (una addirittura di 74.000 scudi romani, enorme per quei tempi!), riconciliazioni invano da vari anni auspicate, consegna copiosissima di armi proibite, di libri e manoscritti pessimi, cessa¬zione di scandali pubblici, abbandono di pratiche disoneste consolano gli in¬defessi missionari, il santo Vescovo e i sacerdoti della città e dei paesi vicini». Qualche missionario, intanto, cominciava a sentire le conseguenze del mol¬to lavoro; Gaspare invece non conosce stanchezza, è sempre sulla breccia e rincuora i suoi compagni. La sua parola è medicina che guarisce! Non erano però tutti fiori! I maligni e quelli che non vedevano di buon oc¬chio il tanto bene compiuto dai Missionari, andavano spargendo la voce che l’apparizione della candida colomba era stato tutto un trucco. Ma arrivò pre-sto la risposta di Dio. Ecco come narra un testimone oculare, D. Muccioli, un altro episodio straordinario: «Durante il discorso sul Giudizio Universale, tenuto dal Can. Del Bufalo, malgrado il cielo fosse d’un tersore straordinari, una folgore lu-minosissima entra in chiesa da una finestra e, serpeggiando senza alcun ru-more e danno, esce da un’altra, dileguandosi nell’aria! Il popolo abbagliato dalla luce e scosso per 1′ inusitato segno, rompe prima in altissime grida, poi si raccoglie come sbigottito in tombale silenzio. Gaspare cade in ginocchio di-nanzi al Crocifisso, eccitando tutti a salutare penitenza e termina dando la benedizione col santo legno». Un fatto così impressionante causa molte e strepitose conversioni, ma i de-nigratori vanno dicendo in giro che si è ripetuto un trucco volgare da comme-dianti per ingannare la dabbenaggine d’un popolo credulone. Buon per loro che quel popolo credulone fu ammansito dalle vive raccomandazioni del San-to, altrimenti stava per reagire per vie di fatto contro coloro che avevano osa¬to chiamare ciarlatani e ingannatori quei santi sacerdoti. Il 4 giugno i missionari stavano partendo nascostamente, ma il popolo avu-tone sentore, accorse numerosissimo a salutarli. Gaspare fu costretto a parla-re ancora una volta all’ aperto davanti all’ immagine della Vergine, suscitando commozione e pianto in quella popolazione che si mise a correre dietro la carrozza, che si allontanava, gridando: «Padre santo, ritorna, ritorna!». Sono perle! «Primieramente dirò – scrive il Merlini – che riguardo al suo prossimo, in or-dine a Dio e secondo Dio l’amò… Non cercava che Dio e il solo piacere, il solo desiderio, la sola brama di portare le anime a Dio… Perciò tanti disgusti ed amarezze, tanti travagli ed umiliazioni, tante afflizioni, disprezzi…». «Il suo cuore, così tenero, non restava insensibile al dolore umano, sì larga-mente rappresentato in questo mondo, ove, diceva – Siamo tutti come malati in un grande ospedale -. Perciò la grande carità che si sprigionava dal suo cuore andava innanzi tutto al bene delle anime. Porgeva la mano confortatri¬ce ai tribolati, sollevandoli dalle pene… erano molti gli afflitti, che ricorreva¬no a lui e rimanevano consolati. Era talmente acceso da queste opere di carità che affrontava a volte lunghi viaggi per portare conforto e dispregiava perfi¬no la vita!». «Avendo un’alta concezione della Misericordia divina, accoglieva con estrema benignità i peccatori… Non ometteva, quando occorresse, d’ammo¬nirli, ma lo faceva con tale discretezza che non riuscivano a resistergli». «Non aveva timore d’essere vilipeso e, bramoso che tutti si salvassero, a tutti correva, anche se gli facessero torti e di lui sparlassero».«Sappiamo come giunse perfino ad amare i suoi nemici! Insultato, carcerato, cercato a morte, pregava e faceva pregare per la conversione di essi». «Quale abilità nell’in-durre a sensi di mitezza i cuori più ostinati e accecati dall’odio!» Basti pensare al suo apostolato tra i briganti e i settari. Insorgeva però contro chi infangava il buon nome altrui e contro la genia dei mormoratori. Ogni dolore poi trovava eco profondo nel suo cuore; perciò non si limitò la carità di Gaspare alla sola anima del prossimo. «Vedeva egli intorno a sé ignu-di da rivestire, poveri che alzavàn la mano per un tozzo di pane,, pellegrini che a notte gelida, picchiavano alla sua porta, malati giacenti sul letto del do¬lore e si adoperava a sollevare tante miserie e tutto dava, secondo le sue pos¬sibilità ai suoi poverelli». Quante volte fu visto, con la bisaccia sulle spalle, andar questuando per i suoi poveri! S. Gaspare non desiderava affatto danaro per sé, ma avrebbe voluto averne tanto per i bisognosi. Ricordiamo ancora il suo detto: «Per fare il bene ci vo-gliono la grazia di Dio e i denari». Confessava anche che a volte vedeva misteriosamente moltiplicarsi il denaro tra le mani. Lo si vedeva perciò di giorno e di notte aggirarsi per le viuzze, i tuguri e le stamberghe ed uscirne poi scal¬zo e senza indumenti, tranne la talare per ricoprire la sua nudità. Ai compa¬gni che uscivano di casa dava sempre qualche baiocco per i poveri, ed aveva dato ordine tassativo che nessun povero doveva allontanarsi dalla porta delle Case di Missione senza il conforto di «una minestra, una fetta di pane e un baiocchetto». Gli fu caro, fin da bambino, visitare gli infermi negli ospedali e, da Missio-nario, moltiplicò questa carità verso i malati. Quanti, colpiti da tanto amore, tornavano a Dio in punto di morte! Spronò i compagni a seguire il suo esem-pio; nelle Missioni i carcerati e i malati avevano la precedenza delle sue cari-tatevoli premure. Correva l’anno 1816 e Gaspare, che già godeva grande fama di santità, si trovava per una Missione a Porto d’Anzio, dove esisteva una specie di ricovero-ospedale in stato di completo abbandono. Egli, com’era sua abitudi-ne, si mise con i compagni a curare, pulire, lavare, medicare e rifocillare quei poveretti ivi ospitati e trattati così male. I malati dicevano: «È giunto un ar-cangelo dal cielo tra di noi e con lui tanti angeli pietosi!». Un missionario, più sensibile degli altri, chiamò un giorno Gaspare in di-sparte e gli disse: «Padre, non ho proprio più stomaco di continuare! Non tan-to per le piaghe, ma per certi insetti che passeggiano a centinaia sul corpo dei malati e nei letti. Sono pidocchi e li hanno anche sotto la pelle! Già me ne tro-vo anch’io tanti addosso». Il Santo, come se cadesse dalle nuvole, gli domandò: «Ma… ha guardato be-ne?… Che pidocchi? Vede… sono perle!» Il missionario sulle prime pensò che Gaspare lo prendesse benevolmente in giro per rincuorarlo, poi guardò e ri-guardò… «Sì, padre, ha ragione, sono proprio perle!» Ai compagni che, strizzando l’occhio, gli dicevano: «Hai fatto finta di cre¬derci, eh?» «No, no! – affermava convinto – Non potevo credere ai miei occhi. Non c’è che dire; giravo e rigiravo tra le mani quei cosetti… erano proprio perle!». Cadaveri nella palude Gaspare, senza riposare neppure un giorno, da Rieti si reca per una decina di giorni a Cittaducale, quindi immediatamente a Bagnaia, dove, sebbene co-stretto a letto con febbre alta, all’ ora della predica «sale sul palco ed è tale la sua facondia e lo zelo con il quale parla, da apparire il più sano del mondo». Da Bagnaia si reca a Porto D’Anzio: il vetturale che conosce poco l’itinerario, si sperde nell’intricata macchia di Nettuno, dove sono costretti a passare la notte. Ad Anzio si dedica con amore ai marinai e ai pescatori, che «trascurati da tutti, nella rozzezza e nell’ignoranza vivevano dimentichi d’ogni cognizio¬ne della fede e virtù cristiana». Con tanta carità passa anche intere giornate tra i condannati, i quali «chiusi in quei terribili Stabilimenti penali, non sen¬tendo mai la parola di Dio, si abbandonavano alla disperazione e a nuovi effe¬rati delitti, perfino nelle carceri». Siamo vicini a Natale e Gaspare, dietro le insistenze del Card. Mattei, si porta a Velletri. Gli abitanti di Velletri che per Natale avrebbero preferito di¬vertirsi anziché ascoltar prediche di penitenza, accolsero malvolentieri i Mis¬sionari e li deridevano; poi, affascinati dalla parola e dalla bontà di Gaspare, ricredendosi, lo costrinsero a rimanere fino ad oltre la metà di gennaio, orga-nizzando anche una processione di penitenza in piena notte! A Velletri, in quei giorni, arrivavano di continuo gruppi di cittadini dalla vicina Cisterna, che lo convinsero a recarsi colà, perché il popolo lo bramava tanto. Gaspare, che nella sua predicazione non andava alla ricerca di pulpiti ambiti, ma pre-feriva quei luoghi dove si soffre e pecca di più, vi accorre volentieri. A quei tempi Cisterna era ai confini delle Paludi Pontine, dove con le acque stagnanti, dominava la tristezza più cupa, la vita più tetra, e le vittime della malaria, del tifo e della malavita erano numerosissime. Preferiamo qui cede¬re la penna alla cronaca del tempo: «Mancavano soli 25 giorni al carnevale e gran festa si fece da quella gente nell’ udire la di lui venuta ed un clamore di gioia si risvegliò in ogni persona. E poiché giunse di notte, illuminate furono le vie ed all’ istante aperta la chiesa, suonarono le campane e la folla si riversò in massa». Cisterna era composta, nella maggior parte, di «bufalari, bifolchi e contadi¬ni, che lavoravano soprattutto nelle selve e tra gli acquitrini della Palude Pontina; erano chiamati comunemente ignoranti e delittuosi. Rapine, abigea¬ti, omicidi erano all’ordine del giorno». Grande fu dunque il bene operatovi dai Missionari. Gaspare, infatti comprendendo «lo stato miserando di quelle anime e di quei corpi» si diede a percorrere la palude palmo a palmo, tra i tuguri e le ca¬panne sparse in quell’acqua pestifera e micidiale, portando a tutti la benedi¬zione di Dio, una parola di conforto e qualche medicinale, incurante dei peri¬coli per la malaria e il tifo. Si imbatteva spesso nei pesanti carri tirati da enor¬mi bufali, che in cima al carico di erba o letame, mostravano spesso cadaveri gettativi nudi e scomposti che venivano portati alla sepoltura, senza un sacer¬dote, una croce, un lume e neppure un segno della pietà umana e cristiana. Si aveva più riguardo alle bestie macellate! Gaspare, sconvolto e inorridito, fermava quei carri e piangendo cercava di ricomporli; coglieva ciuffi d’erba e qualche fiore di campo, li deponeva su quei poveri corpi e li benediceva; quindi, seguendo il carro fino alla sepoltu¬ra, recitava le preci dei defunti. «Perché – chiedeva ai vetturali – tanta insensi-bilità?» e si sentiva rispondere: «In queste vaste maremme spesse volte i po-veri cristiani muoiono abbandonati da tutti e spesso restano all’aperto, preda di cani, porci e avvoltoi». Il Santo eresse allora a Cisterna la Confraternita del-la Morte i cui ascritti si impegnavano a far celebrare le esequie e a dare cri-stiana sepoltura ai cadaveri della Palude. Così cessò quello scempio! Nell’ultimo giorno della Missione giunsero da Velletri, con labari e stendar¬di varie Confraternite a prelevare i Missionari. Nel momento della partenza si scatenò un furioso temporale, ma il Santo «benedisse l’orizzonte con uno stendardo e l’acqua cessò all’ istante». Al passaggio della carrozza, ch’ era se-guita a piedi dalle Confraternite, i contadini accendevano fasci di canne e di sarmenti. Eran le due di notte quando giunsero a Velletri e vi trovarono il Duomo straripante di fedeli. Gaspare fu costretto a tenere una predica. Quando tutto il popolo fu rientrato nelle proprie abitazioni, «le nubi che da Cisterna avevano trattenuto le proprie acque, come ad un segno convenuto, si scaricarono a pioggia violenta». Un santo tra i briganti Gli episodi che qui narreremo sono storici e costituiscono forse la pagina, che più di ogni altra, ci rivela la statura gigantesca di Gaspare in tutta la sua personalità di uomo e di Santo. La parte di primo piano – più esatto sarebbe di¬re esclusiva – ch’egli ebbe nell’estirpare il ferocissimo fenomeno del bri-gantaggio nello Stato Pontificio tra il 1815 e il 1822, ce lo dimostrano non solo santo insigne e uomo dal cuore veramente grande, ma anche acuto pensato¬re, sociologo e accorto diplomatico, perché, senza acume e con la sola carità, non avrebbe potuto mai realizzare eventi d’una portata storica così determi¬nante. L’enorme successo non fu dovuto al caso, a combinazioni politiche, a compromessi, ad azioni improvvisate o di forza, ma solo alla chiara visione ch’egli ebbe di quella tristissima situazione, che i governanti di uno Stato co-me quello della Chiesa non erano riusciti neppure a scalfire, pur avendo ine-sauribili risorse umane, e soprattutto morali. Né armi, né legge del taglione, né feroci repressioni, ma intuito, coraggio, paziente insistenza, persuasione, e il Crocifisso, furono l’arma di S. Gaspare. La fantasia degli scrittori e degli storici si è sbizzarrita su un argomento così bieco ed attraente, ma è provato ormai che il brigantaggio ebbe la sua origine dalla leva imposta da Napoleone, sconosciuta fin allora ai tranquilli sudditi del Papa. Essa atterri e scompigliò la popolazione dei campi e delle monta¬gne, abituata ad una vita semplice e patriarcale. Giovani animosi, spalleggiati dalle famiglie e dal popolo, si diedero alla montagna e riuscirono a non farsi snidare dai gendarmi francesi. Partiti col nobile intento di resistere ai soprusi napoleonici, abbrutiti poi da quella vita alla macchia, abituati all’ ozio e al vi-zio, molti di loro non fecero più ritorno alle proprie case e si abbandonarono alla vendetta contro i delatori e ad ogni sorta di ruberia, anche dopo il ritorno di Pio VII a Roma. Il motto di libertà fu sostituito dall’intimazione:. «O la bor-sa o la vita!». Ad ingrossare le loro fila e ad aumentarne la ferocia concorsero ceffi di autentici criminali1 sfuggiti alla forca ed alla galera. In breve1 i brigan-ti come cavallette si erano gittati nella Regione di Marittima e Campagna1 la-sciando ovunque tali orme di barbarie e di sangue da far rabbrividire. Ine-briati dal successo, si diedero a prepotenze e delitti sempre più gravi, tanto più che, potendosi facilmente rifugiare oltre il confine nell’attiguo Regno di Napoli, era assai difficile catturarli. Avevano un proprio inconfondibile modo di vestire: giubbotti e calzoni in pelle di diavolo, bene attillati, cioce ai piedi, cappello a cono, inghirlandato da nastri bizzarri. L’ornamento (!) più vistoso era costituito ovviamente da pi-stole, coltellacci, pugnali alla cintola e tromboni a tracolla. I più feroci ama-vano portare con vanto una collana di orecchie mozzate dalla testa delle loro vittime. Per la ferocia erano chiamati comunemente i cannibali d’Italia. Se per disavventura si incontravano, 1′ unica cosa che si aveva tempo di fare era quella di segnarsi e raccomandarsi l’anima a Dio. Le loro donne vestivano al¬la ciociara e, per non essere da meno, al posto delle forcine infilavano nei ca¬pelli gli stiletti. Antonio Gasbarrone di Sonnino, il più famoso, era appellato il re dei brigan-ti; storici e pittori ce ne hanno tramandato gesta e sembianze. Impasto di bonomia e criminalità, accozzaglia di ferocia e cavalleria, terribile agli uomini e ai governanti, s’imponeva a tutti i suoi gregari. Dalla corporatura gigantesca, dagli occhi scintillanti, maestro in trovate originali e fantastiche, ora vestiva impeccabilmente da gran signore, ora attillato nella scintillante divisa da ufficiale, or da pecoraio, or con la tonaca da frate. Il suo nome affascinava una certa gioventù, pronta a tutto, pur di far parte della sua banda. Due giovani di Vallecorsa, in Ciociaria, presi da tale morbosa manfa, riusci-rono a farsi condurre alla sua presenza. «Cosa dobbiamo fare – gli chiesero -per venire con te?» «Uccidere almeno un uomo!» fu la risposta. Sulla via del ritorno i due incontrarono un innocuo vecchietto, tale Onorato De Bonis, no¬to per la sua vena allegra, e gli chiesero: «Che ora è?» e quegli rispose: «L’ora di ieri a quest’ora». «Invece è l’ora di morire» e lo stesero al suolo crivellato di pugnalate. Di corsa tornarono sulla montagna per mostrare ai briganti i pu-gnali ancora grondanti di sangue. Manco a dirlo, furono elogiati e… arruolati, come allievi coraggiosi e di grandi promesse! Non è affatto possibile narrare qui neppure alcune delle più famose gesta di queste belve sanguinarie, tuttavia è necessario riportare qualche episodio, onde capire meglio con quali ceffi ebbe a fare S. Gaspare, e mettere in mag-gior evidenza la grandiosità della sua azione. A Frosinone sedici persone furono trascinate dai briganti in piazza e truci¬date davanti alla popolazione inorridita. All’ udire tale misfatto, Gaspare si re¬ca a predicarvi una Missione per confortare il popolo. Di quella predicazione ci è stato tramandato un episodio che commosse tanto il Santo per la sua in-nocente semplicità. Un fanciullo, avendo saputo dalla mamma che 5. Gaspa¬re confessava i peccatori più… qualificati, ed in particolare briganti e carbo¬nari, riuscì ad accostarlo nella calca e, tirandolo per la veste, gli chiese di ascoltare la sua confessione. Gaspare, che amava tanto i bambini, lo prese in braccio e gli domandò: «Ma cosa hai fatto di tanto grave che vuoi confessarti?» «Padre, sono un brigante e un carbonaro.. .» Il Santo sorrise, l’abbracciò e lo benedisse, dicendogli: «Ora va, fa’ il bravo e andrai certamen¬te in paradiso». A Vallecorsa, la sera del Giovedì santo del 1814 avvenne una strage che, per la sua efferatezza, fa rizzare i capelli. Mentre una folla numerosissima vi¬sitava i «Sepolcri», un gruppo di briganti sbucò sulla piazza della chiesa di S. Martino e uccise il più nobile del paese sui gradini del tempio; quando qual¬cuno si avvicinò al moribondo per soccorrerlo, inferociti si avventarono all’ impazzata su quella povera gente e con pistole e pugnali ne trucidarono ben diciotto. Il fatto che inorridì maggiormente fu che una donna, mentre presa da terrore correva gridando in chiesa, fu raggiunta proprio sui gradini dell’altare dov’era esposto il Santissimo e finita barbaramente. Accortisi che un uomo, anche se mortaìmente ferito, era riuscito a nascondersi in casa, for¬zarono il portone e lo uccisero. A Terracina, con la complicità del portinario di quel Seminario, Gasbarro¬ne si presentò con i suoi sgherri e, puntando il pugnale al petto del Rettore, gli diede 1’elenco di dodici seminaristi appartenenti alle famiglie più facoltose della diocesi, intimandogli di consegnarglieli all’istante. Li trascinò nella pa-lude e, quando si vide circondato dai gendarmi, aizzò contro di loro un bran¬co di bufali inferociti, riuscendo a fuggire. I dodici ragazzi, per il momento, furono salvi, ma Gasbarrone non tardò a prendersi la rivincita. Con l’aiuto della banda del feroce Massarone, in assenza del Rettore, a notte inoltrata, se-questrò, tranne i domestici, trentasei persone, cioè seminaristi, dirigenti e professori. L’unico gendarme di guardia, da vero eroe, intimò l’alt, ma in ri-sposta si ebbe una nutrita scarica di fucili; un sacerdote che si accostò per be-nedire il cadavere fu trucidato a sua volta. Nel parapiglia due seminaristi fuggirono e portarono la brutta notizia al Vescovo. Accorsero i gendarmi e il popolo,ma ormai i briganti avevano raggiunto la montagna. Per otto giorni i prigionieri furono seviziati, perché ritardava il riscatto; qualcuno fu mandato, non senza i segni della loro ferocia, a sollecitare il danaro ; altri riuscirono a fuggire e nascondersi su per i monti, ma tre dei più giovani vennero uccisi e i loro corpi, fatti a pezzi, inviati ai parenti. Per anni. il popolo asseriva che, nel silenzio della notte, nel luogo del marti¬rio si sentivano canti armoniosi di giovinetti, come di melodie di angeli vo¬lanti nell’ azzurro del cielo stellato. Nel 1821 un gruppo di briganti rapi tutti i monaci di Camaldoli a Tuscolo, presso Frascati, lasciando solo un vecchio di cent’ anni, al quale dettarono le condizioni del riscatto. Quei religiosi alla fine furono fortunati. Un complice per aver salva la vita tradì i suoi compagni e guidò i gendarmi al nascondiglio. La banda fu catturata e i religiosi, anche se orribilmente seviziati, poterono tornare all’ eremo. * * * La baldanza dei briganti ormai non conosceva più limiti e le strade che con-ducevano nel sud erano insicure. Nessuna carrozza, anche se con nutrita scorta, la faceva franca! Veniva depredata con morti e feriti. Anche le popolazioni, avendo perso ormai ogni fiducia nelle forze dell’ ordi¬ne – proprio come avviene anche ai nostri giorni – pensavano a farsi giustizia da sé. Le famiglie erano ben provviste di armi, i genitori consegnavano come in un rito sacro i pugnali ai figli e facevano loro giurare vendetta sui corpi dei parenti uccisi. Ovviamente, in tal modo, si aprì una serie di carneficine e de-litti, i cui anelli non si spezzavano più. Le autorità inasprirono pene e repressioni; le teste mozzate dei briganti ve-nivano infilate sulle picche ed esposte sulle piazze e lungo le strade più fre-quentate; i briganti però avevano sempre la meglio. Le loro vendette erano rapide e terribili; bastava solo parlar male dei «lupi» per esser squartato ed appeso agli alberi, affinché i passanti apprendessero la lezione. Il popolo romano era terrorizzato, Pio VII avvilito! I covi più famosi dei briganti erano Vallecorsa e Sonnino, che portava il primato e venne chiamata Brigantopoli. Entrambi i paesi per le caratteristiche della loro costruzione si prestavano, come roccaforti inespugnabili, sia alla difesa, sia agli agguati. Paesi severi, pietrosi, dai viottoli stretti e acciottolati con enormi sassi, scalini altissimi e degradanti, quasi a picco tra le casucce, serrate da robusti portoncini con enormi e molteplici chiavistelli. Quella gen-te, per altro coraggiosa e fiera, era frastornata da pattuglie di gendarmi e branchi di malfattori, svegliata nel cuore della notte da archibugiate e grida laceranti, nelle quali spesso riconoscevano la voce di qualche persona cara. Da per tutto si cominciò a gridare, nelle vie di Roma, «Distruggete Sonnino!» E il 22 luglio 1819 su molte cantonate dell’ Urbe venne affisso un decreto del Papa, col quale si ordinava che, entro un mese, Sonnino fosse rasa al suolo. A questo punto drammaticissimo si leva una voce sola, calda, coraggiosa, decisa e implorante in difesa della popolazione: la voce di Gaspare. Ecco qualche brano della sua lettera al Papa: «Beatissimo Padre! La giustizia e la clemenza hanno sempre animato tutte le operazioni di V. Santità. Anche la demolizione di Sonnino è partita da uno spirito di giustizia; e questa demolizione è stata ben giustamente eseguita sopra le case dei mal-viventi… Ma consumata questa prima demolizione, pareva che dovesse su-bentrare la clemenza e che questa clemenza andasse a congiungersi con la giustizia, la quale può scaricarsi sopra dei colpevoli e non sopra quelli che tali non sono. Anzi, in addietro, si è sempre usato che, quando era grande il nu-mero dei colpevoli, se ne decimasse gran parte, e risparmiare gli altri, benché rei; all’incontro nel caso presente si verrebbe a delussare. (fare il contrario) La demolizione di Sonnino ora sarebbe tardiva… anzi inefficace… sarebbe poco conveniente alla mansuetudine eccelsa del Vicario del Dio della pace, se fosse inesorabile nella distruzione di un paese di tremila anime… Questa dispersione di tutti gli abitanti, sarebbe fatale per 1′ agricoltura… Il territorio di Sonnino è fertilissimo… e a poco a poco un territorio fertilissimo diverrà un deserto. Sarebbe inoltre pericoloso per la pubblica tranquillità il porre nel¬la disperazione una popolazione così numerosa… Se anche in minima parte si unisse al malviventi…! Inoltre la ulteriore demolizione… è ingiusta… non può cadere sopra innocenti, non si paga il prezzo di ciò che si demolisce e non… si emendano tutti gli altri disappunti. Dannosa… se si paga il prezzo… la somma di un milione o almeno mezzo milione appena sarebbe sufficiente… essendo insopportabile alle attuali forze dell’ erario. In ultimo la clemenza della Santità Vs. rivolga lo sguardo pietoso ad una in-tera popolazione, a cui non sono rimaste che le pupille per lagrimare!». Pio VII, animo sensibilissimo e che aveva in grande stima il Santo, nel leg-gerla ne rimase profondamente toccato. Ogni mezzo violento fu prontamente bandito e una somma fu accordata per la ricostruzione delle case demolite. Sonnino fu salva e nel giubilo acclamò Gaspare padre della citta e tale lo ac-dama anche oggi, celebrandone la festa con grande solennità, gioia e devo-zione. * * * La supplica tanto efficace di Gaspare non è da considerare un episodio iso¬lato, ma soltanto il primo passo verso un’azione grandiosa, coordinata e pro¬fonda per giungere non solo alla eliminazione del fenomeno del brigantaggio, ma al rinnovamento totale di tutta la popolazione, quindi ad una vera e pro¬pria riforma. Di questa si parlava fin dal ritorno di Pio VII, ma tutto rimaneva «in proget-to», anzi in innumerevoli progetti, a volte stravaganti; tutti però con proposte di feroci repressioni e niente all’ infuori di quelle. Gaspare, nella sua umiltà, non osava presentare le proprie proposte diretta-mente al Papa, ma ne parlava e scriveva spesso al Cristaldi, finché questi le fece sue e le presentò al Pontefice, caldeggiando il conferimento della loro at-tuazione, senza restrizioni, unicamente a Gaspare…. grande anima e di vir¬tù, uomo instancabile per attività, prodigioso per i grandi effetti». Seguiamo l’Apostolo fino in fondo nel suo programma di opporre alla fero¬cia la parola evangelica con insistenza certosina, persuasione, carità, istruzio¬ne, eliminazione di ingiustizie sociali e private. Pio VII approvò il piano senza riserva e il Cristaldi cominciò a trattare con Gaspare la difficilissima impresa. S. Gaspare già aveva percorso i vari paesi della Marittima e Campagna per comporre odi irriducibili, catechizzando con pazienza contadini rozzi e capar-bi, popolazioni litigiose e arroganti, ricchi orgogliosi e avari. I briganti aveva-no sentito parlare molto di lui, alcuni lo conoscevano, ed ora eccolo inerme contro quella turba sanguinaria annidata sulle montagne. Possiamo dire che si iniziavano le gesta storiche e titaniche di un eroe e di un santo! * * * Ed ora vediamo il Santo all’opera. Nell’ ottobre del 1821, percorre le montagne della regione, dove i briganti sono rintanati come in fortilizi inespugnabili; attraversa i paesi da essi più frequentati, accompagnato dal fedelissimo Bartolomeo, che non fa che tre-mare, ma che è più che mai deciso a morire, se necessario, col suo Padre san-to. Le autorità hanno insistito perché accettasse una scorta armata, ma ha sempre rifiutato energicamente. Questo viaggio di ricognizione ha lo scopo di trovare, almeno in sei paesi, un locale adatto per erigervi altrettante Case di Missione, perché egli resta fermissimo nel sostenere il principio che bisogna partire da Dio e perciò tante e tante Missioni capillari in ogni paese. Riportate le popolazioni a Dio, esse avrebbero osservato i suoi comanda¬menti e Dio certamente avrebbe, alla fine, toccato anche il cuore dei briganti. Fu comunemente ritenuto un esaltato, addirittura pazzo; è proprio vero che i così detti saccenti non conoscono le risorse dei santi. A chi sosteneva che sa¬rebbe bastata solo la scuola a riconciliare quelle popolazioni abbrutite, egli ri-batteva: «Sì, 1′ istruzione è indispensabile, ma non si è mai sentito dire che, senza il timore di Dio, si possano cambiare i costumi malsani della società. Quante persone coltissime ne commettono di tutti i colori in barba alla legge». Finalmente riuscì a trovare tre vecchi conventi abbandonati fuori dell’ abi¬tato di Terracina, Sermoneta e Sonnino. A lui sembrarono tre regge e la posi¬zione ideale per la libertà dell’ apostolato. Si oppose al Delegato di Frosinone che voleva assolutamente che i Missionari abitassero nel paese o che quelle Case fossero guardate da un picchetto di gendarmi in permanenza. Gaspare ribadisce sempre: «La mia unica arma sarà sempre il Crocifisso. Il suo Sangue scuoterà finalmente quei cuori così induriti». Si spinse solo su quei monti, mentre centinaia di occhi lo scrutavano con i tromboni spianati. Coraggiosamente si inoltrava negli anfratti alla scoperta delle caverne, li scovava, parlava un linguaggio d’amore e mitezza. Nessuno aveva mai parlato loro così! Avvinti da tanto eroismo, affascinati come da un essere arcano, non di questo mondo, gli cadevano ai piedi, gettavano lontano le armi, che prima gli avevano puntato al petto, baciavano le sue mani con ri-spetto. Gaspare aveva capito di aver scoperto il loro punto debole e scrisse al Papa, perorando la loro causa. Un giorno aveva incontrato dei gendarmi che portavano sul somaro, getta¬to come un sacco, il cadavere di un brigante ucciso e continuavano a dargli pugnalate, come fosse ancora vivo. Inorridito supplicò il Papa che, anche per un senso di civiltà, oltre che di pietà cristiana, si cominci a dare ai briganti una conveniente sepoltura, anziché portare in giro le loro teste, come tanti trofei di vittoria, infilate sulle picche, ed appenderne i cadaveri nelle piazze, istigando la popolazione e i monelli a punzecchiarli e a farne scempio con sadica efferatezza. A tarda sera le Case di Missione erano aperte ai briganti, che fiduciosi vi si recavano alla spicciolata. S. Gaspare giunse perfino a raccoglierne vari grup¬pi nella Casa delle Canne a Sonnino e per diverse sere egli tenne loro un cor¬so di Esercizi Spirituati. I passanti sentivano allora robustissime voci cantare canzoncine sacre e, ignare pensavano: quanti padri Missionari ci sono stasera nel convento! Ormai la fiducia dei briganti in Gaspare era completa, sicché egli poteva girare tranquillo ovunque; sotto la loro protezione, nessuno avrebbe osato fargli del male. Ormai, avrebbero dato anche la vita per lui. Scorgendolo saltavano fuori dalla boscaglia e andavano a baciargli la mano. Man mano la stessa fiducia nutrivano per i suoi compagni, i quali, guidati e incoraggiati da lui, giravano per quei paesi e si inerpicavano sulle montagne, cantando le Laudi delle Missioni, radunando la popolazione in chiesa o sulle piazze, e con la loro parola «la intenerivano fino alle lacrime». Tra i fedeli, qua e là, ben travestiti, non mancavano i briganti, sempre più bramosi di ascoltare la parola del Santo. Un fatto che ha dello straordinario ci viene narrato dal missionario D. Ros¬si: «Era il gennaio del 1822 e il Canonico Del Bufalo aveva appena terminato il panegirico di S. Antonio Abate, titolare della chiesa dei Missionari a Valle-corsa, quando, con improvvisa decisione, volle partire all’istante per Sonni-no. A quei tempi, tranne qualche breve tratto, quella strada si poteva percor-rere solo a piedi. Egli, camminando tra quei dirupi, nel fango e nella neve, in-zuppato fradicio fino alle midolla, cantava le lodi al Sangue Prezioso. Alcuni vallecorsani, ch’erano andati ad accompagnarlo fino a Sonnino, al ritorno narrarono: «Solo il Canonico poteva fare un tale sproposito! Ci siamo andati solo perché era lui, per chiunque altro non ci saremmo mossi per tutto l’oro del mondo, perché era un voler morire per la strada!» Narrarono anche che,ar¬rivati alle 22 circa, subito fece suonare le campane a distesa e, senza prende¬re un minuto di riposo, né qualcosa per rifocillarsi, inzuppato e intirizzito dal freddo, tenne una lunga predica sul piazzale della chiesa, dove il popolo era accorso, curioso ed anche spaventato a quel richiamo fuori orario». Perché mai tanta fretta e una predica a quell’ora? Sonnino era il principale covo di briganti, la cittadina dove non passava mattina che non si trovassero morti o moribondi nelle case e per le strade. Si seppe poi che il Santo quella notte aveva impedito un massacro, del qua¬le chi sa come, ma certamente per vie misteriose, aveva avuto sentore. Preparati a patire Chi si reca a Loreto, nella S. Casa, può leggere più volte sulla lapide, che porta scolpiti i nomi dei Santi che la visitarono, anche il nome di S. Gaspare. Egli ne era devotissimo e non mancava di recarvisi a pregare, specialmente quando si trovava nelle Marche. Ogni volta, come egli stesso asserisce, ne eb¬be grazie e rivelazioni molto importanti. Nel 1821, nel momento culminante del suo apostolato per la conversione dei briganti, vi si recò con D. Biagio Va¬lentini e si raccolse nella piccola Casa, ove pregò a lungo; anzi al dire del Va¬lentini, ebbe con la Vergine «un lungo colloquio», dal quale uscì infiammato nel viso e «quasi fuori di sé». Accostatosi al confratello, esclamò sospirando: «Croci, croci, croci!» E delle tante croci che avrebbe dovuto subire ebbe poi subito conferma durante la celebrazione della santa Messa all’ altare di S. Chiara a Montefalco. Sentì una voce ben distinta che gli giunse dall’Alto: «Prepàrati a patire». Ma fin’allora la sua vita non era stata forse una continua sofferenza fisica e morale? I santi sono sempre preparati e pronti ad accettare il dolore; ma il colloquio con la Vergine e la voce arcana erano il preludio d’una tempesta inaudita e infernale, che stava per abbattersi su di lui, ed anche un segno che la Vergine sarebbe stata sempre al suo fianco. Ella aveva gia rivelato ad un’ anima santa che la Congregazione di Gaspare era nata sotto la sua prote¬zione e l’avrebbe sempre difesa. Non erano certo le sofferenze dovute alla sua malferma salute che poteva¬no impressionarlo; anzi affermava sempre: «Il Ministero mi rende leggiero come una piuma e non godo mai tanta salute come quando vado in Missione». Ciò che invece trafisse il suo cuore fu la guerra aspra, senza quar¬tiere e senza esclusione di colpi, che gli mossero non solo i civili e i settari, ma anche alcuni del clero e perfino qualche superiore ecclesiastico. Anche tra i suoi figli vi fu un «giuda». La conversione dei briganti veniva a ledere troppi interessi, a cominciare da quei biechi personaggi che occupavano le più alte cariche dello Stato e nell’ esercito. Essi, infatti, anziché reprimere, avevano tutto l’interesse di alimentare il brigantaggio, e finirono per allearsi segretamete anche con i Carbonari per i lauti guadagni che ne ritraevano. Mentre sul principio deridevano il Santo, perché s’illudeva di riuscire a convertire tipi così feroci con le sue accorate prediche, quando constatarono che, a poco a poco,i briganti diminuivano, cominciarono a temere per il dop-pio stipendio, i guadagni sottomano, e del loro stesso posto. Scatenarono di conseguenza una lotta subdola contro di lui e i suoi compagni, cercando, in-nanzi tutto, di farli passare agli occhi dei briganti come spie del Governo e traditori; poi vedendo che i briganti non abboccavano, inasprirono con fero¬cia inaudita la già dura repressione; in fine accusarono Gaspare presso i vari Pontefici, con le più abbiette calunnie. Pio VII, che ben conosceva il Santo e lo aveva tanto caro, non cadde nel tranello; invece, sia Leone XII che Pio VIII, anche se poi si ricredettero, vi prestarono fede. Leone XII giunse a proi¬bire 1′ uso del titolo del Prez.mo Sangue all’ Istituto e Pio VIII, in un primo mo-mento, a sopprimere la Congregazione. S. Gaspare, nel fondare la nuova Congregazione, s’era proposto non solo di convertire i briganti, ma un rinnovamento di tutta la Società d’allora ed il suo ritorno a Dio. A questo fine aveva coraggiosamente e in parole chiarissime presentato a Leone XII tramite il Cristaldi un «Piano di riforma dei popoli». In esso, parte dal culto al Sangue di Cristo Redentore, «arma dei tempi» per combattere le nuove ideologie. Gli errori, infatti, s’erano infiltrati perfino nelle file degli ecclesiastici e mira-vano non a distruggere qualche dogma, ma «era la lotta a Cristo Signore nella sua totalità e a scardinare la Chiesa». Perciò metteva in evidenza la necessità di un piano di riforma generale, a cominciare proprio dal clero. «Nei miseri tempi nostri – diceva il Santo – è generale la crisi dei popoli e indicibile la perversione delle’ massime e del costume». «Il Signore non è contento del clero; oggi i prela¬ti si abbandonano a gozzoviglie, danze e veglie…». Ed ecco cosa propone: Ri- forma del clero ed in particolare della Gerarchia. I Religiosi siano richiamati alla vita comune, ripristinando 1′ antica osservanza e vivendo una profonda vi¬ta interiore. I Prelati, dei quali egli denunzia la leggerezza dei costumi e la vita dissipata, siano richiamati ad una vita austera, che onori la dignità che rivesto¬no. I Vescovi osservino l’obbligo della residenza in diocesi, pascano con ocula¬tezza e dolcezza il loro gregge e abbandonino ogni avidità e brama d’onori. A presiedere le Delegazioni Pontificie nello Stato siano nominati prelati degni, maturi e imparziali. I giovani prima d’essere consacrati sacerdoti, osservino un periodo più lungo di formazione spirituale ed intellettuale, perché nel clero c’è molta ignoranza. Si istituiscano Case del Clero per una vita comune del clero secolare. È penoso vedere preti e laici, che vengono a Roma per disbrigare pra¬tiche presso la Curia, attendere giorni e mesi prima d’essere ascoltati! Perciò ènecessaria una riforma della burocrazia. Gaspare, fin d’allora, suggerì anche quanto poi attuerà Paolo VI, cioè l’abo-lizione delle Guardie Nobili «composta da giovani viziati ed oziosi» e la rinun-cia alle cariche religiose e civili da parte di persone anziane: «Ognuno deve reggere il peso che può» per non danneggiare la Chiesa e lo Stato. Gaspare che conosce i grandi privilegi e le ricchezze dei nobili e dei ricchi possidenti, implora dal Papa scuole pubbliche e l’ammissione gratuita nei Collegi di gio-vani di particolare capacità e intelligenza, per dare anche ai poveri la possibi-lità di studiare e accedere ai pubblici impieghi. Fu a questo fine che andava ideando già la fondazione del ramo femminile della sua Congregazione col fi-ne di educare ed istruire gratuitamente i fanciulli del popolo. Giovanni XXIII, che conosceva bene la vita di S. Gaspare, nell’ Allocuzione alle rappresentanze dell’Azione Cattolica il 10.V. 1965 a Roma, disse: «Gaspa-re Del Bufalo, autentico apostolo romano, può ben essere annoverato tra i precursori del vostro movimento». Un piano satanico Ed ora seguiamo il Santo nel suo lunghissimo calvario. Dopo la morte di Pio VII, salì al trono pontificio Leone XII, un uomo di tempra forte e di carattere assai deciso. Egli, da Cardinale, aveva strettissima amicizia con Gaspare ed era solito farlo prelevare spesso con la sua carrozza, dopo le prediche nelle va-rie chiese di Roma, per averlo a palazzo e trattenerlo in conversazione e rice-verne consigli. Gaspare sperò che questo papa lo assecondasse, invece… le contrarietà au-mentarono e non gli restò che confidare in Dio e continuare il suo apostolato nel martirio. Le sue pene toccarono il vertice quando un gruppo di briganti che, dietro le esortazioni di Gaspare si erano arresi, dietro formale promessa di immunità e perdono, furono invece incatenati e condannati a vita o barba-ramente uccisi. Eppure le promesse erano state fatte in modo formale dal Go-verno. «Siamo stati traditi» gridavano dietro le sbarre, e prima di morire rifiu¬tarono i Sacramenti dalle mani dei «traditori». Gaspare, a questo punto, comprese che non erano solo gli impiegati che tramavano, ma il marcio si annidava tra le’ più alte sfere. Sempre eroico nel subire le offese e sempre rispettoso verso le autorità, egli non si ribellò mai, seppe soffrire in segreto, ma, come gli dettava la coscienza, protestò con energia e non volle mai più occuparsi delle trattative di resa. I briganti, dal canto loro, fecero pagar caro il tradimento a chi ne aveva la colpa, ma non di-minuirono mai la loro fiducia verso il Santo; anzi con una famosa lettera scrit-ta al Merlini, gli chiedevano che fosse egli solo ad implorare pietà per loro presso il santo Padre. Ma, Gaspare, per tutta risposta alle sue iniziative «ven-ne chiamato con molta importanza e sussiego da mons. Delegato di Frosino-ne, che lo rimproverò aspramente». Ma il prelato fu costretto poi ad abbassa-re tanta prosopopea e chinare la testa quando il Santo, con rispetto e la fer-mezza di chi ha la coscienza in regola, gli rintuzzò punto per punto ogni adde-bito. Ma non è finita. Gaspare viene accusato a Roma di tener prediche fredde e di non parlar mai contro il brigantaggio, trasgredendo gli impegni che s’era assunto nell’aprire le Case di Missione in Ciociaria. Con lettere diffamatorie, egli e i suoi furono addirittura accusati di favoreggiamento ed amicizia con i banditi. Nel campo delle calunnie, per quanto assurde e infami, si suol pre¬star quasi sempre più fede al diffamatore che al diffamato. Nella Chiesa, poi, c e una larga schiera di Canonizzati, divenuti santi proprio per le sofferenze ad essi procurate da chi «sempre a fin di bene» li ha ricoperti di infamie. I ca-lunniatori spesso, anche se in buona fede, ma con leggerezza, sono elogiati dai superiori per il loro zelo e così la loro perfida genfa prende più vigore. Gaspare, col progetto di riforma, aveva toccato tasti troppo scottanti, irrita¬to personalità e insidiato gli interessi di troppe eccellenze e di qualche porpo¬rato suscitando un vespaio da non dire e perciò doveva pagare dolorosamente e a caro prezzo tanto ardire. Fu chiamato a difendersi e lo fece con una lettera efficacissima e circostan-ziata, confondendo i nemici e, innanzi tutto, con il fine di aprire gli occhi a Leone XII. Ogni lettera del Del Bufalo è un capolavoro di equilibrio, aliena dall’offesa e dalla vendetta, ma senza alcun cedimento, perché mette in piena luce la verità. A volte, in esse, non manca neppure l’ironia prettamente ro-mana: «Come fanno costoro a dar giudizi, se non sono stati presenti mai, nep-pure ad un mio catechismo?» Ma quanto soffre! Per il suo cuore sono conti-nue e dolorisissime pugnalate! Con la morte nel cuore, col fisico prostrato dal dolore e dal lavoro, continua senza sosta e con tutto il santo ardore l’apostolato nelle mefitiche Paludi Pon-tine, dove contrae una pericolosa febbre perniciosa, dalla quale per altro, egli stesso dice di essere guarito subito per intercessione del suo Saverio. I nemici, sempre più spietati, non gli danno tregua; particolarmente cocen¬te è il suo dolore quando vede togliersi il piccolo sussidio assegnato dal com¬pianto Pio VII alle Case di Missione in Ciociaria. L’ Istituto è già nella più nera miseria; i Missionari soffrono anche la fame, mancano dell’essenziale per coprirsi, hanno addirittura un solo ombrello in casa. Eppure continuano ad arrivare lettere al Papa che lo accusano d’essersi arricchito con lauti compen¬si ed offerte; egli che si spogliava dei suoi vestiti e tornava spesso a casa con la sola veste talare sul nudo corpo, senza calze e scarpe, in pieno inverno per¬ché donava tutto ai poveri! Lui, che un giorno rifiutò sdegnato una cospicua offerta in monete d’oro, da chi cercava corromperlo e tirarlo dalla sua parte, rispondendo: «Non oro, ma anime!»; lui che rifiutava, e altrettanto imponeva ai suoi, elemosine pingui per la celebrazione di sante Messe e lasciti per l’Isti-tuto. La sua Congregazione ricca? Ma se ogni tanto qualcuno dei suoi figli, pur con lo strazio nel cuore, se ne andava perché si pativa la fame e non si po¬teva curare per mancanza di mezzi! Non tutti erano nati per fare gli eroi! I nemici non demordono e, irritati dall’eroismo del Santo, mirano a scardi-nare dalle fondamenta il suo Istituto. Il Preziosissimo Sangue! Come ardiva questo prete superbo ed esaltato esporre il nobilissimo ed augusto Prezzo del-la nostra Redenzione alla profanazione di tutti, unendolo al nome della sua traballante Congregazione? Questo falso zelo non contrasta certo con la loro malignità. Purtroppo Leone XII li ascolta e, in pubblica Udienza, di sua mano cancella il titolo «Prez.mo Sangue» su un libro che il Missionario D. Betti gli aveva presentato in omaggio e lo sostituisce con quello di «SS.mo Salvatore». Fin quando si è trattato della sua persona, il Santo ha taciuto e sofferto; ma or che si tratta della denigrazione dei suoi compagni e soprattutto dell’ Opera voluta chiaramente da Dio, scrive al Cristaldi: «Ella è in obbligo di far cono-scere a sua Santità che le cose esigono esame… Qui trattasi di cosa gravissi¬ma, onde non far apparire noi come impostori. Il 5. Padre un giorno conosce¬rà ciò che ora non vede e piangerà di aver usato nelle Udienze un metodo non secondo Dio. Non sono né di ferro, né di bronzo… aver continui rimproveri, senza esame, senza processo… e un calice ben amaro!». Il Cristaldi chiama immediatamente a Roma Gaspare, ch’era in Missione e lo presenta al Papa, dopo averlo fatto incontrare con Mons. Soglia, suo segre-tario privato. Gaspare riferendo sul colloquio col Prelato, dice: «Ad un punto ho inteso su di me una forza superiore e tale che Monsignore quasi piangeva. Se avessi in un foglio quel che ho detto su tal punto!