Spiritualità – Sotto la guida dello Spirito
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SOTTO LA GUIDA DELLO SPIRITO
IN STATO DI CONVERSIONE
Tra l’ira e la grazia
Quando la grazia invade una persona per la prima volta si parla di conversione: si considera quella persona convertita o in cammino di conversione. Per il linguaggio corrente si tratta di un evento importantissimo, anche se momentaneo, che deve ancora accadere o che si è già prodotto da tempo. Ma nessuno sembra ritenere che la conversione sia ancora necessaria, salvo in caso di apostasia. Di conseguenza il termine derivato, convertito, riguarda solo una categoria ben precisa di credenti: quelli che hanno ricevuto la fede in età adulta. Perciò il neonato battezzato, che ha ricevuto la fede in tenerissima età – ed è la condizione della maggior parte dei cristiani – non sarà mai chiamato convertito: apparentemente non avrà mai nulla a che fare con la conversione. Solo quelli che vivono al di fuori della fede, oppure che non vivono secondo la loro fede bensì nel peccato, dovrebbero preoccuparsi della conversione: non così il credente di tutti i giorni e soprattutto non il cristiano fervente. Eppure bisogna ricordare che la Bibbia parla spesso, e in modo molto esplicito, di conversione, e della conversione di ciascuno. Il primo annuncio della buona novella, proclamato da Giovanni Battista, si riassume proprio in questo invito pressante: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3,2). ….
E’ questa vicinanza a rendere così necessaria la conversione: infatti, dice Giovanni ai farisei e ai sadducei che vengono da lui per farsi battezzare, l’ira e la vendetta di Dio incombono: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno di conversione (…). Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me (…) e vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,1-12). Giovanni Battista collega la conversione con la presenza di Gesù, con il giudizio imminente e con il fuoco improvviso acceso dall’ira di Dio, dalla quale dobbiamo essere liberati. Ira e vendetta, attribuite a Dio, non sono nozioni facili da accettare, e lo è ancor meno la scure alla radice degli alberi: sono concetti che, in modo più o meno cosciente, abbiamo relegato all’Antico Testamento, come se potessero scomparire dall’orizzonte e avessero perso la loro ragione di esistere con la venuta di Gesù. Ma alle soglie del Nuovo Testamento la venuta di Gesù è annunciata proprio da questa antica immagine: nella persona di Gesù, Dio ha impugnato il ventilabro ed è pronto a pulire la sua aia. Questo è il battesimo portato da Gesù: battesimo per la conversione, ma anche battesimo in Spirito santo e fuoco. Quanto detto sembra perciò indicare che dobbiamo ancora far fronte, in un modo o in un altro, all’ira di Dio e che questo può avvenire solo in Gesù. Ho già incontrato l’ira di Dio nella mia vita? In caso negativo, ho ancora bisogno della grazia? Questa infatti non è forse legata all’ira da cui mi libera in ogni momento? In Gesù non sono forse incessantemente esposto all’ira e alla grazia, preso in mezzo, nel luogo in cui potrebbe situarsi la conversione? Molto tempo dopo la morte e la resurrezione di Gesù, Paolo – all’inizio della sua grande sintesi teologica sulla grazia – scriverà ai cristiani di Roma: “L’ira di Dio si rivela” (Rm 1,18). E’ pur vero che altrove Paolo annuncia che anche la gloria di Dio deve rivelarsi (cf. Rm 8,18), ma questa gloria è sempre preceduta dall’ira. “Per natura – dirà ancora Paolo – eravamo meritevoli d’ira” (Ef 2,3). L’amore e la grazia sono eccezioni in rapporto all’ira e suppongono che noi siamo stati scelti in modo speciale per esserne liberati. Lo stato di grazia è eccezionale rispetto allo stato di ira che, infatti, è la nostra condizione primaria: eccezione colma di amore, a motivo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Altri passaggi del Nuovo Testamento ci illuminano maggiormente su questa ira di Dio, dicendoci in particolare che non si situa nel passato ma che deve ancora venire e ci attende nel futuro. Paolo utilizza spesso l’espressione “l’ira che viene” (Ef 5,6; Col 3,6), mentre Giovanni preferisce parlare dell’ira già venuta ma che non cessa di incombere sull’uomo (cf. Gv 3,36). L’Apocalisse parla del “gran giorno dell’ira”, il giorno in cui Dio “darà da bere la coppa di vino della sua ira ardente” (Ap 16,19). L’immagine della coppa dell’ira che Dio ci fa bere è molto vicina a un’altra coppa di cui ci parla la Scrittura: il calice della passione di Gesù. Nelle mani di Gesù la coppa dell’ira diventa il calice della salvezza, la bevanda mortale dell’ira diventa una bevanda d’amore. Come Gesù, anche noi riceviamo questo calice dalla mano di Dio, per berlo a nostra volta; e anche per noi questo calice è una coppa di vendetta oppure di tenerezza. Noi siamo ebbri: o dell’ira di Dio o dell’amore di Dio, ma il passaggio dall’una all’altro può avvenire solo con Gesù e grazie a lui. Per questo il nostro calice di sofferenza non sarà diverso da quello di Gesù: lui solo infatti, avendo bevuto la coppa fino alla feccia, può liberarci dall’ira di Dio, lui solo può fare in modo che la coppa dell’ira diventi anche per noi il calice della salvezza. Questo passaggio richiede molto tempo e nulla è assicurato, anche se Paolo ci esorta a guardare con fiducia verso l’ira ventura: “Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10). In un altro passaggio Paolo afferma ancora che è Gesù “che ci libera dall’ira ventura” (1Ts 1,10). Siamo quindi stati liberati una prima volta dall’ira quando i nostri peccati sono stati cancellati dal battesimo, ma eccoci nuovamente confrontati a questa stessa ira di Dio che è ancora davanti a noi. Da questo deriva la grande importanza del momento presente: è il kairos, il tempo della salvezza nel quale viviamo e nel quale ci è concesso di operare la scelta decisiva, nella potenza della morte e della resurrezione di Gesù. Ciò che sarà domani infatti è già offerto oggi, pur se ancora nella speranza, una speranza che cresce sempre fino al compimento alla fine dei tempi. Questa scelta decisiva tra l’ira e la grazia – che è la scelta di domani ma è già la scelta di oggi, è la scelta di oggi per domani – è proprio quello che chiamiamo la conversione. Questa parola è la traduzione del termine neotestamentario metanoein, che a sua volta cerca di rendere l’espressione ebraica shub. Questa radice semitica significa semplicemente voltarsi, tornare sui propri passi e, solo di conseguenza, convertirsi: l’accento è quindi posto sul rovesciamento che si produce. Il termine greco metanoein precisa questo rovesciamento: contiene due radici di cui la prima, come l’ebraico, sottolinea il capovolgimento, mentre la seconda ci rivela cosa viene sconvolto da un tale rivolgimento: il nous, cioè il fondo spirituale, il nostro cuore più profondo. Si tratta quindi di una rivoluzione all’interno di noi stessi, che il termine conversione, ormai impoverito da un uso eccessivo, non rende con forza sufficiente. Altrove, in un contesto identico, la Bibbia parla di metanoen kai epistréphein (At 3,19): lasciarsi sconvolgere, rivoluzionare completamente per voltarsi verso qualcosa o qualcuno. Si tratta di un cambiamento radicale con il quale una persona torna sui suoi passi per imboccare una nuova direzione.
