Storia dell’aborto – IX
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L‘Italia: «uccidi, purché sia tuo figlio»
Il 1978, ben dopo gli altri stati, è l’anno della legalizzazione dell’aborto in Italia, con la cosiddetta Legge nº 194. Negli anni Settanta, la sinistra (PCI, PSI, PSDI), insieme ai partiti liberal-capitalisti (PRI, PLI), e al Partito Radicale di Marco Pannella, di Emma Bonino e di Francesco Rutelli, con l’appoggio di tutta la grande stampa (specie Repubblica di Eugenio Scalfari, L’Unità, L’Espresso, Panorama e Il Corriere della Sera) sostiene l’introduzione in Italia dell’aborto libero, gratuito, a spese dello Stato.
L’argomento principale a favore di tale Legge è l’esistenza di centri di aborti clandestini, che causerebbero lo sfruttamento e talora la morte delle madri: si arriva, con una falsità straordinaria, ad indicare, con cifre altissime, il numero «preciso» degli aborti clandestini, come se fosse possibile conoscerlo, come se non fossero, appunto, «clandestini».
Si assiste ad un terrorismo dei numeri che tende a gonfiare sé stesso nell’euforia della quantità e nel progredire dei giorni: «Tre milioni di aborti clandestini nella penisola, 25.000 donne morte ogni anno in seguito ad aborto clandestino…». La Storia si incaricherà di smentire queste fole, ma l’emozione del momento e il tam tam dei giornali convinceranno molta gente.
L’altro argomento, sostenuto con campagne miliardarie dalla famiglia Rockefeller, dall’ONU e per certi aspetti anche dal WWF e dal Club di Roma legato agli Agnelli, è la sovrappopolazione del pianeta. Il parlamentare socialista Loris Fortuna (1924-1985) scrive: «Sette miliardi gli individui che nel 2000 popoleranno la terra […]. Ipotizzabile, come evento futuro, ma non incerto, la catastrofe».
Chi glielo dice oggi, al Fortuna, che siamo il Paese più vecchio e ansimante d’Europa, che la nostra popolazione diminuisce drasticamente ogni anno? Accanto a queste cifre roboanti, indimostrate e indimostrabili – oggi lo sappiamo, sicuramente false e confutate – si cerca di tappare la bocca agli oppositori anche con l’utilizzo di un linguaggio mascherato.
La falsità è lo sfondo su cui si svolge tutto il dibattito, depistato da affermazioni di questo tipo: «La soluzione di fondo non è quella […] di discutere astrattamente sul concetto di inizio della vita»; «Il problema dell’aborto dovrebbe essere discusso in ambito squisitamente etico-morale e non attraverso considerazioni di natura biologica».
Traducendo: discutiamo pure, purché non ci si chieda di accertare di che cosa (un minerale? Un vivente?) si stia discutendo. Così si lotta in ogni modo per riconoscere la legge del più forte, per occultare la spaventosa realtà dell’omicidio con espressioni ingannevoli: quel bimbo che si muove nell’utero materno come un astronauta nella capsula spaziale, che scalcia se la mamma è seduta male o se compie un movimento brusco, che si succhia il dito e percepisce suoni e rumori esterni, diventa, nella terminologia degli abortisti e delle femministe, un «feto», un «grumo di sangue», un «brufolo», un «parassita», un «clandestino a bordo» e la sua uccisione, più semplicemente, un’«interruzione volontaria di gravidanza».
Eppure l’aborto è un delitto orribile, perché colpisce l’innocente, colui che non può difendersi, e perché non rimane senza conseguenze sulla madre, anche se spesso nessuno la avvisa di ciò: anche lei rischia, perché può andare incontro alla perforazione dell’utero e dell’intestino, ad emorragie, alla sterilità, e ad un ossessionante senso di colpa che le può impedire di diventare madre per tutta la vita.
Un medico abortista racconta infatti che dopo il primo aborto alcune mamme vanno incontro ad «aborti ripetuti», non perché non vogliano figli del tutto, ma per autopunizione. Il meccanismo psicologico è: «Non potrò più essere madre perché ho abortito» . Nel 1978, dunque, passa in Parlamento la 194, che introduce in Italia l’aborto legalizzato, libero, finanziato e organizzato.
I voti determinanti sono offerti dalle forze di cui abbiamo già parlato. Il mondo cattolico, invece, appare diviso. Come ai tempi del referendum sul divorzio, non mancano le associazioni cattoliche favorevoli alla nuova legge, e neppure gli ecclesiastici. Fra questi molti sono vacillanti, timidi, spaventosamente indifferenti. Lo hanno ricordato a più riprese Pietro Scoppola, Giulio Andreotti, Ettore Bernabei ed altri.
Il Partito di riferimento dei cattolici, la Democrazia Cristiana, che dovrebbe gestire l’opposizione alla legge, essendo il maggior Partito ed essendo al governo da solo, abdica brutalmente, specie per quanto riguarda i vertici. Sono tutti democristiani i membri del governo che controfirmano la legge presentata dal Parlamento: soprattutto ricordiamo Andreotti, capo del governo, Tina Anselmi, Ministro della Sanità, Francesco Paolo Bonifacio (1923-1989), Ministro di Giustizia, e Giovanni Leone (1908-2001), Presidente della Repubblica, che avrebbe potuto rimandare la legge alle Camere.
Francesco Agnoli
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