…» Seguì l’Udienza papale e il Pontefice riferì a Gaspare tutte le accuse. Gaspare, per circa un’ora, chiari tutto ed in particolare sul titolo del Prez.mo Sangue, in base a.testi scritturali e patristici, e come fosse stato già approvato da Pio VII; parlò dei suoi Compagni, facendogli nomi di persone famose nella Chiesa per dottrina e santità. Il Pontefice volle vedere le Regole e se ne compiacque. Poi doman¬dò come si comportassero i suoi Compagni. Gaspare disse: «Sono pronti a ve¬nire tutti ai Vostri piedi e siamo pronti a chiudere tutte le Case dell’ Istituto se questo è il desiderio di Vostra Santità». Il Pontefice non poté resistere alla commozione; levatosi in piedi abbracciò Gaspare e gli disse: «Capisco, avete molti nemici, ma Leone XII è con voi». In seguito il Papa, in pubblica Udien¬za ritrattò il suo giudizio sul Santo ed esclamò: «Il Canonico Del Bufalo è un angelo, è un santo!». I nemici sconfitti sul terreno della calunnia, tentarono la via della lode sperticata, sfruttando la grande stima che il Papa aveva dimostrato al Santo. Il Papa forse non pensò alla loro satanica perfidia; così riuscirono in parte nei loro disegni: impedire a Gaspare la predicazione delle Missioni. Quali furono le conseguenze di tanta stima? Una mazzata! Il Papa voleva elevarlo alla porpora, poi cedette di fronte al rispettoso rifiu¬to di Gaspare, ma gli propose la nomina ad Arcivescovo, destinandolo alla Nunziatura in Brasile. Gaspare ricorse ancora al Cristaldi pregandolo di far capire al Papa che la sua unica aspirazione era quella di morire missionario. Leone XII, certamente contrastato, da tanti rifiuti, lo destinò quale addetto alla Congregazione di Propaganda Fide, e niente più Missioni! Per quanto in quest’incarico egli potesse anche aiutare e difendere il suo Istituto e far molto bene per le Missioni Estere, si sentì tuttavia come un uccello, al quale abbia¬no tarpate le ali. La perfida trama del Delegato di Frosinone e dei suoi degni adepti era quasi riuscita! Ancora spasimi! Leone XII non solo dette piena ragione al Santo, ma indicendo nel 1825 l’Anno Santo e accettando quasi tutte le sue proposte sul progetto da lui pre-sentato, diede mano alla Riforma. Nel 1826, con propria Bolla, riconobbe uf-ficialmente il titolo di «Congregazione dei Missionari del Preziosissimo San-gue» alla Fondazione di Gaspare. Riaprì quindi la «gabbia» e Gaspare poté ri-prendere, con piena libertà, il volo, col cuore infiammato dall’ideale che lo pervadeva. Un pieno trionfo? Sì, ma di breve durata. Il 15 febbraio 1829 morì Leone XII e venne elevato alla Cattedra di Pietro il Card. Castiglioni, che assunse il nome di Pio VIII. Manco a dirlo, i nemici riaffilarono le armi, decisi ad abbatterlo definitivamente. Sul tavolo del nuo¬vo Papa andarono ammucchiandosi presto fascicoli di lettere con le ben note e solite accuse. Pio VIII, impressionato, tolse ogni assegno alle Case di Mis¬sione e, un giorno che scorse Gaspare tra i fedeli che si erano recati alla pub¬blica Udienza, prese a riprenderlo aspramente alla presenza di tutti. «Voi sie¬te l’Istitutore dei Missionari del Preziosissimo Sangue? Avete il Rescritto del nostro Predecessore?» Gaspare che era andato all’ Udienza Generale, come un qualsiasi fedele e non s’aspettava perciò una simile richiesta, non aveva alcun documento a portata di mano. Rimase interdetto, anche per il sistema poco… ortodosso del Papa, il quale per altro senza neppure dargli tempo di ri-spondere continuò: «Il vostro Istituto è nato nella superbia!» e, come dice la cronaca «urtato da malumore e dall’érpete che molto lo molestava», continuò a levare la voce con più forza «facendogli una buona rimenata». Alla fine cac-ciò il Santo gridandogli: «Avete sempre operato di testa vostra! Andate via e sappiate che vi tolgo tutte le facoltà, così imparerete a vostre spese». Se un fulmine fosse caduto addosso a Gaspare non gli avrebbe fatto più tre-menda impressione. L’organismo malato e i nervi scossi gli procurarono un forte collasso e poco mancò non cadesse al suolo svenuto. «Richiamando tutti i motivi di religione, lasciò la Sala delle Udienze, barcollando e pallido in vol-to. Giunto sotto il colonnato si senfi morire e fà costretto ad appoggiarsi ad un pilastro». Non mancò il fiizzo infernale di chi, gongolante, s’era goduta la scena e l’aveva seguito: «Ecco il famoso Padre Generale dei Missionari del Preziosissimo Sangue.. che se ne torna a casa con la coda fra le gambe, come un cane bastonato!» Egli non reagisce, sa che in tutto c’è un disegno di Dio, né concepisce alcun rancore contro il Papa. Ai suoi che, al rientro in casa, lo vedono «come uno straccio» e capiscono che il Papa lo ha accolto male, dice, scusandolo: «Non è colpa sua, è malato e poi gli hanno rappresentato cose contrarie all’ Istituto». Come in tutti i frangenti, corre dall’ impareggiabile amico Cristaldi, getta nel suo cuore tutta l’amarezza di cui trabocca il suo animo e lo prega d’inter-venire. Il Cristaldi lo calma, lo fa salire nella sua carrozza e lo accompagna a far visita a vari Cardinali amici per decidere sul da farsi. Venuto il momento opportuno è il Card. Odescalchi a parlare al Papa deJlo zelo, dell’ umiltà, della santità e sottomissione di Gaspare. Pio VIII mostra all’ Odescalchi un enorme fascio di esposti e dice: «Vedete quanto avrei da dire io!» Il Cardinale conti-nua nella difesa, fa la storia di simili precedenti e della malignità e dei motivi per i quali Gaspare è perseguitato; mette in rilievo come quei ricorsi siano anonimi o con false firme, o firmati con nomi di persone che ne sono all’oscu-ro, come ad esempio delle Comunità dei Padri Liguorini di Frosinone, che non appena seppero d’una lettera diffamatoria con le loro firme, caddero dalle nuvole. In fine il Cardinale mostrò al Papa il Rescritto di Pio VII che istituiva ed approvava la Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Pio VIII nel leggere la firma di quel santo Pontefice martire di Napoleone, la baciò e scoppiò in lacrime e disse: «Eminenza, dite tutta la mia stima al Canonico Del Bufalo, ogni giorno benedirò il suo Istituto, allorché alzerò il Calice del Sangue di Cristo nella santa messa». Gaspare è con un gruppo di confratelli presso il teatro Domiziano in Roma, quando il 30 novembre 1830 gli annunziano la morte di Pio VIII, dopo soli venti mesi e mezzo di pontificato. Ne rimane tanto amareggiato e si raccoglie in preghiera. Poi, accendendosi improvvisamente in volto, ha un fremito in tutta la persona e, illuminato dallo Spirito, profetizza: «Il successore di Pio VIII avrà un lungo pontificato e regnerà bene, ma dopo di lui, sotto un altro pontefice, la Chiesa soffrirà grandi tribolazioni, con spargimento di sangue». I tempi, purtroppo, gli diedero ragione! Nella tormenta un candido Fiore Mentre la tormenta della persecuzione infuria contro il Santo ed il suo cuore sanguina, ecco che uno di quei tratti misericordiosi e dolcissimi dell’Amore Divino viene ad inondarlo di immensa gioia. Proprio a Vallecorsa, uno dei più fiorenti covi di briganti, dove il più efferato delitto ha macchiato i gradini dell’altare ov’era allestito il Sepolcro del Giovedì Santo, dove ogni pietra era te¬stimone di continui massacri, dove ogni famiglia’ si armava e giurava vendetta, sbocciò un candido fiore, Maria De Mattias, l’unica nella storia di quella citta¬dina, che sarà innalzata un giorno, come Gaspare, agli onori degli altari. Una sera, non appena Gaspare salì sul palco per tenere la sua predica, egli che mai fissava persona durante le prediche e donne in particolare, sentì una forza misteriosa, che lo costrinse a posare lo sguardo su una fanciulla, che, a sua volta, lo guardava rapita. Fu un solo istante, l’istante del miracolo! Rimase egli stesso colpito dall’ espressione di rapimento di quel viso levato verso di lui e da quegli occhi che con candore lo fissavano come in estasi. La mente del santo Missionario rivide in un baleno la scena delle carceri, ricordò le parole dell’Albertini e la profezia che lo preconizzava anche fonda-tore d’un ramo femminile della sua Congregazione. Non aveva mai visto pri-ma quella fanciulla, non le aveva mai parlato, non sapeva chi fosse, ma intui subito che sarebbe stata la sua anima gemella, confondatrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ecco perché tutti i tentativi fatti fino a quel giorno, or per un motivo, or per un altro, erano andati a vuoto. Era lei la pre-scelta da Dio! Dal canto suo Maria, folgorata da quello sguardo, lo elesse subito nel suo cuore a padre e maestro. Maria, proveniente da famiglia agiata, irreprensibile per onestà e pietà reli-giosa, aveva già deciso di farsi suora e andò al confessionale a chiedergli con-siglio. Gaspare, senza esitare, le disse con chiarezza che Dio la chiamava alla santità non in un eremo, bensì all’apostolato in mezzo al popolo. Le mostrò il Crocifisso e le disse: «Sei chiamata ad operare fra le donne, quel che io opero per condurre a Lui le anime, affinché le purifichi nel suo Sangue». Sebbene il Santo fosse certo della Volontà di Dio, le suggerì di chiedere consiglio anche a qualche dotta e santa persona, perché nella sua umiltà e prudenza pensò che avrebbe anche potuto sbagliare. Maria si recò al Santua-rio della Civita, presso Gaeta, dove viveva D. Giuseppe Addessi, sacerdote famoso per dottrina e santità. E – ci narra il Merlini – prima che Maria aprisse bocca il pio sacerdote «le rivelò l’interno», confermando il parere del Canoni-co Del Bufalo. Gaspare però non affretta i tempi; devono passare anni di riflessione e di preghiera; l’affida alla direzione spirituale di D. Giovanni Merlini, raffinato conoscitore di anime e insigne maestro di spirito, nonché ricco di santità. So¬lo quando si sarà liberata da certi difetti di gioventù ed avrà eliminato ogni scoria di vanità umana, irrobustita dalla fede e nella piena consapevolezza del pensiero di Gaspare, potrà intraprendere quel cammino al quale Dio l’ha destinata. Eccola intanto, dopo la morte della sorella e della cara mamma, ad essere l’unica donna di casa a servizio del babbo e dei fratelli; eccola a radunare in casa amiche e fanciulle per insegnar loro il catechismo e divertirsi santamen¬te con loro; eccola con entusiasmo ad essere la prima della lunga fila a cari¬carsi di pietre, di peso superiore alle sue forze, per il restauro della chiesa di S. Antonio Abate e la costruzione della Casa di Missione. Finalmente, a 28 anni, il primo marzo 1834, con la benedizione del babbo, che finalmente èriuscita a convincere, parte alla volta di Acuto, in quel di Frosinone, dove si reca, come dice chiaramente al Vescovo, a fondare un nuovo Istituto, che avrà per fine, secondo le direttive di Gaspare, di dare gratuitamente ai figli del popolo educazione ed istruzione religiosa e morale. Gaspare che rimane sempre il regista di quest’ Opera, per la quale ha già dettato una prima bozza di Regola, sarà sempre il suo padre e ispiratore, an-che se si nasconde e lascia al Merlini il compito di consigliere e direttore. La storia di questa fondazione si snoda come quella di Gaspare all’ insegna della sofferenza, delle persecuzioni e del martirio. Solo la sua fortezza di spi-rito ed il fiero carattere ereditato dalla sua terra, sapranno averne ragione. Ella ha il carisma dell’ apostola, parla «meglio di un prete» e i Vescovi le or-dinano di predicare anche in chiesa, perché affascina, entusiasma, attrae, converte. Non è da meravigliarsi se le chiedono di continuo le sue suore, che, da lei formate, ne ricopiano la spiritualità e, a loro volta, come lei, diventano apostole e maestre. Prima della sua morte si contavano già sessanta Case in Italia e all’ Estero. Le malignità più crudeli sulla sua virtù la fanno soffrire, ma non l’abbatto¬no. Il Sangue di Cristo è per lei 1′ unica fonte di gioia e di forza; il Signore l’ar-ricchisce di doni soprannaturali: scrutamento dei cuori, estasi, guarigioni, prodigi umanamente inspiegabili. Sul letto di morte, all’età di 61 anni, fra indicibili sofferenze, parla per un’ora intera della Passione di Gesù. È il suo ultimo canto terreno al Divino Agnello! Un’ulcera alla lingua le toglie la parola; allora fa cenno alle sue suo¬re, che in lacrime circondano il letto, di cantare con gioia un inno al Preziosis¬simo Sangue. Maria, spirando santamente, andrà a continuare il canto in Cielo, a fianco di Gaspare, dove l’eternità e la gloria li hanno resi inseparabili. Il terribile aguzzino Le Marche, tra le Regioni dello Stato Pontificio, godettero il privilegio dell’assidua evangelizzazione di S. Gaspare e furono anche teatro di eventi straordinari e numerosi aneddoti, che caratterizzano di solito ed ovunque l’apostolato del Santo. Scorrendo il nome delle sue belle città e dei suoi riden¬ti paesi, sembra proprio che egli non ne abbia trascurato alcuno, tanto è an¬cora viva la sua memoria ovunque. Perciò, fin dai suoi tempi, fu chiamato «Apostolo delle Marche». Ancona godeva dell’appellativo di «Roccaforte antipapale», perché vi pullu-lavano settari, carbonari, atei a non finire. Dopo la famosa Missione di Rieti, Gaspare vi fu invitato con insistenza, almeno per una decina di giorni, spe-rando potesse anche cambiare un po’ il volto anticlericale di quella città. Non appena si apprese la notizia del suo arrivo «i malvagi diffusero tra il popolo dicerie e calunnie contro di lui» e convinsero un buon canonico della Catte-drale ad andargli incontro per dissuaderlo dal compiere quel viaggio, perché gli anconetani erano in subbuglio ed ostili, sicché c’era da temere per la sua vita. Gaspare, che capì il trucco, fece con coraggio l’ingresso in città con i suoi compagni, accolti dal clero e dal popolo, al contrario di quanto era stato detto, con grande gioia e solennità e «fu tanto l’entusiasmo e il successo, che, invece di dieci dovette rimanervi ventitré giorni». Restarono sbalorditi gli avversari quando dovettero constatare che nell’ultimo giorno della Missione si contarono ben trentunmila Comunioni! Ma «sulle orme di tanta grandezza – scrive lo storico – spuntò ben presto il fiore del Calvario. A Camerino, ove Gaspare si era recato con i suoi dopo An-cona, vennero dileggiati pubblicamente». L’Università di Camerino era allora più famosa e frequentata di oggi; vi si stampava il «Giornale Ragionato», umile seguace della Dea Ragione d’Oltral-pe, il quale, senza neppure attendere 1′ arrivo di Gaspare «iniziò una lotta sleale», contro il «pessimo errore delle Missioni», biasimando «il diritto che si arrogava il Can. Del Bufalo – definito un esaltato – d’esser accolto con grande pompa». Vedendo però che il popolo la pensava ben diversamente e l’aveva accolto con grande gioia e accorreva in chiesa ad ascoltarlo, il «Giornale Ra¬gionato» proseguì più accanitamente la campagna denigratoria. Gaspare fu definito «Mimo da teatro, circondato da ridicole maschere per ingannare i sempliciotti». Essi si professano perfino scandalizzati, perché una «Religione così pura» sia profanata da un prete tanto orgoglioso! Li chiamano «primo amoroso», il Valentini e Mons. Sillani «tenori», il Tarulli «basso», il Piervisani «soprano» e Mons. Strambi – il santo vescovo di Tolentino – «comparsa». L’effetto fu assai contrario alle loro aspettative, tanto che Gaspare dovette trasferirsi dalla chiesa a predicarè in piazza, tanta era la folla! Ed ecco che, proprio a Camerino, il Signore che, nella sua bontà sa tempe¬rare sempre il dolore con la gioia, dispose un inatteso incontro di Gaspare con un suo terribile carceriere. Una sera in Duomo, mentre discendeva dal palco, un uomo, piuttosto an-ziano, gli si gettò ai piedi e si diede a gridare: «Perdonatemi, Padre, delle grandi sofferenze che vi ho inflitto!» Il Santo, sorpreso, cercò di confortarlo, ma quegli continuò, con voce ancora più alta: «Padre Santo, guardatemi bene in faccia! Possibile che non mi riconoscete?» Quanti visi buoni e malvagi pas-savano ogni giorno davanti al suo sguardo! Chi mai era costui? «Padre, vi ho tanto martoriato, non sono degno di stare nemmeno qui ai vostri piedi. Per-donatemi, perdonatemi! ». Gaspare lo fissò più attentamente e, sebbene il tempo avesse sbiancato quei capelli e scavato profonde rughe su quel volto, riconobbe in lui un suo sorvegliante nella prigione di Bologna. Lo abbracciò con slancio, lo strinse al cuore, lo baciò e lo ringraziò per avergli dato la possibilità e il privilegio di soffrire per Cristo. L’ ex gendarme narrò ad alta voce quanto aveva fatto al Santo e concluse: «Padre, non vi lamentavate mai! Eravate un angelo in car-ne!». Si può facilmente immaginare cosa avvenne in chiesa! Commozione, lagri¬me, esultanza! E cosa avvenne in piazza, quando si venne a conoscenza del toccante episodio. Anche questa Missione si concluse con 1′ erezione di una grande croce¬ricordo, ai piedi della quale si bruciarono in gran quantità, armi e libri cattivi, mentre la folla non cessava di acclamarlo «Apostolo delle Marche e martello dei Carbonari». Gaspare, umilmente, ripeteva in cuor suo: «Gloria a te solo, Signore!». Acqua che non bagna «Ad un suo cenno cessavano, come d’incanto, pioggia e tempeste». Sono stati diversi ad asserirlo nelle loro testimonianze. Infatti, fra i tanti episodi straordinari che costellano la vita del Santo sono innumerevoli quelli che ci narrano come, ad un segno di croce, ad una breve preghiera, o addirittura ad un comando, tacevano le tempeste, cessavano le piogge, si calmava il mare. Dio, assoluto Padrone di ogni elemento, gli donò anche questo potere, quan¬do era necessario per il bene delle anime e per dimostrare agli scettici che, per la sua bocca era Lui, che parlava. Qua e là abbiamo già accennato a qual¬cuno di questi meravigliosi eventi; ora ne narriamo qualche altro, cercando di servirci quasi alla lettera delle cronache del tempo. A Cisterna, nel Lazio, mentre tiene la Missione, giungono tutti i componenti d’una Confraternita di Velletri, per poi accompagnarlo nella loro città, dov’è tanto atteso. Il cielo, che per tutta la mattinata «era stato nero di nuvole, a se-ra scoppiò in una pioggia torrenziale. Non potendo la chiesa contenere tanta gente, Gaspare invitò i fedeli in piazza, dove già era stato issato il palco; bene-disse il cielo con lo stendardo della Madonna e la pioggia cessò all’istante, mentre le nuvole rimasero sospese in aria, come velari di piombo». Giunto poi a Velletri, dove c’era tanta gente ad aspettarlo, quando ormai era notte tarda, si recarono in processione in chiesa. Il cielo fino allora sempre minac¬cioso, da lui benedetto, «apri le cataratte» solo quando tutti furono a casa. A Cori, dove, come abbiamo già narrato, Gaspare gettato giù dal palco, si rialzò privo d’ un dente, e con una ferita alle labbra, come a punire un atto così sacrilego il cielo si annerì improvvisamente e la folla spaventata cominciò a scompigliarsi. «Gaspare si raccolse in preghiera e poi gridò: – Non muovetevi, il diavolo non l’avrà vinta! – Ad un suo segno di croce1 tornò d’incanto il sere-no ad allietare la festa delle anime». A Nocera Umbra Gaspare stava predicando ad una marea di folla, nella piazza fuori Porta Romana, quando il cielo diventò improvvisamente nero e minaccioso. L’impeto d’un vento gagliardo agitava lo stendardo della Vergine e le fiamme delle torce minacciavano di bruciare la veste della Madonna. La pioggia cadeva con violenza. «Non temete, gridò il Santo, la Vergine vin-cerà l’Inferno, che vuole impedire questa manifestazione di fede! – Benedisse il cielo, che all’ istante tornò sereno». A Caldarola il Signore vuol premiare con un prodigio lo zelo infaticabile del suo Servo. «Mentre predicava all’ aperto, alla presenza del vescovo, del clero e della folla, il cielo si abbuiò all’improvviso e cominciò a cadere una pioggia torrenziale. Il Santo fece ripetuti segni alla folla in subbuglio di non muover¬si. Tutti fissavano lo sguardo sulle sue mani congiunte in preghiera e i suoi occhi supplichevoli rivolti al quadro della Madonna del Prez.mo Sangue; la pioggia s’arrestò d’incanto». A Norcia «era stata organizzata una processione di penitenza. Già durante la mattinata a tratti, era caduta una pioggerella leggiera, ma, allorché la pro-cessione stava per sfilare, cominciò uno scrosciare tempestoso di acque. Ga-spare benedisse il cielo e, come per incanto, la pioggia cessò». A Chiaravalle, nelle Marche, nella piazza dove Gaspare stava predicando, era issato sul palco il prodigioso simulacro del SS.mo Crocifisso, tanto vene¬rato in quella Abbazia, «quando d’improvviso un vento turbinoso cominciò a squassare e a spezzare i rami degli alberi, a buttare all’aria tegole, a sollevare nugoli di polvere, a scompigliare gente che doveva tenersi stretta per mano, e a far traballare anche il palco. Ma furono istanti, perché Gaspare si inginoc-chiò in preghiera davanti al Crocifisso e la furia del vento si placò». Ad Ascoli, mentre predicava all’aperto, «cominciò a piovere. Fu un fuggi fuggi generale in cerca di riparo, ma il Santo fece cenno di non muoversi e di recitare con lui l’Ave Maria. Mentre tutt’intorno alla piazza continuò a piove-re, di quelli che erano ad ascoltarlo, nessuno si bagnò». A Sermoneta, dove invece da tempo non pioveva e il raccolto ormai era compromesso, il Santo organizzò una processione di penitenza e prima che rientrasse in chiesa, cominciò a piovere. Il raccolto fu più abbondante degli altri anni. Ovunque Gaspare si recava a predicare le Missioni, accorreva gente anche dai paesi e villaggi vicini. Or avvenne che aCori, dove durante la predica la piazza era gremitissima, si scatenò una pioggia violenta. Gaspare ebbe com¬passione di coloro che dovevano fare a piedi ben otto miglia per tornare a ca¬sa; benedisse tutti e consegnò loro il quadro della Regina del Prez.mo Sangue, raccomandando di recitare lungo il tragitto il santo rosario. Nessuno si ba¬gnò, ma appena entrarono nella chiesa per depositare il quadro l’acqua ven¬ne giù a catinelle. Come avete notato, alleata del Santo in questi prodigi era la sua cara Ma-donna del Preziosissimo Sangue, alla quale egli sempre li attribuiva. Almeno un bicchiere Da Tivoli S. Gaspare, non avendo danaro «… in luogo di cavalcare, si pose a piedi col suo compagno D. Giovanni Chiodi per Vicovaro, dove trovarono i compagni per andare in Missione e mangiarono solo pochi legumi». Egli si af-flisse non poco per tale penuria, ma unicamente per i suoi Compagni, che cercò di animare al sacrificio. Durante il viaggio prese a parlare con essi della Congregazione: «Dio non manca di provvederci, non saprei dire la somma, ma tengo per certo che il danaro mi è mirabilmente cresciuto». Soleva anche confidare ai confratelli che «non poche volte si vedeva addirittura moltiplica-re il danaro tra le mani». E gli episodi che stanno a dimostrarlo non sono po-chi. «A Cesena, racconta D. Angelo Primavera, io non volevo accettare il supe-riorato, essendovi 500 scudi di debito. Il Canonico insistette: «Abbia fede – mi diceva – ci penserà la Provvidenza» Certo che la sua parola si sarebbe avvera-ta, obbedii. Pur essendo la rendita di soli scudi 80 e la Comunità da mantene-re di sei persone, senza chiedere nulla ai fedeli, in undici mesi riuscii ad estinguere il debito e ce ne fu d’avanzo. E come? Fu un mistero anche per me». Un altro superiore attesta che, avendo avuto dal Santo 300 scudi per pagar i debiti ed avendoli contati e ricontati e trovata la somma giusta, passò a salda-re i creditori. Finito il giro, ne erano rimasti ancora cento e, dubitando si fos¬se sbagliato nel fare i pagamenti, ritornò nei negozi, ma tutti asserirono di aver avuto quanto gli spettava. Ne scrisse al Santo, che così gli rispose: «Rin-graziamo Iddio, che vede il fine per cui si spendono». Sappiamo che la Congregazione «… fin dagli esordi fu unta dal crisma della più estrema indigenza ed in questa – diceva il Fondatore – dovrà avere la su-prema ragione d’essere». Egli sarà sempre geloso di questo carisma ed aprirà le Case solo quando avranno scarse rendite; saranno infatti solo eremi abban-donati e cadenti da restaurare a fondo. Tutte le case dovevano avere il neces-sario, nessuna 1′ abbondanza. Con tante amicizie ed aderenze a Roma e, se avesse accettato anche in minima parte i ricchi doni che gli venivano offerti in continuazione durante le missioni, l’Istituto avrebbe potuto nuotare nella ricchezza. Quando il P. Pierantoni gli disse che a 5. Felice erano sempre «fra grandi ristrettezze», gli rispose: «Questo ci deve essere di conforto, perché èprova che l’Opera è da Dio!». «La Casa di Vallecorsa, dice il Merlini, era sem-pre povera e sempre ricca!» Un Cardinale soleva dire: «La Congregazione del Can. Del Bufalo è prodigiosa, perché, malgrado le enormi difficoltà e l’indi-genza, va sempre crescendo e dilatandosi». S. Gaspare non si turba mai quando alcuni se ne vanno, perché nella Con-gregazione non hanno trovato «tutti i comodi» che speravano; ne ringrazia an¬zi il Signore perché «certamente non erano chiamati da Dio». Nelle sue lettere troviamo innumerevoli espressioni come queste: «Mi sarebbe dispiaciuto se l’islituto fosse nato nell’opulenza ». Agli economi delle case scrive: «Pregate e mettete confidenza in Dio e la Provvidenza non mancherà; vedrete autentici miracoli!» «State certi, dice spesso, Dio mi ha moltiplicato i danari perché do¬po spese immense, mi trovo pareggiati i conti». Dice anche: «Per fare il bene occorre la Grazia di Dio e i quattrini, perciò accontentatevi del necessario e date con larghezza ai poveri». «Se la mia Congregazione dovesse diventare ricca, non la benedirei dal Cielo, perché non sarebbe più la mia amata Con¬gregazione». Insiste, e lo ha sancito nelle Regole: grande riconoscenza verso i benefattori con preghiere e suffragi. Se è vero che non ama la ricchezza e il di più, si preoccupa sempre e molto affinché ai missionari non manchi il necessario e neppure un bicchier di vino a tavola e, se non c’è, ricorre al… miracolo. A S. Felice, non avendo danaro, invece dei soliti due barilotti di vino, son costretti ad accontentarsi d’un solo e di conseguenza… rimangono presto all’ asciutto. Gaspare non vedendo vino a mensa, dice: «Fratelli, oggi non si beve?» «Padre, non abbiamo più vino». «Davvero? Andiamo a vedere in cantina». Al fratello laico che batte forte con le nocche sul barilotto per fargli sentire che «suonava e non ce n’era dentro neppure un goccio», il Santo replicò: «Metti sotto il boccale e spilla». Il Fratello sgranò tanto d’occhi nel veder zampillare vino da un barile vuoto. Solo quando ce ne fu per tutti almeno un bicchiere a testa, il ruscelletto si mandi. «È un miracolo!» esclamarono stupiti i commensali. «È giusto, disse Gaspa¬re, che beviamo anche noi un bicchiere di vino a tavola. Lo dice anche S. Pao¬lo che un po’ di vino è necessario allo stomaco». La disciplina «Disciplina» è chiamato uno strumento di penitenza, usato molto dai santi anacoreti d’un tempo; ed anche in tempi a noi vicinissimi, si usa da alcuni Ordini religiosi di più rigorosa osservanza, come ad esempio, dai Padri Cap-puccini. Gaspare, nel quale era innato lo spirito di penitenza e che fin da piccolo portava il cilizio, da missionario ne faceva molto uso, sia privatamente che in pubblico durante le Missioni, specie quando si trovava di fronte a peccatori tanto incalliti da non riuscire con la sola parola a riportarli a Dio. Nel museo del Santo a Roma si conserva ancora qualcuno ditali «ordigni» da lui usati. In molti quadri, risalenti ai primi anni dopo la sua morte, egli viene ritratto sem-pre mentre addita le piaghe d’un grande crocifisso che sorregge e quasi abbraccia con una mano e, deposti sull’inginocchiatoio, stanno il libro dell’Apocalisse, il teschio e la «disciplina». Questo strumento di solito era formato da «catenelle» irte di ferro spinato o portanti all’ estremità piccole pallottole di metallo, dalle quali sbucano irti pungiglioni: altri tipi portavano all’estremità tante lamine affilate. L’ordigno faceva spicciare vivo sangue ad ogni colpo. Non era certo uno spettacolo gra¬devole vedere le spalle nude del Santo piagate e grondanti sangue; ma quella visione toccava il cuore di chi non voleva in altrò modo arrendersi alla Mise¬ricordia Divina. A chi lo consigliava di non tormentarsi fino a tal punto, sole¬va rispondere che Gesù non si accontentò della sola parola, che pur trascina¬va le turbe, né di operare miracoli a non finire, ma volle imprimere nel cuore umano l’immagine del suo corpo piagato e del suo cuore squarciato per farci comprendere tutto il suo amore e quanto gli costava la nostra salvezza. Non doveva, perciò, anche lui dare qualche goccia del suo sangue per riportare al Cuore di Cristo i peccatori ostinati? Noi sappiamo che la parola di Gaspare trascinava le folle e che i peccatori che si convertivano erano schiere. Sappiamo anche che fu chiamato «Confes¬sore dei grossi calibri». Quanti, che dalla Prima Comunione o dalla celebra¬zione del matrimonio non erano più entrati in chiesa, dopo averlo ascoltato, si inginocchiavano ai suoi piedi per confessarsi! Ma per altri non sempre ba-stava solo la sua parola, per quanto calda e persuadente. «Come suole sempre accadere quando si compie il bene – dice il Ven. Merlini-anche in questa circostanza non mancavano critiche e mormorazioni, perfi¬no da parte di qualche ecclesiastico. Sulla disciplina usata dal Canonico Del Bufalo e dai suoi Missionari con ferree catene, questa venne chiamata ragaz-zata sanguinaria da non praticarsi». Altri lo tacciavano di fanatismo, lo chia-mavano commediante, pagliaccio medioevale, esibizionista sanguinano. Ma Gaspare a sua giustificazione portava 1′ esempio di S. Leonardo da Porto Mau¬rizio e di altri grandi santi missionari di ogni tempo». Il Merlini aggiunge che.. «il popolo altamente commovevasi e le pecorelle smarrite accorrevano in pianto a confessarsi». Né Gaspare si limitava a disciplinarsi in pubblico; ma, quando veniva a sape¬re di qualche moribondo, che si ostinava a non voler ricevere i Sacramenti, cor-reva al suo capezzale e si disciplinava finché non trionfava la Grazia Divina. A S. Ginesio, nelle Marche, un povero sacerdote, che da anni non si confes-sava, era agli estremi e continuava a rifiutare i Sacramenti. Gaspare lo venne a sapere mentre stava per salire sul palco. Lasciò ad altri l’incarico di tenere la predica e corse presso l’infermo. Gli mostrò il Crocifisso, gli parlò della sua misercordia, gli ricordò con soavità e delicatezza il giorno della sua Prima Messa e i primi anni del suo sacerdQzio, così ricchi di fervore e di apostolato; ma il malato continuava a dire che per lui ormai non poteva più esservi mise-ricordia e si girava dall’ altra parte. Gaspare allora si denudò le spalle e vi sca-ricò sopra feroci colpi su colpi. «Io, gli diceva, mi disciplinerò per i tuoi peccati fino a quando la Grazia non avrà trionfato della tua ostinazione». Non passò molto che il sacerdote scoppiò in lacrime, si avvinse al Santo, si confessò e morì tra le sue braccia. La «disciplina» l’aveva strappato all’ inferno. Il vecchio canonico Siamo nel 1824; il brigantaggio è all’ apice della sua pazzia sanguinaria e Gaspare percorre un paese dopo l’altro tenendo Missioni per rincuorare le popolazioni atterrite, frenare le vendette, mettere pace ed abboccarsi con i briganti per ammansirli. Una delle sue maggiori premure, ovunque vada, è quella di richiamare il clero alla santificazione e ad un’intensa attività pastorale. Egli soleva sem¬pre dire: «Santo il pastore, santo il gregge». D’altra parte tante sono le popola¬zioni che lo desiderano almeno per qualche giorno in mezzo a loro che, col numero di compagni che ha, non può accontentare tutti, per questo si premu¬ra ovunque d’invitare ad unirsi a lui nella predicazione i migliori sacerdoti, che viene a conoscere. Viveva ad Alatri, presso Frosinone, il vecchio canonico D. Pasquale Aloy¬si, che, ascoltando la parola del Santo, concepì 1′ assurda idea di farsi Missio-nario. «E perché assurda?» direte voi. Perché la sua età avanzata era già di per se stessa un impedimento insormontabile. Come avrebbe potuto affrontare una vita di sacrifici inauditi, come quelli che comportava l’apostolato missio¬nario, davanti ai quali cedevano anche non pochi giovani? Agli inconvenienti dell’età, si aggiungevano vari malanni. Non lo dice an¬che il proverbio «Tanti anni, tanti malanni?» Infatti era affetto da grave e dif¬fusa artrosi, che gli faceva soffrire dolori a non finire; da una podagra tanto sviluppata da non potersi trascinare neppure col bastone; senza parlare poi d’una bronchite cronica, ribelle ad ogni cura, e d’una parziale paresi. Pove-retto, era proprio ben conciato per le… feste! A chi rideva della sua «vocazione» diceva solo: «Fatemi parlare col Canonico Del Bufalo, è lui che dovrà giudicare». Il Santo non appena avvertito, si portò a casa del sacerdote infermo, che, nel vedersi davanti «quel gran santo», quasi svenne dall’ emozione. Poi fattosi coraggio, gli disse: «Padre santo, anch’io voglio essere un vostro missionario». Gaspare gli elencò tutte le difficoltà e cercò di dissuaderlo. «Eb-bene, padre, mentre voi andrete in giro a predicare, io rimarrò in convento a pregare per la conversione dei peccatori». Gaspare, colpito da tanta fede e da tanta bontà, lo guardò amorevolmente e gli disse: «Signor Canonico, possibile che non riusciate a fare due passi almeno qui in camera? Su, appoggiatevi a me, alzatevi e proviamo un po’». Lo prese sottobraccio e lo sostenne per alcu-ni passi. Il vecchio in un baleno sentì nel corpo un insolito vigore, gettò via il bastone e si diede a camminare speditamente per la stanza. Gaspare, dopo aver operato il miracolo, lo accettò come suo missionario. Ma il miracolo non finì qui. D. Aloyisi, di natura timidissimo, non aveva mai fatto una predica in vita sua; però, tenace nel proposito di voler essere un au¬tentico missionario, chiese a Gaspare il permesso di parlare ai fedeli in chie¬sa. Al momento di uscir dalla sacrestia per recarsi sul palco, cominciò a tre¬mare come avesse la quartana. Intanto il popolo… aspettava! Gli cadde lo sguardo sulla berretta del santo, posata su un tavolo, se la pose sul capo e ve la tenne per tutta la durata della predica. Non solo sparì ogni timidezza, ma gli vennero sulle labbra un fiume di parole, e si sentì preso da un inusitato fervore. Non volle più privarsi di si portentosa berretta e la chiese in dono al Santo. Il Valentini e il Fontana, testimoni oculari della sua prodigiosa guarigione e del «miracolo» della berretta, ci raccontano anche un episodio curioso. A Ter-racina D. Aloyisi, uscendo dalla sacrestia, inavvertitamente scambiò berretta e, una vola sul palco, non riuscì a tirar fuori una sola parola! Capi subito e se la fece cambiare dal sacrestano. Il suo dire, allora, fu così eloquente da com-muovere 1′ uditorio ed ottenere tante conversioni. Il vecchio canonico visse per parecchi anni nell’ Istituto e fu uno dei più in-stancabili nell’ apostolato, e di grande pietà e virtù. La pizza di Fra tel Bartolomeo Ai tempi di 5. Gaspare 1′ arrivo dei Missionari, specialmente in quei paesini arroccati sulle montagne, raggiungibili solo a dorso di mulo e tagliati fuori dal consorzio umano, destava interesse e curiosità. Chi sarà mai questo Padre Gaspare, di cui tanto si parla? Fa davvero i miracoli? Ne vedremo qualcuno anche noi? E i suoi compagni saranno belli o brutti, giovani o vecchi? Vengo-no da Roma dove sono abituati a far banchetti col Papa, con Principi e Cardi-nali… E qui cosa mangeranno? Già… cosa mangiavano i missionari? Gaspare nel suo «Metodo per le Mis-sioni» aveva fissato perfino con pignoleria, il trattamento a mensa per i padri Missionari. Una minestra, un pezzo di lesso con verdura, o patate, un bic¬chier di vino; a sera due uova o baccalà e insalata. Vietato mangiare o bere vi¬no fuori dei pasti, tranne una tazza d’orzo caldo, dopo la predica. Si dovevano osservare da tutti, anche da chi stava poco bene, i digiuni e l’astinenza pre-scritti dalla Chiesa. «Chi sta male, se ne stia a casa!» diceva il Santo. Erano ri-gorosamente vietati cibi prelibati, dolciumi, liquori che venivano puntual-mente rimandati al donatore. Quando il rifiuto avrebbe potuto essere inter-pretato un atto offensivo, si accettavano, ma venivano regolarmente distri-buiti ai poveri o inviati negli ospedali. Questo «regime» era osservato, non solo durante la predicazione, ma anche nelle Case di Missione; tuttavia, se rimproverava gli economi per acquisti di cibarie di lusso, esigeva anche che non mancasse cibo buono e abbondante, e diceva. «Buona pietanza, buona osservanza». Per tale motivo, ed anche per dare a tutti la possibilità di recarsi con riservatezza a parlare o a confessarsi dai padri, desiderava che i Missionari abitassero da soli durante la Missione e che a cucinare fosse il fratello lalco dell’ Istituto. A confermare con quale scrupolo il Santo tenesse all’osservanza ditali norme, riportiamo qui qualche episodio. A Gaeta l’Arcivescovo Mons. Parisio mandò ai Missionari una pietanza di squisitissime aragoste. Gaspare pregò il Merlini di riportargliele con 1′ incari-co di far presente a sua Eccellenza, con la dovuta deferenza, che tali cibi era¬no vietati ai Missionari per Regola. L’Arcivescoyo se l’ebbe a male e si recò di persona ad offrire di nuovo la pietanza, ordinando di mangiarla in virtù di santa ubbidienza. Il Santo, seb-bene contrariato, fu costretto ad ubbidire, ma nei giorni seguenti tutti i Mis-sionari si privarono di parte dei cibi consueti. A Caldarola Gaspare fece di-stribuire ai poveri l’intero pranzo offerto dal Conte Pallotta. Quei poverelli, che per la prima volta mangiavano certe leccornie, esclamavano: «Ci voleva il santo padre Gaspare per farci assaggiare, almeno una volta nella vita, roba così buona!». Gaspare, sebbene molto~sofferente di stomaco, non ammise per sé mai pre-ferenza di sorta. Ad Alatri, benché a letto con febbre altissima, rifiutò un «pe-sce delicato» e mangiò aringhe e baccalà come gli altri. Non accettò mai, in vita sua, inviti a pranzo da persone altolocate, sebbene Vescovi, Principi, Cardinali e perfino il Re di Napoli facessero a gara per averlo almeno una volta alla loro mensa. Aveva un’ arte tutta sua nel declinare l’invito, senza offendere. A Piperno certe Suore gli mandarono, a fine Missione, una meravigliosa pizza, che faceva proprio venire 1′ acquolina in bocca. Gaspare pregò Fratel Bartolomeo di portarla indietro con i più sentiti ringraziamenti, dispiacente di non poterla accettare, perché vietato dalla Regola. Bartolomeo, di li a poco, tornò indietro con la pizza. «Padre, le Suore insistono e si raccomandano alle Sue preghiere». Il Santo, che di solito sopportava pazientemente le prepoten-ze di Bartolomeo, quando si trattava della Regola, era inflessibile anche con lui e lo riprese severamente. Bartolomeo usci mogio mogio con quella pizza e con la voglia di darle almeno un bel morso. Di li a poco tornò senza pizza e senza dir nulla. Giunti a Frosinone, nella Casa di Missione, all’ora di pranzo eccolo tutto gongolante con la pizza, lieto d’averla fatta in barba al Santo. «Qui ossiamo mangiarla, perché non siamo in Missione!» Gaspare non si scompose, anzi gli disse sorridendo: «Bravo Bartolomeo! Avvolgila e andiamo a mangiarla all’aperto!» Cammina, cammina, giunsero all’ospedale! Bartolomeo capì… Si recarono nel reparto dei bambini e il Santo li salutò: «Come state, bambini? Ecco un bel regalo di fratel Bartolomeo. A lui piacciono molto i dolci, ma ha preferito rinunciare a questa bella pizza che gli hanno regalato per farla man-giare a voi, che siete malati». Povero Bartolomeo! Anche se tanto scontroso, in fondo aveva un cuore d’oro e anch’egli fu lieto nel vedere quei malatini mangiar la sua pizza con tanta avidità e allegria. Infine gli si inumidirono anche gli occhi, quando sentì gridare con allegri battimani: «Grazie fratel Bartolomeo! Evviva Fratel Barto-lomeo!». Come l’emorroissa del Vangelo S. Gaspare, proclamato da Giovanni XXIII il più grande apostolo del San¬gue di Cristo, ne fu anche il Serafino, perché il Sangue di Cristo fu l’unico ideale della sua vita sacerdotale e missionaria, il suo carisma, il cardine della sua santità, la passione che lo consumò fino alla tomba. Nella meditazione e nella sofferenza, seppe così bene assimilare i dolori del Redentore da impri¬mere nella sua anima le vivide scintille di quel fuoco nuovo, col quale Gesù era venuto ad incendiare il mondo, e sentirsi spinto a non tenere solo per sé questa inesauribile ricchezza, ma a spendere tutta la vita per riversarla nelle anime smarrite e riportarle a quel Cuore trafitto. Seppe ricopiare in modo meraviglioso il fervore apostolico del Divino Mae¬stro e le sue ansie di ricerca delle pecorelle perdute. Non poteva darsi pace al pensiero che tante anime, che costavano tutto il Sangue al Redentore, andas-sero perdute! Non è davvero esagerata 1′ espressione d’un suo antico biografo: «Gaspare fu un gigante dell’Amore Divino, amava Dio come un Serafino, ed ogni dolore umano trovava eco nel suo cuore». Sappiamo infatti che, fin da bambino percorreva quotidianamente le corsie degli ospedali romani, e da chierico ripristinò l’ospizio di S. Galla, ove raccoglieva handicappati, tignosi, vecchi malati. Nelle Missioni poi si recava in primo luogo nelle carceri, negli ospedali, al capezzale degli infermi nelle loro case. Come Gesù, che portava la sua luce nelle anime e sanava i corpi, cosicché i miracolati prorompevano sempre nel grido: «Tu sei veramente il Figlio di Dio!», anche Gaspare esortava i malati ad avere fede e pregare. Non poche volte il Signore permise che, al tocco della sua mano, ad una sua benedizione, si verificasse il miracolo. Nell’ aprile del 1824 lo troviamo a Veroli, bella e popolosa cittadina della Ciociaria, a tenere una Missione. È con lui il Merlini, che con sobria e magi-strale pennellata ci descrive ciò che accadde. «Mentre il Can. Del Bufalo pre-dica in piazza, ché la chiesa non può contenere la folla straripante, tutt’intor-no alla cattedrale è pieno di gente. Su tutti i balconi si scorgono gruppi di per-sone di ogni ceto. C’è gente affacciata alle finestre, perfino i tetti sono occu-pati. La gente accorre in massa anche ad accompagnare la Comunione agli in-fermi, nella Processione di penitenza, nella benedizione della campagna. Le conversioni non si contano, i sicari consegnano le armi, in piazza si bruciano le stampe e i libri osceni, i briganti di notte vengono a consegnare i loro col-tellacci». A Veroli, da tempo, Antonia Calvani soffre di continue emorragie, senza che alcuna cura valga ad arrestarle. Ormai non si regge in piedi! «Potessi anch ‘io avvicinarlo e chiedergli di guarirmi!» La portano in piazza, accanto al palco, sul quale sta per salire Gaspare. Lei lo guarda come rapita in un’estasi, dimentica tutto, perfino il suo male. Si sarà incrociato lo sguardo del santo Missionario con quello in lacrime della malata? Avrà egli, per quell’ arcano dono soprannaturale che gli fa penetrare menti e cuori, letto l’interno affan¬no che sconvolge la donna? Sarà gia arrivata a lui la sua tacita supplica? Ma eccolo che già scende! La folla subito lo prende d’assalto, vuole parlar¬gli, almeno toccarlo. Anche la malata si alza d’istinto, incurante della debo¬lezza che la fa barcollare, trascinata, quasi travolta dalla folla. Protende le braccia: «Padre Gaspare! Padre Gaspare! Aspettatemi, abbiate pietà di me!». Riesce a sfiorare appena con una mano la sua veste, ma già l’ondeggiare della folla l’ha di nuovo allontanata. Un fuoco sembra invaderla per tutto il corpo, ed ella avverte un vigore improvviso mai sentito prima! Si ritrova stranamente appoggiata a quel palco. Tornano nella sua mente le parole del Vangelo: «Una donna soffriva di flusso di sangue…». Sì, è lei la nuova emorroissa guarita al tocco della veste di Gesù. Perché è stato proprio Lui, Gesù, presente nelle sembianze del grande apostolo del suo Sangue, a guarirla! Il confessionale cammina Nel settembre del 1824, accompagnato da D. Bernardino Volpi, Gaspare si recò per una Missione a Campoli Appennino, in Abruzzo. Di questa Missione ecco come scrisse nelle cronache diocesane il Vicario Mons. Cipriani: «Il frutto che se ne ritrasse fu grande e quello che più si ammirava era che nell’ascende¬re il palco non aveva affatto voce e sembrava asmatico, ma appena iniziava il suo dire la voce si rendeva tanto chiara, che le sue parole erano così penetranti che si risentivano da tutti e ne facevano eco le valli del paese» A Campoli Ga¬spare incontrò il diacono D. Domenico Silvestri, una dèlle figure più simpati¬che che tanto illustrò poi l’Istituto. Lo volle sempre vicino in quei giorni e non appena fu sacerdote, lo accolse nella sua Congregazione. Proprio D. Domenico seppe che 1′ ottimo signor Giuliano Marrari era in fin di vita. Ne avvisò Gaspare che accorse al suo capezzale «lo animò alla fiducia e lo benedisse». L’infermo, che ormai era rassegnato e pronto a morire, a quella benedizione si senti tornare in forze e si alzò completamente guarito. Due «curiosi episodi» si verificarono in quella Missione, come raccontaro¬no testimoni oculari. Era da poco passata la mezzanotte ed una vecchietta, incurante dei primi freddi autunnali, a volte anche rigidi nei paesi di montagna, era già acquattata vicino al portone della chiesa per essere la prima a confessarsi all’ alba, quan-do sarebbe venuto il Santo. Non appena il portone fu aperto corse come una gazzella ad inginocchiarsi vicino alla grata. Al giungere di Gaspare già la folla s’era ingrossata e tutte volevano essere le prime… Alcune «concorrenti» più giovani e robuste, nonostante le sue vive proteste, presero di peso la vec-chietta e l’allontanarono rubandole il posto. Essa però rimase li in vigile attesa e alla prima distrazione delle prepotenti, che per ingannare il tempo si sta-vano scambiando gli ultimi pettegolezzi, spiccò un salto con la forza d’una ventenne e riconquistò la posizione. Prese in contropiede, le loquaci signore l’afferrarono chi per le vesti, chi per le gambe e cominciarono a tirarla. Mac-ché! La vecchietta sembrava inchiodata al confessionale. Tira e tira, il confessionale, e con esso Gaspare, cominciò a… camminare! Il Santo, sorpreso per quel viaggetto fuori programma, intui quel che stava ac-cadendo. Usci e sorridendo, prese la vecchietta sottobraccio: «Venite, nonni-na. . .» e la condusse in un angolo del tempio e 1′ ascoltò pazientemente finché lei non si fu sfogata bene bene. C’era a Campoli un certo Cav. Corelli, ricco possidente e gran signore. Gaspare andò a trovarlo e cominciò a parlargli dei poverelli del paese. Il Cavaliere mise subito le mani al sacchetto delle monete, ma Gaspare lo trat-tenne. «No, no, cavaliere, volevo solo proporvi un affare. Abbiamo raccolto, elemosinando, ben 250 quintali di grano. Vi propongo di comprarlo a prezzo generoso, perché è più facile distribuire la moneta ai poveri, anziché piccole quantità di grano». Il Cavaliere acconsentì e cominciò a snoccialre monete su monete nelle mani di Gaspare, che non si decideva mai a ritirarle. Finalmen¬te prese il danaro, lo ringraziò: «Dio La benedica!» e andò via. Di lì a poco, però, mandò D. Silvestri dal cavaliere con una nuova proposta. «Il Can. Del Bufalo, nel timore che i poverelli vadano tutti nelle bettole a spendersi la moneta della carità, la prega di rivendergli il grano, ma a metà prezzo, perché l’altra metà, ormai l’ha già distribuita». Il Cavaliere ch’era un gran signore anche nel cuore, si mise a ridere, fece macinare il grano a sue spese, vi aggiunse due quintali di suo e disse a D. Silvestro: «Come dire di no a P. Gaspare? Ah! Le ingegnose trovate di questo santo per i suoi poverelli!». La cronaca della Missione così chiude la sua narrazione: «Molti altri prodigi avvennero in questa terra, per i quali Gaspare Del Bufalo si rese famoso». Dobbiamo anche noi aggiungere qualcosa. I cittadini di Campoli eressero un tempietto alla periferia del paese, dove ancora si venera la croce eretta da Gaspare in quella Missione e, con la croce, la statua dell’ Addolorata, ch’ egli portò in processione. La festa di S. Gaspare si celebra con solennità ogni anno a Campoli e si ri¬ pete quella solenne processione con i simulacri della Croce, dell’Addolorata e del Santo. Fu proprio durante questa processione che, il 19 maggio 1929, nella perso¬na del giovane Francesco Campana, avvenne uno dei due strepitosi miracoli approvati dalla Chiesa per la canonizzazione del Santo e che noi riportiamo con maggiori particolari alla fine del libro. Le monete d’oro Seguiamo il Santo nel suo peregrinare apostolico: è un cammino sempre più meraviglioso. Egli, come Gesù, passa, anzi «vola» di città in città, accorre nei villaggi, sale sulle montagne. Anime, anime al Sangue di Gesù! Ci duole non poter raccontare che in minima parte i mille prodigi, le mille meraviglie, l’immenso bene operato. Lò conosce solo il Signore! Noi ci sforzeremo, come possiamo, di seguire questo «Terremoto spirituale» per trarne, nei limiti del possibile, gaudio e ammaestramento. Nel maggio del 1818 lo troviamo a Fabriano, dove il suo apostolato «… e in-tensisissimo, non solo fra il popolo, ma nel clero, i nobili, gli artisti». «Non po¬tendo contrastare la sua opera di bene, alcuni Settari malintenzionati, per aver materia d’accusa e conoscendo la grande povertà del suo Istituto, cerca-rono di allettarlo e corromperlo offrendogli un bel gruzzolo di monete d’oro». Gaspare, sebbene con gentilezza, le rifiutò energicamente e i Settari fuggiro-no, non potendo resistere dinanzi al suo volto divenuto luminoso ed alla sua voce angelica che ripeteva: «Anime, anime e non oro!». Pur avendo perduto la voce del tutto, per alcuni giorni saliva ugualmente sul palco a tenere la predica in piazza e, non appena cominciava a parlare «la voce si irrobustiva talmente da sentirsi a miglia di distanza». Da Fabriano fu costretto a portarsi per qualche giorno nella vicina Cerreto. Vi fu accompagnato da uno stuolo di giovani, che, presi da entusiasmo, segui-vano la carrozza a piedi, cantando le canzoncine delle Missioni. Anche qui fe-ce gran bene. Da Cerreto passò a Matelica, dove ancora ai nostri giorni si parla di quella celebre Missione. Citiamo qui alcuni passi tolti dagli archivi del tempo: «S’industriò, il Can. Del Bufalo a pacificare le famiglie, a sollevare i poveri ad estirpare il malcostume. La cittadina era molto corrotta. Davano grande scandalo giovani e donzelle, che nei pubblici giardini, tra pazze danze e can-zoni oscene, si abbandonavano ad eccessi orrendi». «Ebbe molto a combatte-re per le lotte mossegli dai massoni e dai settari». Per far breccia nei cuori più ostinati si fece port4re con solennità il grande Crocifisso sul palco; la predica commoventissima fu chiusa con una proces-sione di penitenza, che emozionò il popolo ed ottenne molte conversioni. Tra queste quella di un’ostinata e notissima pubblica peccatrice. «Molti giovani e donzelle di nobile lignaggio tornarono a Dio e riportarono sulla via del bene compagni e compagne, che mai tornarono al peccato». Gaspare, conscio delle profonde radici del male che affliggeva quel popolo, si impegnò a fondo e, com’era sua consuetudine in questi casi, non si limitò alle sole prediche, ma teneva conferenze ai vari ceti, istituiva circoli e asso¬ciazioni, organizzava manifestazioni religiose in pubblico con grande solenni¬tà. Per la grande Processione del Cristo Morto giunsero cortei da ogni parte e da Fabriano tutto il Clero, i Notabili e le Confraternite. «Anche qui, dice lo stesso S. Gaspare, il demonio tentò di far il suo mestiere». Infatti, giunta l’ora della processione, il tempo si fece minaccioso. Egli allora, al clero che voleva sospendere la manifestazione, ordinò con sicurezza: «Dite a tutti che non te-mino niente, il Sangue di Gesù e la Madonna ci accompagnano». Non appena ebbe inizio la sfilata, puntualmente il cielo si rasserenò. Fu tanta la cera do-nata alla Vergine, che «l’Addolorata sembrava collocata in un alone di fuoco». Si rinnovò anche qui il prodigio della voce. Ce lo narra il monaco silvestri¬no D. Gregorio Ambrosio, che chiamato a dar aiuto nelle confessioni, alle 22 e trenta, saliva a cavallo verso Matelica. A molte miglia cominciò a sentire ben distinta la voce del Santo, che stava predicando in piazza. Affascinato, fermò il cavallo, discese e si pose ad ascoltare fino alla fine. Una sera mentre il Santo parlava all’ aperto, nella piazza grande, tutti i fede-li videro attoniti un globo di fuoco scendere dall’alto e fermarsi un bel po’ sul suo capo e poi sparire di nuovo nell’ aria. Per eventi così straordinari Gaspare suscitò tale delirio, che il popolo non voleva più lasciarlo partire e dovette ricorrere ad un sotterfugio e partire di notte. Una particolare profonda impressione lasciò in tutto il clero, che «avendone potuto inequivocabilmente constatare la santità e i doni straordi-nari» così diceva: «Se ognuno di noi fosse infiammato del suo stesso zelo sa-cerdotale, come lui potrebbe convertire tante anime ed operare anche gli stessi prodigi!». Nella focosa Romagna Quanto stiamo per narrare in questo lungo capitolo ci riporta al periodo forse più intenso della vita apostolica di S. Gaspare e, potremmo dire, anche nei luoghi più turbolenti dello Stato Pontificio: la «focosa Romagna» secondo l’espressione dello stesso S. Gaspare. Lo Stato Pontificio era come minato dalle Società Segrete. Mentre alla su-perficie tutto sembrava andare tranquillamente, in effetti Massoneria e Car-boneria sgretolavano 1′ edificio sociale, anche perché vi davano il nome e l’opera molti funzionari dello Stato. Come il basso Lazio era la roccaforte del brigantaggio, cosf la Romagna lo era dei Settari. Era però più facile parlare al cuore dei briganti, che alla mente dei Settari. Anche allora, come oggi, la Romagna si distingueva per le bollenti lotte poli-tiche e per l’estremismo, nel bene e nel male, delle idee della sua gente dal cuore ardente, schietto e generoso. Gaspare, terremoto spirituale e vulcano in perenne eruzione per portare anime a Dio, comprendeva i romagnoli, ne ammira¬va perfino lo spirito di fierezza e indipendenza, perché, per esperienza perso¬nale, sapeva che quelle doti, se incanalate nella giusta direzione, avrebbero po¬tuto produrre in Romagna un gran bene. Egli che stava subendo continue in¬giustizie e ingoiando bocconi amarissimi proprio da chi avrebbe dovuto aiutar¬lo e difendere, comprendeva che tanti di loro s’eran messi contro la legge per¬ché essa era male amministrata e privilegiava una certa classè sociale. Perciò, come vedremo, non solo ammirò quel popolo, ma lo amò profondamente. I Romagnoli lo compresero e a loro volta, lo amarono di eguale passione. Ma passiamo alla storia. Ai primi di giugno del 1818, Gaspare è nella città di Ancona, dove i nemici «gli rendono la vita abbastanza dura». Sono però inezie al confronto di quanto lo aspetta in Romagna, dove, dietro invito pressante del Capitolo Vaticano, si appresta a recarsi. I primi «campi d’azione» saranno le cittadine di Forlimpopoli e Meldola, vi-cine a Forli. Qui era appena giunta la notizia della prossima venuta di Gaspa-re, che i capi delle varie Logge, i quali ben lo conoscevano per fama come «Martello dei Settari», tennero un conciliabolo segretissimo durante il quale deliberarono la soppressione violenta del Santo. Sparsero astuti emissari tra gli abitanti delle due cittadine per far credere che le Missioni erano il mezzo più insidioso escogitatò dal Papa per scoprire i combattenti per la libertà e farli imprigionare. I Missionari non erano che spie del Papa e Gaspare era il loro capo. «In nome della libertà bisogna impedire la loro venuta e, se neces-sario, sopprimerli. Siate uomini, forti e intelligenti e non pecore!» diceva il proclama. I Settari, che in tutta la Romagna la facevano da padroni, temeva¬no che la venuta di Gaspare scardinasse il loro potere. Per intimidirlo, gli mandarono ad Ancona lettere minatorie «ribollenti di vituperi e bestemmie». Ma non sapevano essi che Gaspare conosceva bene i romagnoli fin dai primi anni del sacerdozio quando, per aver fieramente negato il giuramento di fe-deltà a Napoleone, fu chiuso nella fortezza di Imola e nella Rocca di Lugo, ove fu fatto segno della grande ammirazione e del rispetto di quei cittadini? Non sapevano con quanto coraggio stesse affrontando i più terribili briganti del Lazio, osando recarsi perfino nei loro covi, su quelle aspre montagne? E non sapevano neppure che la sua più grande gioia sarebbe stata quella di da¬re la vita per Cristo? Temendo Gaspare che forse ne sarebbe andata di mezzo la vita dei suoi confratelli, li riunì e lesse loro quelle lettere. Essi ne rimasero profondamente turbati e atterriti, ma il Santo fece loro comprendere che tali lotte erano il se-gno più evidente che Dio li voleva in Romagna. Trasfuse in quegli animi pa-vidi il suo coraggio ed il suo entusiasmo. «La nostra Missione – disse – è legitti¬ma e santa! Essi ci vengono incontro con i pugnali, noi andremo loro incontro con l’arma del Crocifisso!». Il 22 giugno erano a Cesena. Non appena arrivati, giunse una deputazione, la quale, sotto le mentite spoglie di «amici preoccupati della loro vita e della pace di quelle popolazioni tranquille», scongiurò il Santo di non recarsi a For-limpopoli, perché al loro arrivo ci sarebbe stata una sommossa con spargi-mento di sangue. Così rispose «Dite pure a chi vi ha mandato e al clero che in questo pomeriggio faremo ingresso a Forlimpopoli ed inizieremo la Missione». Sul far della sera i Missionari si presentarono puntualmente alla Porta Prin¬cipale della città, dove, contro ogni aspettativa trovarono il clero, le confra¬ternite e «una massa di popolo» ad attenderli. Le campane cominciarono a suonare a festa e tutti cantavano inni sacri. I Missionari s ‘inginocchiarono e baciarono il suolo; il Parroco consegnò a Gaspare il Crocifisso ed il corteo s’incamminò pacificamente verso la Piazza Grande dov’ era stato eretto il pal¬co. Gaspare, esultante e con rinnovato fervore, cominciò coraggiosamente la predica d’introduzione. «Miei dilettissimi fratelli della nobile terra di Forlim¬popoli, io vivo solo per Cristo e se Egli ha disposto che in questa città dia la vita per Lui, è questo il più grande onore e il più grande guadagno per la mia anima». «No, no! Vita, vita!» urlò immediatamente la folla. Egli poi continuò affermando che sarebbe stato per lui il più grande privilegio morire per Colui che ha dato il suo Sangue per