E’ questa vicinanza a rendere così necessaria la conversione: infatti, dice Giovanni ai farisei e ai sadducei che vengono da lui per farsi battezzare, l’ira e la vendetta di Dio incombono: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno di conversione (…). Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me (…) e vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,1-12). Giovanni Battista collega la conversione con la presenza di Gesù, con il giudizio imminente e con il fuoco improvviso acceso dall’ira di Dio, dalla quale dobbiamo essere liberati. Ira e vendetta, attribuite a Dio, non sono nozioni facili da accettare, e lo è ancor meno la scure alla radice degli alberi: sono concetti che, in modo più o meno cosciente, abbiamo relegato all’Antico Testamento, come se potessero scomparire dall’orizzonte e avessero perso la loro ragione di esistere con la venuta di Gesù. Ma alle soglie del Nuovo Testamento la venuta di Gesù è annunciata proprio da questa antica immagine: nella persona di Gesù, Dio ha impugnato il ventilabro ed è pronto a pulire la sua aia. Questo è il battesimo portato da Gesù: battesimo per la conversione, ma anche battesimo in Spirito santo e fuoco. Quanto detto sembra perciò indicare che dobbiamo ancora far fronte, in un modo o in un altro, all’ira di Dio e che questo può avvenire solo in Gesù. Ho già incontrato l’ira di Dio nella mia vita? In caso negativo, ho ancora bisogno della grazia? Questa infatti non è forse legata all’ira da cui mi libera in ogni momento? In Gesù non sono forse incessantemente esposto all’ira e alla grazia, preso in mezzo, nel luogo in cui potrebbe situarsi la conversione? Molto tempo dopo la morte e la resurrezione di Gesù, Paolo – all’inizio della sua grande sintesi teologica sulla grazia – scriverà ai cristiani di Roma: “L’ira di Dio si rivela” (Rm 1,18). E’ pur vero che altrove Paolo annuncia che anche la gloria di Dio deve rivelarsi (cf. Rm 8,18), ma questa gloria è sempre preceduta dall’ira. “Per natura – dirà ancora Paolo – eravamo meritevoli d’ira” (Ef 2,3). L’amore e la grazia sono eccezioni in rapporto all’ira e suppongono che noi siamo stati scelti in modo speciale per esserne liberati. Lo stato di grazia è eccezionale rispetto allo stato di ira che, infatti, è la nostra condizione primaria: eccezione colma di amore, a motivo di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Altri passaggi del Nuovo Testamento ci illuminano maggiormente su questa ira di Dio, dicendoci in particolare che non si situa nel passato ma che deve ancora venire e ci attende nel futuro. Paolo utilizza spesso l’espressione “l’ira che viene” (Ef 5,6; Col 3,6), mentre Giovanni preferisce parlare dell’ira già venuta ma che non cessa di incombere sull’uomo (cf. Gv 3,36). L’Apocalisse parla del “gran giorno dell’ira”, il giorno in cui Dio “darà da bere la coppa di vino della sua ira ardente” (Ap 16,19). L’immagine della coppa dell’ira che Dio ci fa bere è molto vicina a un’altra coppa di cui ci parla la Scrittura: il calice della passione di Gesù. Nelle mani di Gesù la coppa dell’ira diventa il calice della salvezza, la bevanda mortale dell’ira diventa una bevanda d’amore. Come Gesù, anche noi riceviamo questo calice dalla mano di Dio, per berlo a nostra volta; e anche per noi questo calice è una coppa di vendetta oppure di tenerezza. Noi siamo ebbri: o dell’ira di Dio o dell’amore di Dio, ma il passaggio dall’una all’altro può avvenire solo con Gesù e grazie a lui. Per questo il nostro calice di sofferenza non sarà diverso da quello di Gesù: lui solo infatti, avendo bevuto la coppa fino alla feccia, può liberarci dall’ira di Dio, lui solo può fare in modo che la coppa dell’ira diventi anche per noi il calice della salvezza. Questo passaggio richiede molto tempo e nulla è assicurato, anche se Paolo ci esorta a guardare con fiducia verso l’ira ventura: “Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10). In un altro passaggio Paolo afferma ancora che è Gesù “che ci libera dall’ira ventura” (1Ts 1,10). Siamo quindi stati liberati una prima volta dall’ira quando i nostri peccati sono stati cancellati dal battesimo, ma eccoci nuovamente confrontati a questa stessa ira di Dio che è ancora davanti a noi. Da questo deriva la grande importanza del momento presente: è il kairos, il tempo della salvezza nel quale viviamo e nel quale ci è concesso di operare la scelta decisiva, nella potenza della morte e della resurrezione di Gesù. Ciò che sarà domani infatti è già offerto oggi, pur se ancora nella speranza, una speranza che cresce sempre fino al compimento alla fine dei tempi. Questa scelta decisiva tra l’ira e la grazia – che è la scelta di domani ma è già la scelta di oggi, è la scelta di oggi per domani – è proprio quello che chiamiamo la conversione. Questa parola è la traduzione del termine neotestamentario metanoein, che a sua volta cerca di rendere l’espressione ebraica shub. Questa radice semitica significa semplicemente voltarsi, tornare sui propri passi e, solo di conseguenza, convertirsi: l’accento è quindi posto sul rovesciamento che si produce. Il termine greco metanoein precisa questo rovesciamento: contiene due radici di cui la prima, come l’ebraico, sottolinea il capovolgimento, mentre la seconda ci rivela cosa viene sconvolto da un tale rivolgimento: il nous, cioè il fondo spirituale, il nostro cuore più profondo. Si tratta quindi di una rivoluzione all’interno di noi stessi, che il termine conversione, ormai impoverito da un uso eccessivo, non rende con forza sufficiente. Altrove, in un contesto identico, la Bibbia parla di metanoen kai epistréphein (At 3,19): lasciarsi sconvolgere, rivoluzionare completamente per voltarsi verso qualcosa o qualcuno. Si tratta di un cambiamento radicale con il quale una persona torna sui suoi passi per imboccare una nuova direzione.
Continuamente in conversione
Qui riaffiora la domanda posta all’inizio di questo capitolo: in che senso abbiamo ancora oggi bisogno di conversione? Non l’abbiamo ricevuta una volta per tutte nel battesimo? Dovrebbe essere una questione già chiusa e adesso dovremmo essere in cammino – naturalmente con alti e bassi, con cadute e riprese – verso la perfezione e la santità. Questa è effettivamente l’immagine che ci facciamo del cammino sul quale procedono tutti i cristiani. In pratica questo cammino sarebbe diviso in tre tappe: all’inizio l’incredulità e il peccato, poi il passo decisivo della conversione e infine la ricerca della perfezione. E ciascuno di noi si colloca spontaneamente – e non senza un certo candore – in un punto imprecisato della terza tappa, a un livello più o meno avanzato. La realtà non è né così semplice né così complicata: la grazia infatti è la semplicità stessa. La difficoltà sta nel fatto che la vita nello Spirito santo non è facile da discernere. Linee di forza diverse si incrociano incessantemente e perciò la confusione, così come l’illusione, è sempre possibile: non è sempre facile distinguere queste linee le une dalle altre. In realtà il peccato, la conversione e la grazia non sono semplicemente tre tappe in successione; nella vita quotidiana a volte sono inestricabili, crescono insieme, in una reciproca dipendenza. Non mi trovo mai totalmente nell’una o nell’altra, sono incessantemente in tutte e tre nel contempo: il peccato, la conversione e la grazia sono il mio pane e la mia porzione quotidiana. Anche nel regno dei cieli, per quanto vissuto già quaggiù, avviene la stessa cosa, stando alle parole di Gesù; neanche là i peccatori sono assenti: anzi, i pubblicani e le prostitute vi entrano per primi e precedono tutti gli altri (cf. Mt 21,28-32). Queste tre tappe non rappresentano tre gradini di una scala di valori, non passiamo dall’una all’altra come se salissimo le scale, non sono tre galloni che cuciamo l’uno dopo l’altro sulla manica. No! Prima della morte non diciamo mai addio del tutto all’una o all’altra delle tre. Restiamo sempre peccatori, siamo continuamente in conversione e in questo siamo costantemente santificati dallo Spirito di Dio. Non possiamo mai appartenere a quella categoria di persone di cui Gesù ha detto “che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7) perché si credono giusti: in tal caso non avremmo più bisogno di Gesù. Forse saremmo ancora in cammino verso Dio, ma soli, nel senso più “solitario” del termine, irrimediabilmente soli, continuamente in preda a noi stessi, sotto un’apparenza di santità che cercheremmo invano di realizzare; ci sentiremmo sempre più profondamente frustrati perché non incontreremmo mai l’amore autentico. E’ sempre illusorio credersi convertiti una volta per tutte. No, non siamo mai dei semplici peccatori, ma dei peccatori perdonati, dei peccatori-in-perdono, dei peccatori-in-conversione. Non è data un’altra santità quaggiù perché la grazia non può agire diversamente. Convertirsi significa ricominciare sempre questo rivolgimento interiore, per mezzo del quale la nostra povertà umana – quella che Paolo chiama la carne – si volta verso la grazia di Dio. Dalla legge della lettera, passa alla legge dello Spirito e della libertà, dall’ira alla grazia. Questo ribaltamento non è mai concluso, perché non fa altro che ricominciare sempre. Antonio il Grande, patriarca e padre di tutti i monaci, lo diceva in modo lapidario: “Ogni mattina mi dico: oggi comincio. E abba Poemen, il più famoso dei padri del deserto dopo Antonio, quando in punto di morte veniva lodato per aver vissuto una vita beata e virtuosa che lo metteva in condizione di presentarsi a Dio con estrema tranquillità, rispose: “Devo ancora cominciare, stavo appena iniziando a convertirmi” e pianse. La conversione infatti è sempre una questione di tempo: l’uomo ha bisogno di tempo e anche Dio vuole avere bisogno di tempo con noi. Ci faremmo un’immagine dell’uomo assolutamente errata se pensassimo che le cose importanti nella vita di un uomo possono realizzarsi immediatamente e una volta per tutte. L’uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, maturare e sviluppare tutte le proprie capacità: Dio lo sa meglio di noi e per questo aspetta, non desiste, è indulgente, longanime. Dio ci aspetta come un pescatore paziente, per usare l’espressione di un poeta. To chreston tou theou eis metdnoian se agei, scrive Paolo (Rm 2,4): “La bontà di Dio ti spinge alla conversione”. Non la collera ma, al contrario, tò chrestén, il suo affetto, la sua bontà, la sua pazienza. Nel prologo della sua regola, Benedetto ne fa un commento pregnante: Dio è ogni giorno alla ricerca del suo operaio e il tempo che ci dà è ad inducias, è una dilazione, un dono, un tempo di grazia che ci viene accordato gratuitamente. E’ un tempo che possiamo utilizzare per incontrare Dio ancora una volta, per incontrarlo sempre meglio nella sua stupenda misericordia. Sarà solo più tardi, dopo la nostra morte, che potremo vivere fuori del tempo, e per sempre. Oggi il tempo ci è concesso per conoscere sempre meglio Dio: è sempre un tempo di conversione e di grazia, dono della sua misericordia.
