Storia dell’aborto – II Parte
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I totalitarismi e l’aborto
L’aborto libero e legale, cioè riconosciuto dalla Legge come diritto, come cosa giusta, appare per la prima volta nella Storia con la Rivoluzione comunista del 1917: il comunismo parte dal presupposto che la famiglia non sia un istituto naturale, come dice il giusnaturalismo, ma un portato della Storia, un istituto artificiale. La famiglia sarebbe tipica di un mondo ingiusto e corrotto, quello borghese, che riconosce la proprietà privata dei beni materiali e quella che per i comunisti è la «proprietà privata degli affetti», la famiglia, appunto.
Per Vladimir Lenin (1870-1924), che si colloca sulla scia dei pensatori social-comunisti – Dom Deschamps (1716-1774), Étienne-Gabriel Morelly (1717-1778), Babeuf (Settecento), Charles Fourier (1772-1837) e Karl Marx (Ottocento) – abolizione della proprietà privata significa dunque anche abolizione dei rapporti familiari moglie-marito, genitori-figli: per questo introduce, coerentemente, il divorzio e l’aborto. Quest’ultimo è giustificabile anche alla luce di un altro cardine del pensiero comunista: il materialismo.
L’uomo, e così pure il bimbo nel ventre materno, è pura materia, senza anima e destino immortali. Le conseguenze pratiche non tardano a manifestarsi. Françoise Navailh, nella sua Storia delle donne: il Novecento, a cura di Françoise Thebaud, (Ed. Laterza 1992), scrive: «L’instabilità matrimoniale e il rifiuto massiccio dei figli sono i due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi sommersi, diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente, i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. I padri abbandonano la famiglia, lasciando spesso una famiglia priva di risorse» 2.
Gli effetti di tale politica divorzista e abortista si vedono ancor oggi: basti pensare quanti e quanto grandi sono gli orfanotrofi negli ex Paesi comunisti (Romania, Ucraina, Bielorussia, Russia, ecc…), da cui vengono presi gran parte dei bambini adottati in Europa (adozioni internazionali). In Russia si arrivava al punto, come ha raccontato Olga Kovalenko, olimpionica in Messico nel 1968, che, come lei, «anche altre ginnaste nell’URSS venivano indotte a concepire e poi abortire, perché con la gravidanza l’organismo femminile può produrre più ormoni maschili e sviluppare più forza.
Se rifiutavano, niente Olimpiadi». Circa una ventina scarsa di anni più tardi, l’aborto viene legalizzato per la seconda volta nella storia in un regime nato nel 1933 in Germania: il nazionalsocialismo. Al pari dei comunisti, i nazisti introducono subito divorzio e aborto. Il presupposto filosofico non è chiaramente precisato: sicuramente si parte, come in Russia, dalla negazione di un’anima personale, cioè da una sorta di materialismo o di «materialismo-panteistico».
In secondo luogo, entrano in azione le dottrine eugenetiche: la prima società naturale non è la famiglia, ma lo Stato, la comunità politica, l’entità astratta detta Volk («popolo»). Nell’interesse di quest’ultimo, occorre che la gioventù sia fisicamente sana, forte, razzialmente pura: come in una novella Sparta, i deboli vengono eliminati, soppressi, e, con loro, inevitabilmente, anche gli indesiderati. La violazione della sacralità della vita al suo inizio diventa poi violazione della vita tout court: poco prima e durante la guerra verranno legittimate anche la sterilizzazione, l’eutanasia, la soppressione degli handicappati…
Riguardo alla concezione della famiglia, come in molti altri aspetti, nazismo e comunismo sono dunque assai simili tra loro, e sostengono che lo Stato è prima e sopra di essa. Nel nazismo questo è evidente nelle forme di irreggimentazione della gioventù, nell’eugenetica, nei circa 80.000 bambini nati tramite accoppiamenti stabiliti dall’alto, a priori, nell’espropriazione ai genitori del ruolo di educatori tramite le organizzazioni statali (la Hitlerjugend…), nell’associazione fondata di Heinrich Himmler (1900-1945), chiamata Lebensborn, che sceglieva donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani, nelle regolamentazioni sul matrimonio misto, nella sostituzione delle feste cristiane e popolari con festività della natura o di ispirazione laica, ecc…
Per quanto riguarda il comunismo, esso, come si è detto, nega totalmente la famiglia, fin dalle più antiche formulazioni: la comunanza di donne, ad esempio, è esaltata da Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1602), dai comunisti illuministi Denis Diderot (1713-1784), da Deschamps, da Fourier e dallo stesso Marx, in nome del principio per cui la famiglia rappresenta, al pari della proprietà privata, qualcosa di negativo ed egoistico, da eliminare.
La soluzione è il controllo statale delle giovani generazioni, fino a far loro sentire, come unico, il legame con lo Stato: «Nella società socialista futura, quando l’allevamento, l’educazione e il mantenimento dei figli non saranno più a carico dei genitori, ma passeranno totalmente alla società nel suo complesso, la famiglia dovrà evidentemente morire».
Per questo nell’URSS, il quattordicenne Pavel Morozov (1918-1932) diventa un eroe nazionale, additato come esempio per tutti i ragazzi, per aver rivelato alle autorità l’opposizione di suo padre al regime, ed averlo così consegnato alla morte.
Secondo la concezione dialettica della Storia, la famiglia, come unione di genitori e figli, non è neppure un’istituzione naturale, presente nella realtà e quindi valida di per sé stessa, ma una creazione dei tempi e della struttura economica, al punto che, secondo Fourier, apprezzato in ciò da Marx, il sentimento dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori, è una pura invenzione, poiché il bambino, non conoscendo «l’atto che sta all’origine della paternità, non può provare sentimenti filiali»: come tale la famiglia può e deve variare.
È bene ricordare la presenza di dottrine eugenetiche attraverso tutta la storia del socialismo: dalla Repubblica di Platone (428-348 a. C.), in cui accanto alla comunanza di beni e di donne, si parla della necessità che lo stato imponga chi debba accoppiarsi e con chi; a La Città del Sole di Tommaso Campanella, in cui il Ministro dell’Amore è chiamato a scegliere i tempi e i soggetti dell’accoppiamento sessuale, al fine di garantire una certa purezza razziale;
fino alle più recenti affermazioni di Stanislav Alexandrovich Volfson («Da noi ci sono tutti i motivi per credere che quando s’imporrà il socialismo la riproduzione non sarà più affidata alla natura») e dello staliniano Evgenii Alekseevich Preobrazenskij (1886-1937): «Dal punto di vista socialista, non ha senso che un membro della società consideri il proprio corpo come una sua proprietà privata inoppugnabile, perché l’individuo non è che un punto di passaggio tra il passato e il futuro», tanto che alla società spetta «il diritto totale e incondizionato di intervenire con le sue regole fin nella vita sessuale, per migliorare la razza con la selezione naturale».
Del resto, un’eugenetica de facto verrà attuata nei regimi comunisti asiatici, in Cina, Vietnam, Cambogia e Corea del Nord, tramite l’eliminazione di handicappati, invalidi, malati mentali e barboni, di coloro cioè ritenuti incapaci dell’unica attività cui il materialismo riconosce importanza: il lavoro.
(continua)
Francesco Agnoli
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