salvare le anime. Intanto tra la folla cominciò a circolare la storia di quel santo Missionario ch’era stato per anni rinchiuso nelle carceri romagnole per aver tenuto corag-giosamente testa alla polizia napoleonica. Quella prima predica e la notizia delle minacce dei Settari bastarono a Gaspare per conquistare il cuore della folla, che non cessava di applaudirlo. I Settari, temendo che la folla nel deli¬rio li facesse a pezzi, se la diedero a gambe. Ma, più si allontanavano, più la vo¬ce di Gaspare giungeva nitida, forte e vibrante alle loro orecchie. Si chiusero in una villa, tapparono porte e finestre, perché il vento non portasse ancora l’eco di quella voce odiata; sedettero intorno ad una mensa bene imbandita, ma.. «La voce di Gaspare sembrava che tuonasse ai loro orecchi come quella di un arcangelo per richiamarli al pentimento, se non volevano che l’ira di Dio li colpisse inesorabilmente». Non fu solo la parola di Gaspare a conquistare i Romagnoli, ma anche il suo impavido coraggio, la sua correttezza e gentilezza, la pulizia del suo vestire, la forza d’animo di fronte a tante difficoltà, la grande sincerità e franchezza nel¬la lode e nella condanna, l’ardente carità, il vederlo tra i bambini, tYa i soffe¬renti nelle case e negli ospedali. E si domandavano: «Come farà a star sempre in piedi, da prima dell’ alba fino a notte inoltrata e ad interessarsi di tante co¬se e a predicare più e più volte al giorno?» Già correva sulla bocca di tutti la notizia delle grandi penitenze che Gaspare s’imponeva, delle veglie in pre-ghiera, e come costantemente invocasse da Dio misericordia per i peccatori e per coloro che lo minacciavano di morte. Le cronache del tempo abbondano, fin nei minimi particolari, di notizie su questa celebre Missione: delirio di folle, chiese sempre gremiùssime, fedeli sempre piu avidi di sentire una parola che da tempo non avevano più udita. Dice il Valentini che Gaspare era costretto a predicare sempre in piazza e che le sue «prediche apologetiche facevano restare attoniti gli uditori» e che «era così ammirabile il Canonico Del Bufalo per padronanza e scienza, che nelle dispute private e pubbliche con i settari, li metteva a tacere con poche rispo-ste». Egli trascinava nello stesso suo zelo apostolico anche i compagni, che non avevano deposto del tutto la loro grande paura». Sapeva poi «industriosa¬mente coinvolgere a collaborare clero e laici», affinché il rinnovamento della popolazione non fosse effimero e superficiale. Non si limitavano i Padri Mis¬sionari alle sole prediche. Gaspare promuoveva conferenze per ogni ceto di persone, colloqui e dispute private, opere di misericordia; erigeva Oratori e Ristretti, in una parola, «tutta Forlimpopoli era in subbuglio». Una sera la predica sull ‘inferno, conclusasi con la disciplina, sconvolse tanto l’uditorio che molti ben noti grandi peccatori corsero ad inginocchiarsi da-vanti al Crocifisso eretto sul palco e non smisero di percuotersi il petto e di piangere finché Gaspare non li rassicurò della grande Misericordia di Dio. Un’altra sera alla narrazione della Passione di Cristo, attraverso le stazioni della Via Crucis, all’ apparire del Cristo Morto portato sul palco dai Fratello¬ni, «molti uomini svennero dal dolore e si pentirono dei propri misfatti». «Una ventenne dalla vita molto peccaminosa» si accasciò svenuta al suolo; poi riavutasi «confessò pubblicamente i suoi peccati» e «da allora condusse una vita santa». «Un adepto della Carboneria, ravvedutosi, nel vedere che il Missionario si flagellava a sangue per la conversione di coloro che ne volevano la morte, corse piangendo sul palco e strappatigli dalle mani i flagelli, co-minciò a percuotersi in sua vece». Questi, da quella sera, fu veduto tutti i giorni, vestito di sacco e scalzo, portare il Crocifisso, nelle funzioni. Sempre all’apparire del simulacro del Cristo Morto, altro noto settario cominciò a gri-dare con quanta voce aveva in gola i propri misfatti e, gettatosi ai piedi di Ga-spare, ne chiese l’assoluzione. Qui sarebbe necessario fare un elenco interminabile dei meravigliosi frutti raccolti in quei santi giorni: discordie sedate, cessazioni di pubblici scandali, non più bestemmie e dissolutezze, ingiustizie riparate. Rifioriva la pace tra le famiglie e la frequenza della chiesa. A causa dei continui moti politici, anche i cittadini di Forlimpopoli s’erano divisi in varie fazioni e l’odio tra di loro aveva raggiunto «il carattere della im-placabilità». Gaspare «di nulì’ altro armato che del Crocifisso, si fece angelo di pace». Un giorno, a notte inoltrata e con estremo ardire, ad insaputa 1′ uno dell’ al-tro, convocò i capi dei vari partiti ad un pacifico colloquio con lui per tentare una generale pacificazione. Ovviamente quei nemici giurati e irriducibili, nel trovarsi inaspettatamente di fronte, misero subito mano alle armi, ma bastò lo sguardo e la parola pacata e persuasiva di Gaspare a far mutare la scena, che divenne tra le più commoventi. Quegli uomini dal cuore tanto duro, che s’ eran fatta una guerra senza quartiere ed avevano istigato i loro proseliti alla vendetta e alle uccisioni, si abbracciarono commossi perdonandosi a vicen¬da. Consegnarono nelle mani del Santo le armi, pregandolo di bruciarle pub-blicamente, e giurarono di mantenere nel futuro ad ogni costo la concordia raggiunta quella sera e di risolvere ogni contrasto pacificamente. Nel segreto del cuore, stanchi di tanti crimini, furono grati al Santo di aver dato loro l’op-portunità di compiere ciò che ognuno da tempo desiderava, ma che nessuno aveva il coraggio di compiere per primo per non essere bollato di codardia. Un notissimo giovane dalla vita galante e lussuriosa, ed un anziano altret¬tanto noto per i suoi vizi, abbandonarono la vita di peccato e si chiusero in conventi di austera osservanza. Molte donne dissolute e causa di peccato, ri¬trattarono la loro vita di scandalo e si chiusero in vari monasteri di clausura. Una di loro, forse anche la più nota, Teresa Bazoli, si chiuse nel Monastero delle Cappuccine di Cesena, dove macerandosi con dure penitenze, raggiun¬se un alto grado di perfezione, fu eletta badessa e mori in concetto di santità. Episodi come questi qui citati, ne avvennero a centinaia. L’elenco dei con-vertiti non finirebbe più. Una sera sul tardi, finite le funzioni, avvenne un fatto sorprendente. Tutti i componenti di due Logge massoniche si presentarono compatti a bussare al portone della casa che ospitava i Missionari. Il Fratello inserviente che aprì la finestra, appena capi chi erano, corse spaventato da Gaspare: «nascondiamo¬ci tutti, vengono ad ammazzarci!». Ma Inserviente e Missionari sgranarono tanto d’occhi quando il Santo in persona andò ad aprire il portone e videro che quei signori si chinarono con rispetto a baciargli la mano e gli consegna-rono armi ed emblemi, pregandolo di bruciarli pubblicamente dopo la predi¬ca dicendo, anche al popolo, da chi li aveva ricevuti. Prima di congedarsi si gettarono ai suoi piedi, chiedendo perdono del male arrecatogli. La notizia di questa resa senza condizione al «nemico» non andò a genio ai Capi di Forif, che montarono su tutte le furie e giurarono, nel colmo dell’ ira, di sbarazzarsi, a tutti i costi e con qualsiasi mezzo, di questo prete che li stava coprendo di ridicolo. Essi non si ritenevano dei pivellini «come quei cordardi di Forlimpopoli». «Il popolo ci sfugge di mano – dicevano – e dovremo chiude-re tutte le nostre Logge. È un affronto che deve essere stroncato!» e passarono subito all’ azione. Vennero scelti quattro dei più feroci sicari di Forli e furono inviati in tutta fretta a Forlimpopoli, con l’ordine perentorio di uccidere prima Gaspare e poi massacrare i suoi compagni. Mentre tre di loro restarono fuori nascosti in una carrozza, il più violento, detto anche «il boia», si presentò in casa del con¬te Giorgio Caffarelli, dov’ erano i Padri, e chiese con voce perentoria di parla¬re col Santo. Era presente anche il Canonico Penitenziere di Forlimpopoli D. Salvatore Cortesi, che intuendo subito il pericolo che correva il Santo, andò in fretta nella sua camera e lo scongiurò di non ricevere quel brutto ceffo, ch’ egli ben conosceva e ch’ era venuto certamente per ucciderlo. Gaspare lo rasserenò: «Non abbia alcun timore, Dio lo manda» e andò in-contro al sicario con la consueta cordialità, col volto irradiato da un sorriso affascinante e disarmante: «Cosa desiderate, figliolo? Venite» e lo introdusse nella sua stanza1 chiudendo ben bene l’uscio. L’attesa1 ai compagni1 sembra-va eterna e man mano che passava il tempo li afferrava un’ansia ed un’oppri-mente angoscia. Si aspettavano da un momento all’ altro il rantolo del moren-te e l’uscita del sicario col pugnale grondante sangue e poi… la stessa fine del Santo. Invece… Gaspare uscì sorridendo, tenendo per mano il sicario e con-versando affabilmente con lui. Questi salutò tutti umilmente, chiedendo scu¬sa del disturbo, e si congedò dal Canonico baciandogli la mano. Cos’era avvenuto di miracoloso in quella stanza? Ce lo racconta il Valenti¬ni, al quale Gaspare aveva poi confidato tutto. Mentre il delinquente alzava il pugnale per vibrarlo con violenza al cuore di Gaspare, si sentì di colpo immo-bilizzare il braccio da una forza misteriosa non appena egli gli rivolse la do-manda: «Volete confessarvi, figliolo?». L’arma cadde innocua sul pavimento e il sicario ginocchioni ai suoi piedi! Allorché i compagni videro che il «boia», nell’uscire, s’inchinava con rispet¬to a baciare la mano del Santo, non credettero ai propri occhi. «Proprio lui, il boia?» e presi da terrore sferzarono rabbiosamente i cavalli e si diedero alla fuga bestemmiando. Più tardi si seppe che la carrozza era andata a finire nel fiume, e tutti e tre erano morti miseramente annegati. A tale notizia, Gaspare rimase molto addolorato e, alzati gli occhi al cielo, esclamò: «Signore, usate misericordia alle loro anime!». Rientrato in camera si raccolse in preghiera. L’ultimo giorno della Missione la folla fu enorme. La calca fu tale che la gente «5′ ammucchiò perfino sui tetti, che furono in pericolo di crollare». Fi¬nestre, balconi e anche gli alberi pullulavano di gente! Le fiamme d’un falò di stampe, libri, emblemi, amuleti ed armi salivano al-tissime! Tutta Forlimpopoli non vorrebbe proprio che Gaspare partisse, ma sa anche che la vicina Meldola lo attende. Col pianto gli grida «Torna, torna!». Così salutarono il Santo che li benediceva dalla carrozza. * * * Meldola non dista molto da Forlimpopoli, e le notizie degli strepitosi eventi ivi accaduti fecero presto ad arrivare nella cittadina; anzi, non pochi meldole¬ si, chi per devozione, chi per curiosità, chi per tramare, erano già stati a For-limpopoli. Ovviamente gli scettici e i maligni asserivano che quei decantati prodigi erano soltanto montature di fanatici o illusioni del popolino: «Ora vedremo cosa farà qui quel millantatore!». Anche da Meldola erano giunte al Missiona¬rio lettere minatorie, che ottennero solo l’effetto di intimorire un po’ di più i suoi compagni. Costoro, sembra incredibile, nonostante avessero toccato con mano e per centinaia di volte la manifesta protezione di Dio contro gli agguati dei Settari e avessero anche visto con i propri occhi gli eventi taumaturgici operati dal Fondatore, pure osarono dirgli in faccia: «Padre, non è detto che la facciamo sempre franca! Non bisogna tentare la potenza del Signore». Gaspa-re li incoraggiava, perché sapeva che non tutti possono nascere con la stoffa degli eroi: «Figlioli, stiamo combattendo per la gloria di Dio, come potrà Egli abbandonarci?». Ed ecco la risposta del Cielo! L’ingresso a Meldola fu tra i più trionfali. Il Santo conquistò subito il cuore dei meldolesi. La gente di Romagna, terra dagli amori ardenti e dagli odi tena¬ci, ha un carattere che somiglia molto a quello di Gaspare; perciò egli la com-prende benissimo. A loro volta i romagnoli hanno ben compreso Gaspare e lo adorano. Alla testa del corteo, che dall’ ingresso del paese muoveva verso la piazza, era il conte Mazzolini di Bertinoro, che, convertitosi durante la Missione di Forlimpopoli, vestito di sacco, portava il grande Crocifisso. La piazza era «zeppa come un uovo», perché tutti volevano vedere ed ascoltare «il prete che metteva a tacere i Settari con tanto coraggio». E furono proprio i Settari i pri-mi a convertirsi, già dalla prima sera. Gaspare salì sul palco ed affermò, anche qui, ch’era pronto a morire per Cristo e, perciò, non temeva alcuna minaccia; avverti anche che era pericoloso mettersi contro Dio, che «prima o poi si stanca, e dalla misericordia passa alla giustizia». E assicurò che né lui, né i suoi compagni erano spie e delatori, ma erano venuti a predicare l’amore e il perdono di Cristo e la sua pace. Gaspare, come sappiamo, non amava i fronzoli e le vane parole, ma andava subito al sodo: via 1′ odio, le risse, le vendette, le armi, le uccisoni! Stava pre-dicando da una mezz’ora, quando si fermò di colpo, come colpito da un pen-siero… Poi riprese: «E mai possibile che quelle due persone che stanno in mezzo a voi e mi ascoltano e si odiano a morte e che, in questo momento, stanno meditando vendetta reciproca, non sentano la voce di Dio che batte alla porta del loro cuore? No, non posso proseguire se prima essi non si ab-bracciano e perdonano a vicenda». S’udì allora un brusio tra la folla… I due più inveterati nemici di Meldola, si facevano largo andando l’uno incontro all’altro, non più per prendersi a coltellate, ma per stringersi in un abbraccio sincero. Tra la commozione di tutti, essi levarono alta la loro voce: «Giuriamo davanti al Crocifisso di non farci più guerra e di essere per sempre buoni ami-ci». La parola dei romagnoli non s’infrange! Le cronache confermano che da quella sera cessò tra le due famiglie la lunga e sanguinosa catena di vendette. «Se esultarono i buoni, i Settari fremettero. Peggio di così per loro non pote¬va andare!» E decisero di avvelenarlo. Gaspare prima della predica era solito bere una bibita calda detta semata, una specie di caffè d’orzo dei nostri tempi. I Settari trovarono un farmacista compiacente, forse iscritto alla setta, che fornì loro una buona dose di veleno, ed un servo della famiglia che 1′ ospitava, ancor più compiacente e malvagio, che lo versò nella semata. Un giovane servente della farmacia, pentito e in preda al rimorso, corse a svelare tutto a D. Biagio Valentini, che col Muccioli entrò di corsa nella camera, dove Gaspare stava già col bicchiere in mano, pronto a bere. Gli fermarono il braccio: «Padre, per carità, non bevete, c’è il veleno nella semata!». Il Santo, senza scomporsi disse loro: «Uomini di poca fede, non ricordate il passo del Vangelo? E se berranno il veleno non gli nuo-cerà». Benedisse la bevanda e la mandò giù come al solito. I due erano certi di vederlo da un momento all’ altro stramazzare al suolo. Gaspare invece sere-namente continuò: «Ancora dubitate? Su, andiamo in chiesa; è già passata l’ora e non è bene far aspettare questi buoni fedeli». Il gran prodigio si seppe in tutta la città e la Missione, com’è da immagina¬re, andò avanti a gonfie vele. I prodigi però non erano ancora finiti… Era tempo di mietitura e Gaspare si recava, quando poteva, nei campi tra i mietitori; gli dispiaceva che quella povera gente non potesse ascoltare alme¬no qualche volta la parola di Dio. Certamente anche loro avevano sentito par¬lare di Gaspare, e quando lo videro ne furono contenti. Lo invitarono a divi¬dere con loro il parco cibo all’ ora del desinare e, mentre mangiavano, lo ascoltavano con vivo interesse. Prendendo lo spunto dal grano Gaspare ricor-dò le parabole del Vangelo, così belle, ed essi le ascoltavano incantati. Erano per loro tutte cose nuove! E così arrivò anche all’Eucarestia e li invitò in chie-sa per la confessione e la comunione in qualsiasi giorno ed a qualsiasi ora. Non tutti accolsero l’invito del Santo, ma… meraviglia! il grano di coloro che l’avevano bene accolto fu più abbondante e di miglior qualità del grano di co-loro che lo avevano respinto. Furono proprio i mietitori a dirgli che una giovane, forse parente di uno di loro, giaceva da tempo a letto gravemente malata. Si recò subito da lei, la be-nedisse con la reliquia di S. Francesco Saverio, e la malata guari subito. Intanto i cittadini di Forlimpopoli, ai quali arrivavano queste notizie favo¬lose, non riuscirono più a… starsene a casa. Sobbarcandosi a circa venti mi¬glia di cammino, tra l’andata e il ritorno, si recarono in processione a Meldola per ascoltare di nuovo il santo Missionario. Un giorno, a metà Missione, si verificò un altro strepitoso prodigio: la bilo-cazione. Lasciamocelo raccontare da D. Biagio Valentini: «Io mi trovavo con lui in quella Missione e nella medesima chiesa anch’io udivo le confessioni. Mentre adempivo a questo ministero, vidi che entravano ed uscivano dalla chiesa persone curiose di vedere se il Canonico trovavasi in confessionale e andavano e tornavano alla piazza e alla chiesa per maggiormente assicurarsi di questo mirabile fatto. Essendosi queste persone, con i propri occhi assicu-rate che il Canonico trovavasi nel medesimo tempo qua e là, non potevano fare a meno di pubblicare il prodigio, così che da queste stesse persone, non meno che da quelle che, mentre egli predicava in piazza, si erano da lui con-fessate e non potevano prendere abbaglio, ebbi a sapere con certezza l’acca-duta bilocazione, della quale si parlò anche fuori Meldola». Oramai, ai Settari non restava che… mettersi la coda tra le gambe. Il 26 luglio si chiuse questa Missione, tanto famosa, con la solenne proces-sione del SS.mo Crocifisso che da tempo immemorabile non era stato più mosso dalla nicchia. La popolazione di Meldola si era triplicata per l’accorrere dei fedeli dai pae¬sini vicini. Un gruppo di devoti sulla via del ritorno, a notte inoltrata, trovò il fiume Ronco molto ingrossato e pericoloso a causa d’un improvviso tempora-le. I più animosi, che vollero tentarne il guado, finirono per essere travolti dalla corrente; gli altri cominciarono a gridare: «Santo Padre Gaspare, prega il SS.mo Crocifisso, ché a te ti ascolta!» I coraggiosi si trovarono, senza saper come, improvvisamente trascinati sulla sponda opposta e, del tutto incolu¬mi, anche se ben bene inzuppati di acque limacciose! Com’era abitudine, Gaspare e i compagni, che s’erano in qualche modo tra-vestiti per non farsi riconoscere, se ne stavano andando nascostamente alle due di notte, a raggiungere la carrozza ch’ era ad attenderli fuori città e che li avrebbe portati a Cesena. Ma ecco che sbucò lungo la strada una folla che con fiaccole e a suon di banda li accompagnò fino a Forlimpopoli. Qui intan¬to, avendo saputo del loro passaggio, la popolazione spalancò porte e finestre, accese lumi ovunque e gli andò incontro, improvvisando una calorosa ed af-fettuosa dimostrazione, sicché Gaspare fu costretto a salire su un tavolo e a parlare e benedire. Anch’ egli non potendo reggere a tanto affetto, si asciuga¬va gli occhi e non faceva che ripetere: «Tornerò, tornerò! Ora lascio qui il mio cuore». Con lui è rimasto per anni il cuore dei romagnoli, ed eterna è la sua memo¬ria. Oggi a Meldola, quando si sta per perdere la pazienza, si dice: Me an à miga la pazienzia del Canonic Del Bòfal! Io non ho mica la pazienza del Canonico Del Bufalo! E quando da qualcuno si pretende che faccia troppe cose in fretta e nello stesso tempo, ci si sente rispondere: Me an c’iò miga come e Canonic De Bofai, c’am possa sdupiér per fè dòrobi. Non sono come il Canonico Del Bufalo che possa trovarmi contemporaneamente in due posti! Tre Settari convertiti lo seguirono fino a Castelfidardo, nelle Marche, di do¬ve poi avrebbero continuato a piedi fino a Loreto e ad Assisi in pellegrinaggio di penitenza. Durante questa missione i tre, ogni giorno vestiti di sacco, si inginochiavano davanti alla folla e confessavano ad alta voce i loro peccati. A Gaspare non reggeva più il cuore nel vederli così umiliarsi. Egli li abbrac¬ciò, li benedisse e li esortò a ripartire, augurando loro salutari frutti in quel pellegrinaggio di penitenza. Il ritorno In Romagna i Settari, non potendo far altro e sapendo che il Santo era a Ter-racina, sparsero la voce ch’ era stato trucidato dai briganti. Ma le false voci fu-rono ben presto sfatate dai fatti. Gaspare nel 1819, di ritorno da Comacchio, si trovò a passare nelle vicinan¬ze di Forlimpopoli e la popolazione, essendo venuta a saperlo, gli andò incon¬tro e lo costrinse affettuosamente a fermarsi almeno una giornata con loro. A sera si gremì la piazza, lo issarono di peso sul palco e gli fecero tanta festa, lie-tissimi di vederlo vivo e vegeto. Gaspare nella sua predica promise che sareb-be ancora tornato tra di loro. Qui lo raggiunse una delegazione guidata dal parroco di Canonica, una pie-ve di campagna presso Rimini, e con insistenza lo invitò a tenere anche nella sua parrocchia almeno una breve Missione. Il Santo vi si recò con D. Biagio Valentini e don Muccioli «suscitando non effimeri entusiasmi e grandi frutti di bene». Essendo quella parrocchia di pochi abitanti, Gaspare ne profittò per farne un punto di partenza ed accontentare così tante parrocchie limitrofe, che lo desideravano a loro volta. Durante il giorno egli restava a Canonica e i compagni si recavano nei dintorni: a Sogliano, Ciola, Montalbano ed altri paesi. A sera la popolazione di Can6nica raggiungeva le ventimila persone, molte delle quali incolonnate in processione, vi giungevano da ogni parte. «Questa folla, veramente enorme per quei tempi, costringeva il Santo a predi-care sempre all’aperto; e il Signore benedisse tanto zelo e il desiderio di tante anime col rinnovare il prodigio della voce che, perduta, tornava più forte ed argentina, al momento della grande predica». Il parroco di Canonica, dato lo stragrande numero di confessioni, invitò va¬ri sacerdoti a rimanere nella sua parrocchia per dare una mano. Tra questi c’era anche D. Giuseppe Maggioli, tanto pio ed umile. Gaspare lo volle a dor¬mire e a desinare con i Missionari. Una notte D. Giuseppe fu colpito in forma gravissima da un malore che lo tormentava già da tempo, e fu ridotto agli estremi. Volle che fosse Gaspare a confessarlo e dargli l’Estrema Unzione. Il Santo accorse al suo capezzale e dopo averlo confessato, lo benedisse sog-giungendo: «Non è tempo di Estrema Unzione, ma di lavorare per la gloria del Signore. Domani mattina si trovi puntuale in confessionale». Al mattino era guarito e «non fu una guarigione momentanea, perché visse ancora per moltissimi anni vegeto e robusto». Il vescovo di Rimini lo invitò a tener conferenze alle «Dame» della città, ma soprattutto per prospettargli quanto gli stesse a cuore 1′ apertura di una Casa Missionaria nella sua Diocesi. Nel 1822, nel mese di agosto, Gaspare si sentì irresistibilmente ispirato a tornare a Forlimpopoli. Non erano buone le notizie arrivategli a Roma sulle rinnovate gesta dei Settari. Si sobbarcò ad un viaggio veramente disastroso «nei pieni calori di quel mese». Essendo già impegnati i compagni, passando per Ancona, pregò l’Arcivescovo Mons. Gabriele Ferretti ed alcuni Padri Fi-lippini d’andare con lui; non c’era tempo da perdere! I Settari fin dall ‘inizio della Missione gli mossero un’ acerrima lotta. Durante la sua prima predica in piazza fecero infiltrare, travestite da uomini, delle ragazze al fine di seminare scompiglio e suscitare scandalo. Il Santo dal pulpito sventò il tranello ed il po-polo, che ha buona memoria e non lo tradisce, tornò al primiero entusiasmo. Gaspare e i compagni moltiplicarono lo zelo organizzando pubbliche manife-stazioni. Una sera, mentre predicava in chiesa, fece entrare dal portone prin-cipale, con grande solennità, la statua dell’ Addolorata. Suonavano le campa-ne, i campanelli, l’organo. I fedeli, presi di sorpresa, piangevano a dirotto e gridavano: «Viva Maria! Perdono, pietà di noi!». Lasciò la cittadina dopo quindici giorni e si ripeterono le scene commoven¬ti di addio. Uno stuolo di giovani, cantando inni sacri, accompagnò a piedi i Missionari fino a Cesena. 5. Gaspare ormai sa che non può più rimandare 1′ apertura di Case Missio-nane anche in Romagna, perché comprende le grandi necessità spirituali di quelle popolazioni, e cede alle insistenze di Mons. Marchetti. Il vescovo, con decreto del 12 aprile 1824, nel quale tributa grandi elogi a Gaspare e alla sua nuova Congregazione, fa dono ai Missionari della chiesetta e del monastero di S. Chiara in Rimini, già abbandonato dalle Clarisse; dona anche tutte le proprie suppellettili ed il quadro della Madonna della Misericordia, a lui tan¬to caro. Gaspare prese un affetto tutto particolare a questa Casa e ne fece il Quartier Generale per l’ampia e complessa azione apostolica in tutta la Romagna . Così ne scrisse al Cristaldi: «Qui la gloria di Dio trionfa… Posso dire che Iddio mi compensa le amarezze sofferte con l’aumento del bene qui a Rimini». Quante volte egli si sarà soffermato in orazione dinanzi a quel volto così espressivo e materno, che gli ricordava le care immagini della Vergine poste nelle nicchie, sempre adorne di fiori e di ex-voti, ai cantoni dei grandi palazzi della sua cara Roma! Egli che «parlava con la Madonna», avrà saputo da lei che, quell’immagine, il 12 maggio 1854 avrebbe mosso ripetutamente le sue pupille misericordiose non solo per l’affetto che portava a tutta la Roma¬gna, ma anche in segno tangibile di benevolenza verso i suoi Missionari? Nel 1828, Gaspare lasciò Roma per rimanere per ben diciotto mesi in Ro-magna. Questa lunga ed ininterrotta permanenza dava luogo ad incessanti ri-chieste da tante parti, particolarmente da S. Felice e da Roma, dove si recla-mava la sua indispensabile presenza. A tutti rispondeva: «Le Romagne mi oc-cupano in modo che non si rialza la testa. Quando tornerò a S. Felice e a Ro-ma? Per ora non posso, Dio mi vuole in Romagna». Occorrerebbero pagine interminabili se dovessimo seguire il Santo nel cammino di tanti mesi. Egli, moltiplicando le sue energie, non si dedicava so¬lo alle Missioni al popolo, ma curava in particolare la riforma e la formazione del clero e degli Istituti Religiosi maschili e femminili. A questo fine aprì altre tre Case: Macerata Feltria il 28 maggio 1832; Cesena il 29 dicembre dello stesso anno, e il 12 febbraio 1833 quella di Pennabilli, che fu anche 1′ ultima Casa dell’ Istituto aperta da Gaspare durante la sua vita. Il continuo predicare, i tantissimi viaggi nei periodi di gran caldo o in pie¬no inverno, acuivano di continuo il malessere congenito di cui soffriva alle tonsille, per cui la voce se n’andava improvvisainente e il Signore… era co-stretto ad intervenire, come tante volte, col suo prodigioso aiuto al momento della predica. Così accadde a Soanne, dove s’era impegnato per una Missio¬ne. Essendo rimasto senza voce, pregò quel parroco di rimandarne la data, ma quegli non fu d’accordo: «Verrò anch io con i miei confratelli, gli fece sapere e, se non potrò predicare, reciterò il santo Rosario per il buon esito della Missione. Intant~ preghiamo assieme…» Le preghiere furono esaudite, anche se, finita là Missione, la natura riprese il sopravvento. Il 3 giugno lo troviamo a Monte Copiolo, dove convengono anche gli abi¬tanti di Monte Boaggine, Villa Grande, Maciano, Maiolo, Scavolino. Pensan¬do a Gaspare che percorre, in ogni stagione e con qualsiasi clima, a piedi o a dorso di mulo, monti, valli, dirupi, impervi sentieri, e a quelle popolazioni che col caldo, o col freddo, o sotto il sole, o sotto la pioggia, si recavano dalle campagne, guadando tumultuosi torrenti, spesso di notte, per ascoltarlo, dob-biamo esclamare: Solo un Santo poteva ottenere tanto e solo popolazioni ric-chissime di fede e di speranza potevano sobbarcarsi a tali sacrifici per il bene delle proprie anime!. Il 6 giugno organizzò una grande processione col miracoloso SS.mo Croci-fisso, molto venerato a Monte Copiolo e nei paesi vicini. Tutti indistintamen-te, clero e popolo, seguirono il Simulacro con una corda al collo. Gaspare fu costretto a predicare tre volte, e tre volte si disciplinò sulle spalle denudate. Si seppe poi che vi erano alcuni ostinatissimi peccatori, che avevano capar-biamente respinto il suo invito a confessarsi e, solo quando videro il sangue sprizzare dalle sua carni, finalmente si arresero. Anche qui, come già a For-limpopoli, il Santo fece «apparire» in chiesa la statua dell’Addolorata con gran solennità ed all’improvviso, ottenendo lacrime di compunzione e molte conversioni. Ecco perché egli diceva che «la grande Missionaria, la rapitrice dei cuori era Lei!». Un giorno un’ossessa1 lungo la strada, gli gridò in faccia quasi aggredendo¬lo: «Ladro, ladro di anime, vattene via!» Il Santo, per tutta risposta, la bene¬disse liberandola dal possesso di Satana. A settembre lo troviamo a Misano. Quel parroco, quando gli parlano della santità di Gaspare e dei suoi miracoli, tentenna il capo. Lo segue, lo spia, ma non si convince. «Sì – dice – è un santo sacerdote, pieno di zélo, come ve ne son tanti, ma nulla di più». Tra l’altro il sig. Parroco si prende anche il gusto d’andare a spiare dal foro della serratura quando Gaspare, a notte inoltrata, si ritira in camera.«Ma… che succede stanotte?» si chiede egli una sera. Ave¬va infatti appena accostato 1′ occhio a quel foro, che rimase quasi accecato da una luce vivissima. Vide il Santo in un alone di splendore, in estasi davanti al Crocifisso. Non occorre aggiungere che da quell’istante caddero tutti i suoi dubbi e non tentennò più il capo, anche se non cessò mai d’andare a curiosa-re, ma con ben altre intenzioni. Da Misano Gaspare si portò a Macerata Feltria, accolto «con immenso giu-bilo, mentre le campane si scioglievano a festa, e s’udivano spari a salve da ogni parte». Vi si trattenne per vari giorni. Durante la consueta visita agli in-fermi «guarì da tumore maligno tale Francesco Pasquini, che ne era tormen-tato da qualche tempo». Guarì anche, come narra il Merlini, che ne fu testi-mone, il giovane Federico Corradini, figlio d’un fabbro, che era «furioso ma-niaco, pericoloso, già chiuso in carcere e che al giungere del Servo di Dio era tenuto legato in una stanza a casa sua». Gaspare andò a visitarlo, lo benedisse ingiungendo ai parenti: «Scioglietelo e conducetelo libero a spasso». Era gua-rito e mai più gli riprese quel male. Il Merlini aggiunge anche che Gaspare da Rimini gli mandò in dono un libro, che il giovane gli aveva chiesto. Avvenne anche che un’ossessa si portò davanti alla casa dove il Santo era ospitato e «lo caricò di insolenze e improperi, accusandolo di falso zelo». Ga-spare si affacciò al balcone, la benedisse. La poveretta si quietò all’istante. Quella calma fu anche il segno della sua definitiva liberazione dal Maligno. Nel 1834 Gaspare, come aveva promesso, tornò di nuovo a Forlimpopoli e a Meldola. Anche voi, come noi, vi sarete domandati come mai lo troviamo ripetutamente in quelle due cittadine, mentre chi sa quante altre lo desidera-vano e l’avrebbero accolto con uguale esultanza. Nella narrazione dei Fioretti non abbiamo parlato, per motivo di brevità, dei tantissimi altri paesi roma¬gnoli dove il Santo si recò a predicare; però, senza dubbio quelle due città erano, per così dire, privilegiate dal Santo e non certo per fini meramente umani. Esse «erano la roccaforte dei Settari e dei Carbonari», duri ad arren¬dersi, e perciò Gaspare vedeva la necessità di «colpire il male alla radice» e non poteva lasciare quelle popolazioni in loro balia, né che essi continuassero tranquillamente da quelle cittadine a spargere il loro veleno in tutta la Roma¬gna. I Settari, come già a Fabriano1 anche qui gli offrirono una ingente somma in monete d’oro, se egli li avesse lasciati in pace. È facile immaginare lo sdegno e il secco rifiuto di Gaspare. A differenza della prima volta, in cui Gaspare andò a Forlimpopoli, essendo passato qualche anno, ora egli era «gravemente incomodato e faceva compas-sione solo a guardarlo. Tuttavia con coraggio, fece tutte le funzioni, come fosse stato sano, avvivando tutti i Ristretti da lui eretti nelle precedenti Missioni». Un meraviglioso episodio si narra sia avvenuto anche in questa Missione. In un giorno di festa, mentre Gaspare predicava in piazza, oltre ai romagnoli, erano presenti diversi cittadini tedeschi e francesi. I romagnoli si accorsero che anche loro erano molto attenti e commossi. Incuriositi gli chiesero: «Ma che ci capite voialtri?» «Oh! lui parla molto bene tedesco!» «No, no, parla fran¬cese!» I Romagnoli ribatterono: «Macché, scherzate? Parla romagnolo meglio di noi!» Gaspare invece parlava solo un italiano con forte accento romano, ma avevano tutti ragione: il prodigio apostolico della Pentecoste si stava ripe¬tendo: ognuno lo sentiva nella propria lingua! Ma facciamo narrare gli eventi di quella Missione, anche per non ripeterci, dal giornale modenese La Voce della Verità, citando alcuni passi più salienti di quella cronaca. «La città di Forlimpopoli, che perla sola malvagità dinonpochinemici dell’Altare, che in lei per mala sorte si annidano,- riscosse in tal tempo indistintamente tal nome, che le vicine e lontane città quale oggetto di scandalo, per poco non la sguardavano, ebbe in ora finalmente la sorte di smentire cotale pregiudicata opi¬nione con i segni più parlanti di religione… e par giusto pubblicamente se ne parli. Quei valenti soggetti.. i Missionari, incontrati dal clero e dall ‘in tera popolazione, in pianto sensibile e generale commozione… dovettero certamente avvertire… qua¬le e quanto frutto avessero a ripromettersi dalle loro fatiche. Convenne lasciar la chiesa e costruire il palco nel vasto piazzale di essa. Dovettero confessare che quei buoni semi, sparsi in altre precedenti Missioni, non erano stati soffocati da quella pesti fera zizania di uomini nemici. Era bello l’udire a sera tutto risuonare le divine laudi… Era bello vedere come la gioventù, stordita nei giorni del disordine e del delirio… educata alla scuola dell’empietà, ritrasse il piede dagli odiati suoi pervertitori… correre a dir sue colpe e ritornarsi al meglio. Bello era veder quegli stessi, che sedettero a cattedra d’iniquità, farsi umili discepoli ad udir voci divine.. il turbamento visibile in essi appariva dagli esterni segni di penitenza. E qui non dettaglieremo le continue fatiche dei Missionari, che abbastanza ne parlano i tribunali di penitenza, senza interruzione assediati per gli interi quindici giorni. Colmarono le meraviglie la solenne Processione della Beata Vergine del Po¬polo, patrona principale della città, l’erezione tra grida giulive del Vessillo della Croce. Bastava udire il generale tumulto – erano 12.000 persone – degli affetti inca¬paci a contenersi e le grida di implorata misericordia per dire che la città di Pomi¬ho (Forlimpopoli) potrebbe appellarsi città della Divina conquista. Non minor laude, dopo che a Dio, torni al Venerabile Istituto del Sangue Prezio¬sissimo di Gesù e al Fondatore, che dirigeva la Missione». Anche Meldola non volle essere da meno. Basti riportare una breve cita¬zione dello stesso giornale: «Questa illustre terra ricorderà per lunghissimo tempo con dolce rimembranza… le Sacre Missioni. Gli Operai evangelici furono scelti dall’Apostolico Istituto dei Missionari del Preziosissimo Sangue… Questi zelanti ed instancabili operai hanno pienamente corrisposto… Iddio, nell’abbondanza delle sue misericordie, ha bene¬detto le loro inde fesse fatiche… con dare tanta efficacia alla loro parola, che ogni cuore è stato commosso, ogni volto bagnato da tenero pianto… Non si può dire l’a ffollamento del popolo e il concorso delle Diocesi vicine… Le funzioni sono state le più commoventi…». Da altri documenti possiamo rilevare anche che, sia a Forlimpopoli, come a Meldola, le manifestazioni d’affetto al Santo furono veramente straordinarie, e straordinario il numero delle conversioni; armi e stampe ed emblemi bru-ciati, ed episodi commoventi, anche di natura soprannaturale. Purtroppo, dopo queste due Missioni, Gaspare non ne tenne altre in Roma-gna. Mancavano poco più di due anni alla sua morte ed il cammino da com-piere era ancora molto lungo. Sono innumerevoli le anime che lo aspettano e sono tante le fatiche, alle quali dovrà ancora sobbarcarsi per consolidare la sua Congregazione; sebbene a malincuore, egli non può trattenersi più a lun-go in Romagna. Gaspare, prima di rientrare a Roma, si fermò qualche giorno a Rimini; ave¬va tanto bisogno di riposo! Sapendolo in casa, i Settari, pur non osando atten¬tare alla sua persona – del resto a Rimini 1′ avevano sempre rispettato – per far¬gli dispetto si sfogavano a tirar pugnalate sul portone della chiesa. Il tema preferito di quei giorni con i suoi confratelli era il Paradiso. Una se¬ra, guardando il cielo scintillante che invitava a spiccare un volo per raggiun-gerlo, si diede ad esclamare con enfasi: «Quant’ è bello il firmamento! Oh! bella patria nostra! Oh! grandezza e bontà di Dio che l’ha creato per noi!» Poi chiese ai presenti: «Mi salverò io? Ci andremo tutti?» Gli risposero: «Se non si salva Lei, Padre, chi si salverà? Lei ci andrà di certo, noi chi sa…» «Io mi sal¬verò? Ma per andare in Paradiso, bisogna essere santi!» Fratel Falcione, con spontanea franchezza gli disse: «E Lei ci si faccia!» «Dio lo voglia!» rispose Ga¬spare. La chiamata al Cielo non tardò molto. Egli aveva allora solo 48 anni, e morì pochi giorni prima di compierne 52. Le due croci di Natale Pochi sanno che S. Gaspare fu chiamato anche il «Santo di Natale». Perché? I motivi sono tanti. La santa suora che ne predisse la venuta e l’apostolato, si chiamava Sr. Ma¬ria Agnese del Verbo Incarnato; Gaspare nacque poverissimo il 6 gennaio 1786, giorno sacro all’ Epifania del Signore, e gli furono posti i nomi che la tra-dizione attribuisce ai Re Magi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre; vide la lu¬ce in una stamberga all’ombra della basilica di 5. Maria Maggiore, ove si ve¬nera la Culla del Redentore e mori tre giorni dopo Natale, il 28 dicembre 1837, in una soffitta dei grandiosi resti dell’antico Teatro Marcello in Roma. In questi ultimi giorni della sua vita aveva meditato a lungo e gioito, contem¬plando un piccolo presepe recatogli in dono dalle Suore di S. Urbano, che egli aveva per anni guidate nel cammino alla perfezione, mentre tra le mani strin¬geva sempre il Crocifisso. Presepe e Calvario! Gaspare vedeva e meditava tutti i Misteri della vita del Cristo alla luce del suo Sangue, Mistero-Cardine, Mistero fondamentale della salvezza umana. «Gesù si è incarnato per donarci il suo Sangue, ha vissuto 33 anni, in mezzo a noi, ha predicato, ammaestrato ed operato prodigi per poi arrivare al culmine del suo amore per l’umanità al dono, cioè, di tutto il suo Sangue. Chi ha letto la vita del Santo ricorda certamente la mirabile visione, che egli e S. Vincenzo Strambi ebbero mentre assieme meditavano la Passione di Cristo: Gesù sulla via del Calvario, carico del legno della croce. Un’altra visione, proprio nella notte di Natale del 1827, il Santo l’ebbe a Poggio Mirteto. Una nottata gelida, la neve era caduta in abbondanza e continuava a cade¬re, la gente accorreva lieta alla Messa di Mezzanotte, cantando inni natalizi, tra il festoso richiamo delle campane. Si vedevano lunghe teorie di fiammelle serpeggiare nelle campagne, che andavano man mano concentrandosi verso la cittadina. Erano i fedeli che illuminavano le vie con torce a vento. La chiesa era più gremita del solito1 anche per la presenza di Gaspare, che tutti erano desiderosi d’ascoltare. Egli durante la Messa parlò del grande Mistero Natali-zio «con tanta tenerezza, da muovere i fedeli alle lacrime». Dopo il bacio del S. Bambino, mentre i fedeli si accalcavano verso l’uscita, il Santo s’inginocchiò in fervida preghiera davanti al Presepe. Questo non era certo l’artistico Presepe dell’Ara Coeli sul Campidoglio, né faceva sfoggio delle grosse e artistiche statue di quello di S. Andrea della Valle, in Roma. Egli però non predilige lo sfarzo e la fantasmagoria di luci! Rivive certamente nei suoi ricordi il semplice e piccolo Presepe che da bambino costruiva sotto lo sguardo dolce ed affettuoso della cara Mamma Annunziata… A pregare ac-canto a lui c’era qualche fedele ed un gruppetto di suore. Una di esse, in par-ticolare, notò che mentre il Santo guardava in un punto lontano verso l’alto, quel volto radioso, rapito certamente in una delle sue continue estasi, d’un tratto si velò di tristezza. Non appena egli si alzò per recarsi in sacrestia, la suora lo pregò d’ascoltarla in confessionale, e gli domandò perché mai, du-rante la preghiera, il suo volto, prima tanto luminoso, s’era poi improvvisa-mente turbato. Gaspare le confidò di aver avuto una visione: «Erasi prima in-teso gravare le spalle come da un peso schiacciante, poi, aveva visto se stesso carico di due enormi croci sugli omeri. Sicuro presagio di nuove dolorosissime prove!». Difatti queste non si fecero attendere! I maligni erano riusciti ad ottenere da Leone XII la chiusura delle due case più care al Santo, aperte e mantenute con tanti sacrifici proprio nel territorio dov’ era il covo del brigantaggio, cioè quella di Terracina e quella di Sonnino. Non appena gli fu notificato quest’ordine tanto ingiusto, alzò gli occhi al cielo, aprì le braccia ed esclamò: «Sia fatta la Volontà del Signore». Ma, dentro, il suo cuore sanguinava. Martirio, non è una parola retorica, né eccessiva nella vita di Gaspare. Èvero che non sparse il sangue dalle sue vene, ma dal giorno in cui fu arrestato fino al giorno della sua meravigliosa morte, il suo cuore non cessò mai di san-guinare. Lei vada a prendere un goccio di quel buono! Pontecorvo era, ed è tuttora, una bella cittadina nei pressi di Cassino e, seb-bene ai tempi di Gaspare si trovasse nel territorio del Regno di Napoli, era «città dello Stato della Chiesa». Vi furoreggiavano i Settari, che miravano non tanto a scardinare il potere temporale dei Papi, quanto a togliere Dio dalle co-scienze, imbevendo il popolo di dottrine atee e anticlericali. Per questo il Cle-ro locale da tempo insisteva presso il Santo, che tanti strepitosi successi ave¬va avuto con la sua predicazione contro i Settari delle Marche e della Roma¬gna, a recarsi a tenere una Missione anche nella loro città, con i suoi migliori compagni. Il Santo vi andò il 10 settembre 1822 con ben otto missionari «tutti eccelsi per sapere e virtù», tra cui il futuro Cardinal Gabriele Ferretti, «quan-do le rondini si apprestano a lasciar il bel suolo d’Italia». «Anche a Pontecorvo si rinnovarono i prodigi delle più celebri Missioni» e chiaramente il Signore volle sorreggere la parola del suo Santo e dei compa¬gni anche in modo straordinario. Abbiamo altrove già accennato come: «Du¬rante la Missione si portò con gran solennità la Comunione a duecento infer¬mi. Gaspare li asperse uno ad uno con l’acqua santa e li benedisse con la Reli¬quia di S. Francesco Saverio. Tutti guarirono prodigiosamente, sicché, dopo un tale evento le conversioni non si contavano, né si contavano le armi mici¬diali consegnate! Erano mucchi, cataste e si dovette durar gran fatica a spez¬zarle e a bruciarle! Tra le mirabili conversioni operate dal Santo va raccontata, anche per il modo singolare in cui avvenne, quella posta ben in risalto nei Processi di Bea-tificazione. Uno dei «primari signori» della città, noto capo rivoluzionario, fuggiva la Missione come la peggior peste che avesse contagiato Pontecorvo., Ecceziona-le era la sua avversione verso Gaspare, da tutti ritenuto un santo. Non solo fuggiva la Missione, ma irrideva quei Padri e aizzava contro di loro la popola-zione, maltrattando con veemenza chiunque osava suggerirgli di incontrarsi con lui. Gaspare, da parte sua, s’impegnò assieme ai confratelli ad ottenerne la conversione con preghiere e digiuni ed arrivò finalmente il giorno del trionfo della Grazia. Un pomeriggio Gaspare, certamente ispirato da Dio, invitò P. Barrera, dei Dottrinari, a fare con lui una passeggiata nel giardino intorno al Convento. Mentre camminavano lungo il viale, conversando di cose di Dio, videro pas-sare quel signore. «Presto, disse Gaspare al Padre, lo inviti ad entrare». A un invito tanto cortese, il capo settario, anche se nemico dei preti, non osò ri-spondere con un rifiuto, che sarebbe stato una grave offesa. Ma quale non fu il suo disappunto quando, entrato in giardino, si trovò di fronte Gaspare! Tentò di tagliare la corda, ma il Santo non gliene diede il tempo. Con la sua innata e sincera gentilezza, gli si accostò salutandolo cordialmente. Senza in¬dugio poi, rivolto a P. Barrera, gli disse in schietto tono romanesco: «Lei vada a prendere un goccio di quel buono, perché io e quest’amico vogliamo passa¬re un’ oretta in allegria». Quando il Padre tornò col fiasco, i due erano già spariti. Aspetta ed aspetta, eccoli uscire dalla camera del Santo in affabile conversazione. Gli occhi del settario, erano ancora bagnati di lacrime! «Così, colui che era uno scandaloso e un nemico giurato di Dio, non solo durante la Missione, ma per tutta la vita, divenne l’u9mo più edificante di Pontecorvo!» Agli amici che lo redarguivano: «Com’è mai possibile? Proprio tu, il nostro capo, ci hai vigliaccamente tradito?» egli rispondeva: «Quel Padre santo, mi ha detto tali cose, che non ho potuto resistere. A voi sarebbe acca-duto lo stesso. Provate e farete come ho fatto io!». S. Gaspare tante volte, in tutta umiltà, soleva dire ai compagni che il Signo¬re gli dava lumi straordinari nel confutare gli increduli, sia durante le predi¬che, che nelle private conversazioni. Questa celebre conversione colpì molto la popolazione, che accorse sempre più numerosa ad ascoltare Gaspare, tanto che non bastavano né chiese e né piazze a contenerla. Balconi, finestre, terrazze, alberi erano sempre ricolmi di gente! L’ultima sera nessuno volle perdersi la sua parola, tanto che il sacrestano «non trovando nessuno disposto ad aiutarlo a suonare le campane, disperato dovette pregare il futuro Cardinal Ferretti ad aiutarlo». In seguito il Cardinale soleva dire: «Con il Can. Del Bufalo ho imparato che, anche suonando le campane, si possono convertire i peccatori!». Umbria dolce! Quant’è vasto il campo dell’ apostolato di S. Gaspare! Lazio, Abruzzi, Cam-pania, Romagna, Umbria. Regioni e popolazioni tanto diverse l’una dall’al¬tra e tutte ugualmente care al suo cuore. Tutte le percorre con zelo indefesso e ardente, perché tutte hanno bisogno di Dio. «La terra di S. Francesco, dice con espressione arditamente poetica un’il¬lustre biografa del Santo, fu il suo primo amore missionario». E come avrebbe potuto essere diversamente se il Signore aveva voluto che in Umbria, sul col¬le di S. Felice, in un antico Convento in rovina, sorgesse la Culla dell’Istituto? Ed infatti l’Umbria fu anche il primo campo dell’ apostolato del Santo, come in parte abbiamo già narrato. Piccoli agglomerati di case in campagna, villaggi, paesi e città lo videro ag-girarsi per le loro vie, sui monti, nelle dolci valli verdeggianti, sulle piazze medioevali, nelle chiese ricche d’arte e rigurgitanti di popolo. Il popolo lo amava d’istinto, ammirandone il sacrificio e il disinteresse. Sapeva che cercava esclusivamente il suo bene. L’Umbria non rigurgitava, come le Marche e la Romagna, di settari, di car-bonari, di anticlericali sviscerati e di bestemmiatori raffinati, né, per fortuna, era insanguinata, come il Lazio, dalle truci gesta dei briganti. Vi alitava anco¬ra lo spirito del Serafico di Assisi! La gente era laboriosa, dal carattere pacato e naturalmente religioso; perciò, attratta dalla parola affascinante e persuasi¬va del Santo, «… da ogni parte accorreva ad ascoltarlo, tralasciando i propri interessi e le quotidiane occupazioni per soddisfare l’ansietà di sentirlo, mal-grado abbiano a fare miglia e miglia di strade a piedi, strade per altro, non sempre agevoli, o durante il crudo inverno o sotto la sferza canicolare». Gaspare, da parte sua, comprendeva che quelle popolazioni non erano ta¬rate, se mai «era l’umana fralezza, il rispetto umano, l’amor proprio, l’indi¬genza e a volte la carenza del clero che le teneva lontane da Dio». Cercò quin¬di di far leva sui loro sentimenti per richiamarle alla fede e alle pratiche cri¬stiane. «I frutti, che superavano sempre 1′ aspettazione, erano ovunque evi¬denti e straordinari», e l’Umbria, come le altre Regioni, fu teatro di eventi meravigliosi e straordinari. Spello, tra Foligno ed Assisi, ne sembra la cittadina privilegiata. Nel pomeriggio dell’ lì maggio 1820, festa dell’ Ascensione, Gaspare con al-cuni compagni, diede inizio alla «strepitosa Missione nella cattedrale di S. Lo-renzo, cattivandosi, fin dalla prima sera, il cuore di quel popolo umbro». Mons. Lucchesi, vescovo di Foligno, così racconta un primo prodigio: «I miei ecclesiastici mi riferirono di aver riconosciuto nel Servo di Dio il dono di vati-cinare il futuro. Egli infatti disse che si dessero subito i Sacramenti ad un in-fermo, che egli non aveva mai visto, giacché sarebbe morto il giorno seguen¬te; ciò che avvenne senza meno». Il Rey cita altre due predizioni, rilevate dai Processi: Luigi Fortini, come altri Signori, indossò il sacco di S. Francesco Sa-verio per presiedere al buon ordine del popolo, ma al quinto giorno della Mis-sione ammalò. Dopo il decimo giorno al Canonico Raschi, andatolo a trovare, parve, come assicurava anche al collega D. Zampetti, che gliene aveva chie¬sto notizie, che non peggiorasse, sebbene il Santo avesse detto al mattino: «Il Sig. Fortini, stasera, dopo la Benedizione Papale, andrà in Paradiso». Egli, in¬fatti, mori proprio al termine del giorno predetto da Gaspare. «Pure quivi, ad uno dei deputati della Missione, disse che a termine della Missione sarebbe morto. Ammalò difatti e, benché la malattia non sembrasse mortale, si spen¬se al tempo predetto». Questi fatti suscitarono tanto scalpore, che tutto il popolo andava dicendo: «E’ venuto un santo tra di noi!», e ne era così forte la convinzione che «l’acqua servita al Missionario per radersi la barba, veniva distribuita agli infermi, che istantaneamente guarivano». La stima in cui l’aveva il clero – e noi sappiamo che, purtroppo, non poche sofferenze gli venivano proprio da ecclesiastici – gli diede anche modo di far trionfare l’innocenza dei PP. Redentoristi, che, per vili calunnie, stavano per essere espulsi dal Vescovo dalla cittadina di Spello, con grave scandalo della popolazione. Ora ascoltiamo dalla penna del Ven. Merlini, testimone oculare, un altro episodio non meno straordinario: «Il Sig. Canonico D. Felice Perrucchini, de-putato della Missione, fu chiamato dal Servo di Dio, il quale a lui mostrò vivo desiderio che la chiesa fosse illuminata in tutta la sua estensione nel momen¬to in cui la processione, che si doveva fare per l’impianto delle croci, sarebbe rientrata in chiesa. Avendo D. Perrucchini fatto conoscere che la Collegiata non possedeva del proprio cera sufficiente per eseguire tale sontuosa illumi-nazione, né aveva mezzi per provvedersene, il Servo di Dio lo incompensò di prenderne a suo conto, dicendogli che avrebbe provveduto S. Francesco Sa-verio. D. Perrucchini, per accontentarlo, si recò presso tre persone, che tenevano cera da prestare a calo, cioè Feliciano Angelini, Lorenzo Merallo e Giovanni Bellucci, e dalle loro rispettive botteghe estrasse buon numero di candelotti e presso ciascuno furono pesati per quindi pagarne il consumo. Questa cera fu distribuita per la chiesa. Appena cominciò a rientrare nel sacro tempio