Anche il peccatore incallito
Dio si occupa di noi ogni giorno, ci chiama alla conversione: “Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il cuore” (Sal 95,8). Dio ci parla in molti modi: attraverso la sua Parola, per mezzo delle persone con le quali viviamo, con le circostanze più svariate, felici o dolorose. E’ sono queste ultime le maggiormente temute: sappiamo fin troppo bene che Dio ha qualcosa da dirci tramite la prova, la malattia, la morte, la contraddizione. Se questo timore pervade ancora il nostro cuore, significa che solo la collera di Dio è presente al nostro spirito, che non siamo ancora in grado di discernere, dietro il segno apparente della collera, l’amore infinito di Dio. L’abbiamo già visto prima: in Gesù, la collera di Dio si è trasformata in amore o, per meglio dire, la collera non è altro che un tentativo provvisorio di farci capire il suo amore. Se temiamo ancora gli interventi di Dio, se li interpretiamo spontaneamente come un’espressione della sua collera, significa che, in un modo o nell’altro, siamo ancora fissati a questo provvisorio, non abbiamo ancora sperimentato l’amore di Dio, la sua sconvolgente tenerezza. Qualcuno potrebbe dire che questa paura è proprio il segno che siamo colpevoli, la testimonianza dei rimproveri che la nostra coscienza ci muove e della meritata punizione di Dio: solo i peccatori dovrebbero temere la collera di Dio e chi la teme mostra così di essere peccatore. Un simile ragionamento non è poi così evidente, anche se riflette bene la reazione abituale del credente medio di oggi. In realtà, se percorriamo l’evangelo, non è assolutamente evidente che il peccatore debba temere Gesù, anzi. Gesù non ha forse risposto a più riprese di non essere venuto per i giusti ma proprio per i peccatori (cf. Mt 9,13)? D’altra parte non è affatto dimostrato che solo i peccatori temono Dio: in realtà si incontrano numerosi credenti, numerosi “giusti” – per usare un termine biblico – che considerano con pari incertezza e timore il loro eventuale incontro con Dio. Fanno del loro meglio per scongiurare questa disgrazia a colpi di generosità e di virtù; più vi riescono – e una riuscita di tal genere è sempre relativa – più pensano di avere possibilità di evitare la collera di Dio e di meritare il suo amore. In realtà ci sono due categorie di persone che, per il momento, devono temere la collera di Dio: da un lato i peccatori incalliti e dall’altro i giusti incalliti. Il peccatore incallito, cioè chi non vuole assolutamente sentir parlare di rovesciamento, dovrà alla fine affrontare la collera di Dio, anche se riesce a eluderla abilmente nella vita quotidiana. Ma è lecito pensare che in realtà esistono pochissimi peccatori incalliti. Invece i giusti incalliti sono indubbiamente molto più numerosi: persone che – se è lecito esprimersi in questi termini – non conoscono la misericordia di Dio e cercano di fare sempre meglio per il semplice motivo che hanno paura della collera di Dio. Si sentiranno più o meno liberate da questa paura nella misura in cui sono capaci di realizzare il loro ideale nella vita quotidiana. A lungo andare questo può anche diventare sopportabile, purtuttavia costoro vivono con una ben magra consolazione: e il motivo per cui sono raramente convincenti e ancor meno contagiosi. Sono persone che non conoscono ancora l’amore e quel po’ di vita che li abita deriva piuttosto da un certo autocompiacimento che rischia di isolani ancor di più dagli altri. Hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,2) e siccome non hanno sentito parlare della grazia, non sperano nulla di più. La loro vita sarebbe senza prospettiva e priva di sbocchi se il termine “incallito”, usato sia per i peccatori che per i giusti, lasciasse supporre una condizione definitiva. Invece tutto è provvisorio nella vita dell’uomo, tutto è legato al tempo: in questo senso i peccatori come i giusti vivono nel tempo, un tempo che è dono di Dio per loro, un tempo di grazia e quindi un tempo aperto alla conversione. Né il peccatore incallito né il giusto incallito resteranno tali per sempre, tutti sono chiamati a diventare “peccatori in conversione”. È quanto cerchiamo di sviluppare in questo libro: non è una verità immediatamente evidente, né facile da spiegare. Non è qualcosa che si può fissare in una definizione: si può solo cercare di descriverla, a partire dall’esperienza personale, forzatamente limitata, e dall’esperienza di coloro con i quali si è potuto entrare in contatto. In fin dei conti è più facile dire ciò che questa realtà non è: infatti è molto più confortevole vivere da peccatore o da giusto incallito che da peccatore in conversione. Eppure la grazia ci spinge giorno dopo giorno proprio a questo rovesciamento interiore: Dio viene a toccarci in infiniti modi per renderci docili a questo stato di conversione; da parte nostra possiamo solo prepararci a essere toccati da Dio. Dovranno accadere molte cose, assolutamente al di fuori della nostra buona volontà e della nostra generosità naturale. Questo rovesciamento non implica una semplice ferita interiore, ma una vera e propria lacerazione che colpisce le nostre fondamenta; implica una probabile rottura e dei frantumi, uno sgretolamento inarrestabile: come un edificio in cemento armato, al quale possiamo aver lavorato per anni con estrema cura e che, a un certo punto, si è messo a funzionare solo come uno scudo contro il nostro io più profondo e contro gli altri, finendo col rischiare di proteggerci anche contro la grazia di Dio. Questo crollo è solo un inizio, ma è già gravido di speranza: bisognerà evitare soprattutto il tentativo di ricostruire ciò che la grazia ha demolito. Anche questo non è facile da imparare: la tentazione di montare qualche impalcatura davanti alla facciata pericolante e di rimettersi all’opera è infatti sempre molto grande. Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre rovine, a sederci in mezzo ai detriti senza amarezza, senza rimproverare noi stessi né accusare Dio. Dovremo appoggiarci a questi muri in rovina, pieni di speranza e di abbandono, con la fiducia del bambino che sogna che suo padre aggiusterà tutto; perché lui, il padre, sa come tutto può essere ricostruito diversamente, molto meglio di prima. Proprio come il figlio prodigo, per il quale molte cose erano in brandelli: il denaro, l’onore, il cuore; aveva perso tutto ciò che poteva attendersi dalle creature e purtuttavia, pieno di fiducia, decise di tornare da suo padre. Istintivamente presentiva che oltre al servitore che sperava di diventare, aveva ancora la possibilità di restare il figlio: chi è stato figlio una volta, lo resta per sempre. Nel momento stesso in cui il figlio perduto si riconcilia con i propri detriti è già a casa propria, al sicuro accanto al padre. Chi al contrario lotta contro i propri detriti, continua a lottare contro il padre e contro Dio, resta ancora e sempre esposto alla collera, non è ancora capace di riconoscere l’amore. Ma chi si abbandona al punto di rallegrarsi e di convivere con la propria miseria, questi si è già arreso all’amore liberatore. “Dimorare nella conversione” ci e possibile solo grazie a Gesù, instradati e fortificati dallo Spirito di Dio. Si realizza in noi quello che è accaduto a Gesù nel mistero della sua morte e resurrezione: la fiducia e l’abbandono di Gesù al Padre, attraverso la morte, hanno reso inefficace per sempre la collera di Dio e ci rendono capaci – se uniti a lui – di riconoscere l’amore del Padre al di là di ogni morte e di ogni rinuncia, perfino nella nostra più profonda debolezza. Essere in conversione significa passare incessantemente al mistero del peccato e della grazia – attenzione: non “passare dal peccato alla grazia”, ma proprio “passare al mistero del peccato e della grazia” -; significa l’abbandono di qualsiasi autogiustificazione, di qualsiasi giustizia proveniente da noi e l’ammissione del nostro peccato per aprirci alla grazia di Dio. Ecco la meraviglia del peccatore-che-si-converte, che Gesù stesso proclama essere la gioia più grande per il Padre nei cieli: “In verità vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Il meraviglioso uomo-pasquale, che incessantemente muore in Gesù e risuscita con lui, è la gioia e la fierezza del Padre: è una meraviglia che si rinnova ogni giorno e che non conosce fine perché, finché siamo in questa vita, Dio è sempre all’opera. Il tempo e la durata della nostra vita, infatti, rappresentano anche una forma della grazia venuta nella nostra carne: l’amore illimitato e indefettibile di Dio. Così potremo ogni giorno stabilirci nella conversione, con il cuore colmo di rendimento di grazie. Un passo al di fuori di questo stato di conversione sarebbe un passo al di fuori di Dio e del suo amore, e questo anche se continuassimo a pensare a Dio, a parlare di lui, ad annunciarlo: la preghiera stessa rivolta a Dio diventerebbe impossibile, perché non esiste preghiera autentica al di fuori di una continua conversione. Estranei alla conversione siamo estranei all’amore. In questo caso rimarrebbero all’uomo due sole alternative: o l’autosoddisfazione e la giustizia propria, oppure una profonda insoddisfazione e la disperazione. Al di fuori della conversione non possiamo stare in presenza del vero Dio: non saremmo davanti a Dio bensì davanti a uno dei nostri numerosi idoli. D’altro lato, senza Dio non possiamo dimorare nella conversione perché questa non è mai il frutto di buoni propositi o di qualche sforzo sostenuto: è il primo passo dell’amore, dell’amore di Dio molto più che del nostro. Convertirsi significa cedere all’azione insistente di Dio, abbandonarsi al primo segnale d’amore che percepiamo come proveniente da lui. Abbandono dunque, nell’accezione forte di “capitolazione”: se capitoliamo davanti a Dio, ci offriamo a lui. Allora tutte le nostre resistenze fondono davanti al fuoco divorante della sua Parola e davanti al suo sguardo; non ci resta altro che la preghiera del profeta Geremia: “Sconvolgici (lett.: rovesciaci), Signore, e noi saremo convertiti (lett.: rovesciati)” (Lam 5,21; cf. Ger 31,18).
I NOSTRI IDOLI E DIO
Essere in stato di conversione è la condizione indispensabile per raggiungere il Dio unico e vero, il Dio di Gesù Cristo; diversamente, appartenendo ancora ai nostri idoli, non sapremmo parlare di Dio. E quanto l’apostolo Giovanni si premura ancora di sottolineare nel momento in cui dà gli ultimi ritocchi alla sua prima lettera. Il suo messaggio tende innanzitutto a insegnare come “amare Dio e colui che ha inviato, Gesù Cristo” (Gv 17,3), poi Giovanni conclude così la sua lettera: “Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Piccoli figli, guardatevi dagli idoli!” (lGv 5,20-21).