la pro-cessione, che era ben lunga… fu accesa ed arsa per tutto il tempo che… il sig. Canonico Del Bufalo fece un’adattata non breve allocuzione al popolo e fin¬ché si chiuse la sacra funzione… Nella mattina seguente, calati i candelotti, furono da D. Perrucchini riportati ai rispettivi padroni, i quali li ripesarono, per far quindi la nota della spesa occorrente in compenso del consumo. Ma somma fu la loro sorpresa allorché, posta ciascuna quantità nelle tre diverse bilance, si trovò ciascuno pacco di cera non solo niente consumato, ma a cia¬scuno cresciuto di ben tre once. Il primo a ripesarla credette errato nel peso fatto e registrato la prima volta, ma allorché si conobbe accadere in tutt’e tre le diverse botteghe il medesimo inaspettato evento, si conobbe il vero mira¬colo. All’annunzio della qual cosa riferita da me stesso al suddetto Servo di Dio, questi rispose sorridendo: «Sia lode a Dio e al grande Padre S. Francesco Saverio!». Il negoziante sig. Angelini affermò che «in sue mani accadde il suddetto prodigio, alla cui solo rimembranza, egli dice, mi si intenerisce il cuore e mi sgorgano lacrime dagli occhi». E il buon popolo di Spello non aveva ancora finito d’essere testimone di tante meraviglie! Il 27 maggio, durante la funzione di chiusura, tenuta mezz ‘ora prima del calar del sole, mentre il Santo predicava sul palco nella Piazza Maggiore, zep¬pa di ben seimila persone, ed aveva sul palco il quadro della Regina del Prez.mo Sangue, prima che impartisse la benedizione papale, si vide nel cie¬lo, ad oriente, (il fenomeno non era dunque un effetto del sole che tramonta¬va) «una croce di color ceruleo, risultante fatta di tre stelle, della grandezza ciascuna di una doppia d’oro» Queste apparivano «tre o quattro palmi al di sopra del capo del Servo di Dio e formavano un triangolo, giacché una stava in alto e le altre due laterali più basse» e «non tanto come la stella Fosforo od Espero rilucevano» ma avevano «una luce più notabile». Tale «croce lumino-sa andavasi lateralmente restringendo di mano in mano che il Santo andava accostandosi alla fine del discorso, fino a pigliar forma d’ una fronda ed indi svanire». Di fronte a questo insolito fenomeno, non certo naturale, il popolo rimase come inebetito; molti furono presi da profonda commozione e lo stesso Ve-scovo diocesano, Mons. Lucchesi, ivi presente, «stupito e meravigliato» rom-pendo in pianto, lo acclamò nuovo S. Vincenzo Ferreri, benedicendo Dio che, con tali segni, sanciva le opere del suo apostolo. Questa Missione ebbe, dopo qualche tempo, per così dire «un seguito stra-biliante», per il fenomeno della bilocazione, quasi uguale, ma più portentoso per il modo come si svolse, a quello verificatosi a Meldola, in Romagna. Così lo narra nei Processi D. Silvestri: «A Spello era stato eretto il Ristretto di S. Francesco Saverio, non poco contraddetto da altra Confraternita. Saputo di queste controversie, incontrai il Can. Perrucchini, designato dal Del Bufa¬lo quale Direttore del Ristretto e gli domandai come andassero le cose. Mi ri-spose che, per buona fortuna, s’era incontrato a passare il Padre Del Bufalo, che con buone maniere «aveva appianate le vertenze insorte» tra i Fratelli, evitando che venissero alle mani e dessero scandalo al popolo. Fu allora che con ammirazione gli chiesi quando ciò era avvenuto, ed egli mi precisò un’epoca in cui da recente lettera del Canonico Del Bufalo stesso avevo rile-vato ch’egli trovavasi in atto in Missione in Romagna. Onde fu da me impu-gnata la sua assertiva e gli addussi le indicate circostanze. Egli rispose: «Il fat-to è così! Né l’ho veduto in sogno o in istato di ubbriachezza!». Io tacqui né potetti combinar le cose se non ammettendo una prodigiosa bilocazione». Come al solito, Gaspare per sottrarsi al trionfo che voleva tributargli il po¬polo, presi con sé il Valentini, il Pierantoni, D. Antonio Caccia e il Can. Mo¬scatelli, senza «neppur prendere un po’ di riposo» da Spello passò ad una par¬rocchia rurale poco lontana da questa cittadina, Fiamenga, dove diede inizio ad una nuova Missione il giorno 28 maggio, festa della SS.ma Trinità. Preceduti dalla fama di sì grandi prodigi, i Missionari furono accolti con grandi manifestazioni di giubilo. Gaspare iniziò la sua prima predica ringra-ziando Dio, perché, senza accorgersene, aveva viaggiato pericolosamente «su una carrozza, le cui ruote, per mancanza di alcuni ferri chiamati acciarini, erano uscite fuori sesto, e non si sa come, non fu causa d’un grave disastro». Gaspare, sempre sereno, aveva prima rincuorato i confratelli spaventati: «Dio ci accompagna sempre e prende cura di noi». È da immaginare con quanta gioia il parroco D. Bernardo Moncolini, gia eroico compagno di pri-gionia di Gaspare a Bologna, lo abbia accolto, lietissimo di averlo con sé! Dobbiamo proprio ad un suo prezioso appunto, che ancora si conserva in quell’Archivio Parrochiale, alcune notizie su quella Misssione. A Fiamenga si recavano in processione, per ascoltare il Santo, da numerose borgate vicine, sicché il pubblico presente alle funzioni era sempre molto nu-trito. Gli avvenimenti di Spello s’erano divulgati largamente ovunque e D. Bernardo dice: «Il sentire che l’Apostolo predicava a Fiamenga, i popoli ini-ziarono straordinarie peregrinazioni d’ogni parte dell’Umbria, per cui riusci-rono tenerissime le processioni di penitenza»; ed «una sera, mentre il Canoni¬co predicava sulla pubblica strada, ecco un vivissimo chiarore venire dal Cie¬lo e investire l’immagine di Maria e da essa riverberarsi fulgidissimo sul vol¬to del Missionario. A quello spettacolo la compunzione fu straordinaria e pa¬recchi, che disprezzando le prediche erano rimasti a far baldoria in una betto¬la vicina, smesso il gioco ed il vino, tosto si fecero ad udirlo e poi compunti lo seguirono in chiesa per confessarsi. Quella luce, essendo a sera, non era do¬vuta a raggi di sole, già tramontato». Era anche bello ed entusiasmante vedere il Santo aggirarsi per le campagne con una gran croce, insieme ad un compagno che suonava il campanello, per radunare i fanciulli alla Dottrina Cristiana ed invitare i contadini alle funzio-ni! La gente chiudeva i casolari e lo seguiva, cantando le canzoncine della Missione. «Aggiunge importanza alla Missione di Fiamenga, scriveva il Par-roco, lo stato di altissima elevazione d’animo in cui trovavasi Gaspare». Non era cosa eccezionale nel Santo, però doveva esserci qualcosa di straordinario, perché, fatto insolito, egli stesso ne scrisse al Card. Cristaldi in una lettera del 5 giugno, che suona così: «L’amore di Cristo, mi eccita a renderla partecipe di quelle dolcissime consolazioni che il Signore mi ha dato nelle Missioni in Umbria… L’accerto che saranno per me sempre Missioni di particolare me-moria… La Missione, poi, in alcune Cure di campagna riunite, si è resa singo-lare per una prodigiosa guarigione d’un infermo, spedito dai medici e che già aveva ricevuto il Viatico, al segnarlo con una immagine di S. Francesco Save-rio…». Esiste ancora nella chiesa parrocchiale un quadro del Saverio, del qua-le così annota in un pro-memoria quel Parroco: «… suddetti Missionari lascia-rono la devozione di S. Francesco Saverio, ove raccomandarono si facesse il quadro del Santo e si diedero pensiero l’Abate Luigi Mazzoni e Giuseppe Piermarini di andar questuando ed hanno fatto fare il quadro di S. Francesco Saverio da Filippo Angeli, pittore in Bevagna, e fu la spesa di scudi tre». Anche il Merlini depone nei Processi che il Santo diede un’immagine del Saverio al Parroco, inviandolo a benedire una donna, grave per emorragie, la quale guarì all’ istante ed il giorno dopo era in piazza ad ascoltare la predica di Gaspare. Lo stesso D. Moncolini descrive di suo pugno l’episodio a conferma della testimonianza del Merlini. Dopo un breve riposo a S. Felice, Gaspare si recò a predicare altra Missione a Montemartano, assieme al Merlini, il quale serberà sempre un commosso ricordo di questa predicazione fatta assieme al suo Padre e Maestro, perché: «Finalmente – così scrive – il giorno dell’ Assunta, egli piegò il mio animo, assi¬curandomi della divina chiamata, nella quale, per la Divina Grazia,mi sono confermato sempre più». Era quella la Missione che avrebbe, a motivo della sua risoluzione, ricordata più di tutte le altre, perché determinò la sua vita fu¬tura di Missionario del Prez.mo Sangue. Mentre percorre l’Umbria, Gaspare fa ripetute «corse» a 5. Felice. Sono tante le cose da disbrigare e, soprattutto lo assilla la ricerca di nuovi compa¬ gni per il consolidamento dell’ Istituto, che resta sempre la sua premura mag-giore. Egli, anche mentre è a S. Felice, non smentisce la sua natura di «terremoto spirituale», e perciò il suo zelo non ha mai requie. Quei giorni non sono dav-vero giorni di riposo! Dal 21 al 28 agosto si reca a Terzo La Pieve, poco lontano da S. Felice, e rac-coglie attorno a sé i contadini sparsi nei casolari e nei villaggi di quella vasta campagna. Comprendendo la necessità d’una loro unione compatta per far fronte assieme alle esigenze economiche e alla giusta rivendicazione dei propri diritti verso i padroni, a volte esosi ed ingiusti, crea una specie di cooperativa religiosa-agricola di mutuo soccorso per le necessità spirituali, sociali ed eco¬nomiche della categoria. Come si trova a suo agio tra gli umili e i poveri e quanto gode nel constatare come le loro anime si aprono con semplicità e fe¬de alla parola divina! il curato D. Aurelio Pescioli, parlando dopo 30 anni di quella Missione, affermava con commozione, che ancora ne era vivo il ri¬cordo e se ne constatavano i frutti. Nel viaggio di ritorno a S. Felice, avvenne un altro miracolo del Santo, che ci lasciamo raccontare, anche questa volta, dal Ven. Merlini, così com’egli depose nei Processi. «Raffaele Proietti dell’età di anni 65 circa e Domenica Campagna, sua mo¬glie, domiciliati nel castello di Montecchio, attestano che, nell’occasione del¬la Missione data dal Servo di Dio a Terzo La Pieve, essi avevano un figlio per nome Angelo, che poteva avere circa otto anni, il quale, per essersi data una roncolata sul ginocchio sinistro, giaceva in letto da tempo senza potersi muo-vere ed affatto impedito dal camminare, dicendo i Professori che Angelo sa-rebbe sicuramente rimasto storpio. Terminata la Missione, mentre Gaspare faceva ritorno a S. Felice, precedendolo un di lui compagno, al quale Raffaele e Domenica raccontarono la loro disgrazia, questi disse che 1’avessero pre-sentato al Servo di Dio. Domenica corse a prendere il figlio che giaceva in let¬to e portandolo fra le braccia, lo presentò al medesimo, il quale, senza neppur guardarlo e senza che gli fosse indicato il ginocchio malato, né tampoco pote-va vederlo perché coperto, indovinò a toccare con la mano dove appunto era il male e quindi proseguì il viaggio. La detta Domenica proseguì quindi ad attestare che, nel ricondurre il figlio Angelo in casa per porlo in letto, dopo salite poche scale, sentì dirsi da lui queste precise parole: «Mamma, mettimi giù in terra». Avendovelo Domeni¬ca posto, Angelo risalì da se stesso le scale e così rimase risanato e ricamminò liberamente, come liberamente camminava ancora al 1839 (cioè due anni do-po la morte del Santo) in cui questa relazione rilasciò la detta Domenica. Un altro teste usa un’ espressione più vivace: «Angelo, sceso dalle braccia della mamma, cominciò a saltare su e giù per le scale come una lepre». Gaspare era appena rientrato nella cara solitudine di 5. Felice che già si tro¬vò di fronte alle pressanti insistenze del Vescovo di Todi, affinché «finalmen¬te si rechi con i suoi missionari anche in quella città, tanto bisognosa della pa¬rola di Dio». Vi andò nel 1835, appena due anni prima della sua morte, con il Betti e il Merlini. Subito conquistò l’uditorio, che nell’ascoltarlo lo acclamò: «Angelo di Dio e Apportatore di pace». Il clero, ed in particolare, «un dotto ecclesiastico, cano-nico di quella Cattedrale», è alquanto diffidente, e pensa che la grande fama di santità, gli eventi prodigiosi, le strepitose conversioni, siano frutto di fanta-sia ed allucinazione popolare o aneddoti creati ad arte, sia pure a fin di bene. Ma ben presto tutti devono ricredersi. Il primo è proprio il dotto D. Girolamo Leti, perché «non appena l’ebbe in-teso, fu costretto a farne grandi elogi per 1′ oratoria ricca di dottrina e soprat-tutto di unzione e zelo». Ma avvenne, per disposizione divina, un evento tal-mente straordinario, che colpi e scosse profondamente tutta la popolazione e cancellò ogni incertezza in quei sacerdoti così dubbiosi. Era tanta la ressa ai confessionali, e a quello di Gaspare in particolare, che questi per ascoltare gli uomini doveva rimanere in chiesa fino alle due o tre ore dopo la mezzanotte. Una sera, dopo aver ascoltato la confessione d’un ta-le, gli si fece davanti un signorotto pettoruto ed arrogante, che, senza tanti preamboli, 1′ apostrofò: «Lei ha confessato or ora quel tizio; è un ladro… Mi dica subito quanto mi ha rubato». S. Gaspare non si scompose, anzi gli rispo-se con un sorriso e tanta gentilezza: «Signore, lei certamente sa che per nes-sun motivo, anche a costo della vita, il sacerdote può svelare quanto viene a sapere in confessione». Quel rifiuto, cortese, ma deciso, esasperò il signorot¬ to, che passò subito alle minacce, ma trovò il Santo più che mai irremovibile. Perse allora il lume della ragione e puntò la pistola dritta al cuore del Missio-nario, il quale pensò che, senza dubbio, fosse finalmente giunta per lui l’ora di dare la vita per Cristo. Non arretrò d’un passo e ripeté con forza: «Mai! Mai!» S’udì uno sparo secco, fragoroso.. «No, non è possibile!» esclamò il signorotto incredulo nel vedere Gaspare illeso, ancora dritto davanti a lui. La pallottola era infatti caduta fredda ai suoi piedi, senza neppure bruciacchiargli la veste. Intanto la folla che gremiva la chiesa, all’udir lo sparo e avendo veduto chi era entrato in sacrestia, intui tutto e si precipitò per vedere cos’ era successo, per piangere la morte del santo Missionario e… vendicarlo. Ma il signorotto, furibondo e confuso, protetto da S. Gaspare, fece appena in tempo a svignar-sela dalla porta della sacrestia e ad evitare un sicuro linciaggio. «Sì, gridavano tutti, Gaspare è proprio un santo e Dio è con lui!». Qui dobbiamo concludere questa lunga carrellata di così grandiosi eventi, ma il cammino del Santo nella sua dolce Umbria, continua… Come non far cenno, perciò, alla Missione di Cannara, presso Assisi, dove, come scrive quel Vescovo Diocesano: «L’eroico zelo e la grande carità di Ga-spare e dei suoi Missionari, produssero effetti prodigiosi»? Ne rimase viva la memoria per lunghi anni, anche per la Processione interminabile e commo-vente del taumaturgico Crocifisso, venerato nella chiesa della Buona Morte, che da anni ed anni non era uscito per le vie della città. E come non parlare del suo amore verso i reclusi nella Rocca di Spoleto? Questa bella e celebre città, che non dista molto da S. Felice, era un passag¬gio obbligato per chi da Giano doveva recarsi a Roma e sede arcivescovile, dalla quale dipendeva la Casa di S. Felice. Era anche la patria del Ven. Merli¬ni. Non era dunque difficile al Santo, che tante volte doveva recarvisi, ottene¬re dalle Autorità di poter visitare i reclusi della Rocca. Egli sapeva, per propria esperienza, per gli anni passati nelle carceri di Bo-logna e nelle Rocche di Imola e Lugo, che nelle prigioni non vi sono solo rei, ma anche innocenti. Sapeva quanto fosse dura la vita carceraria; conosceva le sofferenze, le angherie, le ingiustizie; conosceva quel vitto scarso e stoma-chevole, i soprusi dei secondini, l’immoralità, le sevizie per estorcere confes-sioni, le bestemmie, le invettive. L’ansia di entrare fra quelle mura per porta¬re una parola di conforto e di speranza ai detenuti quando passava per la cit¬tà, lo attanagliava, si faceva sempre più viva. Si sforzava di muovere a penti¬mento i più incalliti, percuotendosi fino al sangue con la disciplina al loro co¬spetto per «ammollire i loro cuori». Poi, quando rientrava a S. Felice, diceva ai confratelli: «Quanto bene, quan¬ti frutti nella continua missione nella Rocca!». Conoscendo il grande cuore del suo protettore ed amico, Card. Cristaldi, gli rivolgeva continue suppliche affinché intervenisse presso il Papa perché si usasse più misericordia che giustizia verso i sinceramente pentiti; fossero liberati gli innocenti, vittime di odi politici o vendette private; fossero trattati umanamente e dignitosamente anche i peggiori delinquenti. Quando si trova-va a Roma, si recava nei vari Dicasteri competenti a raccontare episodi toc-canti di detenuti ravveduti, spingeva a fare indagini più serie ed accurate per accertare la verità su chi si proclamava sinceramente innocente. Si adopera¬va affinché si usasse più clemenza e si migliorasse il vitto, si curassero i mala¬ti e si sostituissero gli aguzzini… Tra 1′ altro, così dice nella lettera: «Il mio cuore esulta e resta consolatissimo delle buone disposizioni dei detenuti; le notizie sulla perseveranza nel bene di quei poveretti sono delle più consolanti! Voglio con gioia metterne a parte il grande cuore paterno dell’ Eccellenza Vo¬stra, affinché possa anche Lei farne gran festa, come si fa certamente nel Cie¬lo per il ritorno a Dio di queste pecorelle smarrite». Sul piazzale del Convento di S. Felice, davanti alla bellissima chiesa roma¬nica, ora restaurata e riportata all’antico splendore artistico, sorse anni fa, per volontà dei Missionari, un bel monumento in bronzo. S. Gaspare dal pie-distallo leva in alto il Crocifisso, come a benedire perennemente le valli, i ca-solari, le campagne dell’ Umbria dolce. Ma il monumento più fulgido sorge perenne, di generazione in generazione, nel cuore di quel popolo, che, forse dopo Francesco d’Assisi, nessuno ha mai amato più di S. Gaspare. La sua Messa S. Gaspare, giunto alla soglia del sacerdozio, se ne sentì talmente indegno che, se non fosse stato l’amico S. Vincenzo M. Strambi, vescovo di Tolentino, a persuaderlo che i suoi scrupoli erano solo una raffinata opera diabolica per mandare a monte il gran bene ch’ egli un giorno avrebbe fatto alle anime, non avrebbe mai salito l’Altare. Superata ogni titubanza, in seguito, fu sempre lieto e gioì della sua ordina-zione sacerdotale e ne celebrava con particolare raccoglimento 1′ anniversa¬rio. Aveva poi tanta stima per i Ministri di Dio, baciava loro le mani e li chia¬mava sempre «Venerabili Fratelli». Non tralasciò mai di celebrar Messa. Il martirio maggiore, durante la prigionia, non fu causato tanto dalle sofferenze fisiche, quanto dal divieto di dir Messa e, quando egli ed i compagni, eluden¬do la stretta sorveglianza dei secondini, riuscirono ad offrire di nascosto il Sa-crificio dell’Altare, «la prigione divenne un paradiso». La sua giornata si poteva considerare divisa in due parti: una di preparazio¬ne, l’altra di ringraziamento alla Messa. Riservava a sé, quand’ era certo di non urtare suscettibilità, «il privilegio» di tener lindo l’altare del SS.mo Sacra-mento, cambiar 1′ acqua ai fiori – non ammetteva fiori finti – spolverare, cura-re che la lampada fosse perennemente accesa, che fossero immacolati i sacri lini e ben dorati gli interni dei calici, delle patene, pissidi ed ostensori. Quan-do attendeva alle pulizie dell’Altare amava chiamare intorno a sé gli Allievi per infervorarli a servire all’ Altare e così prepararli al sacerdozio. «Ma, dice-va, il vaso più lindo per ricevere Gesù dev’ essere la nostra anima!»; perciò si confessava, egli cosi santo!, anche più volte la settimana. Era ardentissimo lo zelo col quale si premurava di erigere Confraternite del SS.mo Sacramento, di organizzare Ore di Adorazione diurne e notturne, e processioni. eucaristi¬che. Durante le Missioni non mancava mai di portare con gran solennità la Comunione agli infermi e di concluderla con la Comunione Generale. Ogni decisione d’importanza veniva da lui presa solo dopo aver pregato intensa-mente nella S. Messa. Ed ora ecco qualcuna delle unanimi e numerose testimonianze raccolte dai Processi: «Celebrava con la massima devozione ed era sempre infiammato in volto durante la Messa». «Nel celebrare sembrava un angelo». «Il suo volto si infiammava ed eccitava gran devozione anche negli astanti». «Durante la ce-lebrazione era tale la sua emozione che, a volte, dai suoi occhi sgorgavano co-piose lacrime e si temeva svenisse sull’altare». Quando celebrava privata-mente, dopo la Consacrazione, faceva cenno al sacrestano di lasciarlo solo e tornare dopo un’oretta. Quando il sacrestano tornava, lo trovava sempre in estasi. I fedeli accorrevano numerosi, quando sapevano che celebrava il Can. Del Bufalo: «Andiamo ad ascoltare la Messa di un santo!» Non è da stupirsi, perciò, se durante le sue Messe si siano verificati tanti episodi straordinari. Abbiamo già narrato altrove le voci arcane ascoltate a Loreto e a Montefalco e narreremo la meravigliosa visione delle catene d’oro. Il Santo stesso confidò al suo confessore P. Taviani della Compagnia di Gesù, che, dopo la Consacrazione sentiva spesso «voci superne» che gli predicevano le sofferenze che avrebbe incontrato nell’apostolato. A Pereto, durante la Missione del 1827, in attesa che arrivasse il Clero nella chiesa di S. Salvatore ad ascoltare la sua conferenza, egli si raccolse in pre-ghiera davanti all’ altare. Man mano che quei sacerdoti entravano, si ferma-vano incantati nel vederlo avvolto in un alone di luce, sollevato di qualche palmo dalla predella dell’ altare, con lo sguardo fisso al Ciborio. Analogo episodio s’era già verificato nel 1824 a Campoli Appennino nella chiesa della Madonna delle Cese, alla presenza dei fedeli. Erano li presenti anche le zie del Missionario D. Silvestri, Luigia e Maria, la quale, proprio in seguito a quel prodigio, si sentì spinta a farsi suora Benedettina. Avremo oc-casione di narrare anche altri episodi simili, ma qui vogliamo concludere facendo una considerazione. Solo la luce e il profumo dell’ anima sacerdotale di Gaspare p6tevano meritare privilegi così eccelsi! Un profumo misterioso che spesso sentiva, anche materialmente, chi lo accostava. Gaspare non usava profumi, ma certamente quell’odore promanava mira-colosamente dalla sua anima, che, al dire dei suoi confessori e compagni, aveva conservata intatta l’innocenza battesimale. Perciò veniva comunemen¬te chiamato: «Il celeste Del Bufalo». Quel dito! Lo scopo più assillante, se non addirittura l’unico, di tutta la vita di S. Ga¬spare fu quello di riportare le anime a Dio attraverso la «predicazione ai po¬poli del Cristo Crocifisso, che per redimerli versò il suo Sangue». Si legge che nei primi anni della sua vita, fin da piccolo, saliva su una se¬dia o un tavolo davanti all’ altarino, che egli stesso aveva eretto in casa e, per-cuotendosi con una corda, gridava: «Convertitevi peccatori!». Questo fu il gri-do accorato di tutta la sua vita nelle chiese e sulle piazze dell’ Italia Centrale. È ovvia la domanda: «E quanti ne convertì?» Scorrendo la sua lunga e intensa vita d’apostolato e leggendo le cronache di tante Missioni, risponderemmo, senza tema d’esagerare: Milioni! Ricordate l’episodio dell’ossessa, che certa-mente aizzata dal demonio che ne sapeva abbastanza, gli gridò arrabbiata: «Va’ via, ladro di anime!»? Gaspare, ancor giovane, era chiamato Apostolo di Roma; poi fu comune¬mente chiamato L’Apostolo. E degli Apostoli ebbe la fede, il fervore, le ansie, la santità e perfino i doni straordinari. Alla parola univa digiuni e preghiere e, di fronte ai più incalliti nel male, anche la disciplina a sangue. Come S. Paolo, nella predicazione rifuggiva da parole vane e predicava soltanto il Cristo Cro-cifisso. Il Merlini testimonia: «In lui era lo Spirito del Signore a parlare. Alla forza della sua parola corrispondeva la santità della sua vita». Era dunque tut-to qui il fascino col quale conquistava perfino i più ostinati. Dio, da parte sua, non mancava di suggellare «con i suoi segni» l’apostolato del Santo. Di episodi straordinari se ne potrebbero narrare proprio a migliaia. Qui è un libertino che abbandona le turpitudini o “una prima donna” che ve- dendolo disciplinarsi, si compunge e muta vita; là una vanitosa che diviene penitente. Giovani dissoluti, entrano nei conventi più austeri; alti ufficiali che abbandonano la brillante carriera per prendere il saio; persone da anni lontane da Dio, che ritornano alle pratiche religiose; peccatori, che appena fi-nita la predica, gli si gettano ai piedi per confessarsi! Sacerdoti sacrileghi, Set-tari e Carbonari, ricchi avari, donne dissolute, sicari, ladri inveterati, e terri-bili briganti si convertono. L’elenco non finirebbe più! In questi Fioretti abbiamo già narrato qualche episodio significativo, altri ne narreremo ancora. Ma ora sentite ciò che avvenne in un piccolo paese del¬la Romagna. Era prassi che ovunque i Missionari, al loro arrivo in paese, fossero accolti dal popolo esultante, tra canti e suono di campane; li invece 1′ accoglienza fu freddissima. Perfino il clero, alquanto contrario alla Missione, era assente, e Gaspare quella prima sera in chiesa si trovò davanti a poche vecchiette. Ai compagni abbattuti disse: «Quando si incomincia così, i frutti saranno enor-mi!» «Scese in piazza» a conversare con i cittadini, fece capolino nelle bettole e addirittura nei Circoli dei Massoni, che 1′ avevano minacciato di morte. «Ami-ci vi aspetto in chiesa! Io ho avuto il coraggio di venire da voi; se avete ugual coraggio, tocca a voi ora venire da me». Era dunque una sfida! Un vero romagnolo non si sarebbe giammai mac¬chiato di codardia. Dopo tutto, un giovane prete così coraggioso, non 1′ aveva¬no mai incontrato, sicché destò anche qualche simpatia. Bastarono due tre prediche a fare il resto. Conversioni e confessioni a bizzeffe! Una sera,proprio laggiù, all’ingresso, quasi temesse che la chiesa gli cades¬se addosso, un individuo conosciutissimo e assai temuto in paese, era in ascolto visibilmente turbato. Quando tutti erano già usciti, fermò il sacresta¬no che stava per chiudere, e gli disse: «Aspetta, voglio confessarmi». Il vecchietto sbalordito corse dal Santo: «Padre, padre! C’è un tale che dice di volersi confessare… io lo conosco, lo conosco tutti… Ne ha ammazzati!!! Sarà carico di armi ed è certamente venuto per farle la pelle». Gaspare, per tutta risposta, andò incontro all’ uomo e lo invitò con dolcez¬za: «Venite, fratello!». Quegli si inginocchiò piangendo ai suoi piedi: «Padre santo, ero entrato per curiosità un momento in chiesa e vi ho sentito dire: «Fratello, tu che uccidi…», e puntavate verso di me il vostro dito. Esso si vvi-cinava sempre più minaccioso verso di me, poi è diventato enorme e mi ha schiacciato il petto! Ho passato la mano sotto la camicia e tirandola fuori, l’ho guardata… Sanguinava… Basta, non ne posso più, padre santo!». «No, fratello – gli disse S. Gaspare – non era il mio dito, ma il Dito di Dio, che ti ha toccato il cuore, l’ha ferito col rimorso. Ora le tue lacrime hanno la¬vato ogni peccato, ripara il mal fatto e cambia vita. Sono certo che da questo momento sarai un uomo felice!» E così fu. La vendemmia miracolosa Accadeva anche che perfino i parroci per svariati motivi non sempre gradi-vano le Missioni, sebbene volute dai Vescovi e desiderate dalla popolazione. In un paese di Romagna il parroco, prima che il Santo si recasse nella sua parrocchia, gli fece sapere a chiare parole che non era affatto, né desiderato, né gradito e quindi non sarebbe stato bene accolto. Gaspare però rispose che sarebbe andato ugualmente, perché così gli era stato ordinato dalla legittima Autorità ecclesiastica. Vi andò, ma tra la popolazione festante che l’accolse, mancava proprio il parroco. Perché? Prima che giungessero i Missionari, as-salito da fortissime febbri, fu costretto a mettersi a letto e solo a Missione fini-ta, cominciò a migliorare. Ovviamente il popolo volle prima accertarsi se era veramente malato, e poi sentenziò: «Castigo di Dio!». Ma non era solo il parroco a non gradire la Missione. Quando giunsero i Missionari si era in piena vendemmia e si sa che, se il raccolto è abbondante, la vendemmia è anche occasione per stare allegri, amoreggiare, cantare e im-bandire laute cene. I padroni borbottavano: «Questi corvi neri son venuti a guastarci la festa!» Il Santo, che non aveva scelto di suo capriccio quel perio-do, cercò di fare opera di persuasione. Assicurò i contadini, e i padroni in mo-do particolare, che le prediche non avrebbero causato né perdita di tempo, né danno alcuno; anzi Dio avrebbe benedetto il raccolto, e si poteva stare ugual-mente allegri, ma senza peccare. Alcuni, persuasi, si recarono puntualmente alle funzioni; altri invece, non solo se ne infischiarono, ma si diedero anche ad ostacolare l’opera del Santo. Or avvenne che, terminata la Missione con gran successo, anche padroni e contadini tirarono le… somme, e coloro che avevano osteggiato il Santo «si ebbero un raccolto molto scarso, valutato la metà degli anni peggiori, gli altri addirittura il doppio degli anni migliori e uva di prima qualità!». Giacché siamo in tema di vendemmia e quindi di vino, ci piace qui raccontare anche quanto avvenne a Prossedi nel Lazio. Prossedi era la patria dei famigerati Giuseppe De Cesaris e Antonio Vettori, briganti di prim’ordine e ferocissimi che «non risparmiavano neppure i loro parenti». Nel 1823 Gaspare vi si recò nel mese di maggio col Valentini, D. Pierantoni e il Can. Bonderli. Fu acclamato angelo di pace: «…piegò gli animi torbidi di vendetta, strappò dalle mani dei malvagi armi sanguinarie, allontanò i giova¬ni dalle vie del delitto, inculcò la devozione al Preziosissimo Sangue e assicu¬rò la popolazione che, se ne fosse stata devota, l’infausta piaga del brigantag¬gio sarebbe stata sradicata e sarebbe ritornata la bramata tranquillità». Il Sig. Luigi Petoni-Giglioli, notabile del paese, volle aver l’onore di ospitare in casa sua Gaspare e i suoi Compagni per tutto il tempo della Missione. Egli stesso in una lettera così narra: «Fui lieto d’ospitare i santi Missionari ed il Can. Del Bufalo per gratitudine del bene che facevano al mio paese. Avendo loro somministrato il vino, conobbi apertamente che questo riuscì migliore di altre botti mie proprie e di qualità singolari, il che prima non era. Era vigoroso e di grato sapore e così si conservò fino al termine della botte. Ebbi poi un’an¬nata di raccolto di gran lunga maggiore, che i savi reputarono con ammirazio¬ne il fatto essere straordinario». Il fatto è confermato anche dal Merlini. In parole povere… aveva scelto per i Missionari il vino della qualità più sca-dente che si trovava nella ben fornita cantina, perché essendo uomini di pe-nitenza, avrebbero dovuto accontentarsi di quel che gli si metteva davanti. S. Gaspare si… vendicò addirittura premiandolo! Scherzi di santi! Il prodigio fu ricordato a lungo; anzi si narrava anche che la pia e buona si-gnora del sig. Luigi diceva al marito: «Questo vino miracoloso dobbiamo te-nerlo da conto come una reliquia e berlo un po’ per volta e solo nelle grandi circostanze…» Il marito, però, era di tutt’altro parere. «No, no! Se poi si gua-sta? Bisogna berlo subito e a volontà». Pensiamo che l’abbia avuta vinta proprio il marito! Il tabacco Il fatto che narriamo è autentico e lo racconta sotto giuramento nei Processi di beatificazione lo stesso interessato Michele De Mattias di Vallecorsa in Ciociaria. E non solo lui, ma lo confermarono anche vari altri testimoni. Dobbiamo premettere che, anche sotto lo Stato Pontificio, più o meno co¬me ora, non poteva essere coltivato tabacco senza l’autorizzazione del Gover¬no, essendo considerato il prodotto monopolio di Stato. Narra dunque il De Mattias: «Nel 1827, mio padre aveva fatto domanda per una piantagione di tabacco e non vedendo arrivare il permesso in tempo uti¬le, piantò il granturco. Venne il Can. Del Bufalo e mio padre si lamentò con lui: «Per i poverelli e i non raccomandati, i permessi non arrivano mai». Il Ca-nonico promise i suoi buoni uffici e finalmente il permesso arrivò. Ci sembrò proprio una presa in giro, perché ormai la stagione propizia era passata da un pezzo! Gaspare disse a mio padre di aver fiducia nella Provvidenza e dì pian-tare urgentemente il tabacco. Si recò anche sul campo, dove già sbucavano le pianticelle di granturco e lo benedisse. Mio padre tentennava. Sì, P. Gaspare era senza dubbio un santo e tutto ciò che diceva s’avverava, ma… dopo tanto lavoro, sradicare le piante di grantur¬co per piantare tabacco fuori tempo, gli sembrava cosa poco sensata. Si ri¬schiava di non raccogliere né granturco, né tabacco. Lo avrebbero preso tutti per un allocco! Alla fine si decise per il tabacco e a suo tempo, che raccolto e che qualità! Tutti si recavano a guardare con curiosità il campo del miracolo. A Frosinone fu premiato come il migliore di tutto il raccolto e il riconoscimento avvenne senza raccomandazioni e regali sottomano. Devo anche aggiungere che la terra di mio padre non era nemmeno la più adatta, anzi a dire il vero, era inferiore a quella degli altri coltivatori di tabacco». Qualcuno penserà: Ecco un santo che alimenta… i vizi! Ecco un santo che manda a male un campo di granturco, necessario al nutrimento, per sqsti-tuirlo con un campo di tabacco, che dovrà andare in fumo ed alimentare un vizio, che nuoce anche alla salute. Bisogna però riflettere, innanzi tutto, che allora non si sapeva che il tabacco fosse tanto nocivo come si è accertato ai nostri tempi, ma anche che veniva pagato molto bene. Il Santo dunque, se operò un prodigio del genere fu solo per aiutare un poveretto che navigava in cattive acque, e che non avrebbe mai potuto dare una bustarella come tanti altri per avere quel permesso. Insomma il Santo volle compiere un atto di ca-rità e di giustizia. * * * Corriamo ora all’anno 1833 e precisamente nel mese di gennaio, quando Gaspare stava predicando una Missione a Zagarolo. Chi non sa quanto, nei piccoli centri abitati quasi totalmente da pastori, contadini ed operai, siano profondi gli odi e frequenti le vendette? Gaspare, come abbiamo narrato, aveva appena compiuto un vero e proprio miracolo per convincere una madre a perdonare 1′ uccisione della figlia, ed ecco che si trova di fronte ad un altro caso, nel quale, se ancora non c era scappato il morto, avrebbe potuto esserci da un momento all’ altro. Un uomo, anni addietro, aveva commesso un delitto veramente abbietto. Spinto dall’ odio contro un compagno di lavoro, senza farsi scoprire, gli riem-pì la casa di tabacco rubato; quindi andò a denunziarlo alla gendarmeria co¬me contrabbandiere e ladro. L’innocente fu subito incarcerato e condannato; così la famiglia fu gettata sul lastrico e nel disonore. Non è omicida soltanto chi toglie la vita con un’arma, ma anche chi uccide il prossimo nell’onore, e per giunta, causa la rovina d’una famiglia. Una sera, l’assassino, ascoltando le prediche del Santo, non resse più al ri-morso. La voce del Santo Missionario gli penetrò implacabilmente nell’anima e lo sconvolse. Durante la notte, non potendone più, s’alzò e corse a gettarsi ai suoi piedi, narrandogli ogni cosa. «Sì, figliolo, ma non basta pentirsi. Bisogna riparare, risarcire…». «Sì, pa¬dre, risarcirò fino all’ultimo baiocco!». «No, non basta! Quell’uomo è in car¬cere, è innocente e disonorato. Occorre dire la verità». L’uomo si irrigidì. «Comprendo, continua Gaspare, ma cosa vorresti tu se egli l’avesse fatto a te? Coraggio, andiamo dai gendarmi a dire la verità. È buio, nessuno ci vede. Do-po sentirai tanta gioia nel cuore. Il giudice comprenderà, sarà clemente, e so-prattutto Lui, il Crocifisso, ti stringerà al suo Cuore e ti assolverà». Anche il povero calunniato, quella notte, uscendo dalla prigione, abbracciò il nemico e lo perdonò, rinunciando alla vendetta. Non sono forse questi i più bei miracoli di S. Gaspare nelle sue Missioni? Il palco S. Gaspare quasi detestava il pulpito attaccato lassù, in alto, alle pareti del¬le chiese. Egli volle essere sempre missionario e non un «predicatore di car-tello»; perciò, anche se le sue prediche avevano «squarci di sublime oratoria», voleva che fossero un colloquio con i fedeli. Nel famoso «Metodo delle Mis-sioni» lasciato ai suoi figli, prescrisse che fosse usato sempre il palco e mai il pulpito, e così volle anche che in tutte le chiese dell’Istituto vi fosse il palco in permanenza. Non appena vi saliva, s’inginocchiava a baciarlo, issava il grande Crocifis¬so, che portava sempre con sé, esponeva il quadro della Madonna del Prez.mo Sangue e poggiava un teschio e la disciplina sull’inginocchiatoio. Niente di teatrale, perché, diceva: «Sono il Crocifisso e la Vergine a tener la Missione». Quanto amava quella ressa! Godeva nel vedere i fedeli assiepati intorno al palco, quasi aggrappati alla sua «sottana» e con essi teneva lunghi ed ardenti colloqui, anche se era sempre e solo Lui a parlare! Forse per questo la sua oratoria era meno dotta, brillante ed elevata? Ascoltiamo qualche giudizio di intellettuali, del clero, di eminenti persona¬lità della scienza. «Aveva doti così straordinarie che lo rendevano non solo perfetto oratore, ma vero apostolo dei tempi – Era chiamato, per la sua parola, «Terremoto spiri-tuale» – Nella predica dell’ Inferno l’eloquenza di Gaspare era terribile e grandiosa! – Nella predicazione, anche se semplice, denotava acutezza d’inge-gno e dialettica – Possedeva al più alto livello e con sicurezza la dottrina teolo¬ gica, la Scrittura, la Patristica – Aveva il dono della parola ed anche se predi-cava di solito fino a dodici volte al giorno, mai si ripeteva – Possedeva dottri¬na somma, forza d’argomenti, chiarezza, facilità nel dire. – Era veemente, pia-cevole, commoveva, infiammava nell’ amor di Dio. – Era un S. Paolo redivivo, un nuovo 5. Vincenzo Ferreri, un’arca di scienza, un fiume d’eloquenza! Era un incanto sentirlo parlare! Perfino il clero, di gusti così difficili, accorreva ad ascoltare le sue prediche e le conferenze ad esso riservate, perché lo ritenevano dotto e santo. Sappiamo dov’ egli attingesse la forza della sua predicazione: dalla costante unione con Dio. Preparava le sue prediche ai piedi del Crocifisso. A chi gli chiedeva perché mai, a volte, cambiasse argomento appena giunto sul palco, rispondeva: «In quell’ istante il Signore me lo ha ispirato». A queste prediche ispirate seguivano immancabilmente conversioni strepi¬tose dì grandi peccatori presenti in chiesa. Era efficace perché parlava solo di Dio e perché la sua parola «era permeata di zelo e somma unzione». Ognuno in essa scorgeva la voce di Dio rivolta al proprio cuore e un richiamo dalla via della perdizione. Quante cose meravigliose accadevano intorno a quel palco! Quasi sempre dovevano issarlo in piazza, perché anche le chiese più ampie non contenevano la gran folla. Vicino al palco si accatastavano armi, emble¬mi, stampe cattive per farne un gran falò. Li si abbracciavano acerrimi nemi¬ci e intere famiglie e popolazioni divise dall’ odio; dal palco partiva la voce del Santo, che s’udiva a volte a miglia di distanza, anche da chi s’era tappato in casa per non ascoltarlo. Raggi di luce avvolgevano nel loro splendore il Croci-fisso, la Vergine e il Santo. Lassù Gaspare si flagellava a sangue, facendosi portare la statua dell’ Addolorata col Cristo Morto, cosicché anche i peccatori più ostinati correvano a fermarlo e si gettavano pentiti ai suoi piedi. Sul palco, non poche volte, Gaspare parlando del Sangue di Gesù… se ne volava in estasi! Nel 1825, nella famosa Missione di Gaeta, si verificarono in un solo giorno diversi eventi portentosi. Dopo la sua preghiera, in tutti i pozzi e le cisterne sorse 1′ acqua, dopo lunghi mesi di siccità. Una pubblica peccatrice che lo irri-deva, mentre egli predicava in Piazza del Mare, morì improvvisamente nella notte e il corpo fu rinvenuto al mattino orribilmente trasformato. Nella stessa piazza, mentre predicava, si ruppe il ramo d’un’alta pianta carica di gente ed egli con un gesto lo fermò e tutti poterono mettersi in salvo. In quella stessa predica, mentre parlava con grande ardore del Sangue di Gesù, fu investito da un alone dì luce e fu visto sollevarsi dal palco per più di tre palmi. Era pre-sente anche un Reggimento di soldati di stanza nella città. Un giorno, Fratel Falcione chiese ad un contadino che guardava incantato il Santo e piangeva come tutti gli altri fedeli: «Ma tu capisci quel che dice il P. Gaspare?» «Quel che dice – fu la risposta – non saprei spiegarlo, ma lo capisco. Egli ci fa piangere e ci converte tutti!». Questo voleva il Signore, questo voleva S. Gaspare! Estasi L’èstasi è lo stato dell’ anima priva momentaneamente dell’ uso dei sensi, rapita nella contemplazione ed unione con Dio. È assai comune nei santi, nei quali l’intensa contemplazione del Creatore causa la totale sospensione dell’esercizio dei sensi. Non odono, in quello stato, né vedono altro che il loro amato Signore! Tra i molti carismi dei quali Dio arricchì S. Gaspare, vi fu an-che quello dell’èstasi, tanto che alcuni scrivono: «La sua preghiera fu un’esta¬si continua». Durante gli Esercizi Spirituali dati alle Clarisse di Piperno, un giorno, par-lando dell’ immenso amore di Gesù nel donarsi alle anime nell’ Eucarestia, «ogni tanto rimaneva fuori di sé» e le buone suore erano li incantate a guar-darlo a lungo. «Andate le Suore a mensa, egli rimase in ginocchio ai piedi dell’Altare. Più tardi dalla portinaia recatasi in chiesa a metter olio nella lam-pada, fu veduto immobile come una statua, quasi stesse ad ascoltare una vo¬ce proveniente dal Tabernacolo». La suorina si guardò bene dal disturbarlo, ma poi, quando andò a confessarsi da lui, gli chiese con ingenuità quanto tempo fosse rimasto rapito in Dio. Gaspare si schermi rispondendo in modo evasivo: «Sempre, mia buona sorella, noi dobbiamo rimanere assorti in Dio». È unanime la testimonianza di tantissime persone qualificatissime nell’as-serire che il Santo «non trovava gusto che nella preghiera», che «protraeva per ore» ed era «tutto felice quando poteva ritirarsi tranquillo in camera o nascondersi in qualche angolo della chiesa per pregare senza essere disturba-to» «Oh! quant’é dolce la voce di Dio al nostro cuore nel ritiro della preghiera!» soleva esclamare. Erano dolcissime le tante giaculatorie, che, nell’impeto dell’amore verso Dio, gli sgorgavano dal cuore e da questo salivano sponta¬nee sulle sue labbra. S. Vincenzo Pallotti afferma: «Quando Gaspare pregava era un serafino». Quando, cosa davvero insolita, non arrivava con puntualità agli atti comuni, sapevano dove cercarlo: davanti al Ciborio! A S. Felice pas¬sava nottate intere in preghiera nella cripta. A Todi una sera, terminata la predica, si raccolse davanti al Tabernacolo. Giunta l’ora di chiudere il tempio, il sacrestano fece il consueto giro, agitan¬do rumorosamente le grosse chiavi per invitare gli eventuali ritardatari ad uscire. Scorse allora Gaspare in ginocchio, immobile come una statua. Fece «più fracasso», nulla! Gli si accostò e lo scosse più e più volte. Finalmente Ga¬spare «ai violenti strappi», ritornò in sé. S’alzò, chiese scusa e se ne andò sere-namente. Il suo volto era radioso! A S. Maria del Fosco, ad un km. da S. Felice, D. Camillo Rossi, entrando in chiesa, lo vide in estasi davanti all’Altare. Volendo ben accertarsene, lo chia-mò ad alta voce e lo scosse: «ma egli non sentì nulla». Le estasi non avvenivano solo in chiesa. D. Pedini e D. Primavera asseri¬scono che si verificavano anche durante la ricreazione ed in particolare quan¬do il discorso cadeva sul Prez.mo Sangue. La stessa cosa avveniva nei lunghi e frequenti viaggi di predicazione. Il Confaloniere di Albano narra che, un giorno, lo vide in estasi, con la corona del rosario in mano, in Piazza Monteci-tono; gli si accostò e gli baciò la mano, ma egli non se ne avvide. È il caso di dire: Meno male che allora non c’era quella bolgia di auto dei nostri tempi!. D. Giovanni Pedini racconta che tante volte, bussando alla sua camera e non ottenendo risposta, spingeva l’uscio e Gaspare era li in estasi davanti al Crocifisso. Anche Mons. Muccioli asserisce d’ avervelo sorpreso più volte. Fratel Panzini e Fratel Bartolomeo che gli furono vicini per tutta la vita, asse-riscono che tante volte, giunta 1′ ora della predica, mentre la gente che gremi-va la chiesa era in attesa del suo arrivo, erano costretti a correre a chiamarlo in camera sua, dove lo trovavano rapito davanti al Crocifisso, ed egli neppure si accorgeva della loro presenza! Nessuno può meravigliarsi che Dio abbia elargito al suo Santo un dono così straordinario, se legge quanto ci ha lasciato scritto il Ven. Merlini: «Il suo cuore languiva d’amore di Dio; era bramoso d’essere interamente suo; aspi-rava sempre di più al suo Signore… Bisognava conoscere in quale mare d’amore divino navigasse! E ciò posso dire io tanto meglio, perché conoscevo il suo interno…». L’anima di Gaspare navigava nel mare immenso di quell’ Amore che il San¬gue di Cristo era venuto ad accendere sulla terra! Nella tormenta Nella bellissima vita di S. Gaspare narrata dal Merlini nei Processi, trovia¬mo scritto: «Nel dicembre del 1822 il Servo di Dio si recò a Montorio. Cadeva molta neve e dové attraversare vie oltremodo pericolose per circa quattordici miglia a piedi, tra il fioccare e senz’altro riparo in capo che la sola berretta. Cercando dissuaderlo, egli mi disse che, come i rigori della stagione non ri-tengono i soldati, i cacciatori e i pescatori dall’attendere ai loro mestieri, così, e a più ragione, non debbono trattenere i banditori evangelici». Ma la frase più bella che soleva dire ai confratelli quando si lamentavano dei disagi dell’apostolato, era questa: «Se Gesù avesse badato alla fame e al freddo e a tanti altri disagi, non sarebbe mai venuto sulla terra». Può mai star fermo un apostolo, un missionario? Sarebbe un controsenso! Avrebbe potuto mai star fermo un apostolo e missionario come S. Gaspare? Ancora più assurdo! Il Valentini, compagno di tante Missioni, dice: «Anche con la febbre continuava il Ministero, dicendo che dopo avrebbe preso le me-dicine». Un dopo che non veniva mai! Quando gli si consigliava di cambiar clima per curarsi, rispondeva: «Trovatemi un clima dove non si muore e vi andrò». «Per il bene delle anime intraprendeva disastrosi viaggi, affrontando intem-perie, specie nei nostri disagevoli monti, senza badare a fatiche. Egli stesso confessava che, quando trattavasi del bene delle anime, non conosceva timo¬re né fatica, né pericolo, e fiducioso in Dio superava tutto». I suoi viaggi non erano mai corti e comodi, ora sulle carrette, ora su traini poco sicuri, ora con carrozze sgangherate, ora su cavalcature, che bene spesso lo disarcionavano. «Il più delle volte percorreva a piedi lunghe miglia di strade fangose fra l’imperversare della pioggia e il cadere fitto della neve, con febbre e tosse convul¬sa; e, mentre voleva che i compagni riposassero e si curassero, egli, imperter¬rito, non conosceva né riposo, né cure». «Nei lunghi e scabrosi cammini, assi¬derato dal freddo o soffocato dalla calura, soleva ripetere ai compagni: Spe¬riamo all’ arrivo di poter dare molte anime a Cristo!». «Andava di casa in casa, di paese in paese, di regione in regione, sacrifican-dosi nella sofferenza». Benché sfinito per la stanchezza, dalla febbre e dalle malattie, non voleva mai riposare. «Ora il Signore vuole tutto da me – diceva -mi riposerò in Paradiso». «Non lo fiaccavano la cattiva salute, la povertà, le scomode dimore, gli incomodi, l’indigenza, il cibo scarso o disgustoso, il fred-do, il caldo, la palude malsana, le opposizioni, i pericoli. Ecco una sua frase celebre, tante volte ripetuta: – Anche se si scatena tutto l’inferno, io, per sal-vare le anime, nulla temo: Dio è con me, Dio vuole così!». Il Merlini racconta ancora: «Un giorno, predicando all’aperto, sotto una tormenta di neve, la veste ne fu talmente coperta, ch’ egli sembrava amman-tato da un bianco lenzuolo. Un fratellone cercò di ripararlo con l’ombrello, ma egli lo rifiutò energicamente e additandogli il popolo, che lo ascoltava im-mobile, imbiancato come lui, disse: – Impariamo da loro! – A quelle parole, i sacerdoti che gli erano attorno con l’ombrello aperto, lo chiusero immediata-mente». Da Roccagorga a Prossedi «sorpreso da dirottissima pioggia, diede l’unico ombrello ai compagni e si prese addosso tutta quell’acqua». Arrivati a Frosi-none, entrò grondante in casa. Gli si fecero tutti intorno per aiutarlo ad asciu-garsi, ma anche per riprenderlo affettuosamente. Egli, come al solito, rispose sorridendo: «Si fa solo e tutto per l’amore di Dio!». Dal 17 al 21 dicembre 1827 tenne una Missione a Valcareggia, della quale il sindaco Baldassarre Rogai così scrive: «In quella stagione così rigida, il Can. Del Bufalo, dopo le due grandi prediche serali, in chiesa, ad un’ora di notte, non curante né di neve, né di geli, né della freddissima tramontana, si recava per le strade per invitare ad alta voce il popolo alle prediche e i peccatori a tor¬nare a Dio. Quando si trovava davanti a cuori duri come macigni, lì, all’aperto, dava di mano al flagello della disciplina, sua compagna indivisibile». Ora invitiamo il lettore, per farsi una pallida idea dell’ eroismo del santo, a seguirlo in uno di quei disastrosi viaggi, nei quali, anche chi l’accompagnava era costretto a fare 1′ eroe, pur non avendone la stoffa. Il Vescovo di Ariano Irpino lo pregava ripetutamente d’andarvi a tenere una Missione dal giorno dell’ Epifania in poi. Gaspare con alcuni compagni partì da S. Felice dopo il Natale dello stesso 1827. Seguiamolo su una carta geografica, così in rapida corsa: S. Felice, Spoleto, Rieti, Antrodoco, l’Aquila, Sulmona, Castel Di Sangro, Isernia, Venafro, Capua, Avellino, Ariano Irpino! Per quei tempi era il percorso più breve e… più comodo! Basti osservare il continuo succedersi di montagne innevate e frastagliate, di valli percorse da fiumi e torrenti vorticosi da guadare e dover viaggiare con mezzi di trasporto tanto precari! Una vera grande e terribile avventura! Non possiamo qui riferire le mille peripezie; ma ecco in breve almeno qual¬che appunto, che basterà darci un’idea più o meno esatta di quanto avvenne. A Sulmona, dove il Santo era già stato, saputo del suo passaggio, quell’ otti¬ma popolazione gli andò incontro per rifocillare i Padri con cibi caldi; furono offerti in dono anche i famosi confetti, che però Gaspare, come suo solito, do-po averne assaggiato un paio per non offendere i donatori, fece distribuire ai poveri. A Castel Di Sangro, per l’infuriare della tormenta, la carrozza, spinta da un vento furioso, si rovescio e rimase quasi sepolta dalla neve, sicché dovettero salire a piedi per qualche miglio su per quelle montagne. Dopo la mezzanotte finalmente scorsero un Convento, dove chiesero ospitalità, ma dovettero ac-contentarsi di passar la notte sul nudo pavimento, avvolti in una coperta. Isernia era stata sconvolta, in quei giorni, da un catastrofico terremoto – come si vede, da secoli quelle povere popolazioni ne sono tormentate a ripetizio¬ne! – e il Santo con gli altri Missionari, anziché chiedere ospitalità e riposo, si diedero ad aiutare per due giorni, come potevano, i poveri terremotati. Attra-versando fittissimi boschi e tanti dirupi, pericolosissimi non solo per le asperi¬tà e la neve, ma anche per i lupi e più ancora per i feroci malviventi che li infe¬stavano, raggiunsero Venafro, dove finalmente ebbero la gioia «d’essere ac¬colti con festa dagli