La sposa infedele
Già Paolo, nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, si era congratulato con i credenti perché era stato loro concesso di abbandonare gli idoli per convertirsi al Dio vivo e vero (cf. 1Ts 1,9-10): in questo brano Paolo considera la prima tappa della conversione, che ha inizio con il battesimo. Giovanni, da parte sua, si rivolge a dei cristiani che avevano ricevuto il battesimo da molto tempo, ed esorta anche loro a guardarsi dagli idoli, cosa impossibile a farsi senza conoscere il Dio vero in Gesù Cristo. Guardarsi dagli idoli e confessare l’autentico Dio sono aspetti costitutivi dell’esistenza del credente: questi si trova incessantemente nello sconvolgimento della conversione, nell’abbandono degli idoli per convertirsi al Dio unico e vero. L’esistenza di un solo Dio è diventata chiara per Israele a poco a poco: nei testi più antichi della Bibbia è dato per scontato che ogni popolo possieda il proprio dio e quindi Israele ha diritto al suo Dio così come gli altri popoli dispongono del loro. Con il tempo emerge che questi altri dèi non sono altro che idoli, privi di significato, mentre il Dio di Israele è il Dio unico e universale, un Dio per tutti, il Dio vero e sempre fedele, al di fuori del quale non c’è Dio: “Ascolta, Israele: JHWH è il nostro Dio, il solo Dio, JHWH solo. Tu amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,4-5). Un Dio talmente più grande rispetto ai nostri piccoli dèi privati che non ce ne si può fare un’immagine, non può essere colto né fissato in forme legate allo spazio. Ma esiste per Israele, in virtù del suo amore e della sua forza: “Io sono colui che sono” (Es 3,14), il suo Nome non può essere nominato invano (cf. Es 20,7) e, a un certo momento, non sarà più nemmeno pronunciato (al punto che oggi ne ignoriamo l’esatta pronuncia: quella solitamente usata è una semplice ipotesi, non dimostrata dal punto di vista storicoesegetico). Egli è l’Inesprimibile e l’Ineffabile di cui si potrà avere esperienza solo all’interno dell’alleanza conclusa con il suo popolo. Un’alleanza eterna, che attraverserà i secoli, e in cui la fedeltà e la pazienza di Dio prevarranno sempre sull’infedeltà degli uomini. Israele tuttavia sarà fortemente tentato di allontanarsi da un Dio lontano e invisibile per volgersi alle forme di culto ben più concrete, proprie delle popolazioni circostanti. Per secoli la conversione di Israele si giocherà a questo livello, perché questa rimarrà sempre la sua maggiore tentazione. Israele resterà fedele alla parola data a JHWH oppure – per usare il linguaggio rude dei profeti – tornerà a prostituirsi e a correre dietro agli idoli? Israele avrà costantemente bisogno dei profeti per mettere il dito su questa piaga e per attirare la sua attenzione sui suoi ripetuti cedimenti, spesso inconsci, alla tentazione. L’andirivieni tra JHWH e gli idoli è infatti molto più facile della dimora stabile accanto a un Dio apparentemente così irreale, le cui grandi opere di salvezza rischiano di cadere nell’oblio; non solo, ma i riti delle religioni naturali sono molto più attraenti della fede spoglia nell’Inaccessibile. L’idolatria resta sempre una sorta di vena sotterranea nel popolo credente; idolatria da cui Israele deve incessantemente essere liberato perché il pericolo che si allontani dal vero Dio e venga sollecitato dagli idoli è enorme. Di tanto in tanto un profeta interviene energicamente per ergersi tra i due: come Elia, che lancia una sfida a JHWH e a Baal sul monte Carmelo. Era infatti ora che Dio dicesse chiaramente, di fronte a tutto il popolo, se era o meno il Dio vivo e vero, oppure se era solo un Dio sonnolento, assente o forse addirittura morto. Nella maggior parte dei casi, molto prima che il problema diventi troppo grave, Dio interviene personalmente, delineando lui stesso la cornice dell’intervento che farà nella nostra vita. In un modo o nell’altro corrisponde alla dinamica di ogni conversione, come l’ha descritta con efficacia Osea: “Oracolo di JHWH: ecco, le sbarrerò la strada di spine e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima, perché ero più felice di ora” (Os 2,8-9) Ritornerò traduce la nozione veterotestamentaria che esprime la conversione e che il greco dei Settanta rende con metanoein. Il racconto simbolico della sposa infedele che ritorna sui suoi passi per ritrovare il primo marito esprime nel modo più esatto ciò che la Bibbia intende per “conversione”: “E avverrà in quel giorno – oracolo di JHWH – mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio Baal. Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal, che non saranno più nemmeno pronunciati. (…) Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai JHWH” (Os 2,18-19.21-22). Dopo i numerosi profeti dell’Antico Testamento, anche Gesù, il più grande tra loro, deve intervenire per liberare il suo popolo dal ritualismo. Per Gesù la difficoltà era maggiore: innanzitutto veniva a portare la Buona Novella definitiva, alla quale l’ebreo medio non era preparato. In questo la sua rivelazione avveniva in un momento della storia in cui almeno una parte del popolo di Dio non attendeva più questo intervento da parte sua. Gesù doveva rivelare il mistero più profondo di Dio: l’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Voleva anche rivelare la liberazione definitiva e finale del popolo di Dio e compierla attraverso la propria vita e la propria morte; tutto ciò in presenza dell’ostilità della classe dirigente del popolo che, nella sua sufficienza, restava chiusa a Dio e sembrava aver perso ogni speranza nel compimento delle promesse. Si vantavano dei loro titoli storici: “Siamo figli di Abramo” (Gv 8,39) o della loro particolare conoscenza della Torah: “Questa gentaglia che non conosce la legge…” (Gv 7,49). Atteggiamenti che già Giovanni Battista aveva stigmatizzato: “Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre” (Lc 3,8), indicando così che ciò che conta non sono i diritti o i titoli che si crede di possedere sull’amore di Dio, bensì l’amore stesso di Dio, la grazia sola. In realtà il messaggio di Gesù era molto semplice: non era che il prolungamento di quanto i profeti avevano annunciato prima di lui. Ma Gesù doveva morire a causa di questo messaggio perché lo JHWH degli ebrei del suo tempo, onorato con un culto quasi fanatico, era stato da loro trasformato a tal punto in un falso dio che non erano più in grado di riconoscerlo in Gesù e nel Padre suo. Anche la giovane chiesa di Gesù dovrà lottare contro questa tentazione: il cristianesimo aveva appena messo radici nei cuori e l’evangelo cominciava appena a portare frutti, che già si affacciava la tentazione di deviare verso le più svariate forme di idolatria. Soprattutto Paolo si troverà a lottare contro di esse: dovrà incessantemente mettere in guardia i fedeli da un’interpretazione troppo legalista della Torah e spiegare perché non la legge ma solo la fede, l’abbandono in Gesù ha il potere di portare salvezza. Le ragioni che adduce esprimono la sua profonda convinzione, oltre che la sua esperienza personale “perché la grazia sia grazia” (Rm 4,16; 11,6). Anche tra i neofiti, convertiti dal paganesimo, appare il pericolo di un ritorno al culto religioso che hanno appena abbandonato per amore di Gesù. Si sono convertiti a Gesù, ma il vecchio culto resta sempre un miraggio seducente nel loro subconscio religioso. Paolo ne sembra irritato, ed è con un tono venato di commozione che cerca di spiegare loro come, così facendo, finiscano per rinnegare il vero Dio che hanno appena imparato a conoscere: “Un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo” (Gal 4,8-11). “Correvate così bene; chi ha ostacolato il vostro slancio di sottomissione alla verità?” (Gal 5,7).
E i falsi idoli di oggi?
Paolo non scherza, parla seriamente! Dobbiamo chiederci se questa esortazione non si applica a noi, ancora oggi. Pensiamo forse che, almeno nei nostri paesi, venti secoli ininterrotti di cristianesimo abbiano definitivamente allontanato il pericolo dell’idolatria? Ma ci sono numerosi tipi di idoli, e i più pericolosi non sono quelli che plasmiamo con le nostre mani bensì quelli che portiamo inconsciamente nel cuore. Non esiste forse ancor oggi una religiosità che ha poco a che vedere con l’azione dello Spirito in noi? Una religiosità più o meno naturale e innata ma che, proprio per questo, non facilita il riconoscimento del vero Dio in Gesù. Anche noi potremmo deviare, a volte impercettibilmente, verso pratiche che non hanno nulla a che vedere con l’evangelo di Gesù, e sulle quali la grazia ha pochissima presa; atteggiamenti che al contrario rischiano di paralizzare la grazia nei nostri cuori. Questa tendenza all’idolatria, così ostinata negli ebrei dell’Antico Testamento, appare anche in noi: è come una malattia di cui portiamo il germe sempre attivo, anche se invisibile e poco noto, e che, nel momento in cui meno l’aspettiamo, può prendere il sopravvento sulla Parola di Dio in noi. Ciascuno di noi porta in sé dei germi di culti naturali, di osservanze legaliste, di ritualismi. La maggior parte degli uomini prova un sentimento vago e universale di Dio: esiste un Dio panteista, così come ne esiste uno romantico; c’è anche un Dio per i farisei – quel Dio al quale Gesù si oppose così strenuamente – grazie al quale possiamo porre tutta la nostra sicurezza e fiducia in noi stessi e nelle nostre opere. Un Dio simile ci sbarra la strada e ci impedisce di vedere il vero Dio e di riposarci in lui solo. Anche ciò che vi è di meglio può essere deformato, tutto può venir messo al servizio dei nostri idoli domestici. Anche la grazia può essere stornata in modo estremamente sottile per essere offerta – nel momento stesso in cui è ridotta a nulla – in onore del nostro idolo. Anche la Parola di Dio può essere mutilata, al punto che Paolo arriva a scrivere che a volte è falsificata (2Cor 4,2). La Parola può addirittura diventare una scappatoia, un pretesto per astenerci da un impegno nei confronti di Dio: possiamo maneggiare e manipolare la Parola di Dio con tale facilità da trasformarla in un baluardo fortificato attraverso il quale la grazia non può più aprirsi una breccia. Prendere coscienza del rischio che corriamo giova sempre perché le illusioni in questo campo sono frequenti. La virtù, la generosità, i desideri di perfezione o di santità, la liturgia, le tecniche di preghiera, addirittura quella che consideriamo come la nostra preghiera più intima, gli stessi sacrosanti principi della morale possono diventare un modo di fuggire Dio, uno sforzo disperato per evitare di ascoltarne la voce, per nasconderci lontano dal suo volto e da ciò che vuole dirci. Addirittura anche quello che facciamo per gli altri e per la chiesa di Cristo può essere solo un espediente, estraneo al nostro io più profondo, molto lontano anche da Dio e dalla sua voce nel nostro cuore. Lo stesso esercizio teologico, sia di stampo moderno che classico, può essere una fuga, un alibi che ci trascina in un mondo irreale di idee e di concetti da cui non nasce alcuna vita autentica. “Sei un teologo? – chiese un monaco del Monte Athos a un monaco occidentale che così gli si era presentato, e aggiunse -Oh! Un santo è un fiore vero. Ma il teologo, paragonato al santo, è solo un fiore artificiale: ne imita il colore, ma non effonde alcun profumo e neppure darà mai alcun frutto”. Ammettiamo onestamente di correre tutti questo rischio e anche di aver a volte ceduto all’illusione, bruciando ogni tanto qualche grano d’incenso davanti al nostro idolo. Eppure, anche questo è ancora una grazia e, per molti di noi, la prima grazia che ci tocca in sorte inevitabilmente: poco alla volta ci rendiamo conto che, durante lunghi periodi della nostra vita, siamo rimasti in quest’illusione, tagliati fuori dalla grazia e quindi anche da Dio, mentre continuavamo a immolare sacrifici al nostro idolo domestico. D’altronde tutto questo non ha nulla di tragico, innanzitutto perché capita frequentemente, addirittura così frequentemente da poter dire che, per la maggior parte di noi, questa illusione costituisce una tappa normale; secondariamente perché Dio così permette: Dio lo consente in modo provvisorio, e questo provvisorio può durare anche a lungo. D’altronde non chiameremmo idolo qualcosa che non avesse nulla a che fare con Dio, che non ne fosse un riflesso o una traccia nella nostra vita, e questo può condurci su una cattiva strada, ma magari anche su quella buona. Da secoli Dio si preoccupa instancabilmente di mostrarci il cammino verso di lui all’interno della sua creazione. Lo faceva già nel passato con i pagani, continua a farlo con i pagani di oggi e quindi anche con il pagano che si nasconde in ciascuno di noi, sotto la maschera della fede.