ottimi Padri Cappuccini, che li rifocillarono e diedero ospitalità con tanto amore». Ariano è posta molto in alto e per arrivare furono costretti a far quella salita a piedi «per una strada lunga, a tratti ghiacciata e a tratti fangosa per la neve e per una pioggerella ostinata, scivolando e cadendo». Avuta notizia del loro arrivo, Vescovo, clero e popolazione gli andarono in-contro e si trovarono di fronte ad un gruppetto di Padri irriconoscibili, bagnati ed imbrattati, dal viso visibilmente segnato da tante fatiche, oramai sul punto di crollare! «Gaspare, inzaccherato e spossato, d’un tratto riprese tutto il vigore delle sue forze e, come nulla fosse, sali sul palco, s’infiammò ed in¬fervorò l’uditorio con una predica meravigliosa sulla perfetta letizia che inon¬da il cuore dell’ uomo quando soffre tutto per il Signore». «Il Signore interveniva di frequente, anche con miracoli, a tutelare la pre¬ziosa esistenza del suo Servo, or trattenendolo sull’ orlo d’un precipizio, dove il cavallo sdrucciolando l’aveva fatto cadere, or facendolo rimanere illeso da improvvisi e pericolosi ribaltamenti del legno, che 1′ aveva fatto ruzzolare tra il fango e la neve, or traendolo neppure bagnato, da fossi e torrenti». Nel recarsi da Offida a Montalto, malgrado che il torrente fosse talmente ingrossato da travolgere terra, sassi ed alberi, siccome il cavallo si impennava e rifiutava di traversarlo, scese e, tra la meraviglia dei presenti, si trasse su la veste e «lo guadò a piedi, sembrando a tutti che camminasse sull’acqua». Nell’andare da Cerreto a Colleamato il cavallo «sdrucciolò con le gambe di dietro, e precipitò col Santo in un fosso profondo; ma egli, invocato l’aiuto dall’Alto, non ricevette alcun danno». A Camerano una delle carrozze dov’erano i deputati della Missione, cadde in un precipizio. I Missionari, tra cui S. Gaspare, che seguivano immediata¬mente in altra carrozza, videro che «mentre l’altro legno precipitava egli le¬vando gli occhi al cielo tracciò un segno di benedizione». Scesero dalla carroz¬za, seguiti da alcuni contadini che erano stati testimoni della terribile disgra¬zia, e quale non fu la loro meraviglia nel constatare che né persone, né caval¬li, né carrozza avevano riportato danno. Da Casamari a Sora, ai confini del Regno di Napoli, Gaspare trovò i soldati dell’Esercito Reale, che, suo malgrado, vollero scortarlo. Il cavallo su cui viaggiava il Santo, ad un tratto «s’impennò e ruzzolò, trascinandolo lunga-mente col piede impigliato nella staffa». Gli uomini accorsero atterriti cre-dendo che certamente Gaspare si fosse, a dir poco, rotto una gamba; constatarono invece con grande gioia che non s’era fatto neppure una scalfittura. Nel salire su, verso Penne in Abruzzo, essendo la strada affatto comoda e molto ripida, Gaspare con i suoi avevano preferito farla a piedi. Indi «stimola-ti dal vetturino, salirono sul legno, il quale però, dopo poco cominciò a piega¬re. Gridarono al vetturino di fermare, ma essendo egli alquanto sordo, cre¬dette che dovesse sferzare i cavalli per farli andare più in fretta. Di conse¬guenza il legno ribaltò, rimanendo miracolosamente con due ruote sull’ orlo del precipizio e due sospese nel vuoto, così restando finché non arrivarono i soccorsi. Il Canonico, che v’era dentro, continuò imperturbabile in orazione, com’era solito far nei viaggi, come nulla fosse accaduto». È bellissimo il seguente episodio avvenuto tra Anagni ed Acuto, che ci vie¬ne raccontato dal Valentini. Questi, in pieno inverno, aveva accompagnato S. Gaspare ad Anagni, dove desiderava aprire una nuova Casa di Missione. «Il Vescovo, male informato sul conto di Gaspare e della sua Congregazione, non 1’accolse troppo bene e il segretario del vescovo giunse anche a dirgli: Le Missioni? Predicazione ormai sorpassata. Mi meraviglio come il Papa ancora le permetta». Gaspare, quando sentì quell’ offesa al Papa rispose al segretario per le rime! I due Missionari partirono da Anagni, col cuore ferito, ma lieti di aver sofferto quell’ affronto per 1′ amor di Dio, e si avventurarono su due ca-valcature, in una tormenta di neve, tra quelle montagne verso Acuto, senza neppure conoscere la strada! «Lungo il viaggio non 1’orma d’una bestia o d’uomo! Silenzio assoluto in un biancore assoluto!» Gaspare nel ricordare quel viaggio si lasciava andare ad immagini fantastiche e poetiche, com era di fatto il paesaggio, e diceva: «Si viaggiava in mezzo a quel niveo candore, so-migliante ad una tovaglia stesa su un immenso Altare». Fu invece assai tragico il viaggio da Roma a Bracciano nell’aprile del 1837, pochi mesi prima della sua morte, e che forse ne accelerò i tempi. Gaspare prese con sé D. Ricciardi, Fratel Sante Angelini e Fratel Bartolo¬meo e tutto andò liscio fino al bivio che da Cisterna porta a Sermoneta. Quel¬la mulattiera, a causa di una gran pioggia, già disseminata di grosse buche e molti sassi, era divenuta «così melmosa» che il cocchiere non s’accorse d’una grande radice d’albero, che l’attraversava da una parte all’altra. All’urto il le-gno sbalzò rovesciandosi e i cavalli, spaventati, spezzarono i finimenti e si diedero a correre all’ impazzata per la campagna. Tutti rimasero illesi, ma Ga-spare si ebbe una larga ferita alla fronte e fu sbalzato dalla carrozza, che gli andò a finire sopra, schiacciandolo nella melma. Solo a notte tarda arrivarono i soccorsi e finalmente, dopo diverse ore, fu liberato da quella pericolosa po-sizione. Ma in quale stato! Dalla ferita sgorgava sangue, e una tosse convulsa lo scuoteva con tale violenza che in due a malapena riuscivano a sorreggerlo. Furono anche costretti a continuare a piedi, al lume d’una torcia, e ad attra-versare un furioso torrente. Gaspare, anche se di tanto in tanto veniva porta¬to a spalla, dovette in quelle condizioni far molto cammino e fu assalito da febbre violenta. A Sermoneta, Ov’era atteso con ansia, fu accolto con amore, posto a letto e curato con ogni premura. All’indomani i compagni continuarono il viaggio per Bassiano, dove diede¬ro inizio alla Missione. Egli fremeva dal desiderio di parteciparvi e, contro ogni consiglio, dopo appena un giorno di riposo «avendo migliorato alquanto raggiunse i compagni. Assunse la direzione della Missione e le fatiche del mi-nistero con tanto vigore fino al termine, facendo la predica grande al popolo, conferenze al clero e ai vari ceti di persone, nonostante l’infermità, che sape¬va nascondere eroicamente. Non volle mai mettersi a letto, né prendere me-dicine, fidando solo in Dio!». Ma oramai la sua esistenza era minata! Questa volta, nei suoi mirabili dise¬gni Dio non intervenne a salvarlo con la sua Mano amorosa! Era vicino il pre¬mio delle fatiche terrene del suo Apostolo! Da quella caduta, infatti, una tosse secca e persistente lo faceva spasimare notte e giorno, e non lo lascio mai più! Fu il preludio di quell’ Ultim’Ora che s’appressava e che egli aveva tante volte predetta. L’attese con gioia, ripeten¬do continuamente la frase di Paolo: «Bramo ardentemente la dissoluzione della mia carne ed unirmi pèr l’eternità al mio Cristo Signore!». I suoi cari sacerdoti Siamo venuti narrando, qua e là, alcuni episodi che rivelano quanto grandi fossero l’amore, la carità, e le premure di Gaspare verso i confratelli nel sa-cerdozio, ed avremo ancora occasione di narrarne altri. Ci duole solo che, a volte, come in questo capitolo, siamo costretti a limitarci ad alcuni accenni, perché anche solo a farne 1′ elenco, occorrerebbero pagine e pagine. Racconta il Merlini: «Doveva andare spesso, or nell’una, or nell’altra Casa dell’ Istituto per togliere lo sbigottimento e talora supplire alla deficienza dei compagni, dei quali eran sempre di coloro che cadevano infermi. Parmi an¬cor vederlo ilare ed allegro giungere nelle Case, togliere l’abbattimento, co-municare quella santa allegrezza e fiducia, che tutta teneva nel suo Signore. Venuto a Velletri, ov’io mi trovavo infermo, m’incoraggiò, mi fece alzare dal letto, mi fece camminare per la camera, tenendomi sottobraccio, perché mal mi reggevo, poi mi disse di raggiungerlo subito per la Missione a Sezze. Così mi guarì!» Lo stesso Merlini narra anche che, giunto a Poggio Mirteto dopo lungo e disastroso viaggio a piedi sotto la pioggia, fu assalito da feb¬bre gagliarda da perdere i sensi. Dopo poche ore diletto, Gaspare s’accostò al suo capezzale e gli disse allegramente: «D. Giovanni, è già l’ora della sua predica, non si fa il missionario standosene comodamente a letto!» D. Gio¬vanni si alzò immediatamente e si recò in chiesa, dove tenne ben quattordici fervorini per la Via Crucis. Era guarito! Sempre D. Giovanni Merlini altra volta, essendosi ferito seriamente ad una gamba, fu guarito dal Santo con un semplice segno di croce. D. Pietro Spina narra, a sua volta, che mentre era gravemente infermo, ebbe una lettera con la quale il Santo gli ordinava d’andare a predicare il quaresima- le a Pievetorina. Lo scritto di S. Gaspare terminava cosi: «Se ubbidirete, guàri¬rete». D. Pietro ubbidì e guarì. Anche D. Pedini, malato da più mesi con febbre terzana, all’ ordine del Santo di recarsi a predicare, si sentì subito in forze e sen¬za febbre, e poté partire. Nell’ agosto del 1827 mentre S. Gaspare predicava a Pievetorina, ebbe noti¬zia che a Rimini un missionario era moribondo. Accorse subito al suo capezza¬le, lo confortò e benedisse, poi: «Su, su – gli disse – alzatevi, questa volta non morirete!»; e il missionario subito si alzò. Ad Albano, dopo il pranzo, era nell’ orto a conversare con i compagni, quando gli fu consegnata una lettera. La lesse e chiamò D. Ricciardi e D. Pedini: «Presto, andiamo in chiesa a pregare! D. Fontana è in fin di vita». In quella medesima ora, come poi si seppe, D. Fon¬tana, che si trovava a Frosinone, si senfi immediatamente bene e lasciò il letto. Ovviamente Gaspare, nella sua umiltà, attribuì il merito della guarigione alle ferventi preghiere dei due compagni. D’Angelo Primavera, che soffriva da tempo e molto di stomaco, mangiò il cibo benedetto dal Santo e cominciò ad avere più appelito, né senfi più al¬cun disturbo. Fra Bartolomeo, per una caduta durante un viaggio col Santo da Roma ad Albano, si ferì gravemente alla gamba, ma appena Gaspare vi fe¬ce sopra un tratto di croce, guarì. Un altro missionario, recandosi in Missio¬ne, cadde in malo modo dal cavallo e non riusciva a rimettersi in piedi. Si vi¬de, all’improvviso, davanti una donna con un fiasco di vino che lo rincuorò. «Mi manda P. Gaspare, bevete un sorso e fidate in Dio!» «Non bevvi mai vino così buono – affermò egli – né prima, né dopo, nella mia vita!». La donna corse via e spari ed egli montò a cavallo in piena forma. Gaspare in quel momento era lontano le mille miglia. Quando il missionario lo ringraziò, egli gli sorrise e disse: «Quella buona donna te l’ha mandata il Signore!». Come l’Apostolo dell’Apocalisse, Gaspare fu sempre preso, ammaliato, in-namorato del Sangue redentore. Entrato nel solco purpureo di quel Sangue, non per sentimentalismo, ma attratto dal concetto di redenzione universale, che quel Sangue esprime, ne riceveva anche la rivelazione dell’immenso Amore divino. Quel Sangue, perciò, non gli permetteva a lungo solitari voli mistici, ma lo spingeva ad essere un altro Cristo fra la gente. Sentì attraverso quel Sangue, tutto il male della vita, tutta la tristezza del peccato e fece sue, come il Cristo, le sofferenze e le miserie altrui, secondo l’intelligenza del Cal-vario, sanguinando a sua volta per il prossimo. Quando l’anima è colma di sì grande ricchezza, il prodigio della sua attivi¬tà, del sacrificio, della carità non è più un mistero. Il Sangue di Gesù non era per lui un tesoro nascosto riservato solo alla sua gioia, ma il tesoro che anda¬va riversato innanzi tutto nelle anime dei fratelli sacerdoti, come Cristo lo ri¬versò nelle anime dei suoi apostoli, affinché a loro volta lo donassero alle ani¬me. Ecco perché egli, più che per la salute del loro corpo, era in ansia per la perfezione del loro spirito. Da quest’ansia nacque il suo famoso progetto per la riforma per la dignità e per la santificazione del Clero. Quest’ansia lo por¬ro le sue Case di Missione e di Esercizi spirituali al Clero. Quest’ansia lo por¬tava ad erigere i Ristretti degli Apostoli e tenere corsi di conferenze al Clero, ovunque si recasse a predicare le Missioni. «Santi i Pastori, santo il gregge», soleva dire. Ascoltiamo ancora il Merlini: «Quando parlava al clero cercava con ogni mezzo di scuoterlo dall’ inerzia ed esortarlo ad una vita santa e santificatrice. Sebbene con gran rispetto ed affabilità, pure parlava con molta forza e deci-sione, riprendendo la non ordinata condotta, che si tiene talvolta dagli eccle-siastici. Si esprimeva con delicatezza… esortava alla santità , alla preghiera, allo studio, allo zelo, alla dolcezza nel portare le anime a Dio». Quando, con volto radioso, abbracciava il grande Crocifisso, uscivano dalla sua bocca parole dolcissime, che trascinavano all’ amore di Dio e alle lacrime quei sacerdoti ormai conquistati dal suo zelo e dalla sua vita di stenti, fatiche e penitenze! Quanti sacerdoti, anelanti alla perfezione, accorrevano a 5. Felice per rac-cogliersi in ritiro e passare ore indimenticabili di celesti delizie col Santo! Allorché Gaspare incontrava l’anima gemella, si appartava col confratello ed iniziava uno di quei rari colloqui nei quali la parola diventava preghiera, la preghiera estasi, la terra paradiso. Accadde una volta a S. Felice, – ma solo una volta? – che, affiancato, quasi in un abbraccio, da un sacerdote, s’incamminò lungo il viottolo che portava al Santuario del Fosco. Cominciò a parlargli sul tema a lui così caro del Sangue di Gesù e vi si immerse fino al punto da non accorgersi dello scatenarsi d’un fu¬rioso temporale, che gli rovesciava addosso acqua a catinelle. Anche il compa¬gno, trascinato dalla parola del Santo, perse conoscenza di quanto gli accadeva intorno! Qualche raro contadino che, con un fascio d’erba sulle spalle e un sacco vuo¬to a mò di cappuccio sul capo, tornava frettoloso dai campi, passandogli accan¬to dava la voce consigliando loro di rientrare subito in Convento. Non avendo risposta scuoteva il capo pensando: «O sono due matti, o sono due santi». Gaspare e il compagno non sentirono neppure il richiamo concitato di un fratello inserviente che era andato loro incontro con 1′ unico ombrello di casa e un mantello perché si riparassero alla meglio. Cosa possono importare fulmini, lampi, tuoni e pioggia a chi, pur con il cor¬po sulla terra, ha l’anima immersa nella gioia del cielo? La berretta Quante berrette avrà dovuto acquistare S. Gaspare nella sua vita? Stando alla storia e alla leggenda dovrebbero essere state molte, non perché consun¬te o smarrite, ma perché,… state a sentire. Abbiamo già narrato il piacevole episodio accaduto al buon canonico D. Aloysi, il quale, e per 1′ età e perché non abituato al pulpito, era preso sempre da gran timore quando si accingeva a parlare al popolo. Un giorno, mentre era in sacrestia ad attendere l’ora della sua predica, avendo veduto la berretta di S. Gaspare posata sul bancone, la scambiò con la sua, pensando che non solo quel contatto gli avrebbe dato coraggio, ma an¬che tanti lumi ed ispirazioni e sicuramente anche la sua predica sarebbe stata meravigliosa e fruttuosa come quella del Santo. Difatti avvenne che, o per effetto psicologico, o per intervento superiore, egli «tenne la più dotta ed efficace predica della sua vita». Il vecchio canonico rivelò il segreto a quanti gli facevano i rallegramenti per tanto sapere e tanta facondia e non cessava di raccontare ovunque 1′ epi¬sodio e, com’è naturale, il suo racconto fece il giro di tutto l’Istituto. Per que¬sto le berrette del Santo sparivano ovunque alla chetichella, anche se la sua misura non era sempre adatta a tutte le teste. La berretta di S. Gaspare era piuttosto grande. Diceva il Modena, suo pro-fessore, per significare non solo le proporzioni morfologiche della testa del Santo, ma anche la sua grande intelligenza: «Il Del Bufalo ha una bella scatola cranica!» Chi va narrando questi fioretti, nel lontano 1926, ai tempi felici dei suoi studi filosofici nell’Università di Propaganda Fide in Roma, ebbe, per la pri- ma volta, la sorte di visitare il Museo di S. Gaspare, dove si conservava, e si conserva tuttora, una berretta da lui portata. Prima ancora d’entrare, un mio caro comagno, Clemens Geiger di nazionalità austriaca e poi santo Vescovo Missionario nello Xingù, mi disse: «Lì dentro essere un bireto di Beato Gaspa¬re, dove tuo testo entrare tre volte». Chiesi al P. Rettore che ci guidava, di po¬terla «misurare», ed egli benevolmente me la pose in testa. Non ricordo se questa era tre volte più grande, ma ricordo che la mia testa vi sparì. Il Padre Rettore mi augurò che quel contatto mi ricolmasse della sapienza e della san¬tità di S. Gaspare. Certamente non sono riuscito a possedere né l’una, né l’al¬tra, ma non ho mai dimenticato il fascino di quel santo contatto, che, senza dubbio ha contribuito molto a tener salda la mia vocazione. Mi si perdoni questo personale e caro ricordo, e leggiamo assieme un altro dei tanti prodigi della famosa berretta. Ce lo racconta così lo stesso fortunato missionario miracolato, D. Beniami¬no Romani: «Nel 1826, volendo il Servo di Dio mandarmi a predicare una Missione a Civitavecchia, gli feci notare che da appena pochi giorni m’ero alzato dal let¬to per aver dato molto sangue dal petto (una lesione polmonare, male mortale a quei tempi), e che il medico mi aveva proibito severamente non solo di viaggiare, ma di camminare e parlare, tanto ch’ ero dispensato anche dalla re-cita del Breviario. Egli prima mi animò, poi mi mise la sua berretta in testa, mi cinse la sua fa-scia e mi impose il suo crocifisso; poi mi benedì e raccomandò di far tutto be-ne per la gloria del Divin Sangue di Gesù. La berretta la portai stretta sul mio petto malato per tutto il viaggio. Ubbidii in tutto, predicai, confessai e tornai a Roma in buona salute. Mi mandò poi a Vallecorsa a predicare il maggio e a confessare, e seguitai a star bene. Il Vescovo mi richiamò in Diocesi, ma fu lo stesso Gaspare a scrivergli che il Signore mi voleva Missionario e che la mia vocazione era stata confermata anche con prodigi. Anche se richiesto, mi son guardato bene dal restituire il Crocifisso, la fa¬scia e la berretta al Servo di Dio e non me ne sono mai separato fino ad oggi». Una tribolatissima donna I doni di cui il Signore arricchiva il suo Servo nel momento opportuno e sempre a profitto delle anime, erano proprio tanti! Sembrava si fosse ingag-giata una gara tra il Servo fedele e il suo amato Signore nel donarsi reciproca-mente. E si sa che Dio non si lascia mai vincere in generosità! Leggendo la vita del Santo, balza con grande evidenza l’eroicità delle sue virtù. Avendo egli avuto in vita l’unico scopo di portare anime ed anime al Cuore di Cristo, Dio, sapendo che, senza il suo divino aiuto, vano sarebbe ogni sforzo umano, semina a piene mani la strada del suo Apostolo di grazie, doni e prodigi. Leggiamo nei Processi: «Fra i doni di cui il Signore aveva insignito il suo Servo Gaspare Del Bufalo, spiccava anche quello di conoscere le cose occulte – così permettendo Dio per il bene delle anime – nelle menti e nei cuori di chi a lui accostavasi, avendo facoltà di scrutare nel loro più intimo, poteva rego¬larsi nel dare saggi consigli ed esercitare su di essi un grande ascendente, sempre per il loro bene». Gli episodi che potremmo qui riferire sono senza numero e ne citiamo ap¬pena qualcuno. «Lo sapevano bene i suoi Missionari, dei quali leggeva chiara¬mente i pensieri più riposti!» dice il Merlini! Ed a conferma narra di se stesso: «Il Servo di Dio viaggiava molto e io pensavo, senza per altro dirlo mai ad al-cuno, ch’egli vi provasse gran piacere. Mi vidi giungere una sua lettera, nella quale mi diceva chiaramente: – Sappiate che per me il viaggiare è un martirio. – Pensando altra volta che prendesse il caffè al pomeriggio solo per gusto, mi sentii dire: – D. Giovanni, prendo il caffè, perché me l’ha prescritto il medico per le mie sofferenze di stomaco nella digestione». Un Vescovo, e così altri dignitari, asseriva «ch’era così sicuro che Gaspare leggesse nella sua anima, che prima di riceverlo, si confessava». A volte èproprio scomodo vivere con i santi! «Mentre predicava la Missione a Prossedi – racconta D. Fontana – mi recai a chiedergli consiglio sulla mia vocazione missionaria. Prima che aprissi bocca e senza che avessi ad alcuno manifestata la mia intenzione, mi sentii dire: «Avete fatto bene a decidere di venire da noi». Il Santelli, il primo storico del Santo e testimone oculare di tanti avveni¬menti, asserisce che con certezza era evidénte la sua «rara introspezione di coscienze». Lo stesso D. Fontana dice ancora: «Non poche volte il Canonico mi scriveva, senza che ne gli facessi richiesta e dava consigli sui secreti della mia coscienza». Un giorno a Cannara, durante il pranzo smise improvvisa-mente di mangiare e disse: «Il confratello che in questo momento sta pensan-do d’uscire dalla Congregazione, ne partirà e non vi tornerà mai più!» D. Pie-rantoni, che proprio in quel momento stava pensando d’andar via, lì per lì fe-ce finta di nulla, ma dopo il pranzo corse in camera e scoppiò a piangere. Tut-tavia partì e non fece più ritorno nell’ Istituto. Anche D. Ricciardi affermava: «Talvolta mi dice cose intime da non dubitare che mi leggesse nell’ anima». Ed ecco un famoso episodio avvenuto a Terracina alla signora Teresa Spez-zaferro, che, pur soffrendo le pene dell’ inferno, non aveva mai avuto il corag-gio di aprire la sua coscienza ad un sacerdote. Era giunto Gaspare, accolto «al suon di campane, dal Vescovo, Clero e una marea di gente», a predicarvi la Missione, ma Lei guardava dal balcone con tristezza quel popolo in festa: «Io sono già dannata e neppure un santo potrà tirarmi fuori dall’ inferno!». Ma un mattino, senza spiegarsi come e perché, scese in piazza e, spinta da una forza strana, si ritrovò con la folla in chiesa a far la fila presso il confes¬sionale di Gaspare. Man mano che si avvicinava il suo turno, avrebbe voluto scappar via, ma, essendo molto conosciuta, se ne vergognava. Accostatasi al¬la grata, quale non fu la sua meraviglia nel sentirsi non solo chiamare per no¬me, ma, senza che aprisse bocca, ascoltare dal Santo con chiarezza e precisio¬ne tutto ciò che aveva nel cuore e svelarsi episodi tanto lontani dei quali alcu¬ni ormai dimenticati! La donna andava poi raccontando: «Mi diede consigli, fu affabile, m’impar¬ti 1′ assoluzione e aggiunse – State tranquilla e andate in pace – Tutti mi videro allontanarmi dal confessionale in pianto. Quanta serenità da quell’istante e per tutta la vita!». Ebbene, gli perdono… Uno degli episodi più frequenti, più commoventi e, dobbiamo dire, anche i più desiderati dal Santo, era la riconciliazione tra nemici, che avveniva quasi sempre pubblicamente o in chiesa o sulle piazze a coronamento della ispirata predicazione e perorazione del Missionario e della sua incessante opera di persuasione di casa in casa. Quanto però era difficile convincere quegli osti-nati antagonisti! Lo sappiamo anche noi, figli di S. Gaspare, che, sul suo esempio e com’egli ci ha comandato, andiamo di casa in casa, nei luoghi di predicazione, cercando di spegnere odi atavici nel nome del Sangue di Cristo! Credetelo, come ai tempi del Santo, così oggi, il momento dell’ abbraccio è an-che quello delle lacrime e della gioia profonda. Non vi fu Missione del Santo, dove non si verificassero numerosi episodi di riconciliazione, dei quali ne abbiamo già narrato qualcuno; qui ne riportiamo altri due commoventissimi. Il 20 marzo 1824 il Santo era a Guarcino, dove a Felice De Victoriis era sta¬to trucidato il figlio Francesco da tal Luigi Accetta. L’omicida fu assicurato al¬la Giustizia, ma, dopo alcuni anni di galera, rimesso in libertà, tornò in paese. Tra le famiglie, com’è facile immaginare, era rimasto un odio profondo, insa-nabile. Felice andò a confessarsi da S. Gaspare e gli manifestò sinceramente non solo tutta la sua angoscia, ma anche l’odio acerrimo che nutriva per 1′ uc-cisore del figlio. Restò male quando si sentì negare l’assoluzione fino a quan-do non avesse perdonato. «Se presenti la tua offerta sull’ altare e li ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro dite, lascia li il tuo dono e va prima a ri-conciliarti con lui e poi torna ad offrire il tuo dono». La parola di Cristo era chiara, né il Santo poteva venir meno ad un precetto divino. Felice, recatosi a casa, riferì tutto alla moglie, che da tempo giaceva a letto malata, e lei invei sia contro il marito che contro il Missionario. Felice tornò a dire tutto a Gaspare, il quale, levati gli occhi al cielo, disse: «Dio ci penserà». Dopo appena un paio di giorni la donna peggiorò di molto e sicura della fi¬ne imminente,chiamò un sacerdote, si confessò e al momento di spirare, «… lasciò per il nemico la parola di perdono, che prima aveva costantemente ri-cusato». Felice andò dall’Accetta e lo abbracciò anche a nome della defunta. Gaspare, una sera, scorgendo dal palco Felice e Luigi, 1′ uno accanto all’ al¬tro, parlò con meravigliosa eloquenza del perdono cristiano e li invitò affabil-mente sul palco. Egli stringeva tra le mani il grande Crocifisso e i due ex-nemici si inginocchiarono abbracciandosi nel bacio di pace. Un fremito per-corse l’uditorio. Anche il Santo cadde in ginocchio accanto a loro per ringra-ziare Dio che opera tante meraviglie nel suo popolo devoto. Il 13 febbraio del 1833, dopo una celebre Missione a Palestrina, nel viaggia¬re per Zagarolo a causa di un guasto al calesse, sebbene stanchissimo, fu co-stretto a percorrere a piedi la dura salita che portava al paesello lastri¬cata di neve ghiacciata. Così disponeva Dio ai fini della sua grande misericor¬dia. Lungo la strada s’imbatté in una donna vestita di nero; il volto, scavato da una traccia indelebile, diceva quante lacrime aveva versato. Il Santo, come sempre, commosso di fronte a tanto dolore, l’accostò: «Buo¬na donna, vedo che portate il lutto, il vostro volto è tanto triste…!» «Si, padre, mia figlia… Lui, un demonio, me l’ha assassinata!» «Comprendo, comprendo, buona donna. Non è soltanto il dolore che vi consuma, ma anche un odio pro-fondo…» «Sì, è vero, ho già pronto il pugnale e, non appena uscirà di prigione, glielo pianterò nel cuore!». «No, no, buona donna, non parlate così. A che ser¬virebbe? Risuscitereste forse vostra figlia?» Qui il Santo, facendo ricorso a tutto il suo zelo sacerdotale e alla sensibilità del suo grande cuore, disse parole che solo Dio poté mettere sulla sua bocca. Le parlò del Sangue di Cristo, del suo perdono dall’ alto della croce, della Ma¬dre, che pur vedendo uccidere il Figlio, perdonò come Lui. Tutto fu inutile! Quella donna covava nel suo dramma un’odio implacabile. «L’ucciderò!». S. Gaspare le si inginocchiò davanti, nella neve: «Signora, vengo di lontano nel nome di Cristo, son qui per portare anime a Dio!», e le mostrò il Crocifis-so. «Per Lui, dovete perdonare, non per l’uccisore, per queste ferite, per que-sto Sangue!» Le labbra della donna cominciarono a tremare… Gaspare incal-zò: «È vostra figlia che ve lo chiede, perché lei ha già perdonato». La povera donna, nel sentir nominare la figlia, crollò. Si inginocchiò davan¬ti al Santo, baciò il crocifisso, ruppe in lacrime, e mormorò: «Madonna mia, datemi voi la forza! Voglio, voglio perdonare». Qualcuno ha visto ed ha sentito; la notiza si sparge. Dalla torre si spande il suono delle campane, il popolo grida: «È arrivato il Santo, è arrivato il Santo!», e gli corre festosamente incontro. Il profeta S. Gaspare fu anche profeta. Il suo nome è citato, infatti, perfino nei testi dei così detti futurologi. Profeta, vate o veggente, è chiamato comunemente colui che illuminato da Dio, prevede e preannuncia il futuro. La vita del Santo è ricchissima di predi-zioni che riguardano eventi di ogni genere, sia di portata storica e d’interesse generale, sia di singole persone. Le profezie del Santo hanno una caratteristi-ca non comune: «Egli parlò con asseveranza – dice il Merlini – senza ambiguità e sospensione d’animo, né ebbe di mira alcuna temporalità». Vaticinava dun¬que con precisazioni impressionanti di epoca e di luogo, parlando diretta¬mente alle persone interessate e annunziando mutamenti di stato, guarigioni, morte, novità dolorose, splendide mete che sarebbero state raggiunte da chi nulla di simile si sarebbe potuto aspettare… L’unica frase un po’ oscura, dice il Merlini, era questa che il Santo gli ripeteva spesso in latino: «Desiderium pauperum exaudivit Dominus». Dal contesto del discorso, il Merlini ne dedu¬ce ch’ egli fosse stato esaudito da Dio nel desiderio di farsi santo e quindi allu¬desse non solo alla sua salvezza, ma anche alla propria glorificazione sulla terra: la canonizzazione. Ora vi narriamo alcuni eventi tratti dalle autentiche deposizioni nei Proces¬si da parte di persone che o ne furono testimoni diretti o addirittura oggetto, aggiugendo che tutte le profezie che riportiamo, e tante altre tralasciate, si so-no avverate, tranne una, come vedremo. Innanzi tutto S. Gaspare fu profeta di se stesso. Abbiamo già narrato e nar-reremo ancora di visioni, voci arcane e previsioni avute dal Santo riguardanti le pesanti croci e sofferenze che avrebbe dovuto subire; a queste occorre ag-giungere le chiare e ripetute profezie sul tempo e le circostanze della sua morte. Il Merlini negli ultimi anni della sua vita, per le continue visite che S. Gaspare faceva alle varie Case dell’ Istituto avrebbe voluto che in tutte vi fos¬se una camera a lui riservata e sempre pronta al suo arrivo. Il Sant~ si oppose perché ormai era certo che sarebbe morto quanto prima. Gli elencò anche al-cune Case nelle quali non si sarebbe mai più recato. A Fratel Bartolomeo dis¬se che sarebbe morto prima di lui e che egli avrebbe composto le sue spoglie. Più e più volte affermò con chiarezza che non sarebbe arrivato alla vecchiaia: «Presto vi leverò l’incomodo», diceva. Morì infatti quando mancavano nove giorni al compimento dei 52 anni. Predisse anche un particolare sulle circostanze della sua morte: «Morrò non appena mi caveranno sangue»; ed infatti morì dopo che gli praticarono un salasso. Mentre era in vita, non riuscì ad ottenere una casa ed una chiesa per il suo Istituto in Roma. Ai Missionari, che se ne lamentavano, diceva d’aver pazien-za: «Dopo la mia morte ne avrete più di una». Così avvenne. Non poche profezie riguardavano la sua amata Congregazione. Passeggian¬do con D. Camillo Rossi nell’ orto di Albano, gli disse: «Al presente l’Istituto èavvilito, ma dopo la mia morte si vedrà fiorire». Ai confratelli di Frosinone, due anni prima di morire, confidò: «Tutte le croci al momento sono riservate a me! Dopo la mia morte l’Istituto andrà bene innanzi e fiorirà». «Alcuni dei miei missionari verseranno il sangue per la Fede, ma io non avrò questa sor-te!» È questa l’unica profezia non ancora avveratasi, anche se nelle Missioni diversi missionari hanno perduto la vita per stenti e malattie. Si avvererà? Uno storico afferma: «Essendosi tutte le altre avverate, si avvererà anche questa,ma, se si avvererà, vorrà anche dire che per la cristianità verrano tem¬pi assai dolorosi». D. Biagio Valentini depose che Gaspare gli predisse chiaramente che sareb¬be stato il suo primo successore nel governo della Congregazione. Anche il Merlini racconta che il Santo accennò al Valentini, come a suo successore ag-giungendo: «Chi vorrà vedere D. Biagio ciavattare per Roma dopo di me!», a significare quanto dovesse darsi da fare per l’Istituto. Lo stesso Valentini, che ripetutamente fu consigliato da Gaspare ad entrare nella Congregazione, nar-ra che così il Santo rispose al Vescovo, contrario che il Valentini lasciasse la sua diocesi: «Oh! come sarete più contento quando egli verrà, dopo la mia morte, ad aprire la Casa di Porto Recanati nella vostra diocesi!» Prediceva co-sì l’apertura della Casa, che difatti avvene dopo nove anni, e anche la longe¬vità del vescovo. Aggiungiamo qui ancora un episodio della vita del Valenti¬ni. Questi si trovava in Albano agli estremi «per malattia mortale» (tubercolo¬si). S. Gaspare gli disse che non sarebbe morto di quel male, sarebbe vissuto a lungo e avrebbe aperto varie Case dopo la sua morte, tra le quali quella di Ancona. Predisse anche, come poi avvenne, che i nemici dell’ Istituto avreb-bero con inganni, ottenuto dal Papa l’ordine di chiusura delle due importanti Case di Terracina e Sonnino, site nel cuore del territorio infestato dal brigan-taggio. A Pievetorina, mentre era in conversazione con i suoi compagni, passò D. Pasquale Vigili, fiero avversario dei missionari. Additandolo esclamò: «Ecco¬lo il nostro futuro missionario!» Pensarono tutti che fosse una battuta e si mi-sero a ridere. Dopo qualche anno dovettero ricredersi, perché D. Vigili di-venne missionario di S. Gaspare e visse santamente nella Congreazione. A D. Giovanni Merlini e a D. Lipparelli, nei primi giorni del loro arrivo a 5. Felice con l’intenzione di rimanervi solo per qualche giorno di ritiro, predisse che presto sarebbero entrati definitivamente nell’Istituto. Ad un Vescovo di Terracina predisse: «Un giorno rinuncerete all’ episcopato e vi farete nostro Missionario». Anche questa predizione si verificò. Il Merlini, a sua volta, ci racconta un altro episodio che lo riguarda personalmente. «Era in progetto la costruzione della Casa a Vallecorsa (cittadina ciociara, covo di briganti) e mancando i mezzi chiedemmo un aiuto al Comune, che promise 500 scudi, senza mai mantenere la promessa data. Il Servo di Dio, che sapeva quanto fosse necessaria li la presenza dei Missionari, un giorno mi disse d’andare e cominciare subito la fabbrica. Gli feci osservare che non c’era un baiocco, ma egli mi ripeté: – Vada nel nome di Dio e cominci la fabbrica. – Quanto fu larga la Provvidenza, e nei modi più impensati!» Moltissime furono le profezie di guarigioni e, purtroppo, anche di morte. A quelle narrate aggiungiamo le seguenti: Mentre il Santo era a Pontecorvo venne a sapere che il missionario D. Inno-cenzo Betti, di casa a Benevento, .era gravemente malato e aveva mostrato il desiderio di vederlo. Con lui, in passato, Gaspare aveva avuto dei contrasti per via della veste talare ai Fratelli Laici, e, anche se il Betti era un santQ mis-sionario, S. Gaspare dovette essere un po’ drastico per il bene della nuova Congregazione. Per dimostrargli che non gli serbava rancore e per confortar-lo, accorse subito al suo capezzale. L’abbracciò e gli disse senza esitazione: «So che siete pronto a far la Volontà di Dio, ma non morrete ora! Dovrete la-vorare ancora molto per la nostra Congregazione». D. Betti mori nel 1850, tredici anni dopo la morte del Fondatore. A D. Nicola Maggiorano, moribondo, disse che non sarebbe morto, ma avrebbe vissuto a lungo. Invece a Spello fece amministrare d’urgenza i Sacra-menti ad un infermo del quale non si prevedeva imminente la fine e che quella sera stessa volò in Paradiso. Ricordiamo come, sempre a Spello, a Lui¬gi Fortini, in ottima salute, disse, sul finir della Missione, alla cui riuscita ave¬va tanto cooperato: «E ora preparatevi ad andar presto in Paradiso, perché il Signore vuol darvi presto il premio del vostro zelo». Il Fortini morì solo dopo pochi giorni. Fa tanta impressione un episodio avvenuto a Veroli. Come prescrivono le Regole dell’Istituto, subito dopo la mensa, i missionari si trovavano riuniti per un po’ di ricreazione. Gaspare interruppe, ad un tratto, la conversazione e, turbato in volto, rivolse a tutti a bruciapelo questa domanda: «Chi di noi sa¬rà il primo a morire?» Anche se il Santo usava parlare spesso della morte e della vita futura con i suoi missionari, non aveva posto loro mai una doman¬da così perentoria; perciò tutti ammutolirono e lo guardavano con ansia. Un vecchio missionario, il più anziano, rispose: «Sarò io senza meno, padre». «No, soggiunse Gaspare. Voi, D. Agostini, preparatevi ed anche voi, D. Ren¬zi, tenetevi pronto». D. Agostini non solo era giovanissimo, ma sprizzava sa¬lute! Anche D. Renzi era molto giovane e sano. Prima che finisse l’anno, alla distanza di qualche mese l’uno dall’altro, morirono entrambi nella Casa di Sermoneta. Durante una Missione a Norma, Gaspare si recò a visitare una persona di riguardo, il Sig. Coluzzi, del quale nulla faceva prevedere la fine imminente. Nel congedarsi il Santo chiamò in disparte il sig. Turchi, familiare del Coluz¬zi, e l’avverti della vicina morte del congiunto, che si avverò a puntino. A Mons. Manasse, vescovo di Terracina e suo grande amico, Gaspare pre¬disse con largo anticipo l’elezione a quella cattedra. Recatosi a fargli le sue congratulazioni nel giorno della consacrazione episcopale, gli disse: «Monsi-gnore, vi hanno caricato d’una croce invero molto pesante, ma coraggio, la porterete solo per sette anni. Quel santo Vescovo non faceva che ripetere: Il mio episcopato durerà solo sette anni, me l’ha detto il Can. Del Bufalo. Egli èun santo e sarà così». Quando il prelato era ormai agli sgoccioli, ebbe una im¬provvisa ripresa con un rifiorire di forze insperato e tutti credettero che la morte fosse scongiurata. Gaspare gli disse: «Monsignore, mi rallegro della ri-presa della sua salute, ma io so di certo che Dio per i suoi meriti, La chiamerà presto in Paradiso». Passarono solo pochi giorni e Mons. Manasse morì santa¬mente a Napoli. A D. Aloysi, salutista fino all’inverosimile e sempre pauroso di morire da un momento all’ altro, disse di non temere, perché sarebbe morto di tisi seni¬le. A D. Antonio Lipparelli predisse la data della morte con venti anni di anti¬cipo. Entrambe le predizioni si avverarono puntualmente. Abbiamo già narrato le predizioni che il Santo fece, nei minimi particolari, della morte di Pio VII, della breve durata del pontificato di Pio VIII, e del lun-go pontificato di Leone XII, che sarebbe stato tormentato da tristi eventi per la Chiesa, nonché i moti del ’48 che costrinsero Pio IX a rifugiarsi a Gaeta. A vari prelati predisse l’elevazione all’Episcopato e alla Porpora e le relative croci. Così a D. Muccioli, prima parlò della grande responsabilità dei vesco¬vi, poi aggiunse: «Perciò preparatevi, perché questo peso toccherà anche a voi». A D. Saverio Grimaldi disse: «Avrete la disgrazia di diventare vescovo e per quanto vi adoprerete, è una disgrazia che non potrete evitare». Il poveret¬to fu eletto vescovo di Sanseverino, ma le croci furono enormi! Molte profezie interessavano le mansioni e l’apostolato dei membri dell’ Istituto. Diceva apertamente che nei frequenti trasferimenti e nell’asse¬gnare i compiti e le cariche ai missionari era certamente illuminato da Dio. A chi lo criticava rispondeva: «Nella Valle di Giosafat vedremo il perché». I fatti dimostravano sempre che non c’era affatto bisogno d’aspettare il giorno del Giudizio Universale. E non poteva essere altrimenti, perché prendeva le sue decisioni dopo lunga preghiera e dopo aver celebrato la S. Messa. Agiva, poi, sempre con grande carità ed umiltà, quell’ umiltà che in lui fu purità dell’ ani-ma, e proprio perché sinceramente sentita più ricca di splendore. Un missionario afferma: «Mi nominò economo di Albano e mi diede solo uno scudo, benché la Comunità si componesse di quattro sacerdoti, il cuoco e il portinaio. Lo guardai interdetto con lo scudo sul palmo della mano, ed egli: – Abbiate fiducia in Dio! – e non disse altro. Quante inaspettate elemosine ci mandò la Provvidenza!». D. Marcello Brandimarte dice: «Intesi che un prete disonesto sarebbe en¬trato nella Congregazione e mi credei in dovere di scriverne al Servo di Dio. Egli mi rispose di star sereno, perché l’aveva già accettato e inviato in ritiro nella Casa di Terracina, aggiungendo che non solo si sarebbe mutato come dalla notte al giorno, ma sarebbe stato d’esempio agli altri. Così avvenne». Narra il P. Fontana: «Dovendo recarmi da Frosinone a S. Felice, Gaspare mi disse che mi avrebbe colà inviato una somma per la celebrazione di S. Messe. Poi, tornando sulla sua decisione prese del denaro e me lo consegnò subito: – Ne avrete bisogno per l’acquisto d’un ferraiolo – disse. Gli feci pre¬sente che l’avevo nuovo nuovo, comprato da poco. Fece un lievo sorriso e non aggiunse parola. Non replicai. Durante il viaggio mi resi conto di quel sorriso, perché fui derubato del ferraiolo e dovetti acquistarne un altro». Anche il canonico Locatelli ci narra un’altro episodio: «Gaspare passando per Terracina per recarsi a predicare la Missione a Gaeta, mi onorò di essere mio gradito ospite. Ripartendo mi disse che mi attendeva a Gaeta, dove avrebbe avuto bisogno del mio aiuto. – Vi imbarcherete come S. Francesco Saverio e verrete a Gaeta. – Non occorreva imbarcarsi per andare da Terracina a Gaeta e pensai che il sign. Canonico volesse celiare. Quando giunse la sua chiama¬ta, io e il Vescovo di Terracina, Mons. Manasse, dovemmo andare via mare, perché la strada, per il cattivo tempo, era impraticabile». Quando partì dalla mia casa Gaspare, era tempo bellissimo e la strada in buone condizioni S. Vincenzo Pallotti così depose: «Essendo io infermo e presso a morire mi disse che sarei guarito e mi consigliò d’istituire l’Oratorio notturno durante l’Ottava dell’ Epifania. Guarii e mantenni la promessa. La pia pratica celebra¬ta con tanta pietà e solennità richiamò tanti fedeli. Una notte, dopo il bacio del Santo Bambino, mi si presentò un signore, che piangendo mi confessò d’esser passato di lì per caso per recarsi ad uccidere per vendetta un suo ne¬mico; ma avendo vista la chiesa aperta entrò tanto per curiosare. S’appressò come gli altri a baciare il S. Bambino e cadde dalla sua mente ogni idea di vendetta». Oggi si celebra ancora quell’ Ottavario nella chiesa di S. Andrea della Valle in Roma e si prega per l’unità dei cristiani. Ancora una testimonianza, ed è di alcune suore di clausura di Piperno: «Parlandoci negli ultimi Esercizi spirituali, lo vedemmo come internato in un sentimento di spavento, poi ci disse: – Che dire dell’ imminente castigo, che farà tanta strage nel Regno?» Alludeva al colera che poi si scatenò nel Regno di Napoli. Le Suore gli chiesero se avrebbe colpito anche Roma, ma egli ri-spose: «Per quest’anno, no. Speriamo che il Signore voglia liberarcene, ma ci vogliono grandi orazioni. Alla divozione del divin Sangue è riservata la pace dei tempi». Anche il Merlini conferma l’episodio. «Un lume specialissimo lo ebbe nel consigliare la scelta dello stato e nel prevederne tanto il bene per chi aveva accettato i suoi consigli, tanto il male per chi non ne avesse tenuto alcun conto». Predisse alla giovinetta Maria An-tonietta Andreucci che «sarebbe andata suora e divenuta fondatrice». Infatti ella fondò l’Istituto delle Adoratrici Perpetue del S. Cuore di Lugo, e morì in concetto di santità. Sappiamo già tutta la mirabile storia della Beata Maria De Mattias e della fondazione dell’ Istituto delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo. Ad un giovane ch’ era già alla vigilia delle nozze, predisse che sarebbe stato parroco. Quegli scoppio in una sonora risata. Dopo pochi giorni ruppe il fidanzamento, entrò in seminario e dopo dieci anni fu nominato parroco. A D. Innocenzo Betti, ch’era andato a S. Felice a chiedergli consiglio, per¬ché desiderava farsi cappuccino, disse: «Ne parleremo domani, dopo averci pensato e pregato». Intanto l’accompagnò nella camera più piccina del con-vento e gli augurò la buona notte. Al mattino gli chiese: «D. Innocenzo, come avete passata la notte?», «Male, malissimo – fu la risposta di D. Betti – Come si fa a dormire in una camera così angusta?» «E come farete nei Cappuccini a passare tutta la vita in celle assai più strette? Il Signore vi vuole mio missiona-rio». D. Innocenzo capì e rimase con lui e visse da santo. Al suo amico d’infanzia D. Berga, monaco basiliano a Grottaferrata, che vo-leva abbandonare l’abbazia per tornare in famiglia ad assistere la madre in avanzata età, non solo predisse che la madre ne avrebbe avuto ancora per po-co, ma che se fosse rimasto nella sua vocazione religiosa, com’era volontà di Dio, tutto sarebbe andato bene; al contrario, ne avrebbe molto sofferto. D. Berga volle lasciare la sua vocazione, ma in famiglia subito si trovò così a disagio, che in fretta se ne tornò nel Monastero. Ad una giovane che si preparava per le nozze, disse: «Non credo che sia questo lo stato assegnatovi da Dio; vi farete monaca». Di li a poco fu abban-donata dal fidanzato ed entrò in clausura. Così narra di sé D. Domenico Silvestri, che era già suddiacono. «Incontrai il Canonico e, senza avergli nulla chiesto, mi sentii dire: Voi sarete nostro mis-sionario. Gli feci osservare ch’ ero balbuziente e che avrei fatto piuttosto ride-re il pubblico anziché convertirlo. Ma egli soggiunse: Ci penserà S. Francesco Saverio. Entrai nell’ Istituto e nulla cambiò, finché non fui ordinato sacerdo¬te. Fin dalla prima predica, però, il difetto sparì e predicavo come gli altri, con gran frutto, grazie a Dio». Gigia, la nipote di S. Gaspare, così racconta: «Mentre viveva mio zio, capitò qui un missionario della sua Congregazione di nazionalità maltese, che si chiamava D. Francesco Zammite. Si preparava a lasciare l’Istituto, e mio zio l’avverti che se fosse rimasto fedele alla vocazione, sarebbe andato tutto be¬ne; altrimenti il Signore l’avrebbe assoggettato ad una croce pesantissima. D. Zammite se ne tornò a Malta, dove cadde in una fissazione delle più forti, tanto da non poter neppur dire Messa. Mio zio era già morto, quando con un suo parente venne a Roma e mi raccontò quanto egli gli aveva predetto». D. Saverio Tommasini di Cori riferisce che Gaspare consigliò un suo giova¬ne amico ad abbracciare il sacerdozio, essendo questa la Volontà di Dio. Il giovane iniziò gli studi in seminario, ma subito li interruppe e prese moglie. Pur essendo gran possidente, si ridusse alla miseria e soffrì moltissimo nello stato coniugale. D. Marcellino Brandimarte così narra di sé: «Da qualche tempo meditavo di lasciare la Congregazione del Prez.mo Sangue, quando mi trovavo nella Casa di Albano e cercavo di mantenere per me il segreto. Notai però che il Servo di Dio aveva verso di me particolari premure e mi guidava con paterni¬tà singolarmente affettuosa, come se leggesse il profondo turbamento che agitava la mia anima. Era per altro, sommamente discreto. Finalmente, con-vinto ch’egli sapesse tutto, mi decisi a confessargli il mio proposito. -Pàdre voglio andarmene! – Il Canonico non rimase affatto sorpreso e mi consigliò di riflettere e pregare ancora per qualche tempo. Un giorno, verso il tramonto, m invitò a fare una passeggiata con lui fino ai Cappuccini, non molto distante da noi. Giunti presso la croce eretta ai piedi della scalinata, ci fermammo ed egli richiamò la mia attenzione sull’incantevole tramonto sul mare di Porto d’Anzio. Quante meraviglie ha creato per noi il Signore! – disse. Poi m’invitò a baciare con lui la croce ed aggiunse: – Vedete figliolo, ho pregato molto per conoscere la Volontà di Dio nei vostri riguardi. Il Signore vuole che restiate missionario. – Io gli risposi con franchezza che quella vita di comunità non mi piaceva, pur volendo rimanere sempre sacerdote. Vidi scorrere qualche lacri-ma sul suo viso angosciato; poi, dopo qualche istante, per ben tre volte mi ri-peté – Voi lasciate una croce d’oro, e vi caricate di tante croci pesanti, che non potrete portare. – Piansi anch’io, m’inginocchiai ai suoi piedi e gli chiesi di be-nedirmi e di pregare per me. Tuttavia, fermo nel mio proposito lasciai la sua Congregazione. Ben presto ebbi però a pentirmene amaramente, perché mi caddero addosso tante di quelle pesantissime croci e, sebbene innocente, an-dai a finire anche nel carcere del Sant’Uffizio». Vogliamo concludere questo breve elenco con due altri episodi avvenuti entrambi nella Casa di Frosinone. Uno ce lo racconta lo stesso Mons. Pellei, vescovo di Acquapendente e allora Uditore dell’Arcivescovo di Benevento. «Ero in viaggio da Benevento verso Roma, ma per vari contrattempi quand’era da un bel po’ passato il mezzogiorno, stanco ed affamato ero anco¬ra nei pressi di Frosinone. Ricordai che c’erano li gli ospitalissimi Padri del Prez.mo Sangue e pensai di chiedere loro la carità d’una minestra, anche se, come avrebbe voluto l’educazione, avrei dovuto prevenirli del mio arrivo. Ma non ne ebbi il tempo. D. Gaspare era venuto di persona ad aprirmi il por¬tone e farmi gran festa come se mi aspettasse da gran tempo. Mi fece servire il pranzo e mi assegnò una camera per riposare. Poi seppi ch’egli aveva av¬vertito in mattinata il cuoco di tenere da parte il pranzo per un padre che sa¬rebbe arrivato con ritardo. Il cuoco se n’era meravigliato, essendo la Comuni¬tà al completo. Infatti, dopo aver servito il pranzo a me, sentii che diceva al Superiore: «Padre, che daremo al Missionario?» E Gaspare gli rispose che chi doveva arrivare era già arrivato. Dedussi che, non sapendo io stesso di quella sosta, Gaspare l’aveva prevista per Lumi Superiori. Se non fosse stato presente Gaspare a tavola quel giorno, il fatto che stiamo per narrare, avrebbe avuto conseguenze senz’altro tragiche. I missionari era-no a mensa, quando si scatenò improvvisamente un furioso temporale. Tuo¬ni, lampi e fulmini facevano tremare la casa! Gaspare, d’improvviso, fece in-terrompere la lettura e pregò D. Valentini, che sedeva al suo fianco, d’andare subito a prendergli un certo libro nella saletta attigua. Fu più lesto qualche al-tro ad alzarsi, desideroso di rendersi utile al Santo, ma questi fermò tutti e disse con decisione: «No, no, dovete andare proprio voi, D. Biagio e presto». D. Biagio s’era appena allontanato, che un fulmine s’abbatté dove egli era se-duto, bruciando la sedia e la tovaglia. La morte di D. Valentini, se si fosse tro-vato ancora li, sarebbe stata certa. Gli episodi narrati, e tanti altri simili che non abbiamo potuto qui raccon¬tarvi o che narriamo in altre pagine, ci incantano e fanno meditare. Sono tal¬mente lampanti che non si può davvero parlare di sotterfugi o fantastiche il¬lusioni, e fanno ad ognuno di noi nascere il desiderio di aver vicino un santo come lui a predirci il futuro, farci guidare nei momenti cruciali della vita e farci conoscere la Volontà di Dio senza equivoci. Noi suoi figli ce lo sentiamo sempre vicino! La profezia più cara per noi è la promessa fatta alla sua Congregazione prima di morire, pronunciata con so-lenne giuramento, con le parole della Scrittura: «Si inaridisca la mia destra se ti dimenticherò, mia amata Congregazione del Prez.mo Sangue!». Sono ormai passati quasi centocinquant’ anni dalla sua morte e la nostra Congregazione, pur fra tante tempeste e sull’orlo della soppressione, è stata dal Fondatore di-fesa e protetta, sicché, riemergendo dai violenti marosi, è rifiorita come pian¬ta novella, più solida e robusta. Anche oggi le crisi che non ci risparmiano, non ci abbattono, e dormiamo sereni fidando nell’ amabile, potente e santa protezione d’un Padre così grande. Lasciate passare prima lui… «Il solo piacere, il solo desiderio, la sola brama di guadagnare anime a Dio lo mosse, lo corroborò, lo confermò nella sua carriera». Così il Merlini, che poi seguita: «Le sue Missioni erano edificantissime e tutte accompagnate da celesti benedizioni; d’ogni parte i popoli accorrevano… per soddisfare all’an-sietà che avevano di sentirlo… di farsi ascoltare da lui in