Maledire Dio
Dio ci sorprende con la sua pazienza disarmante: a volte lascia che questo stato di illusione duri per anni, per poi intervenire all’improvviso nella nostra vita, per farvi irruzione e detronizzare in un istante tutti questi idoli mandandoli in frantumi. E’ quanto di meglio ci può capitare, ma è anche un’esperienza terribile, che inizia in modo brutale, con una tentazione dolorosa e sconcertante. Meno eravamo coscienti di sacrificare al nostro idolo e più velocemente affiora in questo momento la peggior bestemmia mai sgorgata nel nostro cuore: Dio non esiste, Dio è morto! Dio era l’illusione. Effettivamente il Dio davanti al quale per anni ho bruciato incenso, quel Dio non esiste, non è mai esistito al di fuori della mia immaginazione: quel Dio è morto. E fin quando non lo fosse, dovrei preoccuparmi di farlo morire per essere in grado di stabilire il contatto con l’unico vero Dio e di prestargli attenzione. Io stesso avevo plasmato e fatto crescere quest’idolo, che non era altro che “opera delle mie mani”, come dice la Bibbia (cf. per es. Is 40,19-20), un pezzo d’oro, una pietra, un insieme di riti. Tutto ciò manifesta indubbiamente molte buone intenzioni, ma non è sufficiente quando si tratta di disporsi alla grazia per scoprire il Dio vivo e vero. Anche una vita di fede impegnata in diversi modi per il regno di Gesù può inconsciamente accompagnarsi all’idolatria ed essere, a nostra insaputa, nient’altro che opera delle nostre mani. Misuriamo questa vita sul metro dell’ideale che ci siamo fissati o che imponiamo a noi stessi e agli altri e per il quale siamo pronti a dedicarci, progettando incessantemente di realizzarlo meglio. Un esame attento delle preghiere universali nelle liturgie contemporanee, soprattutto quando sono spontanee, sarebbe estremamente istruttivo su questa forma sottile di idolatria, in cui il culto di se stessi non è certo assente… A volte abbiamo l’impressione che questo ideale sia troppo elevato per noi, che alla fine ci sfugga. Grazie a Dio! Ci sfuggirà e deve sfuggirci. Non è in nostro potere imporci al vero Dio: Dio non è alla nostra portata. Che la virtù ci sfugga, e Dio con lei, è un segno pieno di speranza che ci lascia intuire l’esistenza di qualcos’altro al di là di questo idolo che inseguivamo ciecamente. La conseguente delusione e l’impressione costante di scacco che ci affligge costituiscono la piccola fessura, appena visibile, attraverso la quale la grazia cerca di infilarsi in noi. Guai a noi se cerchiamo di otturare questa fessura, per dimostrare a noi stessi e a Dio, per l’ennesima volta, che ci resta ancora una possibilità di riuscire, a condizione – naturalmente – di fare ancor meglio, del nostro meglio… Fino a che la barca farà nuovamente acqua e un’altra fessura darà, ancora una volta, una possibilità a Dio e alla sua grazia. Il passaggio dall’idolo al vero Dio crea sempre un momento di sconforto, in cui siamo esposti alla dolorosissima tentazione di credere che Dio forse è veramente morto, oppure che, se esiste, non è Dio ma un terribile tiranno. Eccoci spinti al sacrilegio e alla bestemmia! E, meraviglia delle meraviglie, al cuore stesso della Bibbia: in certi libri della Bibbia la bestemmia è presente. Come infatti la Bibbia conosce l’idolatria, così conosce la tentazione della rivolta contro il vero Dio: la bestemmia e il sacrilegio. Il libro di Giobbe ne è l’esempio più lampante: vibra e scoppia di bestemmie. Ne possiamo concludere che le bestemmie non sono estranee a Dio: se appaiono nella nostra vita, hanno – in un modo o in un altro – qualcosa a che fare con lo Spirito santo che ha ispirato la Bibbia. Forse la bestemmia è un primo modo, molto imperfetto o, piuttosto, a rovescio, di dire qualcosa che si avvicini un poco alla verità su Dio. Giobbe non è capace di riconoscere Dio al cuore della tentazione che lo assale perché tra lui e Dio c’è un muro, il muro della buona teologia del suo tempo. Giobbe pensava che, essendo giusto, tutte le prove dovessero essergli risparmiate. Tale era l’immagine che ci si faceva di Dio a quell’epoca: Dio punisce solo i peccatori, mentre i giusti vengono ricompensati con la prosperità. In verità, era una visione molto ristretta di Dio, che aveva più a vedere con l’idolatria che non con il Dio di Israele, il quale un giorno avrebbe sottomesso alla prova il proprio Figlio. Ecco perché Giobbe è completamente disorientato dal fatto di esservi sottomesso a sua volta: protesta contro Dio e cerca di dimostrargli la propria innocenza. Né la moglie né gli amici lo potranno aiutare perché sono anch’essi prigionieri dei manuali di teologia del loro tempo: si danno un gran daffare per dimostrargli che Dio è giusto, secondo la giustizia molto convenzionale dell’epoca. “Dio ti punisce, – dicono a Giobbe – si occupa di te, e se gli piace trattarti così, significa che ne avevi bisogno. Dio vuole convertirti e correggerti: basta che tu riconosca di aver peccato e i tuoi beni ti saranno restituiti”. Il Dio di cui parlano è un Dio molto accettabile, senza paradossi: è il Dio di un sistema, a misura umana, facile da consolare e calmare, ma altrettanto facile da lusingare e da ingannare. E il Dio che possiamo attirare dalla nostra parte, renderci favorevole; è anche il Dio grazie al quale Giobbe potrà rimettere al loro posto i suoi amici, come loro fanno con lui, e assegnarsi il primo premio. E il Dio di cui abbiamo bisogno per essere degni di ammirazione, il Dio sui cui applausi possiamo sempre contare. Naturalmente a condizione di fare sempre al meglio ciò che è in nostro potere fare… Le bestemmie di Giobbe sono in stretta parentela con il clima da Dio è morto così presente nella letteratura e anche nella teologia di vent’anni orsono. Jean-Paul Sartre, per esempio, era in costante rivolta contro Dio, proprio come Giobbe. Esprimeva a volte un punto di vista amaro e non sempre sbagliato su alcune deformazioni della figura cristiana di Dio. Del resto è sempre più facile depistare l’idolo che non il vero Dio. Nella sua autobiografia Sartre ha una frase feroce per stigmatizzare l’atteggiamento religioso di suo nonno: “Mio nonno era un attore troppo bravo per non aver bisogno di un Grande Spettatore che chiamava Dio”. L’idolo di Giobbe è della stessa razza: Giobbe ha bisogno di un Dio che lo approvi e si congratuli con lui, che lo applauda per il bene che ha fatto. E se Dio non lo fa, Giobbe lo accusa e minaccia di intentargli un processo pubblico: “Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconoscerà la mia integrità (…). Ho detto la mia ultima parola: l’Onnipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diadema. Il numero dei miei passi gli manifesterei e mi presenterei a lui come un principe” (Gb 31,5-6.35-37). La risposta di Dio a Giobbe è piena di ironia acida e pungente: “Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai. Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere ragione tu? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Ornati pure di maestà e di sublimità, rivestiti di splendore e di gloria (…): io stesso sarò il primo a lodarti perché hai saputo trionfare con la destra” (Gb 40,7-10.14). Queste parole di Dio sono verissime: Giobbe infatti vorrebbe tutto sommato essere il salvatore di se stesso. Giobbe ha ancora bisogno di Dio se la propria destra può salvarlo? Inconsciamente Giobbe vuole essere il redentore di se stesso e quindi Dio a se stesso, con al proprio servizio un semplice idolo domestico: Dio dovrebbe già accontentarsi di contare ancora qualcosa! Ma quando il Dio vivo e vero si rivela, deve fare i conti con questo atteggiamento inconscio di Giobbe e con l’idolo che solo lui può infrangere. Giobbe stesso afferma che Dio interviene in modo sconcertante, che lo assale. Urla il proprio lamento: “Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero. (…) Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. (…) Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. (…) Mi ha disfatto da ogni parte e io. sparisco, ha sradicato, come un albero, la mia speranza. (…) Insieme sono accorse le sue schiere (…) e hanno posto l’assedio intorno alla mia tenda” (Gb 16,12-14; 19,6.8.10.12).