confessionale». Continuiamo a citare il Merlini: «Nella Missione in Pontecorvo fu tale il concorso di penitenti che il Servo di Dio dovette lasciare tre compagni, per al-tri otto giorni, per soddisfare la brama di quelli che non si erano potuti con-fessare nei quindici giorni che durò la Missione… e questo avveniva quasi ad ogni Missione predicata dal Servo di Dio». «Era tale l’affluenza alle confessio-ni, che dovevano chiamarsi altri confessori dai luoghi circonvicini. A lui, ch’ era sempre il più ricercato, la gente non dava tregua o riposo né giorno né notte». Questo grande afflusso al Sacramento della Penitenza per la riconciliazione con Dio dava la vera misura dell’efficacia della predicazione del Santo, e ne era lo scopo principale ed il frutto ch’ egli se ne riprometteva. Perciò «era assiduo nelle confessioni sacrificandosi abitualmente oltre la mezzanotte, usando modi cortesi e grande dolcezza verso i peccatori». Anche se passava molte ore ad ascoltare le donne «preferiva gli uomini, perché sole-va dire che, accomodata la testa ad un uomo, era accomodata la famiglia». Chiamato a Cerreto a confessare una gran Dama e vedendo che c’era un bel gruppo di contadini ad attenderlo, li confessò per primi dicendo che «il Signo-re «Mostravasi premuroso nell’accogliere i penitenti ed aveva una maniera si efficace d’attirare i peccatori e di compungerli, che niuno si partì mai da lui senza essere per davvero convertito, e pienamente contento». Anche il Betti aggiunge: «Paziente, prudente, benigno era il metodo da lui usato nel confes-sare e lo stesso inculcava ed esigeva dai suoi compagni». Ascoltiamo ancora il Merlini: «Accorrevano a lui ogni sorta di gente: eccle-siastici, signori, impiegati, artieri, contadini, soldati, dotti, ignoranti». «Nel dare le penitenze era molto discreto anche se esigeva perentoriamente la re-stituzione del rubato e la riparazione nei peccati di calunnia e d’ingiustizia. Inclinava del resto sempre per la parte più benigna, asserendo che Gesù e i Santi ci avevano lasciato lezioni di benignità». Abbiamo avuto modo di raccontare i non pochi episodi meravigliosi che ac-cadevano vicino al suo confessionale; a quelli ne facciamo qui seguire qual¬che altro. Una volta, essendo tanta la ressa di uomini, due signori si inginocchiarono assieme davanti a lui: «Figlioli, non posso confessarne più d’uno alla volta!» «Padre ci può confessare assieme perché abbiamo commesso gli stessi pecca-ti» fu la risposta, e 5. Gaspare non poté far a meno di sorridere. A Mergo una povera rattrappita, che non potendo camminare da sola, s’era fatta portare davanti a lui in confessionale, cominciò a gridare a squarciago¬la: «Santo Padre Gaspare, risanatemi!». Egli l’esortò a rivolgersi a S. France¬sco Saverio, il cui quadro era esposto su un altare in quella stessa chiesa, e la congedò benedicendola. La donna obbedì, ma mentre la portavano verso l’immagine, si sentì già libera da ogni male e continuò da sé il cammino, pro-strandosi a ringraziare S. Francesco; poi andò di corsa a ringraziare Gaspare, al quale attribuì la sua guarigione. A conferma del dono che Gaspare aveva di prevedere il futuro vicino e lon-tano, raccontiamo un fatto molto tragico, avvenuto nel 1832 a Sermoneta, mentre stava confessando un bel gruppo di uomini. Ad un tratto scostò la tendina e disse: «Usate la cortesia di far passare pri¬ma lui – e indicò un tale che stava tranquillamente aspettando il suo turno – perché ne ha urgente bisogno». Furono tutti gentili e si fecero da parte. Il po-veretto s’era appena confessato, quando, preso da grave malore, morì in po¬chi minuti. Un brivido corse fra gli astanti, che non facevano che ripetere: «Un santo è venuto tra noi!». Chiudiamo con un belì’ episodio avvenuto nel 1824 a Itri. Come ovunque anche in questa Missione sono molti gli uomini che lo asse-diano per essere ascoltati da lui in confessione e tra questi un famoso «pecca-tore del luogo». Questi, inginocchiato davanti al Santo, elencava uno ad uno i suoi tanti peccati, ma accorgendosi che egli non replicava alla sua accusa, al¬zò lo sguardo sul suo viso e rimase incantato nel vederlo illuminato e rapito come in una visione lontana. Non gli sembrava proprio vero potersi godere così da vicino… l’insolito spettacolo. Quanto tempo era passato? Né il Santo né il penitente se n’accorsero, ma ci pensarono gli altri a ride¬starli, stanchi d’attendere! L’uomo contrariato, se ne lamentò con loro: «Mi avete richiamato dal para-diso sulla terra, mentre io sarei rimasto per tutta la vita a guardare il volto di questo santo, che vedeva Dio!» L’Apostolo delle Marche Crediamo di non andar errati affermando che S. Gaspare consacrò alle Marche non meno di un terzo del àuo intenso cammino apostolico. I marchi-giani riconoscenti lo acclamarono Apostolo delle Marche e ne conservano tut-tora un indelebile ricordo e una fervida devozione. A S. Gaspare hanno dedi-cato anche una chiesa parrocchiale nella zona industriale del capoluogo. In quel tempo, dopo le Romagne, quella delle Marche era la Regione dello Stato Pontificio dove pullulavano i Settari e i Carbonari; Camerino, la bella cittadina famosa per la sua università, ne portava la palma. I giovani, è ben noto, sia nel bene che nel male, sono sempre all’ avanguardia. Abbiamo an¬che già messo in rilievo come insulti, lotte e attentati non riuscirono giammai ad atterrire, a mettere a tacere, e a fermare il santo nel suo cammino. Egli vi torna e ritorna, percorre la regione in lungo e in largo, dal capoluogo fino ai piccoli villaggi arrampicati sulle montagne o distesi placidamente sulla costa, divorato dalla sete di anime. Dio semina il suo passaggio di grazie e portenti a non finire. Seguiamolo nel cammino instancabile in alcune località dove lo spinge il suo ardore. Corre l’anno 1819 e lo troviamo a Caldarola: «Fin dall’ introduzione fu tale il rumore della missione per le commoventi funzioni e l’impressione che ne¬gli animi produceva la forza della predicazione, che vi accorsero molti anche da Camerino, Macerata e Sanseverino». Proprio a Caldarola il Signore volle ripagarlo di tante sofferenze con vari prodigi. Costretto a predicare all’ aperto per la gran folla, alla presenza del Vescovo, di notabili del Clero e civili, d’im-provviso s’oscurò il cielo e cominciò a venir giù acqua violenta e in gran quantità, costringendo tutti ad un pigia pigia in cerca di ricovero. Gaspare fe ce un cenno deciso con la mano, invitando a non muoversi e a recitare un’Ave con lui. S’inginocchiò, fissando intensamente le pupille sul quadro della Vergine, e a mani giunte, iniziò la preghiera, alla quale il popolo rispose con devozione. In pochi istanti cessò la pioggia e tornò il sereno! Gaspare aveva ottenuto ancora quel prodigio che anche in altre parti si era più e più volte ripetuto. Sempre a Caldarola un giorno venne chiamato al capezzale d’un malato ri-dotto pelle e ossa, con un fil di voce e le orbite incavate. Sul comodino era po-sto un piattino con una fetta di prosciutto. Per non dar l’impressione d’essere andato li per raccomandargli l’anima a Dio, gli disse in tono scherzoso, addi-tando il prosciutto: «Ci trattiamo bene, eh?» A quelle parole che suonavano quasi una presa in giro, la moglie del malato scoppiò in pianto dirotto: «È li da due giorni! Me l’hanno portato i vicini e glielo tengo bene in vista, per invo¬gliarlo a mangiare. Padre, è da lungo tempo che non trattiene più il cibo e perciò lo rifiuta. Devo imboccarlo come un bambino!». Il Santo, commosso, benedisse il prosciutto e glielo porse: «Su non fate i ca-pricci! Mangiatelo e sentirete com e squisito». L’infermo lo mangiò con avidi-tà, chiese altro cibo e volle alzarsi subito. La sera anch’egli era in piazza a sen-tire la predica di Padre Gaspare e a narrare agli amici com’era avvenuta la guarigione. Terminava sempre il racconto ripetendo: «Mai mangiato un pro-sciutto così buono!». Teresa Cecchini, da quindici anni era tormentata da un male che le scon-volgeva la mente; fuggiva di casa, strappandosi le vesti con urla selvagge e dava fastidio a tutti. Un giorno fu presentata al Canonico, al quale dissero che, credendola ossessa, già varie volte l’avevano inultimente fatta esorcizza¬re. Il Santo si tolse il crocifisso che aveva sul petto e la benedisse posandoglie¬lo sul capo. A quel contatto la malata si calmò e guarì per sempre. Anche il pievano di Caldarola, D. Massi, malato fino al punto da perdere spessissimo i sensi e giacere come morto, guarì ad un semplice segno di croce impartito da Gaspare. Da Caldarola Gaspare e i suoi compagni passarono a 5. Ginesio, dove, co¬me narriamo altrove, operò, disciplinandosi, la famosa conversione d’un ex sacerdote, che anche in punto di morte, rifiutava i Sacramenti. Sul finire della Missione in questa cittadina, gli abitanti di Caldarola lo «sequestrarono» sulla via del ritorno, costringendolo affettuosamente a rimanere con loro al¬meno un’altra giornata. Li accontentò e poi, a tappe, si portò in altri paesi, tra i quali Castelraimondo e Sarnano. Qui avendo perduta la voce e non essendo¬vi alcuno disposto a sostituirlo in una difficile predica sulla Credibilità della Religione Cattolica, sali ugualmente sul palco e la voce rifiorì in modo tale, che «tenne un discorso a voce alta e così convincente, ispirato e ricco di zelo, che, subito dopo, il Gran Maestro della Massoneria, con i suoi proseliti, volle-ro confessarsi e fare l’abiura». In settembre, cedendo a pressanti richieste, si recò a Moscosi, un villaggio nei pressi di Camerino. Sparsasi la notizia, vi si riversò «una fiumana di gente da ogni parte» e fu costretto a predicare ogni sera all’ aperto. Aveva saputo che alcuni devoti, presi dall’entusiasmo, avevano preparato una sera dei mortaretti da far scoppiare in segno di festa subito dopo la predi¬ca. Egli si oppose energicamente perché «tali chiassate non s’addicevano in tempo di Missione», ma i devoti fecero orecchi da mercante. Durante la pre-dica si scatenò un furioso temporale che non era… in programma, ma il Santo lo sedò benedicendo l’aria col Crocifisso. La pioggia cessò,ma sui fuochi d’ar-tificio continuò a cadere inesorabile, inzuppandoli a tal punto da renderne impossibile l’accensione. Pioggia intelligente! Portatosi a S. Anatolia, dove era avvenuta la conversione del giovane liber¬tino Domenico Loricato, da noi già narrata, mentre era a tavola con i compa¬gni gli fu condotto innanzi un pazzo, che più d’una volta aveva messo in peri¬colo la vita altrui. Prima lo benedisse, poi gli porse un pezzo di carne del suo piatto ed il giovane guari. La fama dei prodigi operata dal Santo volava ovunque e le richieste di pre-dicazione si moltiplicavano. Tutti lo desideravano nel proprio paese. Egli «si sentiva mortificato a doverle respingere e diceva, addolorandosene: Come si fa ad accontentare tutti i popoli che mi vorrebbero?» Insistettero però con successo, gli abitanti di Belforte, un piccolissimo villaggio presso Camerino. Gaspare vi andò con il Betti e il Valentini, perché voleva dimostrare che non abbandonava la gente umile ed anche presago del bene che vi avrebbe fatto. Per la presenza di Gaspare «il paesello fu assediato dai popoli vicini e diven-ne…. una città!». Furono molte le conversioni e le abiure, e si verificò anche un grande prodigio, che ci ricorda quello della discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo. Il popolo poté constatare a lungo che lingue di fuoco si posavano sul capo del Santo durante la predica. Nei pieni calori del luglio troviamo Gaspare con il Valentini, il Betti e il Moscatelli, a Torricchio, un paesino arrampicato sulla montagna vicino a Pie-vetorina. Durante il giorno Gaspare teneva gli Esercizi al Clero della Diocesi di Camerino, raccolto nella Casa di Missione di Pievetorina, e sul far della se¬ra s’inerpicava a piedi per un viottolo lungo tre miglia, ripido e ciottoloso, che portava a Torricchio, dove doveva tenere la predica grande in piazza. Somma era la sua gioia nel vedere che la gente delle campagne, che costeg¬giavano il viottolo, abbandonando tutto, s’univa a lui e lo accompagnava per ascoltare la predica e dopo lo riaccompagnava nel ritorno. I sacerdoti raccolti in ritiro, santificati dalla sua parola, ma ancor più «dalla sua vita così strappazzata, quasi vergognosi della propria inerzia, si dettero ad esercitare con zelo la loro vita pastorale». Da Torricchio si recò a Mergo. Questo villaggio è rimasto celebre negli annali della vita del Santo, e la di lui memQria, anche a distanza di anni, è vivissima tra i suoi abitanti. Mergo dista poco da Camerino, e li, «la calda parola del Servo di Dio e i suoi prodigi attrassero enormi folle dai paesi vicini, sicché egli era costretto a parlare sem-pre all’ aperto». «Una sera, non appena cominciata la predica sul Giudizio, so-pra la sua testa apparve una stella radiosa, spizzata in tre angoli, della gran-dezza poco più d’uno scudo romano, la quale si trattenne in tutto il tempo della predica, nella medesima località. Fu universale la commozione e tutti lo acclamarono santo. La stella non si muoveva mai dal suo capo, benché egli si muovesse continuamente sul palco». Gaspare confidò ai suoi confessori ed a persone di provata serietà e santità, tra i quali P. Michelangelo da Forlim-pompoli, che parlando della Madonna, ebbe più volte le vesti bruciate dalla parte del cuore «restando illesa la sua persona». Tale era il «bruciore del suo cuore versQ la Mamma Celeste». Il Merlini così ci narra un altro prodigio avvenuto a Mergo durante la stessa Missione, appreso dal Valentini e dal Betti, che ne furono testimoni. «Ad un signore, cui stava per morire il figlio, il Servo di Dio disse che avesse fatto do-dici sacchi di S. Francesco Saverio e il figlio sarebbe guarito. Quel tale comin-ciò subito a fare i sacchi e il figlio cominciò subito a migliorare. Ma poiché egli distette dal farli tutti e dodici, tornò il figlio a peggiorare. Tornato dal Ser¬vo di Dio, avendo questi inteso che non aveva compito il numero dei dodici sacchi, gli ordinò che li avesse fatti, se voleva guarito il figlio. Li fece infatti, e il figlio guarì». Da Mergo, prima di recarsi a Roma, si recò per una nuova Missione a Fa-briano. «Faceva una sera lo svegliarino sotto la casa di un sarto di facili costu-mi, quando la moglie di questi, irritata gli gettò addosso l’acqua bollente dalla quale aveva estratte le rape cotte». Un urlo si levò dagli astanti, che volevano salire in casa della donna per vendicare l’oltraggio al Missionario e che avreb-be potuto recargli grave danno, se Dio non l’avesse protetto. Gaspare li cal¬mò: «Lasciate stare che non è niente. Ci ha pensato il Signore. Vedete? Non mi ha neppure bagnato». Così ovunque per il Santo era un alternarsi di Osanna e di Crucifige… Ga¬spare preferiva il Crucifige. A Camerino, sulla Croce, che aveva impiantato a ricordo della Missione, i Settari in combutta con i Massoni, inchiodarono un cartello «in dileggio» del-la Croce e di chi ne predicava le glorie. Esso portava la scritta: Croce degna d’aver per Cristo un Bufalo. Dileggio? Onore più grande non avrebbero potuto tributare a chi di quella croce aveva fatto il perno di tutta la sua vita, all’ Apostolo che anelava quoti-dianamente d’esservi confitto col Cristo, che annichifi se stesso fino a darci il suo Sangue e la sua vita. Le amabili consorelle Desta sempre più meraviglia all’ attento lettore della vita di S. Gaspare la sua poliedrica attività da non poter fare a meno di chiedersi donde traesse egli tanto tempo e tante energie per dedicarsi, senza sosta, alla predicazione delle Missioni, a giornate, e a volte a nottate intere nel confessionale, al go¬verno dell’ Istituto, alla scrittura di migliaia di lettere ed anche alla guida spi¬rituale di centinaia di persone e d’interi Monasteri di Suore. Le chiamava «Amabili Consorelle nel Sangue di Cristo» e ne aveva la più alta stima, cura e rispetto. Prediligeva le Suore di stretta Clausura, essendo convinto che era dovuta alle loro preghiere anche la buona riuscita del suo apostolato, tanto che, quando si ritrovava in difficoltà per riportare a Dio i peccatori più ostinati, chiedeva loro di pregare e intensificare penitenze, affinché trionfasse la grazia del Signore. Ed era anche convinto che, se non vi fossero quei Monasteri di Clausura, il Signore avrebbe castigato più severamente il mondo per la sua malvagità. Tuttavia, quando ideò la fondazione del ramo femminile del suo Istituto, preferì che anche le sue suore si dedicassero non solo all’adorazione del Sangue di Cristo, ma anche all’apostolato della carità e all’insegnamento, particolarmente alla gioventù femminile. Abbiamo già detto della sua creatura prediletta, Maria De Mattias, confon-datrice delle Suore Adoratrici del Sangue di Cristo,e abbiamo già accennato a diversi episodi prodigiosi avvenuti in qualche monastero ad opera del Santo, ma ve ne sarebbero ancora tanti da raccontare. Il Valentini ci dice che, trovandosi Gaspare nel parlatorio del Monastero di Gesù e Maria in Albano, disse alla Superiora d’essere più vigilante perché v’erano tanti demoni nel Monastero, dentro e fuori, e bisognava pregare mol-to. I fatti poi gli diedero ragione. Il Merlini, a sua volta, narra che nello stesso Monastero ad una probanda che si accostò al suo confessionale, ancor prima che aprisse bocca, parlò di cose della sua coscienza, mai da lei palesate ad alcuno, e concluse: «Perché dubitate della vostra vocazione? Prendete il velo». Quella non soddisfatta re-stava titubante, temendo che un giorno dovesse pentirsene. Il Santo lesse nel-la sua mente e la rassicurò: «Non avrete mai neppure la tentazione di pentir-vene, perché è Volontà di Dio, e quando tornerò sarete già vestita». Infatti non passò molto che la probanda indossò l’abito religioso e fu sempre felice della sua vocazione. Ad altra suora, molto scrupolosa, che aveva la coscienza agitata e accusava peccati già confessati, come fossero…. nuovi, egli, che per la prima volta l’ascoltava in confessione, disse con chiarezza il tempo e le circostanze in cui se n’era confessata e la tranquillizzò facendole comprendere che quelle non erano colpe gravi. La poveretta finalmente poté vivere serena. Anche ad una postulante del Monastero delle Clarisse di Piperno, come narra lo stesso Merlini, Gaspare disse: «Per ora siete ancora piccola d’età -aveva soli 13 anni – e non in grado di decidere della vostra vocazione, ma nel¬la festa dell’Assunzione il Signore parlerà chiaramente al vostro cuore e vi fa¬rà conoscere la sua volontà». Infatti, in quella data, qualche anno dopo, allor¬ché la probanda fu più matura per fare una scelta, le si fece sentire una voce misteriosa: «Figlia mia, sta’ in questo luogo, non mi lasciare, fanne voto». I genitori, credendola fissata, erano contrari e la ritirarono dal Monastero. La ragazza, pur stando in casa, continuò a chiedere lumi nella preghiera e a sen-tire sempre quella voce, finché non fu lasciata libera di rientrare nel Mona-stero. Anche in un monastero di Clausura di Cori, nel 1836, Gaspare guarì una suora che era impazzita. A molte ragazze Gaspare predisse la vocazione, quando neppur ci pensava¬no; molte ne aiutò pagando la dote, ed altre che conducevano una vita poco onesta, al solo sentire le sue prediche abbandonarono il mondo e si chiusero in clausura. Sempre nello stesso Monastero di Piperno, del quale aveva assunto la dire-zione spirituale per desiderio del vescovo Mons. Manasse, avvennero altri episodi straordinari raccontati dal Ven. Merlini e da altri Missionari. Una suora era disturbata notte e giorno da fortissime tentazioni demonia¬che ed anche da orrende visioni. Ne fece parola a Gaspare e questi le disse: «Vincerete il Maligno in virtù del Sangue di Cristo»! e le diede un cartello da attaccare all’esterno della porta della sua cella con la scritta: «Viva il Divin Sangue»! Ogni tentazione svanì. Una suora dava in tali e tante stranezze, e pronunciava perfino bestemmie ed oscenità da essere ritenuta indemoniata. Fu presentata al Santo che accon-sentì a benedirla, ma disse chiaramente che non era indemoniata, ma solo gravemente malata di mente e che ben presto sarebbe morta. Così avvenne. Suor Maria Nazzarena, clarissa in Piperno, narra che nel 1823, trovandosi colà il Servo di Dio, «gli fu presentata una suora conversa che soffriva quasi una continua convulsione, che esternava con strepiti e dibattimenti tali che inquietava tutta la Comunità. La Superiora, con grande suo dispiacere, decise di dimetterla. Il Servo di Dio la benedisse e rassicurò la Comunità che presto sarebbe guarita, perciò potevano tenerla con loro, perché sarebbe stata una santa suora. Si avverò in tutto quanto aveva predetto il Servo del Signore». Guarì in quel monastero un’altra educanda malata gravemente di tuberco¬losi, benedicendola con l’acqua di 5. Francesco Saverio. E nello stesso Mona¬stero il Santo non beneficò solo suore ed educande, ma guarì con un segno di croce anche la moglie del Fattore, affetta da grave malattia. Purtroppo la fitta corrispondenza tenuta dal Santo con le tante persone d’ogni ceto da lui guidate nella via della perfezione fu da Lui stesso tutta di¬strutta, negli ultimi mesi di vita, con scrupolosa delicatezza. Non voleva,giu¬stamente, che altri conoscessero l’intimità spirituale delle persone che s’era¬no a lui affidate. Così prima di morire, ordinò che distruggessero anche ogni lettera che avessero rinvenuta dopo la sua morte. Il Merlini, suo segreta¬rio, afferma di averne bruciate diverse, senza neppur leggerle, per non viola¬re il segreto di coscienza tra il Servo di Dio e quelle anime. Chi sa quale teso¬ro di consigli, quante premure, e quante notizie di fatti prodigiosi esse conte¬nevano! Le Suore erano molto riconoscenti al Santo e cercavano di dimostrarglielo non solo con la preghiera, ma anche con qualche piccolo dono. Il Santo glielo proibiva con severità, ma esse a volte non tenevano conto del suo divieto. Come fossero accolti i doni lo sapeva bene Fratel Bartolomeo, che ogni volta che si presentava con qualche dolce, con severi rimbrotti, veniva dirottato imme¬diatamente verso un ospedale o un ricovero. S. Gaspare morì guardando un piccolo presepe di carta, inviatogli dalle buone Suore del Convento di S. Urbano in Roma, quando seppero che il gior¬no di Natale giaceva a letto agli estremi. E non ci si può neppure meravigliare se, come Gesù apparve per la prima volta dopo la sua Resurrezione ad una donna, Maria Maddalena, così Dio permise che il suo servo, nello stesso mo-mento in cui esalava l’anima a Dio, apparisse radioso in cotta e stola, ad un’umile suora in un convento di Cori nel Frusinate. Era una delle tante da lui guidate alla perfezione e alla santità. L’apostolo di Roma e del Lazio Così è stato sempre chiamato a Roma S. Gaspare; e ben a ragione, perché non v’è angolo della vecchia Roma, né paese del Lazio ov’ egli non abbia profuso il tesoro della sua carità e della sua parola. Ne abbiamo già parlato in tante pagine di questi Fioretti; ma ci vorrebbe più d’un volume, solo per nar¬rare quanto ha fatto a Roma e nel Lazio, se volessimo seguirlo passo passo: dalla giovinezza, ancor prima del sacerdozio, fino agli ultimi giorni della sua vita, nel giro degli ospedali, ospizi, carceri, tuguri, viuzze, piazze, chiese! Ro-ma non fu solo la città che gli diede i natali, ma anche la città del suo martirio e della sua gloria! Era fiero d’essere un figlio della Città dei Martiri e del Vica-rio di Cristo. Dei Romani aveva il carattere bonario e spiritoso, nonché la for-tezza incrollabile della fede! La storia non parla mai di alcun miracolo operato dal Santo nella sua città «perché, dice un biografo, gli era più facile difendersi dallo sguardo indiscre¬to della folla» e perciò nessuno ha potuto trasmetterci una testimonianza di eventi costatati di persona; né ci si poteva aspettare che fosse egli stesso a parlarne, schivo, umile e riservato com’era! Solo S. Vincenzo Pallotti, come abbiarno già narrato nel capitolo il Profeta, ci ha tramandato il miracolo della sua guarigione, avvenuta ad opera di Gaspare, e fa capire, senza per altro en-trare in particolari, che egli operò ivi altri prodigi. Ci siamo presi la briga di seguire su una carta geografica il lungo e variato cammino apostolico del Santo attraverso il Lazio e i paesi confinanti con il Regno di Napoli, fino a Benevento. Così abbiamo potuto notare, con vero stu-pore, com’egli abbia percorsa sì vasta Regione in lungo e in largo, evangeliz-zando tutte le grandi città e la quasi totalità dei paesi e dei villaggi, ivi com-presa la distesa delle Paludi Pontine, a quei tempi invase da acque stagnanti e mefitiche, fonte di malaria e di mille altre malattie. Come abbia fatto, con i mezzi di comunicazione di allora, la pessima viabilità in ogni stagione, lui di fisico gracile, fiaccato dalla lunga prigionia, è un mistero, che può essere spiegato solo dall’ ardentissimo suo zelo per la salvezza delle anime e dall’ aiu-to continuo e straordinario di Dio. Non per nulla dicevano: «Il Can. Del Bufalo è un miracolo vivente!». Il Santo aprì nel Lazio ben sette Case, le quali, ad eccezione di quella di Al-bano, si trovavano tutte nella così detta zona della Ciociaria e di marittima e Campagna e cioè: Velletri, Frosinone, Vallecorsa, Sonnino, Sermoneta e Ter-racina; praticamente nel territorio abbandonato alla mercé dei briganti, che vi scorazzavano da padroni assoluti! Abbiamo già ampiamente parlato delle fatiche e sofferenze di Gaspare e dei suoi Compagni per la conversione dei briganti e la loro gioia quando riuscirono ad eliminare quella piaga funesta solo con l’arma del Crocifisso, la dolcezza, la comprensione e la grande cari¬tà. Un esempio rimasto unico nella storia di tutti i Paesi e di tutti i tempi, che sta a dimostrare quanto possa un uomo guidato da Dio e senza mire umane. Gaspare, non avendo allora potuto ottenere né una Casa, né una Chiesa in Roma, dietro insistenze del Card. Galeffi, Vescovo Suburbicario di Albano, ne apri una il 24 marzo del 1821 in questa ridente cittadina dei Castelli Roma¬ni, distante appena venticinque chilometri da Roma. Per la sua vicinanza alla Città Eterna, essa divenne la Casa Generalizia dell’Istituto e la base logistica di tutto il movimento Missionario finché, dopo la morte del Santo, non si eb¬bero in Roma la Casa di S. Salvatore in Campo nel 1841, e di S. Maria in Tn¬vio in Piazza dei Crociferi nel 1854. Il Capitolo di S. Giovanni in Laterano cedette a Gaspare, in Albano, il Mo-nastero, cui era unita la Casa Abbaziale di S. Paolo, abbandonati dai Gerolo-mini. Il 21 marzo ne prese possesso il Ven. Merlini, delegato da S. Gaspare, ed il 24 dello stesso mese egli ne fece l’apertura ufficiale e solenne, predican¬do nella chiesa di 5. Paolo un Triduo in onore del Prez.mo Sangue. Anche qui le cose cominciarono male, come del resto tutte le altre opere del Santo. Il convento era interamente occupato da inquilini, che non vollero cedere ai Missionari neppure una camera, costringendoli così ad adattarsi alla me¬glio nella sghangherata Casa Abbaziale. Nella prima domenica di luglio, proprio nel giorno della Festa del Prez.mo Sangue, mentre erano in chiesa intenti alle funzioni, si presentò un tizio con regolare contratto d’affitto ed occupò l’Abbazia, cacciandoli con ingiurie, bestemmie e minacce di percosse. Ai Missionari non restò altro che trasferirsi, con le loro misere cose, all’ aperto, in cortile, tra gente d’ogni sorta ed uno stuolo di ragazzi curiosi e ladruncoli. Meno male che era il mese di luglio! Prevalse poi la bontà e la pazienza del Santo, che esortò innanzi tutto i suoi alla calma e alla rassegnazione dicendo: «Non c’è da meravigliarsene! Lo sapete pure che, in tutte le nostre Case, nel giorno della festa del Prez.mo Sangue, il demonio, per la rabbia, ce ne combi-na di tutti i colori!». La vittoria finale fu di Gaspare, perché, colui che li aveva così maltrattati ed umiliati, ammirato e conquistato dalla sua pazienza e dal suo zelo, gli con-segnò «una buona limosina e chiese scusa». Come Dio volle gli inquilini abu-sivi lasciarono il convento, ma in che stato! Così, con l’aiuto del Card. Cri¬staldi e del generoso popolo albanese, poterono farvi dei restauri e renderlo in parte abitabile. Oggi quel vecchio convento non esiste più, perché raso al suolo dai massic¬ci bombardamenti dell’ aviazione americana, durante la seconda guerra mon-diale. Al suo posto sorge, imponente, il nuovo fabbricato; sono rimaste inve¬ce miracolosamente intatte le mura perimetrali dell’ ampio giardino, costruite dalle mani del Santo e del Ven. Merlini, improvvisatisi muratori. Intatta è ri-masta anche la bellissima chiesa. Durante quei terribili bombardamenti fu tangibilissima la mano salvatrice di S. Gaspare. Infatti, il Padre, che con la partecipazione degli allievi, nella cappella privata del Collegio, nel primo mattino stava celebrando la Messa, subito dopo la consacrazione ebbe un’improvvisa ispirazione e di corsa si tra-sferì con i ragazzi a continuare l’Eucarestia in chiesa. Dopo pochi istanti co-minciò il furioso bombardamento. M cessato allarme si notò la mancanza del vecchio ortolano che dormiva nel piano alto dell’edificio, ridotto ormai in fu-manti macerie. Tutti lo ricercarono e non trovandolo capirono la tragedia e si misero a pregare e a frugare tra le macerie. Da esse sentirono salire un flebile grido: «aiuto! aiuto!». Un vero miracolo! Il poveretto fu tirato fuori incolume, perché sebbene sepolto tra le macerie fino al collo, era rimasto con la testa protetta da una trave di ferro curvatasi ad arco. Neppure un graffio in tutto il corpo, pur essendo precipitato con le macerie da un’altezza di quattro piani! Seguiamo ora il Santo in un lungo itinerario di predicazioni, oper~di bene e grandi prodigi nel Lazio; ci fermeremo qua e là a raccontare gli episodi più si-gnificativi. Sappiamo che in tantissime circostante egli dovette ricorrere all’intervento divino per fugare piogge e tempeste! Nel 1817, mentre trovavasi a Sermone¬ta, fu invitato con insistenza dalla popolazione di Cori a tenere una funzione propiziatrice in onore della Vergine per implorare la cessazione della siccità, che, da mesi e mesi, aveva inaridito la campagna e pregiudicato ormai il rac-colto. Una sera Gaspare vi si recò e, adunata la popolazione in piazza dinanzi al simulacro di Maria SS.ma, invitò i fedeli a recitare il Rosario e i Salmi Peni-tenziali. Poi iniziò a parlare. «Non aveva ancor terminata la predica che il cie-lo, fin’allora stellato, si cosparse di nuvole oscure e divenne plumbeo, indi cominciò a scendere una pioggia leggera, stemperante, rigeneratrice, che du¬rò tutta la notte e il giorno appresso. Il raccolto quell’anno fu più abbondante che negli altri». Il Parroco di Cori in quell’occasione invitò Gaspare a tenere, in segno di gratitudine alla Vergine, anche una Missione. Egli aderì volentieri e non è a dire quanto fu il concorso della popolazione, memore del prodigio della piog-gia. Durante la Missione il sig. Francesco Cataldi, figlio del conte Giuseppe, si presentò a Gaspare e gli espresse il suo rincrescimento di non poter portare, come aveva fatto voto, il grande Crocifisso durante la processione, perché, nel bucare una candela di tre libbre, s’era trapassato il dito medio della mano destra con lo spuntone del candeliere. Aveva fasciato la ferita, ma sentiva grande dolore e continuava a gettar sangue. Gaspare prese nelle sue la mano ferita del giovane contino e l’invitò a recitare con lui tre Ave; poi gliela bene-disse aggiungendo: «Ora prendete pure il Crocifisso». Lungo la processione verso il Santuario del Soccorso, Francesco prima avverti che il dolore andava man mano scemando, fino a sparir del tutto; poi, guardando la fasciatura si accorse che non gettava più sangue; infine, la vide cadere senza averla sciolta e con meraviglia notò che il dito era tornato sano, senza alcuna traccia della ferita, come se mai si fosse fatto male! L’episodio è narrato dal Ven. Merlini, che ne fu testimone oculare. Il vetturino Mandrella di Cori racconta che, durante quella Missione, «pas-sando per un luogo pericolosissimo, dove si dovevano staccare i cavalli e tira-re il legno a mano, essendo scesi i missionari, io azzardai a proseguire sul le-gno con i cavalli, ma ecco che già ero per precipitare, quando intesi il Servo di Dio gridare: Madonna mia, salvatelo!. Come avvenne non so spiegarlo, ma è certo che in quel tratto cavalli e legno volarono senza toccare terra… perché c’era solo il vuoto e mi trovai miracolosamente al di là del baratro». Era scritto in cielo che Cori, in quell’ occasione, dovesse essere una cittadina privilegiata dal Signore, perché i prodigi di Gaspare non erano ancora finiti. Ci racconta infatti Sr. Teresa Cherubini, delle Clarisse di Cori, che: «Una madre presentò al Sig. Can. Del Bufalo una figlioletta cionca affatto, che non si reggeva in piedi da sola. Egli fece un segno di croce sulla sfortunata creatu-ra e suggeri alla madre di portarla davanti all’effige della Madonna ed invo-carne la guarigione, confortandola con queste parole: Non dubitate, la Ma-donna vi aiuterà e col crescere la figlioletta si reggerà e potrà camminare da sola. La donna ubbidì e già mentre pregava davanti al quadro, la bambina poggiò i piedini per terra e cominciò a fare qualche passo da sola. So che in seguito guarì completamente». Dice il Rey nella sua bella vita del Santo: «I piedi di tanto Apostolo, come se provino anch’essi l’ardenza del fuoco che è serrato nel cuore, non possono star fermi! Corrono, corrono sempre, per portare ovunque la pace e il bene, anche se debbano ridursi a brandelli. Nel cuore di Gaspare c’è lo stesso grido di Paolo: «L’amore di Cristo mi brucia l’anima». All’ inizio del 1821, dietro invito del Card. Galeffi, Gaspare inizia un largo giro nei Castelli Romani, nella Ciociaria e in Marittima e Campagna. Quantunque la stagione sia rigidissima, in gennaio lo troviamo già a predi¬car la Missione ad Ariccia e Galloro con altri cinque Missionari, tra i quali an¬che il Merlini, che ci racconta diversi episodi. Calca enorme ovunque, chiese e piazze assiepate! Ed ecco il primo prodigio. «Una donna era inchiodata sul letto, né si poteva muovere. Mi ricordo che in tale circostanza il Servo di Dio benedi un ‘imma-gine di S. Francesco Saverio e la mandò all’ inferma, facendole anche dire che l’aspettava alla Missione. Nello stesso pomeriggio vi fu accompagnata guari-ta». Il Merlini continua: «Trovandomi, come sopra, ad Ariccia, nell’ ultimo giorno della Missione, nell’andare che facevamo in processione, trovai un ra-gazzo che stava appoggiato alla madre e che mal si reggeva. Io gli feci cenno e dissi che si fosse fatto benedire dal Servo di Dio, che veniva appresso. Andato innanzi vidi che il Servo di Dio benedì quel ragazzo col Crocifisso che usiamo portare al petto. Il giorno dopo incontrai quel ragazzo che camminava da solo per la via che conduce a Galloro. Dopo la morte del Servo di Dio, lo stesso che si chiamava Giuseppe Schiaffini, mi venne a trovare in Albano e precisa¬mente il giorno 5 maggio 1839 e mi ricordò l’accennato fatto. Aveva ora circa diciassette-diciotto anni». Un altro Missionario ci dà sul fatto ancora un parti-colare: «Il ragazzo, dopo la benedizione del Santo, si aggrappò alla sua veste e non volle staccarsene durante tutta la processione». Da Ariccia, Gaspare, si recò processionalmente a Marino, accompagnato dalle Confraternite e da tanti devoti. Trovò la cittadina illuminata a giorno! La predica d’apertura fu così commovente e toccante che già quella stessa notte molti peccatori vollero da lui confessarsi. I «Ricciaroli» che avevano ac-compagnato S. Gaspare ed altri sopraggiunti, si fermarono per tutta la Mis-sione, perché i marinesi, dimenticando ataviche rivalità, facevano a gara per ospitarli nelle proprie case. Il 27 gennaio i Missionari passarono nella vicina Castelgandolfo, anche al¬lora residenza estiva dei Pontefici. Salito sul palco, Gaspare si pose una corda al collo e una corona di spine sul capo e cominciò a disciplinarsi. I suoi com-pagni fecero altrettanto, destando in tutti grandissima commozione. L’ultimo giorno si verificò un episodio singolare, meraviglioso e commo¬vente, che ci ricorda quello famoso della mula di 5. Antonio di Padova avve¬nuto a Rimini. Era tanta la folla che la predica conclusiva dovette essere te¬nuta in piazza. Mentre il Servo di Dio predicava, si trovò a passare un fore¬stiero del tutto incredulo, che, col suo asino, si dirigeva verso Marino. In cuor suo cominciò a deridere e a commiserare quella «povera gente che stava li a perder tempo per ascoltare quel prete chiacchierone… .» Ma ecco che, mentre egli pensa così, il somaro s’impunta e non vuol andare avanti, poi si inginoc-chia e rizza le orecchie come a voler meglio sentire la parola di Gaspare. Il pa-drone, irritato, dà di piglio al bastone e comincia a percuotere la,bestia per farla rialzare. Il ciuco, per quante bastonate gli calino sul groppone, è irremo-vibile e, solo dopo che il Santo ha concluso il suo discorso e ha benedetto gli astanti con il grande crocifisso, si rizza spontaneamente. Il singolare e prodi-gioso episodio valse a convertire molti increduli, a cominciare dal padrone del somaro. Da Castello Gaspare il 13 febbraio si conduce a Civitalavinia e poi, come abbiamo detto, va in Albano per l’apertura della Casa di Missione. Il 22 aprile lo troviamo nella Diocesi di Viterbo, dove predica la Missione a Barberano e Brieda, durante la quale riesce ad abbattere odi che sembravano indistruttibi-li. Vi si era adoperato per un’intera giornata il Merlini, come confessa egli stesso, senza riuscirvi; invece Gaspare con poche parole ottenne la pacifica-zione. Il Vicario di Albano, dove ormai il popolo ha ben conosciuto lo zelo dei Missionari e si reca quotidianamente alla Chiesa di S. Paolo, dopo essere sta¬to informato degli eventi di Ariccia, Galloro, Marino e Castelgandolfo, insiste con Gaspare perché predichi una Missione anche in Albano. Gaspare vi dà inizio il 26 agosto con le solite modalità, e subito il popolo vi partecipa con entusiasmo. Il Merlini, che era del gruppo dei predicatori, dice che questa Missione fu accompagnata da speciali benedizioni di Dio e che «si dovette sempre predicare nella grande piazza del prato, accanto alla Cattedrale, la quale pur vastissima, s’era resa insufficiente a contenere tanta folla». E dice anche che, malgrado i Missionari fossero occupati a confessare da mattina a sera, «non si poteva arrivare a soddisfare le istanze dei penitenti». «Per il ca-rattere fervido degli Albanesi – è sempre il Merlini che parla – ed anche per le pubbliche e private vicissitudini, molti odi aveano divise le famiglie, cagio-nando efferati delitti e scandali. Gaspare, vero angelo di pace, riuscì a pacifi-care la città, anzi vi riuscì così bene che in seguito non vi fu mai più alcun dis-sapore». Istitui il Ristretto dei Fratelloni di 5. Francesco Saverio, quello di S. Luigi, la Congregazione delle Figlie di Maria e delle Sorelle di Carità, le quali si prodigavano notte e giorno per l’assistenza agli infermi. Dai Luigini e dalle Figlie di Maria, guidati dai Missionari, «sortirono negli anni sacerdoti e suore, alcuni dei quali morirono in concetto di santità». Durante le Missioni avvenne che: «Un dissoluto ingolfato in degradanti peccati, beffeggiava e derideva i Misteri di Religione, seducendo i semplici e gli ignoranti con gran danno delle anime. Una notte, sognando, gli parvero entrare in camera Gaspare e il Valentini che lo invitavano a penitenza e con grande fiducia gridavano: «Viva Gesù! Viva Maria!» Al mattino si svegliò gri-dando, inconsciamnete, Viva Gesù! Viva Maria! – e completamente mutato, corse ai piedi del Servo di Dio, al quale aprì il cuore tra amare lacrime». Fin qui il Merlini. Dopo un periodo di predicazione nelle Marche, Gaspare tornò nel Lazio e l’8 settembre si recò a Genzano, dove «il suo lavoro fu davvero immane». Ba¬sti dire, per averne idea, che in una sola giornata, portò la S. Comunione, ri-vestito di cotta, stola e piviale, come allora usava, a ben settanta infermi, sa-lendo e scendendo scalini, per viuzze strettissime in abitazioni a piu piani. Anche qui non mancò la conferma di Dio ed è sempre il Merlini a traman-darcene la memoria. «Un tale, immerso in ogni sorta di vizi, assente nei gior¬ni della Missione, né avendo voluto ascoltare la parola di Dio, sopraggiunta la sera al termine della Missione, dicevasi lieto che finalmente era finita la sce-neggiata. Il Servo di Dio, a chiusura avvenuta, mi ordinò di recarmi a predi-care l’ultimosvegliarino detto di semina, colà dove Dio mi ispirava. Andai in una parte isolata quasi deserta della città, e cominciai a predicare con tutto lo zelo possibile. Non vedendo alcuno, stavo per andarmene, scoraggiato, te-mendo proprio d’aver sbagliato la località… Invece abitava proprio là il nomi-nato peccatore, il quale, mosso da curiosità per la novità della cosa, pur non volendo, ascoltò la divina chiamata e penetrato il cuore ed altamente com-mosso con amare lacrime ripeteva: Gesù Cristo è venuto a chiamarmi in ca¬sa! Che onore, che grande misericordia!». Il Santo chiuse l’anno a Segni con una Missione che destò tanto entusiasmo ed i Segnini volevano che anche nella loro città fosse aperta una Casa di Mis-sione. S. Gaspare, nella grandezza del suo cuore avrebbe voluto essere pre-sente ovunque, sia di persona, che con i suoi Missionari, ma ce ne sarebbe voluto un esercito, e Dio non gliene aveva ancora concessi tanti! Quella sera Gaspare era ansiosamente atteso a Segni ed egli stesso aveva gran fretta di arrivarvi; lui solo ne sapeva il perché. «Un’anima, disse ai com-pagni, ha urgente bisogno di noi, dobbiamo affrettarci». Il vetturale però si ri-fiutò di salire la ripida strada che portava in città, mentre imperversava la bu-fera; egli allora, lasciò i compagni e se ne andò solo a piedi. Era notte inoltrata e il Vescovo, che ormai non l’aspettava più, fece ugual-mente suonare subito le campane e Gaspare tenne nel duomo la predica d’in-troduzione. A Segni c’era un uomo da vent’anni lontano dai Sacramenti. La sua vicenda, narrata dal Valentini, ha dell’allucinante. Appunto, vent’anni prima della Missione, due uomini a lui sconosciuti, lo avevano avvicinato, confidandogli ch’erano alla ricerca di un tesoro e gli fis-sarono appuntamento nei pressi d’una caverna. Vi si recò puntuale, ma non li vide. Sentì rumori di picconi nella caverna ed entratovi li trovò che scava¬vano. Gli dissero che, per arti magiche avevano saputo che li c’era un tesoro, che solo in tre avrebbero potuto trovare e dividerselo. Al suo arrivo compiro¬no un rito, invocando il demonio. Si presentarono due esseri spettrali, che straziarono quei due e li portarono via. Forse una vendetta bene organizzata? Egli, atterrito, ebbe la possibilità di darsela a gambe e tapparsi in casa. Preso dal terrore gli sembrava di vedere un mostro e invocò la Vergine. Il mostro scomparve per tornare con un foglio di carta da firmare: dare l’anima a Satana, in cambio di pace e ricchezza. Firmò, ma da quella notte la sua fu una vita d’inferno. Più riceveva danaro e più aumentava il terrore e la mise¬ria. Così passarono vent’ anni, finché, proprio quella sera della venuta di Ga¬spare, straziato aveva deciso di togliersi la vita. Stava per compiere il gesto fatale, quando sentì il suono delle campane. In-curiosito andò anch’egli in chiesa, la trovò gremita e sentì parole ricche di speranza. Gaspare stava predicando sulla Misericordia Divina e della poten¬za del patrocinio della Vergine. Vuol parlare col P. Missionario, confidargli tutto. Quando la gente è tutta uscita, egli resta li, tremante. Ad un tratto si sente posare una mano sulla spalla e trasalisce. È Gaspare che lo incoraggia. La sua voce è tenera e sicura, il suo sguardo dolce e penetrante. «Coraggio, fi¬gliolo, Dio è misericordioso e la Madonna vi ama!» L’uomo scoppia in pianto: «Padre santo, se tardavate ancora pochi minuti a venire, mi suicidavo! Ho venduto l’anima al demonio ed egli non mi dà più pace». «Lo immagino, fi¬ gliolo, ma ora, riconciliato con Dio, torna a casa tranquillo, ritornerà la pace. Satana è sconfitto e troverari sul letto la tua carta. Non dimenticare mai la tua preghiera al Sangue di Gesù e alla Madonna». Cosa pensare di quest’episodio riportato da tutti i biografi del Santo e perfi¬no dall’ insospettabile Prof. Papasogli? Anche allora erano in voga le sedute spiritiche, guaritori e fattucchieri… Chi ha tramandato l’episodio è degno di fede. D’altronde, a cominciare dal Vangelo, di apparizioni e possessioni demoniache è piena la storia e, un certo potere diabolico, nei limiti da Dio permessi, è innegabile. La vita dei santi ne è stracolma, compresa quella di S. Gaspare. Non sono, questi episodi, verità di fede ed ognuno potrà interpretarli alla propria maniera. Una cosa è certa: il potere del male è enorme e sconcertante, e solo con l’aiuto divino potremo sottrarcene. Il 1822 comincia per Gaspare con vari eventi dolorosi. «Stando io di stanza a Velletri, racconta il Fontana, uscimmo per il solito svegliarino e ci fermam¬mo nei pressi d’una casa scandalosa, dove ci presero a sassate. I malvagi, aiz¬zati, purtroppo, anche da preti e frati in gran numero nella città, sparsero ca¬lunnie contro i Missionari, onde Gaspare fu costretto a chiudere quella Casa, solo rammaricato che si venisse a impedire il servizio di Dio. Ci inculcò di perdonare ed amare i nostri nemici e di pregare per il loro ravvedimento». Come questo non bastasse, recandosi a Terracina, trovò la Casa chiusa a sua insaputa e fu proprio uno dei suoi a tradirlo. Don Giacomo Gabellini, privo di vocazione per il ministero apostolico, aveva tradito la fiducia del Santo e scritto lettere in Alto, per le quali anche il Card. Cristaldi ne era rimasto tanto male. In esse Gaspare vi è descritto come «uomo imprudente, privo di discer-nimento e di gran superbia». Il Cristaldi disse al Santo: «Sono questi gli uomi¬ni di cui vi fidate tanto!». Con l’animo straziato Gaspare si recò a dar le Missioni a Vallecorsa, Ana¬gni, Acuto, Alatri e Benevento. Solo nel suo ministero e nel bene ~he riceve¬vano le anime trovava conforto. Non mancavano però neppure le gioie che gli donava il Signore. Ad Alatri, narra il Merlini, un ragazzo guarì da un male al piede, lavandolo con l’acqua di S. Francesco Saverio benedetta dal Servo di Dio. Gaspare si portò anche a Bassiano, dove, nel ripartire, lo fecero passare at-traverso gli oliveti, che da anni non davano più frutti, pregandolo di benedir¬li. Egli impartì volentieri la benedizione col Crocifisso che portava sul petto. «Mirabil cosa! – scrive 1′ arciprete D. Santangeli – da allora hanno sempre frut¬tificato in abbondanza, fino al giorno d’oggi, mentre i circonvicini sono rima¬sti com’erano». Un prodigio simile avvenne anche a Lenola, presso Gaeta. Una grande consolazione gli recò, al ritorno dalle Romagne e dagli Abruzzi, il permesso di riaprire la Casa di Terracina. L’Istituto, pur fra mille difficoltà e grande miseria, cresceva in modo prodigioso! Il 1823 vede ancora Gaspare in vari paesi del Lazio. Abbiamo già parlato a lungo delle predicazioni a Piperno, Veroli, Prossedi, Maenza e Pisterzo; ora vogliamo aggiungere un belì’ episodio avvenuto a Supino, dov’ egli si tratten-ne per vari giorni dal 26 dicembre di quest’anno. Stanco e intirizzito dal fred-do, vi giunse con i suoi compagni ad un’ora e mezza di notte. Il popolo non vedendoli arrivare, temendo un’aggressione brigantesca, era in trepida atte¬sa. Non appena li scorsero spuntare, come fantasmi imbiancati dalla neve, che cadeva in abbondanza, suonarono le campane a festa, sicché giunti, sen¬za alcun riposo e ristoro furono accompagnati in chiesa per dar inizio alla Missione. Gaspare, avendo notata l’estrema miseria della popolazione, «sgrassata anche dai briganti» e causa di gravissimi mali morali nelle fami-glie, convenne con i capi delle Confraternite e il clero di fare una questua per provvedere i più poveri di paglioni, letti e biancheria. All’ ora fissata, non es-sendosi presentato alcuno, com’era stato deciso, perché si vergognavano di andare a bussare alle porte e chiedere carità, non si perse di coraggio ed egli stesso, accompagnato dagli altri Missionari e da Fratel Bartolomeo, si posero in giro con bisacce e sacchi sulle spalle e, al suono d’un campanello, si diede¬ro a percorrere le vie del paese. All’insolito spettacolo, la gente commossa, donava quanto più poteva e molti di quelli che prima s’erano tirati indietro, si accodarono ai Missionari per aiutarli. Nei primi di gennaio del 1824, Gaspare, «trentanovenne, ma logoro innanzi tempo, per le immani fatiche e i dispiaceri», non tralasciò le Missioni e si recò in Diocesi di Gaeta. Si portò subito a Itri, la Regione dominata da Fra Diavolo. Nessun vetturale ve lo vuole condurre e perfino il clero e le autorità lo sconsigliano, essendo già calata la notte da un’ora, e anche perché le vie disastrose, impervie e sel¬vagge si sarebbero prestate ai trabocchetti dei malvagi. Gli stessi compagni tremavano e borbottavano. Ma Gaspare li persuase a seguirlo a piedi e li ras-sicurò: «Non ci accadrà nulla di male e in questa Missione condurremo molte anime a Dio». Quando arrivarono a notte inoltrata, assiderati e stanchi, do-vettero ricoverarsi in chiesa, perché non era stato approntato alcun alloggio. A Itri rimase a lungo la memoria della grande Processione di Penitenza con la statua della Vergine Addolorata, portata a spalla, in un alone di luce e seguita da una fila interminabile di donne vestite di nero con ramoscelli di cipresso e ceri tra le mani. Furono senza numero le conversioni e in questa cittadina, come abbiamo narrato, avvenne l’episodio dell’estasi del Santo in confessio-nale. Da Itri si recò a predicare a Mola, poi a Castellone. Qui, pur senza voce, ini¬zio i quattordici fervorini della Via Crucis. Faceva pena! Ma giunto alla quar¬ta stazione, la voce gli tornò più squillante che mai. Narriamo ora qualche episodio, cominciando da quello che il Merlini rac¬conta di se stesso. «Chiamato che io fui dal Servo di Dio, mentre mi trovavo a Sermoneta, durante il viaggio fui morso da certi insetti in una gamba. Questa mi si gonfiò in modo che a gran stento, giunto qui in Albano potevo cammi-nare. Vi feci alcuni bagnoli e il giorno appresso andato in Roma, sentivo an-cora forte l’incomodo. Il Servo di Dio mi voleva far camminare per la came¬ra, ma io dissi che non potevo. Mi disapprovò i bagnoli che avevo fatti e poi¬ché insisteva per farmi camminare, gli dissi che mi avesse benedetto il piede, mi pare di certo con la Reliquia di 5. Francesco Saverio. Trovandomi bene¬detta la gamba, camminai liberamente, né più sentii alcun incomodo». «Stando il Can. Del Bufalo a Pontecorvo, – narra il P. Berra dei Dottrinari – ov’era un ragazzo deficiente, che non riusciva ad apprendere nulla di quanto gli si insegnava con tanta pazienza ed amore, egli fu invitato in casa del ragaz-zo ad assistere all’ora di lezione e gli pose le mani sul capo. Avveniva che mentre D. Gaspare gli teneva le mani in quella posizione, apprendeva tutto a meraviglia, appena le staccava non capiva più nulla. I familiari piangendo pregarono il Servo di Dio di non staccarle mai». – Figlioli, egli rispose, ho tan-to da fare e non posso rimanere sempre qui con voi, come anch’io vorrei. Ora preghiamo il Signore affinché schiarisca la mente a questo bravo ragazzo! e recitata una preghiera, lo benedisse e se ne andò. La famiglia continuò a pre-gare e nella lezione dell’ indomani e in quelle dei giorni seguenti, il ragazzo si manifestò d’una intelligenza non comune. In quella stessa circostanza, pure a Pontecorvo, il contadino Paolo Turchi, il cui cavallo, imbizzarrito, lo aveva travolto in una voragine, fu salvato dall’intervento del Santo. Trovandosi Gaspare a Zagarolo, dove già aveva indotto una donna a perdo-nare il giovane che le aveva ucciso la figliola, guarì il servo del Principe, col-pito da grave apoplessia. Il miracolato, per riconoscenza, vestì per tutto il re-sto della sua vita il sacco di S Francesco Saverio. Un altro fatto prodigioso avvenne nella Campagna Romana ad opera di S. Gaspare. Fu chiamato da un parroco, D. Felice De Benedictis, presso un gio-vane ventenne, che era vicino a dar l’ultimo respiro. Il Santo vi si recò e con-sigliò il Parroco di pregare con lui S. Francesco Saverio. Mandò quindi a prendere in chiesa il quadro del Santo suo Patrono, che soleva sempre porta¬re durante le Missioni ed esporre alla venerazione dei fedeli, lo pose sul letto dell’infermo e pregò col sacerdote e i familiari del malato. Questi nella stessa giornata cominciò a migliorare, poi guarì ben presto e del tutto. Siamo ora al 1825 e già agli inizi lo troviamo a Roccagorga, poi a Traetta (oggi Minturno), a Castelforte e di li a Ferentino e quindi a Prossedi. Fu que¬sto l’anno in cui dové subire le più umilianti e spietate lotte, scatenate da ne¬mici d’ogni sorta, che riuscirono ad ingannare anche l’amico Pontefice Leone XII, che gli vietò di predicare altre Missioni! Era l’Anno Santo e Settari e Massoni tramavano la sovversione dello Stato e della Chiesa. Gaspare cerca di fare quel bene che può, ma soffre pene indici-bili per il gran male che ne viene alle anime. Nulla dice di sé, ma esclama: «Come darei volentieri anche il sangue in difesa della Chiesa!» Il santo vesco-vo di Terracina, Mons. Manasse, che ben lo conosce, accennando alle soffe-renze di quel periodo, così scrive: «Nelle sue grandi sofferenze, il Can. Del Bufalo, ovunque passò, diede, nel silenzio e nell’ adesione alla Volontà di Dio, fulgidi esempi di pietà, disinteresse, mortificazione, umiltà e santità». Un salto da fare e non posso rimanere sempre qui con voi, come anch’io vorrei. Ora preghiamo il Signore affinché schiarisca la mente a questo bravo ragazzo! e recitata una preghiera, lo benedisse e se ne andò. La famiglia continuò a pre¬gare e nella lezione dell’ indomani e in quelle dei giorni seguenti, il ragazzo si manifestò d’una intelligenza non comune. In quella stessa circostanza, pure a Pontecorvo, il contadino Paolo Turchi, il cui cavallo, imbizzarrito, lo aveva travolto in una voragine, fu salvato dall’intervento del Santo. Trovandosi Gaspare a Zagarolo, dove già aveva indotto una donna a perdo-nare il giovane che le aveva ucciso la figliola, guarì il servo del Principe, col-pito da grave apoplessia. Il miracolato, per riconoscenza, vestì per tutto il re-sto della sua vita il sacco di S. Francesco Saverio. Un altro fatto prodigioso avvenne nella Campagna Romana ad opera di S. Gaspare. Fu chiamato da un parroco, D. Felice De Benedictis, presso un gio-vane ventenne, che era vicino a dar l’ultimo respiro. Il Santo vi si recò e con-sigliò il Parroco di pregare con lui S. Francesco Saverio. Mandò quindi a prendere in chiesa il quadro del Santo suo Patrono, che soleva sempre porta¬re durante le Missioni ed esporre alla venerazione dei fedeli, lo pose sul letto dell’infermo e pregò col sacerdote e i familiari del malato. Questi nella stessa giornata cominciò a migliorare, poi guarì ben presto e del tutto. Siamo ora al 1825 e già agli inizi lo troviamo a Roccagorga, poi a Traetta (oggi Minturno), a Castelforte e di li a Ferentino e quindi a Prossedi. Fu que¬sto l’anno in cui dové subire le più umilianti e spietate lotte, scatenate da ne¬mici d’ogni sorta, che riuscirono ad ingannare anche l’amico Pontefice Leone XII, che gli vietò di predicare altre Missioni! Era l’Anno Santo e Settari e Massoni tramavano la sovversione dello Stato e della Chiesa. Gaspare cerca di fare quel bene che può, ma soffre pene indici-bili per il gran male che ne viene alle anime. Nulla dice di sé, ma esclama: «Come darei volentieri anche il sangue in difesa della Chiesa!» Il santo vesco-vo di Terracina, Mons. Manasse, che ben lo conosce, accennando alle soffe-renze di quel periodo, così scrive: «Nelle sue grandi sofferenze, il Can. Del Bufalo, ovunque passò, diede, nel silenzio e nell’adesione alla Volontà di Dio, fulgidi esempi di pietà, disinteresse, mortificazione, umiltà e santità». Un sacerdote, sul quale anche se non è citato il nome crediamo di scorgere lo stile di S. Vincenzo Pallotti, così depone: «Gaspare visse l’Anno Santo confitto con Cristo sulla stessa Croce del suo dolore!». A conclusione di questo lungo capitolo non possiamo tacere alcuni episodi di note conversioni, che tanta gioia davano al cuore di Gaspare. Essi vanno aggiunti a quelli già narrati, limitandoci però qui solo a quelli avvenuti nel Lazio. Erano conversioni molteplici e sincere in ogni ceto di persone, che riguar-davano Settari, Massoni, giovani, che abbandonavano la loro vita peccammo-sa per rinchiudersi nei più austeri cenobi. A Sora un ufficiale superiore, osti-nato incredulo, si converfi e nei dodici anni che passarono fino alla morte, condusse una vita esemplarissima, tanto che, dopo il trapasso se ne scrisse la vita ad edificazione. Anche a Sora «una giovane, che fin’allora aveva sempre taciuto i peccati in confessione, per l’azione sollecita del Servo di Dio, si tro¬vò l’anima rifatta». In altra città del Lazio, «un giovane alla fine della Missio¬ne, vedendolo partire sulla cavalcatura, gli corse dietro chiedendo di confes¬sarsi e gli disse che s’era tanto commosso e pentito dei suoi peccati quand’egli nella predica, presentando il Crocifisso, aveva scongiurato i pec¬catori, redenti dal suo Sangue, di far ritorno a Dio». Nel Frusinate, il servo di Dio «trovò un tale ch’era stipendiato per eliminare le Sette, e invece le favoriva, prendendo da esse altro stipendio perché non le denunciasse. Lo esortò all’onestà ed egli gli cadde in ginocchio ai piedi e divenne onesto». Anche un sacerdote coltissimo e brillante, al sentirlo predicare, smise la sua vita leggera e divenne esemplare Ministro di Dio. Un altro sacerdote, che abbandonandosi, per errata vocazione, alla vita mondana non si era più confessato da 40 anni «soggiogato dalle sue dolci ma-niere, dal suo zelo e dalla sua vita austera, gli cadde ai piedi compunto». «Un civile, da trentotto anni lontano da Dio, fu da lui ricondotto alle prati¬che religiose; e così altri, chi da dieci, chi da ancor più anni e perfino anziani coi piedi nella tomba, ritrovarono nell’apostolo la salute delle loro anime tra-viate». A Prossedi un pubblico peccatore, che si era tappato in casa per non sentir¬lo, preso da curiosità – «che dirà mai costui da potermi convincere?» – apri la finestra e, sebbene il Santo stesse predicando in chiesa, udì distintamente le sue parole contro la disonestà e, toccato dalla Grazia, cambiò subito vita e ri-parò agli scandali dati. Se tanti si convertirono, o commossi dalla predica sulla Misericordia divi¬na, o atterriti dai terribili castighi di Dio cui sarebbero andati incontro, un li¬bertino fu invece affascinato dalla predica del Paradiso, tanto da esclamare tra la folla: «Cosa sono le mie effimere gioie, che poi mi tormentano l’anima? Se c’è felicità vera è quella predicata dal santo Missionario!» e mutò vita. S. Vincenzo M. Strambi, passionista, vescovo di Tolentino, si domandava: «Perché Gaspare ottiene tanti frutti e strepitose conversioni con la sua paro-la? Perché è Dio che predica per bocca di questo suo Servo!» «Ed è per questo, aggiunge il dotto P. Romani, che le prediche del Can. Del Bufalo illuminano le menti più ottuse e commuovono i cuori più ostinati nel peccato». Nel 1827 Gaspare si trattiene in Albano a predicarvi il mese di giugno in onore del Prez.mo Sangue nella chiesa di 5. Paolo. È immensa la sua gioia nel potersi tuffare nel Mistero che affascina sempre di più il suo cuore e ne trae l’anima al Cielo! La sua parola è un inno, un canto continuo, e «la foga del suo dire meraviglia e conquide la folla che ricolma la chiesa». Viene a saperlo il Card. Barberini, che si trova nella sua villa di Castelgandolfo; egli depone gli abiti cardinalizi e, come un qualunque semplice sacerdote, si confonde ogni sera tra i fedeli per ascoltarlo. Gaspare viene a saperlo, e, nella sua grande umiltà, ne resta confuso e si ritiene indegno di tanto onore. Non gli è difficile trovare una scusa per farsi sostituire; non si sarebbe più trovato a suo agio! Il Merlini ci dice che spesso si sfogava un po’ con lui sulle traversie della Congregazione, passeggiando nei viali dell’orto, e che ne soffriva tanto per i suoi cari Missionari. Così ne scrive: «Per tutte queste vicende, ognuno vede quanto deve soffrire il nostro Fondatore, che a volte diceva: – Si è speso, si so-no gettati danari a sacchi, ci siamo dispendiati, logorati la vita! I Missionari raminghi, sperduti qua e là, col fardello sempre al collo e poi? – Se la debolez-za dell’ uomo gli faceva uscire dal labbro dei ma, che parevano distruggere la sua eroica virtù, uno sguardo al Cielo, lo faceva ritornare nella divina, invin-cibile forza di rassegnazione e raccogliersi in preghiera! » Ci piace chiudere questo lungo capitolo con un episodio che si dice avvenu¬to a Sonnino e che io stesso nel 1931, appena sacerdote, sentii narrare dagli anziani di quella cittadina così cara a 5. Gaspare, dove, forse ancora oggi, se lo tramandano di padre in figlio. Narrano dunque che Gaspare un giorno fu invitato a pranzo da un signorot¬to del luogo e, contrariamente alle sue severe abitudini, accettò senza farsi neppure troppo pregare. Se i compagni se ne meravigliarono, la popolazione ne restò addirittura scandalizzata! Sapevano infatti che il Santo declinava sempre quest’inviti, anche se pressato da Vescovi e Cardinali; anzi rifiutò, col dovuto garbo, perfino l’invito del Re di Napoli, che lo voleva presente ad un pranzo di gala a corte. «Non sapeva forse Gaspare – diceva la gente – quanti delitti portava sulla coscienza quel manutengolo di briganti, che aveva getta¬to sul lastrico tante povere famiglie?» Quei bravi Sonninesi, delusi e rammaricati, accorsero a curiosare quando il Santo, accompagnato da un paio di confratelli, entrò in quella casa tra gli in-chini e i baciamani del padrone e dei suoi degni compari, accorsi a riceverlo sul portone. Erano rimasti li ad attendere con pazienza per vederlo uscire, forse anche… brillo, dopo il lauto banchetto! Ad un tratto, e con sorpresa, notarono che l’al-legro vociare dei commensali s’era interrotto di colpo; avevano sentito la vo¬ce severa di Gaspare, e quindi lo videro uscire di fretta con i compagni col volto molto turbato. Cos’era mai avvenuto? Si sparse subito la notizia che il Santo, nel momento più allegro del pranzo, tagliò un pane e tutti i commensali, allibiti, poterono vedere che grondava sangue. «Questo pane, aveva detto Gaspare con voce tagliente, è stato impa-stato col sangue dei poveri e delle vostre vittime!»; e lasciò in fretta la mensa e la casa. Miracolo o leggenda? Gli storici non ne parlano. L’episodio però dimostra quale concetto s’erano fatti i Sonninesi del loro caro Santo, e rispecchia genuinamente la coscienza di Gaspare, che mai tacque, di fronte a chiunque, quando si trattava di difen¬dere i diritti degli umili e dei perseguitati. Ne andasse anche la vita! Le avventure di D. Ferretti Di episodi simili a questo che stiamo per narrare, ne avvennero tanti du¬rante il periodo della vita apostolica di S. Gaspare e dei suoi primi compagni. Lo si deduce dagli accenni che, qua e là, ne fanno i biografi del Santo e gli sto¬rici dei primi anni della sua Congregazione. Abbiamo scelto questo fra gli altri, perché il Rey ce lo racconta nei suoi mi-nimi particolari. Chi legge la vita del Santo capirà da sé ch’ era del tutto naturale che, nelle tante novelle Casa dell’ Istituto e durante le Missioni accadessero episodi, tra i più impensabili tristi o esilaranti, umilianti o esaltanti, penosi o ricchi di gioia. Al loro fiorire si prestavano il vasto campo d’azione di Gaspare, le loca-lità fra loro più eterogenee, la semplicità delle popolazioni di tanti paesi ta-gliati fuori da ogni consorzio umano, le particolari condizioni delle vie e dei mezzi di comunicazione, il grande zelo dei novelli missionari, la passione del¬le folle, il terrore, l’esaltazione, il diverso temperamento di tanta gente! Narrando quest’ episodio, che ci fa conoscere un certo D. Ferretti, che altri-menti nessuno avrebbe mai ricordato, vogliamo rendere testimonianza a tan¬ti umili e santi discepoli di Gaspare, sacerdoti e fratelli laici, che, come D. Ferretti, nel silenzio, nell’ ubbidienza, nell’ abnegazione e nella sofferenza consacrarono interamente la loro vita alle anime e allo sviluppo della novella Congregazione intitolata al Sangue Divino di Cristo. * * * Sono tante le testimonianze di Missionari, sacerdoti e laici che asseriscono che, quando ubbidivano ai suggerimenti del Santo, si appianavano anche le più irte difficoltà e tutto finiva bene. Il Santo, da parte sua, sempre ubbidien¬te nella sua vita, anche a costo di dolorosi sacrifizi, soleva dire: «Ubbidite e tutto sarà facile!». E lo conferma anche l’episodio che stiamo per narrare. Gaspare avrebbe dovuto recarsi da Pontecorvo a tenere una predicazione a Vallecorsa, ma chiamato d’urgenza al capezzale di D. Betti, morente a Bene-vento, delegò al suo posto D. Ferretti. Questi, per altro, di natura molto pau-roso, non se la sentiva proprio di affrontare quel viaggio da solo, sia per le asperità, sia perché battuto dai briganti, ma anche perché, sinceramente umi-le, non si riteneva all’ altezza di sostituire un oratore e un santo qual’ era il Del Bufalo. Ma Gaspare insisté: «Ubbidite alla Volontà del Signore e tutto andrà bene. Siate certo che vi sarò sempre vicino, passo passo». E D. Ferretti ubbidì, ma.. Per non guastare la genuinità del racconto, preferiamo riportarlo più o me¬no come lo narra il Rey nella sua vita del Santo. «La mattina stessa nella quale Gaspare partiva per Benevento, il Ferretti, da Pontecorvo, si dirige a piedi verso Frosinone. Giunto al ponte di confine sul fiume Melfa, trovò che l’inondazione lo aveva rotto. Per passarlo conveni¬va o guadarlo con grave pericolo della vita o affidarsi alle robuste spalle di qualche montanaro. Ma… qui sta il guaio! Per noleggiare le spalle di qualche volenteroso contadino, avrebbe dovuto mettere mano alla scarsella ed egli non vi aveva dentro che un solo paolo, giacché non prevedendo il caso e lusingandosi di presto tornare a Frosinone, non s’era azzardato di chiedere denaro a Gaspare. Fattosi tuttavia coraggio, chiama uno dei villani ch’ erano nel dipresso, pregandolo cortesemente di far-gli guadagnare 1′ opposta riva. Restò meravigliato D. Ferretti allorché vide quest’uomo non soltanto annuir volentieri, ma chiedergli anche di volersi confessare, asserendo essere un grande peccatore. Lo aveva riconosciuto co-me missionario. Caricatoselo perciò sulle spalle, prese a muoversi entro l’acqua del fiume in piena ed ogni tanto per lo sforzo che doveva durare, si lamentava col Mis-sionario dicendogli: – Oh! Quanto pesi! – D. Ferretti cercava di incoraggiarlo ma quando quegli si trovò nella parte più profonda, sicché l’acqua già gli ol-trepassava le anche, pensando di non poter più durare alla fatica gridò: – Io non ti posso più reggere! – Il povero Missionario, preso da spavento, temendo che la cosa provenisse da una vendetta del demonio, rivolge il pensiero alla Madonna, offre all’eterno Padre il Sangue preziosissimo, e con parole bupne rianima lo scoraggiato, che come Dio volle, riuscì a raggiungere finalmente la riva. Cavata dalla borsa l’unica moneta, D. Ferretti gliela porse, ed il contadino la gradì ringraziandolo ed aggiungendo: – Voglio confessarmi – Il Missionario avrebbe annuito volentieri, ma non sapendo in quale diocesi fosse ed incerto se avesse o meno la facoltà, si dové rifiutare, con suo grande dispiacere, non omettendo però di benedirlo. Ma il contadino, ignaro com’era di Morale e Fa-coltà ed alquanto rozzo, non volle convincersi, credette anzi di trovarsi di fronte ad un prete ingrato e si allontanò brontolando. Rimasto solo il Ferretti, riprese di buona lena la strada, ma pervenuto sul margine d’un affluente del Melfa, trovò anche qui rotto il ponte. Ventura vol¬le che vi si trovassero degli operai i quali, fatto alla meglio un ponticello dita-vole, lo fecero passare. E… cominciarono le dolenti note. Il capo muratore, ch’era stato il primo ad adoperarsi per costruire la passerella, richiedeva la mercede del suo lavoro, e D. Ferretti l’unica moneta che possedeva l’aveva data al contadino. Come fare? Pensa e ripensa… ricorda d’aver sulle scarpe le fibbie di argen¬to. Toltasene una la dié in pegno all’artiere che… rimase scontento. Giunto a Ceprano, sperava d’imbattersi in qualche conoscente. Invano at¬tese sulla piazza. E dire che gli stimoli della fame si facevano insistenti! Ver-gognoso di manifestare il suo miserevole stato, adocchiato un bel palazzo e fatto ardito dalla necessità, ne imbocca il portone e, salito al primo piano, pic-chia ad una porta. Viene ad aprire la Nobil Donna Ferrari, alla quale apparte-neva l’aristocratico stabile. A lei, in poche parole, il sacerdote racconta la po¬co piacevole avventura, chiedendole un boccone. Siccome la tavola era im-bandita, egli fu accolto volentieri e fatto accomodare in posto distinto, perché la sua non era davvero la faccia di un truffaldino! Dopo aver seguitato il racconto della sua avventura nei suoi minuti partico-lari, pregò la signora di fargli anche la carità di un paolo onde pagare il mura-tore a cui in pegno aveva lasciata la fibbia d’argento e dargli un cavallo, es-sendo già tardi e dovendo viaggiare per luoghi infestati dai briganti. La Nobil Donna non solo gli diede il paolo, ma anche il cavallo ed una guida. Licenziatosi con grande espansione e profusi ringraziamenti, il Missiona¬rio, montato in arcione, intraprende il viaggio. Ma il corsiero, che durante il giorno aveva molto lavorato, per quanto venisse stimolato con gli speroni, procedeva lentissimo, sicché egli dovette rassegnarsi a rinunciare alla caval-catura e a proseguire la strada a piedi, recitando preghiere alle quali il pio contadino che gli faceva da guida rispondeva. Giunsero incolumi alla Casa di Frosinone che scoccava la mezzanotte. I Missionari svegliati all’ insolita bus-sata, corsero ad aprire ed accolsero con giubilo fraterno il disavventurato compagno. Il giorno dopo il Ferretti raggiunse Vallecorsa. Durante il Triduo la calca dei penitenti fu tale che dové chiedere aiuto ai Francescani del locale Convento. Terminato il ministero prende la via del ritorno per Roma. Montato su un buon cavallo e seguito da un valido ciociaro di questa terra, cammina tra roc-ce e boscaglie. Accortosi quegli che il Missionario aveva una paura indicibile dei briganti e che, ad ogni stormir di fronda si piegava sulla criniera del caval-lo gli disse: Non abbiate paura, avete confessato parenti e mogli di questi no-stri fuorusciti paesani e volete aver paura? Quando vi sarà pericolo di abbat-terci in essi, io vi avviserò e voi canterete. Avete una buona voce e dovete sa-pere che piace ai briganti di udire le belle canzoni intonate dai missionari. Infatti allorché il contadino si avvedeva della presenza dei malviventi, o giungeva in luoghi sospetti, dava l’ordine: «Cantate ora!» E D. Ferretti, con voce che non riusciva a spogliarsi completamente del tremolo, dovuto a ra-gionevole paura, intonava una canzoncina in onore della Madonna! Così fra canti e meditazioni giunse a Frosinone». Il buon Missionario anche in tarda età, raccontava quest’avventura ed asse-riva con fermezza: «Sentivo sempre Gaspare al mio fianco e bastava pensare a lui per sentirmi rinfrancare. Però… però… ripensando al contadino che mi accompagnò da Vallecorsa a Frosinone, più lo guardavo, più ne ricevevo l’impressione che fosse o fosse stato, anch’ egli un brigante convertito dal Ser-vo di Dio! Concludevo: C’è da farsene meraviglia? Dio non si serve anche di gente malvagia per aiutare un povero Missionario che muore dalla paura?». I suoi cari allievi Più volte abbiamo avuto occasione di mettere in risalto le grandi premure di Gaspare per i suoi Missionari. Il Merlini ci dice: «Le premure che ebbe per i suoi compagni di Congregazione non è facile a dirlo. Conferenze in comune, discorso in privato, consigli, avvertimenti; la direzione a voce e per lettera era una delle sue principali occupazioni. In ciò fare era tanto industriosa la sua carità, che cercava in tutti i modi far penetrare nel cuore, inorpellando anche le amare pillole, secondo il bisogno, perché più facilmente venissero digerite e con destrezza induceva a far per virtù, ciò che non si faceva per ge¬nio. Egli era il primo a darne 1′ esempio». Ma la pupilla dei suoi occhi erano i suoi cari Allievi. Man mano che la Con-gregazione prendeva piede, Gaspare sentiva l’urgente bisogno di nuovi sog-getti, perché le richieste d’apertura di nuove Case erano molte e pressanti da ogni parte. Un Fondatore sa che per assicurare la stabilità della sua opera an-che per il domani, occorre innestarvi la linfa vitale della gioventù. Prima d’accingersi a tale realizzazione, pregò molto e chiese consiglio a chiunque riteneva potesse illuminarlo ed aiutarlo, finché lo stesso Leone XII encomiò la sua idea e l’incoraggiò. Quando gli sembrò che i tempi fossero maturi e che era quella la Volontà di Dio, si ritirò nel convento dei Padri Pas-sionisti sul Monte Cavo, nei pressi di Rocca di Papa, vicino ad Albano, dove tra preghiere, digiuni, penitenze e discipline, scrisse la Regola dei Convittori. «In quella solitudine eccelsa – dice il suo biografo G. De Libero – da dove 1′ oc¬chio spazia in orizzonti sconfinati e la contemplazione della natura e dell’in¬cantevole paesaggio rende più facile all’ anima il colloquio con Dio, tracciò con mano maestra un insieme di norme dettagliate e precise che hanno l’im-pronta inconfondibile della genialità». Non amava i grandi complessi, ma formò piccoli nuclei, così i giovani avrebbero potuto essere meglio seguiti, istruiti e formati. Dove, se non a 5. Felice culla dell’ Istituto, poteva nascere anche il primo Convitto? Ivi, infatti, accolse con amore i primi giovani nel 1824. «In questo tempo egli è tutto ap-plicato al Convitto dei giovani in S. Felice, dove sono 25 di Comunità. Ivi dà lezioni ed ama comunicare ciò ch’egli ha imparato. In questa occasione mette in esecuzione le Regole da lui compilate. Edifica in S. Felice i convittori aiu-tandoli a preparare le tavole per il Refettorio, nel lavare i piatti e le stoviglie, nel rifare i letti e rassettare le camere e nella pulizia della casa. Li educa nella carità dell’ assistenza ai malati, a dar mano ai più deboli, e soprattutto nello zelare il decoro del tempio del Signore». «Dà loro lezione di Logica e Teologia, dettando la Regola, della quale raccomanda l’osservanza più esatta, anche nelle più piccole prescrizioni, soddisfatto della loro condotta». Ecco come scrive in ripetute lettere al Card. Cristaldi: «Questi giovani sono la mia delizia e vanno benissimo, perché veramente edificano». «E inesprimi¬bile il mio gaudio nel veder qui in S. Felice una Comunità così piena di tanti giovani, che si preparano alle aspettative della Chiesa e si maturano nella pie-tà e nella scienza. Sono queste le novelle piante dell’ olivo che circondano la Mensa dell’Altare e Dio ne rimane glorificato!». Nello stesso anno segue l’apertura del secondo Convitto a Sermoneta, al quale poi seguono quelli di Sonnino, Terracina, Albano, Benevento, Rimini, Cesena. Dei giovani è sempre più soddisfatto, anzi entusiasta. Ascoltiamolo: «Il Convitto di Sonnino presenta una schiera di giovani veramente di grande aspettazione». «Qui in Rimini forma il decoro dell’ Istituto l’avere cinque gio-vani, che sono cinque angeli!». A ben riflettere ci volle solo il coraggio del Santo ad aprire tanti Convitti in tempi di estrema povertà e in quei paesi, dove i briganti sequestravano interi seminari per averne poi lauti riscatti prima di restituirli alle famiglie. Qual’ era il suo criterio educativo? Se è convinto che solo la Grazia di Dio feconda l’azione dell’ apostolo, ren-dendolo capace di opere grandi, è altrettanto persuaso che, non si può diveni-re un bravo e buon missionario, senza unire ad una soda pietà, una soda dot-trina: «Non si può essere buoni predicatori, e molto meno buoni missionari, senza pietà, scienza e dottrina». Pertanto cercò di formare i suoi giovani com’egli era stato educato e formato, dedicandosi di persona all’insegnamen¬to di Filosofia, Teologia e Sacra Eloquenza. Quando ne era impedito, si faceva sostituire dai Missionari più capaci e navigati. Nella Regola arriva addirittura a prescrivere che gli Allievi si «facciano dei cartolari per segnarvi – com’egli aveva fatto a suo tempo – appunti e schemi e che si esercitino i giovani nel re-citare a turno fervorini in cappella ogni sabato, narrando un esempio della Madonna». Il Servo di Dio, pur fra tanti impegni di apostolato e di Governo, sapeva tro-vare il tempo di recarsi a visitare molto spesso i vari Convitti e trattenersi con i giovani. Per creare fra gli Allievi di tutti i Convitti uno spirito di fraternità e d’emulazione, promoveva incontri or in un Convitto or in un altro, e teneva nella festa dell’ Immacolata un’Accademia in Albano alla quale, col Cardinale suburbicario della città, presenziavano vescovi, autonà civili e religiose, emi-nenti personalità della cultura e il seminario. Questa celebrazione era dive-nuta così famosa che vi si recavano dai vicini Castelli Romani e perfino da Roma. Intermezzati da canti e recite, venivano lette e premiate le migliori compo-sizioni di filosofia, teologia e letteratura, e premiati i giovani che durante l’anno s’erano distinti nello studio e nella condotta. Non mancava la farsetta finale. Manco a dirlo, Gaspare gongolava di gioia, si sentiva giovane fra i gio-vani ed era ottimo regista. Quanto egli amasse gli Allievi ce lo dimostra il seguente episodio, avvenuto nel Convitto di Albano, dove tra gli altri Allievi, si trovava anche Agostino Campodonico. Era questi un giovane prediletto dal Santo per la sua intelli-genza, la grande volontà nello studio, per la sincera pietà ed illibatezza. Era passato appena un anno dal suo ingresso in Convitto, quando decise di ab-bandonarlo. Lasciamo a voi immaginare quanto dispiacesse a Gaspare una si-mile decisione e possiamo anche immaginare «quante industrie mettesse in opera per dissuaderlo». Pregò, fece digiuni e discipline, ma a volte anche le preghiere dei santi non ottengono il risultato sperato. Lo tratteneva in lunghi colloqui in camera sua, lo conduceva con sé a cqm-piere qualche opera di carità nella cittadina. Lo conduceva anche a fare qual-che passeggiata e gli parlava della bellezza dell’ apostolato missionario, rac-contandogli episodi del brigantaggio o di commoventi conversioni, nonché della scialba e pericolosa vita nel mondo. Era come parlare ad una roccia, anzi sembrava che tante premure ottenes¬sero l’effetto contrario. Il Signore squarciò agli occhi del Santo anche il velo del futuro di Agostino e lo rivelò al giovane alla presenza del padre: «Voi sbagliate la vostra scelta e avrete da menare una vita angosciosa!». Agostino, nonostante tutto, mise in atto il suo disegno. «Mal gliene incolse, perché la predizione si avverò a puntino». Finì proprio male e Gaspare cercò di stargli a contatto per aiutarlo. Ne parlava a volte ai compagni rimasti in Convitto e «gli tremavano le labbra dalla commozione e gli occhi gli si inumi-divano». Non sappiamo se i Santi qualche volta piangano anche… in paradiso, ma crediamo che Gaspare nel vedere oggi il suo Convitto di Albano con pochi ra-gazzi e tanti giovani e famiglie non corrispondere alla chiamata del Signore e divenir preda di un mondo corrotto, pianga con amarezza sulla loro rovina! La barca affonda Siamo nel maggio del 1824 e S. Gaspare con alcuni suoi compagni e il pussi-mo vescovo di Terracina Mons. Manasse, si porta da Gaeta alle isole di Ven-totene e Ponza per evangelizzare quelle popolazioni, che da gran tempo ne in-vocavano la presenza. «Poco prima dello sbarco a Ventotene – scrive D. Fontana, ch’era sulla stes¬sa barca con Gaspare – insorse una fiera tempesta e il capitano aveva già co-mandato il taglio delle sarti e, allorché Gaspare…» La terribile scena è narrata con ricchi particolari e tinte di folclore da un altro testimone che descrive l’improvvisa e furibonda tempesta, 1’accavallarsi di onde altissime, che pare sommergano e poi riportano a galla la barca; marinai e missionari inzuppati fino alle midolla e sferzati dal vento e dall’ acqua; oggetti che galleggiano den-tro e fuori la barca; gli isolani che assistono impotenti alla scena dalla riva, is-sando lo stendardo della Vergine, che sembra anche Lei lottare contro i venti; le loro preghiere, il continuo suonare delle campane a martello, l’accorrere di altra gente sulla spiaggia o in chiesa a pregare! Gaspare, che per natura non è un eroe di… mare e per giunta ha lo stomaco malato e quindi in… eruzione, per singolare grazia divina, in quel frangente alza la voce e ricorda con fermezza a tutti la scena evangelica di Gesù, che dalla barca di Pietro seda la tempesta. Come Gesù, anch’ egli dice ai compa-gni: «Uomini di poca fede, di che temiamo? Preghiamo Gesù come gli Apo-stoli e restiamo tranquilli, perché nessuno perirà». Alza quindi la mano bene-dicente sul mare, che, come ad un ordine possente, prima rallenta la sua fu¬ria, poi si calma del tutto. Molti storici hanno paragonato Gaspare a Gesù, perché anche a lui nel no¬me del Divino Maestro obbediscono gli elementi della natura, come ci con-fermano tanti episodi della sua vita. Dalla vita del Santo conosciamo quanto egli amasse la gente del mare e i pe-scatori. Gaspare, grande apostolo, si esaltava al ricordo della chiamata dei primi Apostoli di Cristo, scelti tra i pescatori e al pensiero che fu un pescatore il prescelto a divenire il suo Vicario in terra! A Rimini si recava sempre al porto, quando si trovava in quella Casa, e si fermava a parlare con i pescatori proprio li dove S. Antonio parlò ai pesci; es-si, sebbene stanchi ed assonnati per la notte passata in mare e, più arrendevo-li dei loro antenati, che s’erano rifiutati di ascoltare il Santo di Padova, lo ascoltavano volentieri, presi dal suo parlare semplice, affettuoso, persuasivo e commovente. Era facile a Gaspare portare il discorso dalla vastità del mare alla immensi¬tà del cielo che lo sovrasta e quindi alla grandezza e alla bontà di Colui che lo ha creato! Così faceva a Terracina, ad Anzio, ad Ancona, sulle coste marchi¬giane, ovunque. Quante volte lo troviamo a consumare con loro un pesce ar¬rostito e, mentre si mangia, parlare a quegli uomini rudi delle meraviglie create da Dio per rendere l’uomo felice. Perché ricambiarlo con tanta ingrati¬tudine? Riesce con la sua dolcezza a penetrare in quei cuori dimentichi di Dio, che una vita dura costringeva a star lontano dalla famiglia e dalla chiesa, ma il cui animo certamente era ancora schietto. Gaspare, maestro della parola e conoscitore di cuori e di anime, accennava alle loro donne, che forse in quella stessa ora mettevano a letto i piccoli, ai quali prima di addormentarsi, facevano congiungere le manine e pregare per la incolumità del loro papà. Accennava anche a qualche fanciulla in attesa di qualcuno di loro, per coronare il suo sogno di amore. Qualche lacrima scorre-va allora da quegli occhi bruciati dalla salsedine… Il cuore di quegli uomini si apriva alle confidenze, alla confessione e Gaspare li stringeva a sé e assolveva dai loro peccati. Anche a Ventotene e a Ponza, come altrove, Gaspare ottiene conversioni ed opera prodigi e si… guadagna la vendetta del demonio, sempre più suo acerrimo nemico. Un uomo che da tantissimi anni aveva «contratto patto col demonio, col quale, per vie misteriose, riusciva anche a parlare» pentitosi e sottratto al maligno con l’assoluzione di P. Michele Calamita, soffri tremende vendette, e perfino il Missionario ne fu tanto molestato. Ne fa testimonianza lo stesso Mons. Manasse, che era bene a conoscenza dell’episodio. Gaspare non s’abbatte mai, anzi, proprio nel dolore il suo volto diviene più radioso, perché il Sangue di Cristo trionfa. Gioia e dolore, gaudio e sofferenza, com’era scritto in Cielo, dovevano es¬sere i compagni inseparabili del santo Missionario! La mano di Dio La parola di Gaspare ai peccatori non aveva mai un tono di minaccia, ma era un’accorata supplica di ritornare al bene. Parlava con dolcezza, imploran¬do il ritorno a Dio, grande nella sua misericordia e nel perdono. Mostrava, sia dal palco, che ai singoli, le piaghe del Crocifisso, il Sangue che ne sgorgava a redenzione di qualsiasi colpa, purché a quelle piaghe ci si accostasse col pen-timento. Sappiamo che la predicazione del Santo fu aspramente contrastata, perché era franca e flagellava il vizio e le ingiustizie, e quindi ledeva troppi interessi. Due erano le categorie dei suoi acerrimi nemici: i Settari, che miravano alla distruzione della fede nel cuore dell’uomo e coloro che, profittando di posi-zioni di responsabilità e fiducia, miravano, senza scrupoli e con qualsiasi mezzo, al proprio tornaconto. Di conseguenza pochi soffrirono tante lotte ed umiliazioni, calunnie e ingiustizie, come il Can. Del Bufalo! Eppure egli per-donò tutti e sempre, e così volle fa&essero anche i suoi Missionari. Tuttavia, pur con dolcezza, quand’ era necessario egli non nascondeva con tutta franchezza che «il Dio della Misericordia era anche il Dio della Giusti¬zia, vindice dei deboli e degli oppressi e a volte non risparmiava i suoi casti¬ghi ai duri di cuore». Ci si può domandare: Era lecito non ascoltare le esortazioni di un santo co¬me Gaspare, burlarsi di lui, continuare a calunniarlo e a martirizzarlo, restan¬do indenni dal castigo di Dio? Gli eventi ci dicono proprio di no. Ricordate come in Romagna alcuni Settari ch’ erano andati per sopprimer¬lo, appena al suo cospetto fuggirono atterriti e morirono tutti nella precipito¬sa fuga, finendo con la carrozza nel fiume? Racconta, il P. Michelangelo da Forlimpopoli che un canonico di Pennabilli, nel Montefeltro, che si opponeva con accanimento alla fondazione d’una Casa Missionaria in quella cittadina, ricorrendo anche a nere calunnie contro i Missionari, «fece una morte improvvisa ed orrenda». Durante una Missione ad Ascoli nel giugno del 1821, i Settari, nel vedere con quanto entusiasmo la gente gremiva il Duomo, lasciarono la città per non ascoltarlo, ma due rima-sero per «dileggiarlo». Uno dei due, compreso del disinteresse, delle fatiche snervanti, e dello zelo del Santo, si convertì, mentre l’altro, che invece si die¬de a deriderlo e a disprezzarlo pubblicamente, una sera, appena tornato a casa, morì improvvisamente. «Nella Provincia di Campagna, ad un maldicente che non la smetteva di ordire calunnie contro il Servo di Dio, gli si seccò la lingua». «Due signori che disturbavano la Missione, dando pubblico scandalo e mal parlando di Gaspare e dei suoi Compagni, a breve distanza morirono entrambi di morte improvvisa. Tutti furono unanimi nell’affermare che quel castigo era 1′ effetto delle loro calunnie». Se non pochi settari e carbonari convertiti andavano nottetempo a conse-gnargli armi ed emblemi, se molti cadevano pentiti ai piedi del Santo, presi dall’anelito incontenibile di liberarsi dal peccato, e alcuni, particolarmente giovinastri e donne di malaffare, entrarono trasformati in Monasteri della più rigorosa osservanza, non pochi, al contrario,rispondevano con insulti e bestemmie, rimanendo ostinati nel peccato. Per questi, purtroppo, in non po-che circostanze, non mancò la terribile mano di Dio! A Basciano, racconta il Bellini, in quel di Penne in Abruzzo, un giovane fa¬ceva il gradasso e non smetteva di porre in cattiva luce i Missionari con le più luride calunnie, giungendo perfino a parodiare con voce stentorea il Santo che predicava. Ebbene, pur essendo in perfetta salute, una mattina, durante la Missione, fu trovato stecchito nel suo letto. È tanto terribile anche 1′ episo¬dio d’un povero prete, che, non credendo ai terribili castighi che gli predice¬va Gaspare «s’ostinò a frequentare un luogo innominabile e venne trovato li, colto da morte improvvisa». A Forlimpopoli molti che si ostinavano contro Gaspare «fecero orribile fine». Morì all’improvviso anche un tale che, a Pennabilli, avversava con tena¬cia la Missione. A Bassiano, ad un uomo che aveva calunniato Gaspare venne il cancro alla lingua. Sempre a Bassiano alcuni, ostinati detrattori del Santo, morirono improvvisamente a pochi giorni 1′ uno dall’ altro. Gaspare all’udire così tristi episodi si ritirava in preghiera per implorare pietà dal Dio della Misericordia per le loro anime. Fu visto piangere e sentito esclamare: «Signore, tu sei il Dio della Giustizia, ma anche della grande Mise-ricordia. Ti prenda pietà delle loro anime, che costano Sangue al tuo Figlio di-letto!». Una bellissima donna Gli episodi della vita di S. Gaspare fin qui narrati, forse hanno fatto sorgere nella mente del lettore due interrogativi. Tante sofferenze fisiche e morali, la satanica lotta dei suoi nemici, 1′ atteggiamento dei Papi, fiaccarono mai il suo morale, smorzarono il suo zelo, raffreddarono la sua fervida azione missiona-ria? Ed è mai possibile che il Signore, il quale 1′ aveva prescelto in modo così lampante ad essere il fondatore d’una Congregazione in quel tempo tanto ne-cessaria alla società e alla Chiesa, 1′ abbia dato in totale balia dei suoi avversari? No, Dio non abbandona mai i suoi santi, né le sofferenze e le lotte fiaccaro¬no giammai lo zelo e l’azione del Santo. Proprio mentre un Papa sembrava volesse far chiudere le Case di Missione, Gaspare s’adoperava con tutto il suo impegno per consolidare la sua amata Congregazione cercando nuovi proseli¬ti tra il clero più qualificato, e ingrossare così le file dei suoi compagni. Il Signore, poi, manifestò apertamente la sua predilezione verso di lui, ar-ricchendolo di doni meravigliosi e taumaturgici e, in molti casi, insorse con tutta la sua Giustizia contro coloro che con perfidia cercavano di distrugger¬ne l’Opera. S. Gaspare, però, nel suo cuore non ha nemici, non chiede e non brama vendetta; stronca il peccato, ma ama il peccatore e prega affinché si converta e salvi. A Cori è salutato «Angelo di pace» dal popolo che lo segue con straordinario trasporto; guarisce e converte due peccatori ostinati. I Settari fremono duran-te la predica della pacificazione sulla piazza e, mentre cataste di armi, stampe cattive ed emblemi vengono consegnate per farne un falò, «mani ignote» lo gettano giù dal palco, causandogli una vasta ferita alle labbra e la perdita di un dente. Per nulla impressionato si rialza, pulisce la bocca insanguinata e continua con voce più calda la sua predica. Perdona gli aggressori e invita la popolazione, che insorge, a fare altrettanto. Ma, durante la notte, uno degli aggressori viene ucciso in un alterco da un suo compagno. L’ultima sera della Missione, con un segno di croce, il Santo Missionario ferma un furioso tem-porale che si era scatenato sulla folla. Da Cori passa a Sermoneta, dietro insistenza di quella popolazione che ha saputo le cose strepitose di Cori. Mentre il popolo lo accoglie ed ascolta con gioia, non mancano peccatori incalliti e tenaci persecutori. Una sera, durante la predica, Gaspare ad un tratto si ferma, si oscura in volto e dice: «Chi sa se qualcuno di voi che mi ascolta, avrà la sorte di udire la voce di Dio, domani sera». A quella stessa ora, la sera seguente, un tal Pasquale Tomarosi giaceva nella bara in chiesa. Quella sera la predica la fece lui! C’è addirittura tanto da pensare e tremare nel leggere quanto accadde a Ci-vitanova Marche dove i Settari non gli davano tregua. Ne fu testimone ocula¬re D. Biagio Valentini che ce lo racconta. Una donna bellissima, ma di facili costumi, si ostinava nel mettere pubbli-camente in burla il Servo di Dio, lanciandogli anche la sfida: «Dio non c’è e, se c’è, non mi mette paura!» Abitando in una casa, sita proprio sulla piazza antistante la chiesa dove Gaspare predicava, dal balcone rideva del Santo e invitava gli uomini che si recavano in chiesa a salire in casa sua per divertirsi con lei, anziché andare ad ascoltare tante frottole di quel prete romano. Il Santo ne era stato messo al corrente e l’aveva chiaramente avvertita degli im-minenti castighi di Dio, ma non era stato ascoltato. Ebbene l’infelice, proprio in un momento in cui più insolentiva, fu colpita da morte improvvisa. A chi accorse si presentò 1’orrido spettacolo d’un cadavere scomposto, dal volto di-sperato e stravolto, nel quale alla bellezza era subentrato l’orrore. Esposto in chiesa, il cadavere deforme inorridì tutti. Il Santo pianse per la dannazione di quell’anima! I drudi e le amiche presso quel cataletto ritrovarono la loro anima. Anzi un’ amica volle ricevere la Co-munione con in capo la corona di spine, chiese perdono ai fedeli e pregò il Si-gnore di richiamarla presto da questo mondo per non ricadere in simili sozzu-re. Morì dopo pochi giorni e, vestita di abito bianco, il suo corpo fu deposto nella bara con la stessa corona di spine che portava sul capo il giorno della Comunione». Molti, colti da salutare spavento, tornarono a Dio; due intere Logge Masso-niche gli consegnarono tutti i loro simboli ed insegne; e il popolo commenta¬va ovunque: «Con Dio e i suoi Santi non si scherza!» Le catene d’oro Pievetorina, presso Camerino nelle Marche, era tanto cara a S. Gaspare, perché vi aveva aperta la seconda Casa dell’Istituto e, per quanto a noi possa sembrare una cosa strana, anche perché aveva causato al suo cuore non po¬che sofferenze. Il 19 aprile del 1819 Gaspare col Valentini e D. Adriano Tarulli prese il via da Roma verso le Marche. A Serravalle si imbatté con Mons. Pervisani, Ve¬scovo di Nocera, e il suo Vicario Generale; reputò quell’ incontro disposto dalla Divina Provvidenza. Erano suoi carissimi amici e, senza preamboli, li invitò a lasciar tutto e recarsi con lui a predicar la Missione a Pievetorina, cit¬tadina che godeva triste fama di «nido di vizi e di ladri». Qui l’Abate Parroco e i notabili del posto avevano imbandito una cena lu-culliana, tanto che la popolazione, venuta a conoscenza di tanti preparativi, diceva: «I preti romani vengono a far qui carnevaletto!» Non conoscendo an-cora S. Gaspare, ne avevano tutte le ragioni. Sentite un po’: Pietanze appeti-tose, vini prelibati, rosoli di vario genere, dolci, confetti e quant’ altro può sol-leticare le voglie di un buongustaio. A tal vista Gaspare si turbò, fece subito portar via ogni cosa e propose di vender tutto a beneficio dei poveri. I signori e perfino il Parroco (una congiura?…) si opposero, credendo di poter vincere agevolmente la ferrea volontà del rigido apostolo con parole melate; ma ogni sforzo fu vano. Quella sera Gaspare e i suoi commensali, vescovo compreso, fecero digiuno. Fu in quella circostanza che nel popolo sorse il desiderio di avere anche colà una Casa di Missione. Leggiamo lo stringato racconto che di quell’ apertura ne fa il Merlini: «Ve-nendo a parlar del progresso della Congregazione, dirò che nel dicembre 1819, essendo il Servo di Dio andato in aprile a dar la Missione in Pievetori¬na, si accrebbe in quel popolo il desiderio di avere colà una Casa di Missione, nella quale prese impegno Mons. Cristaldi con Mons. Arcivescovo di Cameri¬no, il quale, avendo a sua disposizione il locale di S. Agostino, già abbandona¬to dai Padri Passionisti, lo dette all’ Istituto… così il Servo di Dio vi mandò i Missionari, i quali furono ricevuti con allegrezza e con giubilo». A chi conosce la storia delle prime Case della Congregazione non sarà sfug¬gita la strategia del Santo, che non aveva, nell’aprir le Case, preferenze di luo¬ghi e popolazioni, ma mirava solo al bene da compiere. Il suo era un vero e proprio «piano d’attacco contro il male»; le Case perciò dovevano essere «po¬sizioni avanzate» dalle quali i Missionari dovevano balzare con prontezza per recarsi dove lo richiedeva la salute spirituale delle popolazioni. Così Pieveto¬rina ed Ancona nelle Marche; Velletri, Terracina, Sermoneta, Frosinone, Val¬lecorsa e Sonnino nel Basso Lazio; Rimini, Cesena in Romagna; Pennabilli sul Montefeltro, Benevento in Campania. In queste Regioni spadroneggiavano briganti, settari, eretici, rivoluzionari, e Gaspare le privilegiò di questi centri di preghiera e spiritualità, e riuscì a cambiarne il volto! Ma torniamo a Pievetorina. Il Merlini accenna alle «grandi difficoltà frapposte, tanto che – si narra negli Annali dell’ Istituto – l’apertura poté avvenire solo dopo quattro anni di tratta-tive. Inoltre, superate le opposizioni degli uomini, cominciarono i contrasti dell’Inferno, che, «anche con strane apparizioni, disturbava i Missionari, che tuttavia si mantennero saldi!» Il Merlini, in proposito conferma: «Mandato colà, provai delle tentazioni, che non avevo mai avute, né più in alcun modo ho provato fino al dì d’oggi, e che, grazie a Dio, erano e sono contro il mio modo di pensare». A Pievetorina le amarezze del Santo furono veramente tante e atroci! Basti riportare un episodio narratoci sempre dal Merlini: «Della Casa di Pievetori-na, che si reggeva fra mille travagli, dirò in particolare un fatto. Sul principio della fondazione, due compagni del Servo di Dio, che poi si partirono, venne¬ro a contesa fra loro, non so per qual punto di conferenza morale, e se ne sparse l’ingrata notizia con avvilimento dell’ Opera nascente. Stava il Servo di Dio nel punto di partire per la Missione di Velletri, quand’ ebbe una tale noti¬zia. Se ne rimase egli afflitto, ognuno lo può immaginare, pur tuttavia non si perdé di coraggio ed appostovi subito riparo, mettendo la causa nelle mani di Dio, senza scomporsi si partì per eseguire la Missione». Sarebbe lungo narrare qui ancora tanti altri fatti incresciosi avvenuti in quella Casa, ma Gaspare non si lasciò mai abbattere, e vi si recava spessissi¬mo. Anzi, D. Rossi fa le sue meraviglie e resta edificato vedendo che «il Servo di Dio, tornato appena da faticosissime Missioni, accorreva a Pievetorina, ed ivi prendeva a predicare più volte al giorno, rispondeva a numerosissime let¬tere, interessavasi a tutte le cose, anche minime, riguardanti la Casa, serviva a tavola non meno di venti individui e recavasi poi in cucina a dar mano e nettar stoviglie». Pievetorina, però, non è conosciuta nella storia della Congregazione solo per la sua caratteristica negativa, ma anche, anzi di più, per lo spirito di pre-ghiera, carità e santità di cui l’ornarono, oltre che S. Gaspare, anche eminenti figure di Missionari suoi compagni; e basti citare il Merlini e il Valentini fra tutti. E rimasta anche celebre per alcuni fatti prodigiosi del Santo, di cui qui ne riportiamo solo due. Racconta un missionario: «Nel 1834, stando in Pievetorina mi disse il Servo di Dio volersi ritirare un poco in cappella a far orazione, raccomandandomi di non disturbarlo. Passata un’ora andai anch’io in cappella e lo vidi genufles¬so e tutto assorto in Dio e ritornò in sé, con gli occhi lagrimosi e il volto acce¬so, sol dopo che lo scossi più volte con la voce e con le mani». Accadde anche in Pievetorina uno degli episodi più belli e significativi del¬la vita del Santo, che il Merlini ci racconta con estrema semplicità: «Trovan¬domi io con lui (S. Gaspare), nel 1830 in Pievetorina, reduce dagli Esercizi dati al clero di Ancona, mi confidò un giorno che, celebrando quella mattina la S. Messa, gli pareva di aver veduta una quantità di catene d’oro che dal cielo scendevano sul calice e che per quelle la sua anima era portata in Paradiso. Il che gli servì di conforto». Meno male che di tanto in tanto accorreva premuroso il Signore a raddolci¬re un po’ le sue grandi pene! Questa volta lo confortò ed esaltò facendogli gu-stare dolcezze di Paradiso, promananti dal Mistero del Sangue Prezioso, che il Santo stesso aveva consacrato allora allora sui candidi lini dell’Altare. Gaspare sa che è la via del dolore 1′ unica che porta al Cielo, né desidera ve ne sia un’altra per raggiungerlo. Sa anche che, fra non molto la virtù di quel Sangue rapirà per sempre la sua anima e quel fuoco, quella vivida luce che ora la inondano gli fanno gridare: «Patire, sempre più patire per Te, mio Cro-cifisso Signore!». Vieni Signore! Un giorno a S. Felice, recandosi a far visita al Santuario del Fosco, Gaspare chiese, lungo il cammino, al Fratello Laico che lo accompagnava: «Secondo voi, quanto tempo mi toccherà passare in Purgatorio?» Il giovane fu pronto a rispondere: «Padre, voi andrete volando in Paradiso, subito dopo la morte». Il Santo dubitando d’essere degno di tanto, rifletté un istante e poi, alzando gli occhi al cielo, rispose: «Dio lo voglia!». Paradiso! Quante volte ne aveva parlato nella sua predicazione, estasiando l’uditorio! Quante volte, nelle difficoltà e sofferenze, aveva incoraggiato i suoi Missionari: «Se è così dolce patir sulla terra per il Signore, pensate quan¬to lo sarà goderlo in Paradiso!» E cosa rispondeva ai medici e a chiunque gli consigliava di prendere un po’ di riposo e d’aver cura della sua salute? «Mi ri-poserò in Paradiso!» Dopo il terribile incidente di Bracciano, Gaspare non s’era più ripreso. Ec¬colo aggirarsi nella Casa di Albano come un’ombra… Tuttavia non rimane in ozio e predica addirittura e con tanto ardore tutto il Mese del Prez.mo San¬gue; dà un ultimo sguardo alle sue carte, detta al Merlini i ritocchi alla Regola e gli impartisce gli ultimi avvertimenti nei riguardi dell’ Istituto. Si sente spes¬so esclamare: «Si secchi la mia destra, se non mi ricorderò dite, amata Con-gregazione del Preziosissimo Sangue!» Ed in segno di venerazione, nel pro-nunciare il nome del suo Istituto, si scopre il capo. Chiede spesso d’essere la-sciato solo «per parlare con Dio», e lo trovano rapito in contemplazione da-vanti ad un quadro dell’Addolorata, che è posato sul suo scrittoio. Lo si sente esclamare: «O dolcissima Madre mia, quanto avete sofferto e pianto per noi!» mentre lacrime gli rigano il volto. A chi gli chiede perché piange, risponde: «Mi vado preparando agli anni eterni!» A tarda sera si trascina spesso alla fi-nestra, contempla il cielo sereno e stellato e mormora: «Paradiso! Paradiso!». Ed ecco che arriva, come aveva predetto il Santo, la terribile notizia. Anche l’Italia, dopo la Russia, la Germania e la Francia, è colpita dal colera! Il Papa, dopo aver preso le opportune misure sanitarie, indice pubbliche preghiere e processioni di penitenza. L’icona della Madonna della Salute viene portata in processione dalla basilica di S. Maria Maggiore a quella Vaticana; lo stesso Pontefice vi prende parte scalzo e in abito penitenziale, e con lui il Collegio Cardinalizio e tutto il clero. Non appena la notizia giunge a Gaspare, egli, dimenticando i suoi mali, sente che Dio lo vuole nella sua Roma, per lenire tanti dolori ed asciugare tante lacrime. La carità brucia più che mai nel suo cuore! S’aggira nelle strade percorse dai carri della morte, sui quali, senza pietà, sono stati gettati in fret¬ta e alla rinfusa i cadaveri, dei quali non pochi spogliati da mani sacrileghe per rubarne i vestiti e i preziosi. Dalle