Le opportunità di Dio
Come reagisce Giobbe e come reagiamo noi a questa sfida di Dio? Facciamo così fatica ad abbandonare il nostro idolo per convertirci al vero Dio che ci sono solo due sbocchi possibili: negare Dio oppure negare noi stessi, cioè la bestemmia o il suicidio. O “Dio è morto”, oppure “Magari non fossi nato!”. Quando il nostro idolo va in frantumi, è tale il nostro smarrimento ed è talmente grande la nostra vulnerabilità di fronte al vero Dio che ci sembra più facile negare lui, oppure noi stessi – se Dio esiste, allora è meglio che noi scompariamo! – piuttosto che arrischiarci a un autentico incontro con lui. “Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: ‘Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E stato concepito un maschio! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai sudi esso la luce”‘ (Gb 3,1-4). Giobbe anela alla morte e lo ammette, la cerca come altri cercano una sorgente di acqua viva. Che Dio lo riduca a nulla, lo stermini: “Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un qualche conforto e gioirei, pur nell’angoscia. Che non mi risparmi!” (Gb 6,9-10). Questo miscuglio di sofferenza e di gioia in Giobbe si può facilmente capire: se Dio attentasse alla vita di Giobbe, diventerebbe il colpevole e fornirebbe la prova del suo torto. Con la sua morte innocente, di cui Dio solo avrebbe responsabilità, Giobbe si vendicherebbe di Dio e resterebbe così il più grande e il migliore. Poco fa parlavamo della letteratura moderna. Le bestemmie di Giobbe fanno pensare ancora una volta a Jean-Paul Sartre, anche se questi non era un credente come Giobbe. Sartre era non credente e voleva giustificarlo, ma tutti i suoi sforzi lo costrinsero, senza che se ne rendesse conto, al dilemma nel quale si trova impigliato Giobbe. Il Dio rifiutato da Sartre è anch’egli un idolo, un dio che dovrebbe applaudire chi fa il bene e punire il male commesso. Un dio che avrebbe dimostrato di non esistere se Sartre avesse potuto provare che il fatto di essere buoni o cattivi non ha alcuna importanza dato che il bene e il male, secondo Sartre, sarebbero nozioni contraddittorie. Sartre ha cercato di dimostrarlo nell’opera Le diable et le bon Dieu. In essa rappresenta un cavaliere medievale chiamato Goetz. Questi non è credente e, per dimostrarlo a se stesso, decide di compiere solo il male. Con sua grande sorpresa, non vi riesce: più cerca di fare il male e più i risultati sono buoni. Decide allora di inoltrarsi ancor di più sul cammino della rivolta contro Dio: prende la decisione di fare solo il bene e di diventare santo. Ma anche questa volta l’effetto è opposto: tutto il bene che compie ha dei risultati cattivi. In questo modo Goetz crede di aver dimostrato che il bene e il male non esistono e che dunque non c’è Dio. E quanto finirà per urlare a un prete: “Il cielo ignora perfino il mio nome. Mi chiedevo a ogni istante cosa potessi essere agli occhi di Dio. Ora so la risposta: nulla. Dio non mi vede, Dio non mi sente, Dio non mi conosce. Vedi questo vuoto sopra le nostre teste, è Dio. Vedi questo buco nella terra, è ancora Dio. Il silenzio, è Dio; l’assenza, è Dio. Dio è la solitudine degli uomini. Esisto solo io. Da solo ho deciso il male. Da solo ho inventato il bene. Io ho imbrogliato, io ho fatto miracoli. Sono io che oggi mi accuso, io solo posso assolvermi, io, l’uomo. Se Dio esiste, l’uomo e nulla. Se l’uomo esiste…”. Sartre si ferma qui. “Dio è nulla” non è uscito dalla sua penna, e con ragione. Chi leggerà questa pagina come legge le bestemmie di Giobbe nella Bibbia, vi intravvederà forse la confessione di Dio più commovente mai prodotta dalla letteratura del nostro secolo. Dietro l’espressione di questa teologia così negativa si cela un’evidente esperienza di Dio. Una sola volta, come ammette nella sua autobiografia, Sartre avrebbe incontrato Dio, ma ritenne che questo fugace incontro fosse sufficiente per scartare definitivamente Dio. Fu in occasione di un incidente avvenuto quando era ancora un bambino. Sartre giocava con i fiammiferi nel bagno di casa; per disgrazia il fuoco si propagò a un tappeto e, in un attimo, gli sembrò che la camera intera si incendiasse. Nell’angoscia che si impadronì di lui, ebbe la sensazione che Dio lo guardasse: “All’improvviso Dio mi vide. Sentii il suo sguardo dentro la testa e le mani. Mi aggiravo, orribilmente visibile, come un bersaglio vivente”. Sartre ritenne di aver detto no a Dio in quel momento, e Dio non mi guardo mai più Allora lo sguardo stesso di Dio diventa insopportabile, come accadde a Giobbe che, ben prima di Sartre, muoveva dei rimproveri a Dio: “Che è l’uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo? Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso? (…) Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!” (Gb 7,17-21). Come Sartre credeva di essere il bersaglio vivente di Dio, così Giobbe accusa Dio di fare di lui il bersaglio della sua azione sconcertante: ai suoi occhi Dio è un mostro, un custode disumano. Quest’ultimo termine è forse la bestemmia più orribile che Giobbe abbia potuto inventare. Stravolge le parole stesse di Dio, per poi scagliargliele contro. Nella Bibbia infatti, Dio è chiamato sovente il Nosher Israel, il custode d’Israele, colui che con sguardo attento e paterno osserva il suo popolo. Per il momento, Giobbe non può sopportare questo sguardo d’amore: è uno sguardo che, senza motivo spiegabile, lo ferisce a morte.
Il Dio conosciuto per sentito dire
Ma questo sguardo è lo stesso che può anche curare Giobbe e infine guarirlo: dopo interminabili bestemmie, il libro di Giobbe termina con un epilogo liberatore. Attraverso lo smarrimento e la disperazione, Giobbe ha pur imparato qualcosa, ha potuto intuire il volto del vero Dio: “Allora Giobbe rispose al Signore e disse: (…)Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto”‘ (Gb 42,1.3b-5). Il libro di Giobbe non si dilunga oltre sul modo in cui Giobbe è arrivato a questa comprensione, ma queste poche parole sono sufficienti per intuirlo. Giobbe non conosceva il vero Dio: si aspettava infatti un semplice idolo domestico, modellato da lui stesso, a sua misura e secondo i suoi gusti, l’opera delle proprie mani. Conosceva solo il Dio severo, oppure il Dio indulgente, e all’improvviso, al cuore della prova cui il suo idolo non può fornire soluzione, si imbatte nel vero Dio, che è fuoco divorante. Questo scontro dura settimane, mesi, e richiede interminabili discussioni con gli amici prima che Giobbe sia capace di riconoscere Dio e di sopportare finalmente il suo sguardo d’amore. Lo sguardo di Dio infatti è così diverso da come se lo aspettava… E uno sguardo che non approva né condanna, ma che lascia a Giobbe tutta la sua libertà: è uno sguardo unicamente amore infinito. Dio rimane sempre accanto a Giobbe, nella buona come nella cattiva sorte, nella malattia come nella morte. Dio non è a misura umana, non risponde puntualmente ai desideri di Giobbe, né ai suoi timori: ‘Dio ascolta Giobbe e lo prende così com’è. Non ascolta solo le sue buone intenzioni e i suoi progetti, ascolta anche le sue bestemmie, le sue invettive sacrileghe, la sua disperazione: ascolta con attenzione e amore. Dio avrà ragione di questa disperazione, in modo molto più facile che dell’originaria sicurezza di Giobbe: ora gli occhi di Giobbe si possono aprire. Solo la disperazione poteva insegnare a Giobbe qualcosa su Dio. Anche noi conosciamo Dio solo per sentito dire, a volte addirittura per molti anni. Anche noi, nella prova, reagiamo subito come Giobbe: il vero Dio viene a infrangere qualcosa in noi e noi cerchiamo di difenderci. Dio viene a spezzare i nostri idoli. C’è in noi una tale sicurezza, alla quale siamo pronti ad aggrapparci fino alla disperazione e contro la quale Dio non trova antidoto. Il suo scopo è quello di toglierci questa sicurezza, ma questo ci fa talmente soffrire e noi siamo talmente delusi da Dio che preferiamo maledirlo e bestemmiarlo e che a volte arriviamo fino a dubitare della sua esistenza, vorremmo vendicarci di Dio. Tutto questo non è grave perché anche nelle nostre bestemmie più amare continuiamo a gridare la nostra fede. Dietro ogni bestemmia si nasconde il vero volto di Dio, anche se viene presentato a rovescio. Dio stesso ci prende per mano per spossessarci di ciò che meglio conosciamo e a cui siamo attaccati corpo e anima: il piccolo idolo domestico che ci trasciniamo dietro da anni e al quale offriamo un culto come al vero Dio. Eccoci spalle al muro: come Sartre, come Giobbe, eccoci diventati il bersaglio vivente che Dio vuole mandare in frantumi per costruire qualcos’altro. Egli è infatti colui che “ferisce e medica la piaga” (Gb 5,18): dovremo accettarlo con una calma fiduciosa e un umile abbandono. Dovremo aspettare, con una gioia segreta ma profonda: a poco a poco Dio ci apre gli occhi, il suo sguardo libera il nostro. Finora l’avevamo conosciuto solo per sentito dire; presto, molto presto, lo vedremo con i nostri occhi.
LA POTENZA DELLA FEDE
I lettori di questo libro saranno in maggioranza credenti, il che significa, nella nostra terminologia, persone aderenti alla fede cristiana. Le parole fede e credente sono due termini che ci sembrano chiari e a proposito dei quali non ci poniamo questioni, proprio come per numerose altre parole del vocabolario religioso corrente. Ne consegue il rischio che, dopo un certo periodo di tempo, alcune sfumature fondamentali risultino logore o che delle accezioni secondarie finiscano per svolgere un ruolo molto più importante che all’inizio. Ecco perché a volte è bene sottoporre il nostro vocabolario abituale a un esame critico.
Come parlare della fede?