vie e dalle case giungono al suo orec¬chio gemiti, pianti ed urla, che raggelano il sangue! Sale e discende a stento le ripide scale delle case più povere per portare qualche aiuto e 1′ umano confor-to: pregare, assolvere e benedire i morti. E se ne trova, abbandonati da chi èfuggito precipitosamente per scampare al pericolo, dimenticando anche le persone care, se li carica sulle spalle per deporli sui carri che passano. Chi l’aveva visto partire da Albano e coloro che l’avevano incontrato, fuggendo da Roma verso i Castelli, gli dicevano: «Signor Canonico, tutti scappano da Roma e voi ci andate. Lo sapete che il colera fa strage?» Gaspare rispondeva: «Lo so, lo so, figlioli, ma Dio mi vuole a Roma». Il Card. Odescalchi, Vicario di Roma, ignaro delle condizioni di salute di Gaspare, nell’àmbito delle manifestazioni di penitenza nell’Urbe, per propi-ziare dal Signore la cessazione del colera, lo invitò a predicare nella chiesa di S. Maria in Vallicella, detta anche la Chiesa Nuova. «Quantunque logoro, sfi-nito, emaciato e mal ridotto, tanto da parer l’ombra di se stesso, sempre nel cuore l’ardente desiderio di chiudere la sua vita sul palco da missionario, coll’arma del Crocifisso in mano» vi aderì volentieri, pensando che finalmen¬te questo suo antico e perenne desiderio, sia per avverarsi. Si era nei pieni calori di agosto e Gaspare, trascinandosi a stento, si recava nella chiesa rigurgitante di fedeli. Il suo nome attira non solo la massa, ma prelati, vescovi, cardinali e autorità. «Faceva pena a vederlo montare sul pal¬co lentamente, poggiandosi, con tutto il peso del corpo sfinito, al passamano della scaletta». Però al momento di prender la parola, come d’incanto torna-vano le antiche energie e predicava con ardore e facondia. Finita la predica il male riprendeva il dominio e «il petto si ribellava cagionandogli un conato pauroso che inteneriva gli astanti fino alle lacrime». I Padri Filippini, che offi-ciavano la chiesa, erano lietissimi di averlo con loro e gli prestavano amore-volmente ogni soccorso. Gaspare si recava a pregare all’altare dove sono ve-nerati i resti di S. Filippo Neri, e ripeteva come lui: «Paradiso, paradiso, ecco la mia patria!». Il Santo aveva anche predetto che sarebbe stata la devozione al Prez.mo Sangue a debellare l’immane flagello e invitò il popolo ad invocarlo con insi-stenza. Ultimata la predicazione, per ordine del medico, tornò subito in Albano. Ai primi freddi il colera si calmò, poi scomparve del tutto e i «Romani de Roma», per non smentire il loro carattere, ringraziarono il Signore con pre¬ghiere e grandi abbuffate di bucatini all’amatriciana e abbacchio alla brace. Grazie all’ aria più ossigenata dei Colli Albani, Gaspare sembrava essersi un po’ ripreso e volle, con pensiero delicato ed affettuoso, dedicarsi tutto ai suoi cari giovani Allievi, dando loro anche lezioni di Teologia. Ma, dal suo modo d’agire, appariva ben chiaro ch’ egli non si faceva illusioni, anzi faceva capire d’essere certo e felicissimo della fine imminente, che tante volte aveva pre-detto con precisione impressionante. Il Rey così ci descrive i suoi ultimi giorni vissuti in Albano. «Ilare sempre, per quanto gli acciacchi lo comprimano, come sotto un frantoio spaventoso, conversa, lavora, non sta mai un minuto in ozio. Lo han visto, verso l’ora del tramonto, guardare all’orizzonte, nella campagna romana, vaniente giù verso lo specchio lucente del mare, rotta spesso da archi di acquedotti e possenti rovine, guardare il cielo che si accendeva di croco, risonante del canto dei vetturali e dell’ eco dei carriaggi sul basilato dell’ Appia, mentre le campane lanciavano nell’aria le onde d’un invito a levar la mente a Dio. Gli occhi in-cantati verso la luce più pura che vi sia, le mani serranti al petto 1′ estasi d’una preghiera, le labbra sonanti tenuamente delle parole dell’angelo a Maria. Lo han visto… con lacrime pioventi da quegli occhi suoi opali, come quelli d’un fanciullo! Tra poco, catene d’oro lo solleveranno lassù, oltre il mare, oltre il cielo!» Questo giorno tanto bramato non avrebbe tardato molto. Una lettera del Card. Franzoni, informato dell’ aggravarsi della sua salute, gli ordinò di tra-sferirsi a Roma, dove il clima invernale più mite di quello d’Albano, gli avrebbe certamente giovato. I Missionari se ne dispiacquero assai, perché, certi della fine ormai imminente, avrebbero essi voluto chiudergli gli occhi nella Casa di Missione e sigillare nel cuore l’ultimo anelito del loro Padre e Fondatore. Gaspare, come sempre, obbedì e tornò nella sua angusta casa di piazza Montanara e si chiuse nella sua camera, una soffitta dell’antico Teatro Mar-cello, per non uscirne mai più, se non trasportato in una bara. Passava lunghe ore del giorno, e notti insonni, sconvolto da un’orribile tosse, stremato di for-ze, costretto su d’una poltrona. Le giornate scorrevano in ininterrotta pre-ghiera, la celebrazione della Messa e la recita del Breviario. In un rigido esa-me di coscienza, dimentico del gran bene operato, correva con la mente alla ricerca di difetti e manchevolezze, forse inesistenti, per pentirsene e chiedere perdono a Dio nell’ imminenza del giudizio. Si studia di recare il minimo fasti-dio alla cognata e alla nipote Gigia, che l’assistono con affetto. Sembra incredibile, ma i maligni non rispettano neppure una larva d’uomo di fronte alla maestà della morte! Quanta raffinata crudeltà! «Quel santo – è la diceria che spargono negli ambienti ecclesiali e tra gli ammiratori e i Mona-steri femminili di Roma, che se ne scandalizzano – proprio lui, ha paura della morte e non si rassegna alla Volontà di Dio!» Allarmata, Sr. Maria Tamini, la sua compagna di fanciullezza, che già lo ve-nera come santo, accorre al suo capezzale e gli «tiene unpredicozzo», anche se affettuoso e velato. Gaspare, che ha ben compreso, neppure la lascia finire e di rimando: «Ho capito cosa volete dirmi. Proprio io, che nella vita non ho fatto altro che predicare agli altri la necessità di sottomettersi alla Volontà di Dio, ora che tocca a me… No, no! State tranquilla, sono pronto e felicissimo. Ora inginocchiatevi e facciamo orazione assieme, affinché il Signore mi aiuti a sottomettermi ancora di più alla sua volontà». E continuava a ripetere: «De sidero ardentemente Solo il mio annientamento ed unirmi al mio Signore Crocifisso». Perfino il Merlini1 che pur conosceva a fondo la sua anima per i tanti anni vissutigli a fianco, ascoltando spesso anche la sua confessione, per un po prestò fede alle dicerie e sentì il bisogno di sussurrargli in punto di morte: «Bisogna conformarsi alla Volontà di Dio». Il Santo, con un fil di voce, non potendo ormai quasi più parlare per l’ingrossamento della lingua, mormorò sorridendogli: «Sì, sì…». Nonostante il continuo peggiorare del male, con la sua ben nota e ferrea vo-lontà, aveva resistito e continuato a passar le giornate in poltrona, fino all’an-tivigilia di Natale; poi «la carne divenuta fragilissima, non rispose più agli sti-moli della volontà» e stremato, fu costretto a mettersi a letto, di dove non si alzerà mai più. Eppure non perse il suo abituale humor romanesco. Alla co-gnata, che non avendo il coraggio di vederlo così mal ridotto, e che da qual¬che giorno non si faceva più vedere, disse: «Signora, vi siete fatta preziosa?» e a Gigia, che non riusciva più a trattenere il pianto: «Cosa sono queste nebbie? Su, toglietele! ». Accorrevano al suo capezzale tanti suoi cari amici, specialmente missionari e sacerdoti. Un giorno andò a confortarlo anche il Card. Franzoni, che «l’amava assai». Gaspare rimase, nella sua umiltà, «confuso per tanta degna¬zione». Nella vigilia di Natale le Suore del Monastero di S. Urbano in Roma, sue penitenti, con gli auguri di guarigione e di buon Natale, gli mandarono in dono un presepe di cartone da loro confezionato. Lo gradì moltissimo e volle fosse collocato di fronte al letto per poterlo avere sempre davanti agli occhi. Il Pallotti, che durante la malattia ne ascoltava quasi ogni giorno la confessio¬ne, non faceva che ripetere: «Che santo! Quanta uniformità alla Volontà di Dio!» Era la risposta ai maldicenti. Gaspare chiese sempre con insistenza il Viatico e 1′ Estrema Unzione. A quel tempo non si amministravano gli ultimi conforti se il sanitario non di¬chiarava il malato in imminente pericolo di vita. Ma il Santo tanto insistette che convinse il medico e, solo quando fu accontentato, disse con serenità: «Ora, finalmente son contento!» e da quel momento, finché le forze glielo consentirono, tenne sempre il Crocifisso stretto tra le mani, passando le ore tra sommesse preghiere e devoti baci alla dolce immagine del Cristo. Sopraggiunto un ulteriore aggravamento, il medico curante, il Dott. Maz-zucchelli, gli praticò per due volte il salasso. Ci domandiamo: Non aveva Ga-spare predetto che quando gli avessero cavato sangue, sarebbe morto? E allo-ra perché vi acconsentì? Misteri dell’ anima di un Santo! Gaspare si è sempre inchinato alle disposizioni divine e certamente si sarà detto: Morir per una causa o per un’altra non fa differenza, e se Dio ha scelto la decisione del me-dico per attirarmi a Sé, faccia come Egli ha stabilito. Non appena gli fu prati-cato il secondo salasso, peggiorò di colpo; nulla disse, e la rassegnazione e l’abbandono al Creatore segnarono ogni suo atto ed ogni sua parola. Il Merlini, a quella notizia, s’affrettò a correre da Albano per assistere al trapasso di Gaspare. Egli però non riusciva a darsi pace, quando, giunto a Ro-ma, apprese che il Fondatore in un estremo atto di umiltà e di annichilimen¬to, aveva disposto nel testamento che il suo corpo fosse sepolto nella fossa co-mune dei Sacconi Bianchi, in S. Teodoro al Campo Vaccino, dei quali faceva parte. Tutta la Congregazione avrebbe sofferto nel vedersi sottrarre le amate spoglie, sia pure per un atto di profonda umiltà. Con 1′ aiuto di Fratel Bartolo-meo, il Merlini persuase il Santo ad aggiungere un codicillo al testamento, col quale acconsentiva che il suo corpo fosse sepolto nella chiesa dei suoi Missio-nari in Albano. Lo sforzo sostenuto per apporre la firma al codicillo redatto dal notaio fece crollare definitivamente le poche forze rimastegli, tanto che il Merlini riten¬ne opportuno iniziare la recita delle preci degli agonizzanti. Giunse in quell’istante anche il Pallotti, che passando tra la gente che assiepava l’in-gresso di casa, disse: «Vado ad assistere alla morte di un santo!» Il Pallotti do¬vette sostituire subito il Merlini nella recita delle preghiere, perché questi, non reggendo all’ emozione e al dolore, era scoppiato in pianto dirotto. È lo stesso Pallotti a dirci: «Il moribondo era come nella più perfetta tranquillità. Nel suo volto risplendevano tale dolcezza, ilarità e tali segnali di pace, che, considerando il tutto cristianamente, eccitava una voglia, una brama di met-tersi in agonia». E così conclude: «Alle ore 21,30, come immerso in una gioia di paradiso, tranquillamente spirò». Era il giorno 28 dicembre del 1837 e Gaspare aveva anni 51, mesi 11 e gior¬ni 21. Il referto medico è, allo stesso tempo, terribile e meraviglioso. «Suppurazio¬ne dei polmoni per flogosi al petto trascurata. Non avendo voluto sospendere le sue fatiche apostoliche, non si sottopose a quella cura, che, fatta a tempo, avrebbe potuto giovargli; per cui s’era reso vittima di carità». Nell’istante del trapasso il Pallotti, santo a sua volta, trasalisce, seguendo il salire luminoso di una stella, spiccata dal corpo riverso; in ascesa a Dio, ed esclama: O anima benedetta, già sei in Paradiso! Confiderà poi al Merlini d’aver visto l’anima di Gaspare salire al Cielo in forma di luminosissima stel¬la, e Gesù con la Vergine e uno stuolo d’angeli andarle incontro. «Stelle, sempre stelle – esclama il Rey – nella vita di S. Gaspare! Sembra che egli ci giochi in vita e nel momento della morte!». Infatti: nacque nel giorno dell’Epifania e, come per i Re Magi, una stella il-lumina tutto il cammino della sua santa vita terrena; stelle si posano sul suo capo un po’ ovunque, mentre predica alle turbe; sale a Dio in forma di lumi-nosa stella tre giorni dopo Natale, mentre ancora risuona 1′ eco del Gloria de-gli angeli che si diffonde nel cielo stellato di Betlem! Quale fulgida stella, 1′ anima di Gaspare, s’immerge nel vivido fulgore, che si sprigiona dal Sangue dell’Agnello e inonda l’immensità del Cielo! Egli non è soltanto 1′ anima beata che si è lavata nel Sangue del Divino Agnello, ma è l’apostolo insigne, il serafino, il martire di quel Sangue, che continuerà per 1’eternità nel Cielo il canto d’amore ripetuto continuamente, nell’ innocenza e nella sofferenza sulla terra: «Tu sei degno, o Signore, di prendere il libro ed aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo Sangue, uomini di ogni tri-bù, lingua, popolo e nazione! A Colui che siede sul Trono e all’ Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli. Amen!» L’apoteosi La Chiesa, madre di Santi, chiama il giorno della loro morte terrena Dies Natalis – Giorno della Nascita, perché dal momento dell’esalazione dell’ultimo respiro sulla terra, comincia veramente la vita, quella senza tramonto, nel se-no di Dio, premio e corona di chi per Lui ha lottato e vinto la buona battaglia nel mondo. Mentre in quella stanza, dove S. Gaspare esalò l’ultimo anelito, S. Vincenzo Pallotti ne vide 1′ anima in forma di stella fulgente, salire al Cielo, accolta fe-stosamente, tra canti angelici, dallo stesso Gesù e dalla Vergine, nella stessa sera una suora del Monastero delle Clarisse di Cori, nipote del Card. Sala e già penitente del Servo di Dio, senza nulla sapere del suo transito, «… se lo vi¬de apparire in cotta e stola salmeggiare con i suoi Missionari, quindi sollevar¬si dalla terra verso il Cielo in un nimbo di luce». Ne parlò alle consorelle, anch’esse ignare della morte di Gaspare, che appresero solo il giorno dopo. Altra suora, mentre era in preghiera in altro Monastero, vide S. Francesco Saverio andar incontro a Gaspare, dalla cui figura emanava una luce abba-gliante. Nel Seminario di Sezze, un sacerdote, tanto amico di Gaspare, non appena venne a sapere la notizia della sua morte, si recò in chiesa a celebrar Messa in suo suffragio, ma durante la celebrazione «… scorge in visione il Servo di Dio, che vibrando raggi di luce, s’innalza al Cielo». D. Santelli, il pri-mo storico del Santo, così scrive: «Una persona, il di cui nome si tace per giu-sti riguardi, mi ha riferito che, alcuni giorni dopo la morte del Servo di Dio, postasi in orazione, pensando di suffragarne l’anima, vide subito il suo spirito elevato a godere una visione di cui mai ebbe una più luminosa e senti una vo-ce che gli dise «non esservi bisogno di suffragi». Anche Sr. Maria Clementina delle Suore della SS.ma Trinità sognò il Santo che si innalzava al Cielo in un nimbo di luce. La Contessa Ginnasi, che nel periodo della prigionia, ebbe lun-ga corrispondenza con lui e 1′ aiutò moltissimo, ricevéndone a sua volta con-forto e guida nella vita spirituale, sognò la figura trasumanata del Santo, che saliva al Cielo. Ma, se in Cielo aveva avuto inizio la sua immortale apoteosi, quasi per ga-reggiarvi, anche in terra segui alla sua morte, ed ovunque, un grandioso tri-buto d’affetto e di trionfo. Il «primo grandioso funerale con gran concorso di popolo, fu celebrato in Roma, presente la salma scoperta, nella Chiesa di S. Angelo in Pescheria, con la partecipazione di Porporati, Vescovi, Prelati e la Nobiltà romana». Quindi la salma fu affidata al Valentini e al Ven. Merlini, che la traslarono in Albano Laziale, dove giunse dopo la mezzanotte. Depostala in cappella, i suoi figli ad-doloratissimi ed in ansiosa attesa, vollero rivedere subito per l’ultima volta quel volto a loro così familiare e caro. Tolto il coperchio, fu un raggrupparsi appassionato e devoto di visi in lacrime, che, al chiarore delle candele, si chi-narono sulla salma, dalla quale, tra lo stupore di tutti, esalava un misterioso profumo. Quel corpo conservava ancora una freschezza certamente non na-turale: membra flessibili, carne morbida, gote rosee. Il giorno dopo, capodan-no 1838, fu esposto in chiesa. Dice così la Santandrea: «Capodanno! Vita nuo-va! una fresca gioia pende nell’ aria, intorno a quel feretro, puro e profumato come un cesto di fiori; capodanno, primo giorno d’una gloria senza tramonto, perché conclusa in Dio!» La notizia della presenza delle spqglie del Santo, tanto conosciuto ed ama¬to, esposte nella chiesa di S. Paolo, corse veloce nella città e nei dintorni, e fu subito un accorrere dai Castelli Romani e dai paesi più lontani. Tutti brama-vano vederle e toccarle con fazzoletti, rosari, medagline e portar via, in ricor-do, un, lembo delle vesti, una ciocca di capelli e perfino la colatura delle can-dele che bruciavano attorno alla bara. Un tale tentò di recidergli un dito! Fu perciò necessariò circondare il fere¬tro con uno steccato e i Missionari dovettero a turno restar di guardia per contenere quella fiumana di devoti. Il 3 gennaio il Clero di Albano volle ren-dere pubblica testimonianza di affettuosa stima al Santo, celebrando un funerale solennissimo. Onoranze funebri continuarono in altre chiese di Roma, in tutte le Case di Missione e, man mano, nelle varie località dov’ era stato a pre¬dicare. Quelle di Gaspare erano le spoglie di un Santo ed era più che ovvio che in S. Paolo accorresse una schiera di infermi, colpiti dai più svariati malanni. Quella salma non incuteva né spavento, né ribrezzo. Gaspare, come in un sonno sereno, sembrava immerso in arcane visioni: quel volto ancora roseo e sereno infondeva, in chi lo contemplava, visioni celestiali, accese di speran¬za. La bocca dei sofferenti si scioglieva spontaneamente in accorata preghie¬ra. Da quella salma si prigionarono subito virtù taumaturgiche ed avvennero i primi fatti prodigiosi, continuazione e conferma di quanti ne aveva operati in vita, e l’inizio d’una fioritura di grazie che non avrebbero avuto e non avranno mai termine. Raimondo Marazzi di Castelgandolfo, da un anno tormentato da alte febbri, entrò in chiesa, si prostrò accanto al feretro e subito ne venne liberato. Cle-mentina Brugiaferri accostò alla salma il suo piccino muto e rattrappito, e se lo vide scappare dalle braccia e correre per la chiesa guarito all’istante. Orsola Pietrangeli guarisce ad una guancia; Orsola Marazzi è liberata da acerbi dolori alla testa. Un giovane gravissimo per «lue celtica», entrato solo per curiosare si sentì spinto interiormente ad inginocchiarsi e pregare. Tornò a casa guarito dall’orribile male e cambiò vita. Lo scalpellino chiamato a preparare il loculo della sepoltura, mentre lavorava, si raccomandava al Sauto affinché lo liberas-se dai terribili dolori reumatici, che lo tormentavano da anni, e fu esaudito. Dopo sette giorni la folla non accennava a diminuire. Dal corpo, che con-servava ancora la sua meravigliosa freschezza, continuava ad emanare sem¬pre quel misterioso profumo, sicché le Autorità ecclesiastiche stabilirono di riesaminarlo «in via ufficiale e giuridica». Erano presenti il Vicario Generale della Diocesi di Albano, il Cancelliere Vescovile, i Canonici del Capitolo della Cattedrale, e, come testimoni, i Padri Cappuccini. Il Dott. Bussanelli e il chi-rurgo Prof. De Angelis eseguirono 1′ esame e stesero il seguente verbale: «Ca-davere ritrovato a temperatura fredda naturale, incorrotto, flessibile in ogni sua parte; la lingua rubiconda e molle di saliva, capelli bene aderenti alla cu¬te, vescicanti aderenti quasi fossero stati attaccati di fresco, occhi non vitrei, ma freschi come di persona viva. Constatato che il corpo, non essendo stato imbalsamato, fu conchiuso che quella così integra conservazione, non era cosa meramente naturale». Dopo quest’esame il corpo fu chiuso in una sola cassa di legno, munita dei sigilli della Curia e deposto sotto il pavimento, davanti all’ altare della cappel-la di S. Girolamo, cioè nella cappella ove adesso sono venerate le sue Reli¬quie. Dopo due anni il Card. Giustiniani, vescovo di Albano, ordinò una nuo¬va ricognizione e quel corpo fu trovato ancora intatto. La cassa di legno fu chiusa in una di piombo. Quando le due casse furono riaperte nel 1905 per la beatificazione, la salma non era più intatta. Le ossa e le ceneri furono rac-chiuse in due urne, delle quali una lasciata in Albano e 1′ altra fu portata a Ro-ma nella chiesa di S. Maria in Trivio, dove gli fu dedicato un altare. La fama di santità, da Gaspare già goduta in vita e subito dopo il trapasso, si divulgò in modo fulmineo ovunque. Il suo sepolcro in Albano fu mèta mm-terrotta di pellegrinaggi. «Talvolta erano processioni interminabili». Il Merli-ni asserisce di avervi veduto pregare Cardinali, Vescovi, Prelati, sacerdoti, religiosi e religiose, uomini illustri per pietà, dignità e scienza. Vi accorreva¬no da tutte le località dov’egli era stato in vita. Quella fama si estese in tutta Italia, valicò le Alpi e i mari, giunse in Francia, Germania, Svizzera e nelle lontane Americhe. Si susseguivano richieste di immagini con reliquia e di preghiere da ogni parte del mondo. Gaspare, per divina disposizione, non re-stò insensibile a tante suppliche, grazie e veri miracoli «fioccavano ovunque!». Racconta il Pallotti: «Donna Barbara dei Principi Massimo, maritata Ruspo¬li, dopo sette anni di matrimonio si vedeva ancora priva di prole. Le detti una piccola parte d’un fazzoletto usato da Gaspare. Passato alcun tempo mi disse: …. Il Canonico Del Bufalo mi ha esaudita – e dette alla luce un figlio ma¬schio». D. Giovanni Merlini racconta uno strepitoso prodigio avvenuto nel 1839, nella persona del conte Lorenzo Soderini a Roma, colpito da gravi dolori alla parte inferiore degli intestini. Il dott. Satti diagnosticò ernia libera. Sebbene sconsigliato, volle recarsi a piedi nella Basilica dei SS. Apostoli per le funzioni di S. Giuseppe, ma lungo la strada i dolori divennero atroci e fu ri-portato a casa «mentre emetteva urla selvagge». Sopraggiunto il chirurgo gli praticò una «sanguigna», che poi, aggravatesi ulteriormente le , condizioni dell’infermo, ripeté altre due volte. Il conte sentendosi ormai morire e perdu¬ta ogni fiducia nei rimedi dei medici, si affidò al Servo di Dio Gaspare Del Bu-falo, che aveva ben conosciuto in vita. Avendo avuto, a suo tempo da D. Bia¬gio Valentini lo zucchetto da lui usato, se lo pose sulla parte offesa; si sentì subito placare ogni dolore, prendendo placido sonno. Dormi tutta la notte e al mattino ridestatosi come nulla avesse mai sofferto, portò la mano alla parte malata e si trovò guarito perfettamente». La guarigione fu testimoniata dai re-ferti dei medici curanti. Il Merlini racconta ancora un altro miracolo avvenuto a Nepi. Il Can. Gavi¬no Sassa, chiamato il 13 dic. 1838 a portare il Viatico a Francesca Tolomeo Mariani di anni 48, la trovò agli estremi tanto che appena appena poté con-fessarsi. Divenuta «fredda e perduta ogni conoscenza, stava già per rendere l’anima al Creatore». Due persone, Anna Rebeschi e Teresa Paglia, che nutri-vano speciale devozione verso il Servo di Dio Gaspare Del Bufalo, esposero la sua immagine al capezzale dell’inferma e la invitarono a pregarlo con loro. Quasi improvvisamente l’inferma riprese conoscenza e vigore, strinse l’im-magine tra le mani e si unì alle invocazioni con voce chiara e sonora. Il giorno dopo era perfettamente guarita. La guarigione completa fu confermata con certificato del Dott. Vincenzo Silvestroni. Il Parroco della chiesa di S. Nicolò in Porto a Rimini attestò nel Luglio del 1838, che il suo parrocchiano Mariano Ballerini di anni 24, affetto da gravissi-ma forma di idropisia, disperando della guarigione con le cure prescrittegli, le abbandonò del tutto ed invocò l’intercessione del Servo di Dio e presto guarì. Ne fa testo anche un certificato del Dott. Felice Lancellotti che lo curava. D. Giovanni Francesco Palmucci, in data 25 aprile 1839, scrisse da Ascoli Pi-ceno al Ven. Merlini che Sr. Costanza Vitali delle Suore del Buon Consiglio era da molti anni presa da orrende convulsioni, le quali, ad ogni assalto, la la-sciavano come morta. Avendo avuto nell’ ottobre del 1838 un attacco più vio-lento, tanto che il medico curante dichiarò non potervi fare più nulla, le conso¬relle che avevano conosciuto il Servo di Dio Gaspare Del Bufalo, circondando il letto dell’inferma, ne invocarono l’intercessione. «Prodigio! – scrive D. Gio¬ vanni – finita l’orazione la Suora riaprì gli occhi, si ridestò dal torpore, tornò perfettamente sana». Anche il Professore che la curava, nel vederla, esclamò: «Miracolo!» e rilasciò dichiarazione giurata della completa guarigiòne. Nelle sue Deposizioni per la beatificazione di Gaspare, il Ven. Merlini rac-conta che Agnese Marazza di Castelgandolfo aveva una figliolina afflitta da una natta all’occhio destro, che cresceva sempre di più in durezza e grandez¬za. Quando la bambina aveva sei anni le si era ingrossata quanto una noce di media grandezza, e due professori ne proposero il taglio. La mamma, prima di sottoporla ad intervento, la portò a pregare presso il sepolcro del Servo di Dio, appoggiandone la parte malata sulla lapide. Con loro pregavano anche alcune amiche venute li da Castello. Poi, a piedi, iniziarono il cammino di ri¬torno. Lungo il tragitto la bambina domandò alla mamma se aveva visto quel bel prete che le aveva toccato la natta, carezzandola. Agnese pensò che la sua piccola avesse avuto le traveggole, ma quella insisteva nel dire che l’aveva veramente visto. Il giorno dopo la mamma e le amiche dovettero ricredersi, perché la natta era scomparsa. Ora ascoltiamo quanto ci dice il Dott. Marcutelli di Sezze Romano, che, il giorno 9 novembre del 1839, accorse al capezzale di Sr. Eletta Margherita De Cesaris del Monastero di S. Chiara, trovandola assai grave. «Le prescrissi del-le cure e lasciai l’inferma; però, dopo qualche ora fui richiamato, perché il vomito, il dolore al basso ventre e allo stomaco erano cresciuti, il polso appe-na sensibile, la perfrigerazione delle estremità avanzatissima… da concepire il grave imminente pericolo di vita». In quei terribili momenti le Consorelle somministrarono alcuni fili d’una camicia portata in vita da Gaspare e si po-sero in preghiera. «Istantaneamente cessarono vomito e dolori, i polsi riac-quistarono la loro naturalezza. Era guarita a colpo d’occhio». D. Girolamo Sciamplicotti, parroco di Rocca Di Papa, trascrive con la mag¬gior brevità e precisione la guarigione ottenuta dalla Signora Maria Antonia d’Ottavio, sua parrocchiana, per intercessione del Ven. Servo di Dio D. Ga-spare Del Bufalo. «Soffriva di fierissimi dolori ai denti ed aveva la guancia tanto gonfia, da non vederci più con 1′ occhio destro. La donna asseriva anche d’aver visto, appena entrata nella chiesa di S. Paolo, dove s’era recata a pre-gare sulla tomba del Can. Del Bufalo, lo stesso Servo di Dio farle cenno di ac-costarsi e giunta al sepolcro egli disparve, ma si sentì sparire di colpo ogni do-lore e toccandosi s’accorse ch’era sparito anche il gonfiore». Il Parroco con-clude affermando che «la mattina l’aveva vista partire malata e la sera dello stesso giorno, l’aveva vista guarita». Il 18 marzo 1839 Cecilia Mariotti di Castelgandolfo, che soffriva per gravis-sima infermità e che «un dottore curava in unmodo ed un altro in maniera di-versa», non potendone ormai più si rivolse al Servo di Dio e guarì del tutto. Maddalena Dipietro di Marino, nell ‘ottobre 1841, soffriva d’un terribile gonfiore al collo, tanto che il medico, vedendolo sempre più ingrossare, vole¬va incidere in diciassette punti. La malata spaventata si rifiutò e si mise al collo una medaglina che aveva toccato il feretro di Gaspare. In qualche gior¬no sparì tutto il male. Giacomo Vicini di Marino soffriva di sciatica, dichiarata incurabile da tutti i medici. Nel dicembre del 1838 vi applicò la corona del rosario con la quale aveva toccato la salma di Gaspare e guarì subito. Il calzolaio Stefano Mondelli, residente a Roma in via della Scrofa, gravissi¬mo per tubercolosi, ed essendo vana ogni cura che gli prestava il Dott. Mat¬tioli, si pose al collo una medaglietta che aveva toccato il corpo del Servo di Dio e guari in otto giorni. Gaetano Biagioli dichiarò, per iscritto, a D. Biago Valentini che, per le rei-terate e continue emottisi, sentiva fortissimi dolori intercostali. Il 20 settem-bre 1838 ingoiò una reliquia del Ven. Del Bufalo e i dolori cessarono all’istan-te, e guarì da ogni male. A Monte Cerignone, la suora conversa Costantina Rolli, trascurando un mal di stomaco, si aggravò in modo tale che giunse in fin di vita. Le Suore in-vocarono l’aiuto del Servo di Dio e la malata guarì in quella stessa notte. Il giovane Cardone di Albano, il 25 settembre 1840, aveva già avuto 1′ Estre-ma Unzione ed era in agonia quando gli posero sul petto l’immagine di Ga-spare, invocando per suo mezzo la guarigione. In breve tornò in piena salute. D. Nicola Santarelli di Roma asserisce che Maria Falcietti di anni 19, colta da inguaribile infiammazione cerebrale (tumore) fu esortata a rivolgersi al Can. Del Bufalo, del quale ebbe anche l’immagine. La tenne sul capo per tut¬ta la notte del 19 luglio 1838, riposò tranquillamente ed al mattino si ridestò completamente sana. Torniamo ad ascoltare il Merlini che ci racconta un fatto, davvero più che straordinario, avvenuto in Albano nel 1867 al sig. Agostino Bianchi, durante il colera. I Zuavi pontifici, accompagnati dai medici, passavano di casa in casa per caricare i cadaveri sul carrozzone, ed entrarono in casa di Agostino «già mor-to». Era presente la figlioletta di appena tre anni che, nel vedersi portar via il papà, si attaccò con forza alla sua «salma» gridando: «Non è morto! Non èmorto! Dategli a mangiare la figura di D. Gaspare e vedrete che non è morto». Quei giovanotti si commossero e fecero venire da S. Paolo un missionario del Prez.mo Sangue (lo stesso Merlini?) che riuscì ad infilare nella bocca del «morto» la Reliquia di Gaspare. Agostino cominciò a muoversi lentamente, poi aprì gli occhi e, come nulla fosse, disse: «Sono arrivato alle porte dell’ Eternità e nessuno mi ha voluto aprire». Si alzò all’ istante e’ dopo tre gior¬ni era di nuovo a coltivare la sua vigna. A Nepi, dove c’era la Casa di Missione, fu chiamato l’allora Superiore D. Giuseppe Alterisi, perché accorresse al capezzale d’un uomo, che durante una lite aveva avuto ben otto coltellate al basso ventre e vomitava feci dalla bocca. Gli posò ,l’immagine del Servo di Dio sulle ferite e quegli si addormen¬tò profondamente. In pochi giorni guarì. Sr. Maria Maddalena della Trinità rilasciò testimonianza sulla guarigione miracolosa della sua Vicaria, Sr. M. Giuseppina, che soffriva di stomaco, sen¬za poter ritenere nulla. A questo male s’aggiunse l’asma bronchiale e più tar¬di una polmonite, che la ridusse in fin di vita. Don Giovanni Merlini le man¬dò la reliquia del Ven. Gaspare Del Bufalo, che ella ingoiò subito. Dopo un triduo di preghiera la suora guarì. La seguente testimonianza è del Can. D. Carlo Lattanzi di Civitalavinia: «Nel 1839 fui chiamato al capezzale di Pietro Paolo Pochini, colpito da perni-ciosa e ormai giunto al termine di sua vita. La madre dell’infermo mi pregò che gli applicassi la reliquia del Can. Del Bufalo, e 1′ effetto immediato di quel contatto fu la ripresa dei sensi. Poi l’infermo migliorò e passati sei giorni, uscì diletto completamente ristabilito». Ecco due miracoli, l’uno più meraviglioso dell’altro, ma in certo qual modo uguali, perché entrambi avvennero in Francia nella persona di due signorine, sofferenti della stessa malattia. Francesca, della nobilissima famiglia De Maistre, erasi consacrata a Dio tra le Figlie di Carità di S. Vincenzo De’ Paoli e stava compiendo il noviziato a Torino. Fu improvvisamente colpita da atroci spasmi ad una gamba, che si rattrappì in modo orrendo, tanto che la pianta del piede batteva sull’anca. Fu ricondotta a Nizza, in famiglia, per essere curata. Dopo sei mesi di cure vane, i medici decisero l’amputazione dell’arto. Dovettero attendere, perché lo sta¬to di estrema debolezza della fanciulla non lo permetteva. Col passar dei giorni il male si estese ad altre parti del corpo, e la povera in-ferma non riusciva più a trattenere il cibo e a dormire né giorno, nè notte. Francesca aveva una carissima amica, Natalia Kolmar, di nazionalità russa, che le teneva quasi sempre compagnia e la confortava. Più volte Natalia le aveva suggerito di implorare la guarigione dall’intercessione del Ven. Cano-nico Del Bufalo, del quale tanto si parlava per i prodigi che andava operando un po’ dovunue. Francesca se ne riteneva indegna! Natalia nori si diede per vinta e il 7 ottobre del 1842 le applicò sulla gamba l’immagine di Gaspare e quindi le fece ingoiare la sua reliquia. Inginocchiata¬si accanto al letto, invitò Francesca a recitare con lei le preghiere delle Sette Offerte al Sangue Prezioso di Gesù. Le avevano appena terminate che Natalia disse all’ amica: «Ora, con tutta la fede di cui sei capace e con convinzione, prova a muoverti». Francesca ubbidì, continuando a pregare. La gamba si di-stese facilmente e non sentendo più alcun dolore l’inferma saltò giù dal letto, 5 inginocchiò e scoppiò in pianto dirotto. Insieme pregarono ringraziando la bontà divina e l’Apostolo del Prez.mo Sangue. L’altro episodio è narrato in un suo libro da Giorgio Schouvanoff di Pietro-burgo, un nobile appartenente ad una delle più aristocratiche famiglie russe del tempo, facente parte della Corte di Alessandro 1°. Purtroppo era rimasto vedovo d’una dolcissima moglie di religione cattolica, mentre egli era orto-dosso. La povera moglie gli aveva anche lasciato una bambina paralizzata. Giorgio Schouvanoff si trasferì in Francia, dov’ era anche sua madre, che trovandosi a Nizza, aveva saputo del grande prodigio operato da Gaspare a favore di Francesca De Maistre. La signora ne informò subito il figlio, il quale già aveva cominciato le pratiche per abiurare e passare dalla Chiesa Ortodos¬sa alla Cattolica. Ebbe dalla madre le preghiere delle Sette Offerte e la reli¬quia di Gaspare il 5 gennaio, proprio nel giorno precedente la sua abiura. Quella sera ricevette anche la visita dell’ amico Principe Galitzin, fervente cattolico. Nel suo libro egli confessa che aveva quasi ritegno di invocare dal Signore una grazia d’ordine temporale, qual’era la guarigione della sua cara figliola, proprio la sera della vigilia del gran giorno in cui lo Spirito Divino gli avrebbe donato la grazia incomparabile della conversione. Tuttavia, sollecitato dall’ amico, iniziò la recita delle Sette Offerte insieme a lui e alla figlia. Il mattino seguente, finita di buon’ora la cerimonia del battesimo, tornò a casa dalla figliola, senza nulla dirle di quanto era avvenuto in chiesa, temen¬do di emozionarla eccessivamente. Prese la reliquia e la mostrò alla figlia, e le disse: «Tu conosci, figliola mia, il miracolo di Nizza; ne saremo noi degni? Preghiamo e, se le nostre preghiere non ti gioveranno per il corpo, gioveran¬no certamente alle nostre anime». Posò l’immagine con la reliquia sul corpo malato della giovane e con lei iniziò la recita devota delle Sette Offertead alta voce. Nel racconto egli così dice: «Tu sai, Signore, che io pregavo con fede, ma ero ben lungi dall’aspettarmi la grazia insigne e instantanea che la tua Bontà mi aveva riservata!» E continua: «Appena terminata la preghiera, vidi che mia figlia piegava il ginocchio – Che fai? – le chiesi. Ella piangeva dirotta¬mente e gridava – Papà, sono guarita! – e si slanciò tra le mie braccia. Io pian¬gevo con lei… non è cosa facile esprimere ciò che nel mio cuore avveniva… Voi solo lo sapete, mio Dio, mio Amore, mia Vita!» Giorgio Schouvanoff, dopo aver sistemata la figliola, si recò a Torino, dove entrò tra i Padri Barnabiti, col nome di P. Agostino e scrisse un libro, ora in-trovabile nelle librerie, La mia conversione e la mia vocazione, nel quale ci fa provare quasi le stesse emozioni delle Confessioni di 5. Agostino. Dopo aver letto la carrellata di sì mirabili episodi, il lettore ignaro della me-ticolosità della Chiesa nel sancire la supernaturalità d’un evento, che all’ oc-chio comune risulta prodigioso, dirà: «Ce n’è anche di troppo per proclamare Beato e Santo Gaspare Del Bufalo». Eppure, esaminatili tutti, nessuno di essi è stato ritenuto sufficientemente valido! Però questi eventi e tante altre testimonianze mossero la Chiesa ad istituire in forma ufficiale, in varie Diocesi, il Processo informativo sulla fama di santità, sulle virtù e i miracoli da lui operati. Uno fu aperto ad Albano, uno in Ancona, un altro a Roma. Passarono lunghi anni e finalmente il 19 marzo 1891, Leone XIII, con suo decreto, ne riconobbe la eroicità delle virtù. Quali furono i due miracoli approvati per la sua Beatificazione? Il primo si verificò nel 1838, solo un anno dopo la morte di S. Gaspare, e ci viene narrato nei più minuti particolari dal Ven. Merlini. Lo riassumiamo. Il fortunato fu Ottavio lo Stocco di Lenola, una cittadina dove il Santo era stato più volte a predicare e dove, come ricorderete, operò il miracolo degli oliveti. Ottavio, fin dalla fanciullezza, era stato soggetto a in-fermità di vario genere, sicché si sviluppò in condizioni generali assai gracili e con gran difficoltà nel respirare. Di famiglia assai povera, fu costretto a gua-dagnarsi la vita facendo il pastore, e nella rozzezza e ignoranza credé bene di darsi al bere e al fumo per dimenticare i guai della vita. Aveva appena 22 anni e fu colpito da gravissima malattia polmonare. Riu¬scì tuttavia a superarla e prese moglie, continuando, per necessità, a far la vi¬ta del pastore, esponendosi così alle intemperie e a inevitabili ricadute nel male. Infatti nel febbraio, mentre era sui monti col gregge, per il gran freddo, fu preso improvvisamente da acuti dolori in tutto il corpo. Fu portato in pae¬se e il dott. Terella cercò di curarlo nel migliore dei modi ed anche con buon esito. Osservando stretto riposo, superò anche un grave attacco di pleurite. Tornò dopo 10 giorni a pascolare il gregge, ma venne nuovamente assalito da dolori «più fieri e violenti». Questa volta il Dottore fu esplicito: Era in perico¬lo di vita. Ai dolori s’era aggiunta una gran febbre, l’impossibilità di respiro e una tosse secca e persistente. In tali condizioni i vomiti erano continui e dalla bocca uscivano, misti a sangue, «minutissimi pezzi di polmone». In quelle condizioni il poveretto passò ben due lunghi mesi, durante i quali s’era enor-memente gonfiato in tutto il corpo e fu preso da inarrestabile dissenteria. La famiglia, con grandi sacrifici, raggranellò la somma necessaria per un consul-to dell’ allora celebre tisiologo prof. Notarianni, che sentenziò trattarsi di tisi fulminante, con imminente pericolo di vita, senza via di scampo. Una zia di Ottavio, appena seppe del suo gravissimo stato, gli suggerì di invocare la guarigione dall’intercessione del Can. Del Bufalo, che anche il ma-lato aveva conosciuto. Solo lui poteva aiutarlo ora che ogni speranza era per-duta. Tutta la famiglia gli si fece attorno, inginocchiandosi in preghiera, men-tre egli ingoiava alcuni fili d’un panno adoperato da Gaspare. Nella notte, co¬sa insolita, il malato cadde in un sonno sereno e profondo e al mattino si de¬stò guarito. Dopo vari anni Ottavio Lo Stocco fu meticolosamente controllato dai medici più celebri del tempo, i quali lo trovarono in ottima salute. Del ter-ribile male sofferto neppure una labile traccia! Non meno stupendo è il secondo miracolo approvato per la beatificazione, avvenuto nel 1861 nella persona di Clementina Masini di Albano. Correva l’anno 1858 e la donna venne colpita da «peritonite essudativa cro-nica, fattasi poi acuta da collezione purulenta del peritoneo stesso, avente forma di cisti, con perforazione delle pareti addominali e del sottoposto inte-stino». La poveretta sopportò dolori atrocissimi per tre anni; poi, a causa dell’insopportabile fetore che emanava dal corpo straziato, fu scacciata di ca¬sa dal marito. Così depone la stessa Clementina: «Scacciata da mio marito, con l’aiuto di mia madre, me n’andai a casa di lei, la quale rimane non lontano dalla chiesa di S. Paolo, dove mi feci condurre a stento, per invocare l’aiuto del Ven. D.’ Gaspare Del Bufalo. A lode della verità devo dire che, stando io boccone per terra, toccando col mio corpo la lapide del sepolcro, non mi sentivo affatto il dolore. Debbo qui dire che, quando mi mettevo a letto nella stessa posizione, sentivo ugualmente il dolore. Nella notte del 21 gennaio, mentre giacevo a letto, tra veglia e sonno, mi apparve il Canonico D. Gaspare Del Bufalo. Stando io quasi seduta sul mio letto con dietro i cuscini, avendo il piccolo lume di latta acceso, intesi d’un tratto scuotere il letto e, con qualche apprensione di timore, vidi ai piedi del letto un sacerdote vestito in sottana, con la berretta in testa, crocifisso avanti al petto e nella mano un bastone che sogliono portare i Missionari, quando vanno a predicare; quale sacerdote, riconobbi con tenerezza essere il Venera-bile Canonico Del Bufalo, che avevo anni addietro veduto esposto morto in S. Paolo. Pregai con queste parole: – Santo mio avvocato, fatemi questa grazia, perché io sono da tutti schifata e bisogna mi vada a buttare in una chiavica! – Egli mi rispose: – Va’, donna, non aver timore, che domani mattina ti alzerai e non avrai più niente. – Ed in così dire alzò il bastone e mi toccò in quella parte del mio corpo ove esisteva il buco del tumore e disparve. Mi posi a recitare dei Pater ed Ave e dopo mi addormentai. Mi svegliai la mattina sana dal male». Clementina tornò al lavoro dei campi e di lavandaia, godendo sempre otti¬ma salute. Dopo il rigoroso esame di questi due miracoli, il Sommo Pontefice Pio X, il 29.8.1904 ne decretò la solenne beatificazione ed egli stesso venerò il Beato Gaspare, nella Basilica di S. Pietro, nel fulgente splendore della gloria del Bernini, pronunciando per la prima volta, e in forma ufficiale e solenne, l’in-vocazione: «Prega per noi, Beato Gaspare!». * * * Dopo la beatificazione è più che comprensibile l’ansia dei figli e dei devoti del Beato di vederne subito la glorificazione definitiva sulla terra con la Ca-nonizzazione. Ma fu necessario attendere circa mezzo secolo! I miracoli approvati, dopo il solito rigido esame, avvennero uno a Campoli Appennino, nel Lazio, e l’altro a Sezze Romano. Chi conosce la vita del Santo sa quanto gli era cara la cittadina laziale, dove era stato più volte a predicare ed aveva operato in vita vari prodigi. I campolesi, grati a Gaspare, ne celebravano la festa, e la celebrano tuttora, con grande solennità il 19 maggio, portandone in processione la statua per le vie del paese riccamente adorne, accompagnata dal suono di rinomati con¬certi bandistici, da fuochi d’artificio, ma soprattutto da grande folla devota. Nel maggio del 1929 un giovane di 20 anni, Francesco Campagna, era da vari giorni a letto colpito, in modo gravissimo, da broncopolmonite e menin¬gite acuta. Durante i deliri, che gli causavano la febbre altissima, se non fosse stato energicamente trattenuto, si sarebbe buttato dal balcone. I medici fece¬ro l’impossibile per salvarlo, ma ogni sforzo fu vano; così essi stessi prepara¬rono la famiglia al peggio. Per quegli inscrutabili disegni della Provvidenza a noi sconosciuti, il malato ebbe la sorte d’abitare in una via, dove di solito pas¬sava la processione di S. Gaspare. Al suo passare svincolandosi cialle braccia della mamma, che temeva qualche gesto insano, si slanciò verso il balcone e cominciò a gridare: «Grazia, grazia, Beato Gaspare!» Al grido implorante fece¬ro coro i suoi parenti dalla camera e tutto il popolo dalla strada. Tornato a let¬to s’addormentò d’un sonno tranquillo e profondo. Dopo molte ore si ridestò sereno e disse alla madre di sentirsi bene e d’avere un grande appetito. Alla strepitosa notizia, diffusasi in un baleno, accorse anche il medico e dopo ac¬curata visita di controllo, dichiarò ch’era perfettamente guarito. Il secondo miracolo avvenne nel gennaio del 1934. La signora Orsola Pon-tecorvi, grande devota del Santo e sorella di D. Ciro Pontecorvi, missionario del Prez.mo Sangue e arcivescovo di Urbino, aveva due figli sacerdoti, di cui uno Missionario di S. Gaspare, e due figliole Suore Adoratrici del Prez.mo Sangue. La poveretta, che godeva ottima salute, fu colpita improvvisamente da tu¬more maligno agli intestini, come risultò dalle radiografie eseguite nell’ospe¬dale di Latina. Essendo il male pervenuto ad uno stadio avanzato, non poteva essere operata. Il Primario si senti in dovere di avvertire i suoi familiari della fine imminente. Ne ebbe lei stessa la certezza e si abbandonò nelle braccia di S. Gaspare. «Non ci sei rimasto che tu, caro Beato Gaspare!» Ricondotta a ca¬sa, le due figliole suore le fecero ingerire la reliquia del Beato e non cessava-no d’invocarlo assieme alla mamma. In pochi giorni la malata restò senza pa¬rola e paralizzata. Una notte, com’ella depose, vide chiaramente un sacerdote, che credette essere suo figlio D. Francesco; ma quel sacerdote, circonfuso di luce, le disse: «No, non sono D. Francesco, ma il Beato Gaspare». Orsola~si sciolse in pianto e lo implorò: «Fammi guarire, fammi la grazia». Il Beato le toccò la fronte e le disse: «Coraggio, fra poco sarai guarita». E così fu. Portata di nuovo nell’ospe¬dale di Latina e ripetute le radiografie, risultò che il tumore era del tutto scomparso. Il giorno 12 giugno del 1954, al rito solenne della Canonizzazione di S. Ga-spare, celebrato da Pio XII in Piazza 5. Pietro; erano presenti ricolmi di gioia e con lacrime di riconoscenza, anche Francesco Campagna e Orsola Ponte¬corvi, che oggi sono con lui nel cielo. * * Nel Decreto, così detto del Tuto, che porta la data dell’ 8 maggio 1954 e co-mincia con le parole latine Sanguinis Christi, Pio XII, iscrivendo Gaspare nell’Albo dei Santi, presenta la sua figura «… nel modo più solenne ed ampio coinvolta nel Mistero del Sangue di Cristo» ed afferma: «Nessuno celebrò con affetto più grato dell’ apostolo Paolo le glorie e 1′ efficacia del Sangue di Cristo. Pietro, prima guida e capo della Santa Chiesa, ricorda ai cristiani che sono stati redenti non a prezzo di oro o d’argento, ma dal Sangue purpureo di Cri¬sto, Agnello immacolatissimo e santissimo di Dio… Ma nella nostra età, tra coloro che, con vigile premura ed amore sollecito, predicarono con grande eloquenza i benefici del Sangue sparso, essendo stato ravvivato l’amore e il culto in Esso, risplende, unico fra tutti, il beatissimo Gaspare del Bufalo». Il nimbo dei Santi pone Gaspare sull’altare! O che troneggi sotto le arcate di ampie basiliche, ricche di ori e di arte, tra incensi e fiori, o che la sua immagine, chiusa in povera cornice, sia posta fra due candele su una tavola coperta da una bianca tovaglia, nessun trono uma-no fu mai eccelso quanto questo! Una balaustrata e qualche gradino separano il Santo dal resto dell’ umanità e a lei lo ricongiungono. Solo dinanzi a questo trono tutti, senza distinzione alcuna, possiamo accostarci ed unirci per eleva¬re suppliche, trovare ascolto e ricevere conforto e grazie. Anche dal suo altare Gaspare rimane sempre il missionario, che, con amo¬re e insistenza, ci chiama per condurci a Dio, e implora dal Sangue Divino perdono e redenzione. Il rubino Preghiamo il lettore, che ha avuto la pazienza di seguirci fino a quest’ ulti¬ma pagina, di voler cortesemente riandare con la mente a tutti gli episodi così meravigliosi che siamo andati narrandogli. Il nostro intento non è stato solo quello di fargli conoscere fatti non comuni e di presentargli esclusivamente la figura taumaturgica di S. Gaspare, dotato di virtù e doni straordinari. Se questo fosse stato il nostro intento, avremmo senz’altro falsata la sua immagine. Nostro proposito – e speriamo di esserci riusciti – è stato invece quello di far conoscere un Santo rimasto, prima e dopo la sua morte, tra di noi, che ha sentito le pene dei suoi simili, che ha pianto tra i poveri, i diseredati, i condannati, gli emarginati e per essi ha speso tutta la vita. Egli ha sofferto pene inimmaginabili e crudeli, pur essendo un benefattore dell’ umanità. Gaspare ci dà la dimostrazione lampante di quanto possa fare un sacerdote, che ha fede eroica e si abbandona totalmente nelle braccia del Signore Croci-fisso, per lasciarsi trasfigurare in Lui, compiendo con Lui la Volontà del Pa-dre. La vita di Gaspare ci dice anche che, rispondendo alla Grazia Divina, tutti possiamo diventar santi come lui, perché la vera santità non consiste nell’ operare prodigi, ma nell’ amare Dio, nel servirlo disinteressatamente, farlo conoscere ai fratelli e, per suo amore, amare il prossimo fino al dono completo di tutte le proprie forze. Il cammino della santità non è facile, perché è quello della croce! Ecco l’eroismo dei santi! L’immagine di S. Gaspare, che deve stamparsi nel nostro ricordo, dev’esse¬re quella della sua intima e personale realtà, cioè: Colui che tutto fece e tutto soffrì nel Sangue e per il Sangue di Cristo! È questo il motivo centrale e co-stante che coordinò sempre ed in ogni istante la sua esistenza; anzi, possiamo aggiungere con certezza, che è stata sempre la nota predominante del canto sublime della sua anima di serafino. Il Sangue di Cristo fu il motivo ispiratore della sua fede e della sua interiorità, della sua carità, della sua umiltà, della sua mansuetudine nel sacricifio, del suo eroismo, che, a somiglianza di Cristo nudo e piagato sulla croce, lo portò a perdonare ai tanti suoi persecutori. Il mirabile suo apostolato, la dimenticanza di sé, la prediletta ed estrema povertà, la somma e continua sollecitudine per le altrui sventure, potenziate dalla contemplazione del Mistero del Sangue di Cristo, lo portarono alla vetta della santità, così da imprimere ad ogni parola e ad ogni azione il suggello del soprannaturale. Gaspare, operando sulla terra, guardava il Cielo, donde gli derivava ogni forza ed ogni conforto. Uscito dalle file del popolo, egli si dedicò alle folle. La fiumana di gente, che ovunque si accalcava intorno a lui – lavoratori, sofferenti, peccatori – lo scaldava, lo entusiasmava, gli apriva il cuore, gli strappava lacrime. I tuguri, le prigioni, gli ospedali, i patiboli, gli appestati, i briganti, gli oppressi, erano il suo mondo. Se accostava i grandi, i burocrati e i ricchi, era solo per rivendi-care giustizia per i reietti dalla società, i quali più degli altri capirono il segre¬to della sua spiritualità, cioè il contrassegno del Sangue di Cristo, che infiam¬mò il suo grande cuore. Egli predilesse quel «Segno vermiglio», perché segno unico ed insostituibile della vera fraternità universale e l’unico, che corri-spondesse alla logica dei suoi patimenti, della sua sete di giustizia, del suo inestinguibile amore. Gaspare ci ha dimostrato che, quando l’umanità dimentica quel Sangue, cade nell’ abbiezione, si schiavizza, si autodistrugge e sparge inutilmente il proprio sangue, spinta dall’orgoglio, dall’odio e dalla vendetta. Un’insigne biografa del Santo immagina che dal suo Cuore trafitto Gesù faccia cadere una goccia del proprio Sangue sulla fronte di Gaspare, mentre gli angeli la recingono dell’ aureola della santità. È il rubino fulgente di quella immarcescibile corona! Il suo fulgore richiamerà nei secoli i devoti di Gaspa¬re al Mistero del Sangue Divino, il quale, anche per sua intercessione, guarirà ogni ferita dell’anima e sanerà le sofferenze umane!
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