Per quanto riguarda il termine fede, una prima difficoltà proviene dall’uso di due aggettivi derivati: credente e non credente. Normalmente li utilizziamo per indicare due gruppi sociali ben definiti: ovunque incontriamo credenti e non credenti; la maggior parte della gente è in grado di dire senza esitare a quale gruppo appartiene. E un po’ come una professione, o una nazionalità, o uno stato civile; potremmo quasi indicarlo sulla carta d’identità, o sulla denuncia dei redditi, come del resto già avviene in alcuni paesi. Citiamo qualche altra espressione derivata dal termine fede che potrebbe sviarci: credibile e credulo. Noi diciamo che qualcosa è credibile quando sembra ragionevole. Senza volerlo, insinuiamo così che la fede ha qualcosa a che vedere con un’oggettiva verosimiglianza; una cosa non credibile è allora inverosimile. Questa stessa ambiguità inficia l’uso di credulo e incredulo. Un “Tommaso incredulo” è qualcuno che, a nostro giudizio, attribuisce troppa importanza alle regole della verosimiglianza, una persona alla quale non la si può far credere. Mentre, al contrario, credulo è chi non bada eccessivamente alla verosimiglianza e rasenta l’ingenuità. L’identica radice credere è così usata in contesti che hanno poco a che fare con la fede di cui parla l’evangelo. Quando parliamo della fede, pensiamo spontaneamente alle verità della fede. Una simile associazione orienta il concetto della fede in una direzione intellettualista e in parte già lo blocca. Chi parla di verità della fede pensa immediatamente a un manuale di teologia o di catechesi, in cui la Parola di Dio è esposta in maniera didattica. Una simile espressione didattica della fede ha ovviamente molta importanza, ed è bene che sia oggetto di estrema cura; ma è altrettanto importante che l’accento venga posto sulla differenza fondamentale tra la fede e un manuale, pur realizzato in modo esemplare. Posso benissimo sapere molto a proposito della fede, e anche condividere molto questa conoscenza con altri, senza mai compiere il passo decisivo della fede, che implica sempre un abbandono esistenziale a Gesù. La difficoltà può derivare in parte dal fatto che, secondo l’uso attualmente in vigore nella nostra chiesa, la maggior parte di noi è stata battezzata nell’infanzia e quindi abbiamo ricevuto la fede fin da piccoli. Noi proclamiamo che nel battesimo abbiamo ricevuto il dono della fede, di conseguenza siamo portati a credere che, a partire dal nostro battesimo, apparteniamo una volta per tutte alla categoria dei credenti. Questo è vero, ma solo in una certa misura. Senza voler mettere in discussione la prassi attuale della chiesa, dobbiamo tuttavia sottolineare che la fede ricevuta nel battesimo costituisce solo un inizio e non può, in nessun modo, dispensarci da un incontro personale con Gesù. Quando, ancora bambini, fummo battezzati, questo avvenne grazie alla fede della chiesa, rappresentata concretamente al nostro battesimo dai nostri genitori e da padrino e madrina. Costoro si impegnarono a sostenere la fede che veniva donata, ma che era ancora inconscia nel bambino, e ad accompagnarne lo sviluppo fino a un autentico incontro di fede con Gesù. Senza questo impegno dei genitori, del padrino e della madrina, la chiesa non permetterebbe mai di amministrare il battesimo a dei bambini piccoli. Questo perché, senza catechesi, la fede del piccolo battezzato continuerebbe a sonnecchiare nel cuore a tempo indefinito e finirebbe per soffocare. Ci potremmo naturalmente chiedere se una simile fede inconscia non continui a sonnecchiare a lungo anche in molti cristiani adulti, a causa del fatto che nessuno ha aiutato lo sviluppo della grazia ricevuta o che l’aiuto prestato era così estraneo alla grazia che i suoi frutti sono appena visibili. In molti casi, non si fa altro che aggiungere a questa fede inconscia un sistema di verità puramente intellettuale, mentre sul piano dell’agire concreto ci si limita a trasmettere alcuni principi di buona educazione, chiamati morale. Ma solo raramente si è insegnato come confrontarsi concretamente a questa fede ricevuta, come essere attenti alla vita della grazia in sé e come vivere e amare in sintonia con questa vita. Allora, quando verrà anche per noi il momento di trasmettere questa fede ai più giovani, ne saremo assolutamente incapaci. Chi non ha mai scoperto il cammino della grazia in sé, non potrà neanche mai insegnarlo ai propri figli. A sua volta si accontenterà di trasmettere un insieme più o meno corretto di verità sulla fede, e nel contempo si sforzerà di dare l’esempio di una vita leale e irreprensibile, ma in cui la grazia ha pochissimo a che fare.
Lo stupore di Gesù
Le fede non è cosa facile, non può diventare pretesto a scappatoie; non è nemmeno una via rapida: anche qui sono necessari tempo e pazienza. “Signore, credo, vieni in aiuto alla mia poca fede!” (Mc 9,24). Per meglio capire la fede è opportuno tornare all’evangelo e, più in particolare, alla pericope in cui Gesù loda la fede di qualcuno come non ha mai fatto altrove. Si tratta della fede di un centurione romano, capace di stupire a tal punto Gesù da fargli dichiarare di non aver mai trovato una fede così grande, nemmeno in Israele (cf. Mt 8,10). Nei sinottici ci sono solo due circostanze in cui Gesù manifesta un certo stupore: è sorpreso dalla fede del centurione e dalla mancanza di fede dei suoi concittadini di Nazaret. Marco lo dice esplicitamente: “E si stupiva della loro mancanza di fede” (Mc 6,6), e aggiunge che là non poté operare nessun miracolo. Fermiamoci un attimo su questo pubblico che non crede in Gesù. La loro mancanza di fede è effettivamente sorprendente: si tratta in fondo di concittadini, di persone di Nazaret, forse addirittura dei vicini di Gesù, quindi di gente che conoscono Gesù da anni. Sono vicinissimi a Gesù: posizione eccezionale, forse pensiamo noi, per conoscerlo e sondarlo. Forse a volte siamo tentati di pensare che la fede sarebbe stata molto più facile se anche noi avessimo potuto essere contemporanei e concittadini di Gesù. L’evangelo lascia trasparire esattamente il contrario, e Gesù lo sottolinea ancora, come una cosa scontata: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria” (Mc 6,4). Più si è vicini a Gesù, umanamente parlando, più è difficile credere in lui. Questo può apparire ancor più sorprendente dato che gli abitanti di Nazaret incontrati da Gesù in sinagoga nel giorno di sabato sono tra gli ebrei più credenti del loro tempo. Non solo conoscono la legge, ma frequentano la sinagoga, dimostrando di essere fedeli ferventi. Nonostante credano nella Parola di Dio, non arrivano a credere in Gesù, al contrario si scandalizzano delle sue parole, il che conferma la loro appartenenza alla categoria dei cosiddetti “devoti”. Chi non fosse stato pronto a sacrificare ogni cosa per la religione non si sarebbe scandalizzato alle parole di Gesù. Forse avrebbe sorriso, oppure alzato le spalle, ma non si sarebbe certamente scandalizzato e tanto meno sarebbe intervenuto. Indubbiamente abbiamo a che fare con persone ferventi e profondamente religiose, eppure non hanno riconosciuto Gesù, non hanno avuto fiducia nelle sue parole, non credono ai suoi miracoli. Qualcosa in loro rimane bloccato e sono incapaci di aprire il chiavistello. Sembra addirittura che più sono vicini a Gesù, più professano lealmente la loro religione e ne osservano con generosità le prescrizioni, e più diventa difficile per loro abbandonarsi alle parole e alla persona di Gesù, con quella fede che Gesù richiede loro. In realtà, lungo tutto l’evangelo sono le persone meno raccomandabili – pubblicani, peccatrici o stranieri – che, in questo ambito, precedono di gran lunga i pii e credenti ebrei. Il centurione di cui Gesù tanto ammira la fede è proprio una di queste figure: non solo è un non credente, ma è addirittura uno straniero. E non è neanche uno straniero “neutro”, bensì un ufficiale dell’esercito d’occupazione romano, quindi un nemico. Sembra però nutrire qualche simpatia per gli ebrei; sotto l’uniforme ha probabilmente conservato un cuore d’oro – uno degli evangelisti ci informa che ha fatto costruire addirittura una sinagoga (cf. Lc 7,5) – ma non è un ebreo credente. Tuttavia appare in grado di dare il proprio cuore e la propria fiducia a Gesù: lui ha ricevuto questa fede rara che Gesù si augura così ardentemente. Analizzando più da vicino questa pericope ci verrà svelato qualche aspetto di questa fede del centurione. Il primo aspetto che colpisce in quest’uomo è la consapevolezza della propria piccolezza. E vero che il centurione si trova nella situazione di chi grida il proprio dolore e ha bisogno di essere aiutato e quindi tende la mano verso Gesù: un servo che gli è molto caro è gravemente malato. Tuttavia avrebbe anche potuto agire in modo diverso. Ufficiale dell’esercito d’occupazione avrebbe potuto rivendicare ben altrimenti l’aiuto di quel taumaturgo: perché non convocarlo d’autorità ed esigere un intervento? Ecco invece che si mette lui stesso in cammino – un intera giornata di viaggio – per andare incontro a Gesù. Non solo, ma percepisce di non avere il minimo diritto su Gesù, di non poter neppure esigere una sua visita: è un semplice pagano! Quando Gesù gli annuncia, come cosa scontata, che ha intenzione di spostarsi per guarire il suo servo, la sua reazione sgorga spontanea: “Signore, non sono degno”. E un incir conciso, un non credente e, nonostante abbia fatto costruire una sinagoga, non appartiene al popolo eletto. Resta all’ultimo posto, al limite della soglia, e confessa la sua piccolezza davanti a Gesù: “Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto”. Il secondo elemento che colpisce nell’atteggiamento del centurione è la sua fiducia illimitata in Gesù. Molti ebrei nutrivano dei dubbi nei confronti di Gesù, lui invece credeva fermamente che Gesù potesse guarire e che di fatto avrebbe guarito. Una convinzione così solida è possibile solo perché il centurione avverte che esiste già un legame personale tra lui e Gesù: ha capito che Gesù stava per compiere qualcosa per lui. E già molto di più che il credere nella potenza di guarigione di Gesù o nel messaggio che annuncia: credere che Gesù farà qualcosa perché è ben disposto verso di lui dimostra che il cuore del centurione si è aperto a Gesù. Si tratta forse già di un inizio di amicizia: una fiducia simile colpisce Gesù molto profondamente. Gli è sempre più difficile rifiutarsi di intervenire dal momento che gli viene rivolto un appello personale. Il centurione in definitiva è cosciente della potenza che risiede nella parola di Gesù: “Di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. Pensa che sia inutile che Gesù venga di persona: basta che dia un ordine. Questa reazione è d’altronde tipica in un ufficiale che sa per esperienza cosa significano gli ordini e l’obbedienza. Basta una parola: “Vieni, ed egli viene; va’ ed egli va”. Il centurione, con la sensibilità tipica del soldato romano, si avvicina già moltissimo all’abbandono e all’obbedienza di fede che ogni ebreo cerca di vivere nei confronti della Parola di Dio e della potenza che vi si cela: la fede di Israele è costituita da un abbandono totale alla parola di Qualcuno in cui pone la massima fiducia, da un si alla Parola di Dio.
Consenso e abbandono
In ebraico, il termine “fede” (emunah) deriva dal radicale emeth, fedele, che è uno degli attributi maggiori di Dio. Dio è misericordioso e fedele (cf. Gen 24,27); potremmo anche tradurre: tenerezza e saldezza. Emeth infatti suggerisce l’idea della roccia sulla quale ci si può appoggiare e si può edificare. Dio non viene meno: potremo sempre contare su di lui. Credere significa appoggiarsi su questa saldezza di Dio. Anche Amen deriva dalla stessa radice: dire Amen significa credere al massimo grado, acconsentire alla saldezza di Dio come questa si impone a noi nella sua Parola o nella persona di Gesù. Anche di Gesù infatti è detto che è nel contempo Amen e Pistos, fedele (Ap 3,14). Lo è in un duplice senso: Gesù può innanzitutto appoggiarsi smisuratamente e addirittura quasi temerariamente su suo Padre, perché può contare ciecamente sulla sua potenza e la sua saldezza. Diventa così per noi il vigore e la potenza per eccellenza, sulle quali possiamo a nostra volta appoggiarci senza limiti né esitazioni. La fede del centurione sgorgava dalla necessità in cui si dibatteva ma, prima di ogni altra cosa, era fiducia in Gesù e abbandono nella sua Parola, fino all’obbedienza totale. La fede quindi non è solamente, o per lo meno innanzitutto, consenso ad alcune verità di fede riguardanti Gesù, bensì accettazione di Gesù stesso, con tutta la potenza che ha ricevuto dal Padre, il che include una rinuncia totale alla nostra persona a suo favore. Perciò l’importante non è solo che crediamo qualcosa riguardo a Dio – per esempio, che esiste -, oppure che crediamo a Dio quando ci parla, bensì che noi crediamo in Dio, o meglio verso Dio nel senso dell’accusativo greco, e latino, di movimento, come è rimasto nel Credo (pisteuein eis ton theon; credere in Deum). La nostra fede è un movimento verso Dio, una fede che ci scuote e ci trascina, una fede che è esodo da se stessi e immissione in Dio: tale era la fede del centurione. Così ogni giorno posso aggrapparmi alle parole di Gesù che salva e chiedergli: “Di’ soltanto una parola e io sarò guarito”. Una fede simile costituisce uno sconvolgimento radicale: l’uomo è invitato a uscire da se stesso, impara a dimenticarsi e ad abbandonarsi per lasciarsi raggiungere dalla Parola viva e onnipotente di Dio, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Una di queste è che, in virtù della fede, riceviamo la potenza stessa di Dio. La fede infatti non è solo il cammino per il quale possiamo aderire a Dio e raggiungerlo, è anche la via che Dio apre alla sua potenza e alla sua forza per operare meraviglie in tutto il mondo.
La fede che opera meraviglie
Nella pericope dell’evangelo citata poc’anzi, ci viene ricordato che Gesù non poté operare miracoli nella sua patria a causa della mancanza di fede degli abitanti di Nazaret. Gesù in quel luogo non era spogliato della sua potenza, ma questa era infiacchita, avversata dalla mancanza di fede. Gesù non può intervenire nella nostra vita finché non ci consegniamo totalmente a lui, a partire dalla nostra debolezza, e purtuttavia con piena e totale fiducia. Gesù si pone davanti a ogni uomo con tutta la pienezza del suo amore e della sua potenza, ma la maggior parte di noi non è innestata in lui: ecco perché non può intervenire. Gesù va in cerca della nostra estrema povertà, accompagnata dal nostro cieco abbandono. E questo il terreno dove oggi, con la sua potenza e attraverso la nostra fede, si accinge a compiere meraviglie. Nell’evangelo Gesù si mostra sempre felicemente sorpreso di fronte alla fede che scopre nell’uno o nell’altro: “Va’ – dice al centurione – e ti avvenga secondo la tua fede” (Mt 8,13). Non è l’unico caso in cui Gesù attribuisce la sua azione di taumaturgo alla fede dei suoi ascoltatori. I miracoli non sembrano essere opera unicamente sua, ma appaiono essere anche alla portata di quanti chiedono miracoli. Quante volte Gesù attribuisce la guarigione da lui operata alla fede del malato: “La tua fede ti ha guarito” (Mt 9,22; Lc 8,48; 17,19; 18,42 epassim). Gesù dà addirittura l’impressione di cedere e di capitolare di fronte alla fede profonda di una cananea: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti avvenga secondo il tuo desiderio!” (Mt 15,28). Gesù cede al punto di obbedire alla fede di colei che lo supplica: come la mancanza di fede lo paralizza, così la fede libera la potenza di Gesù. Questo è il meraviglioso dialogo della fede tra Dio e l’uomo: Dio è il primo a parlare e si aspetta da noi che ci abbandoniamo alla sua Parola, quando questa ci avrà afferrati. Non appena questo accade, Dio diventa, per così dire, l’umile servitore di chi ha tutto abbandonato per lui. Da quel momento, Dio non è più il solo a essere Onnipotente: chi crede e si affida a questa Onnipotenza lo è altrettanto. Maria è stata la prima ad abbandonarsi così alla Parola di Dio che gli fu rivolta dall’angelo Gabriele: “Avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Ma al cuore del dialogo di fede, Dio ribalta questa frase e ce la rimanda: “Vi avvenga secondo la vostra fede” (Mt 9,29); “Ti avvenga secondo il tuo desiderio!” (Mt 15,28). In questo modo la nostra fede è simile a un grembo reso fecondo dalla potenza della Parola di Dio, che a sua volta partecipa della potenza di Dio non appena questa Parola è accolta in un abbandono totale. Allora più nulla è impossibile, al contrario: “Tutto è possibile per chi crede”, dice Gesù (Mc 9,23). E la fede è ampiamente sufficiente. Il centurione aveva detto a Gesù: “Di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” (Lc 7,7), ma questa stessa richiesta è ribaltata da Gesù: “Non temere, solo abbi fede…” (Lc 8,50), una fede piccola come un granello di senape (Mt 17,20), e il miracolo avverrà. Appare ora evidente come l’oggetto della nostra fede non è innanzitutto un insieme di verità da esprimere e da confessare: questo avverrà nella tappa successiva che procede dalla nostra stessa esperienza di fede. L’oggetto della fede è innanzitutto la meravigliosa potenza di Dio presente, per noi e per tutti, nella Parola di Dio, nei segni della salvezza che avvengono nella chiesa, ma soprattutto nel Signore risorto, Gesù Cristo. Dobbiamo credere nella potenza sprigionata una volta per tutte dalla resurrezione di Gesù, potenza che, attraverso la nostra fede, ricade su ciascuno di noi e sul mondo intero. Attraverso la nostra fede, la potenza della resurrezione di Gesù è messa a disposizione di tutti: “Supplico il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, perché vi dia uno spirito di sapienza e di chiarezza nella conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere (…) qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,17-20) La fede ci apre alla potenza di Dio: siamo liberati nel nostro intimo e il nostro cuore è salvato. E come se Dio aprisse un chiavistello nel nostro io profondo e spalancasse una porta attraverso la quale può farsi breccia per inondarci come un torrente e trascinarci nell’amore e nell’Onnipotenza che ci fa rivivere, similmente a quanto è accaduto il mattino di Pasqua, quando Gesù è risuscitato dai morti in virtù dell’onnipotenza della gloria del Padre. La fede è questo evento sorprendente che si impadronisce non solo della nostra intelligenza, ma di tutto il nostro essere. Ne usciamo rimpiccioliti e, per così dire, come sperduti: piccoli nei confronti di noi stessi, degli altri e di Dio, eppure mai schiacciati, anzi, liberati ad opera di questa illimitata fiducia in lui “che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare” (Ef 3,20), e sempre disponibili per i miracoli che il Signore Gesù continuerà a compiere attraverso la nostra fede. Non c’è dubbio che Dio è incessantemente all’opera nella chiesa e nel mondo, ancora oggi. Ma solo la nostra fede può scoprire questi miracoli continui e arrivare a vivere come circondata di miracoli: all’infuori della fede, non esistono altri mezzi per percepire l’opera di Dio. I cristiani sono chiamati a rendere visibili i miracoli di Dio nella chiesa di oggi. Ogni cristiano deve permettere alla potenza e alla fedeltà di Dio di realizzarsi nella propria vita. D’altronde, la sua stessa fede costituisce la primissima meraviglia di Dio, come il centurione era lui stesso un miracolo di Dio, ben prima che il suo servo fosse guarito. La nostra fede rimanda dunque a Dio, a colui che la Bibbia definisce come il testimone fedele per eccellenza (cf. Ap 1,5), colui che resta indefettibile e incrollabile nei nostri confronti, la roccia alla quale ci possiamo appoggiare e il fondamento sul quale possiamo costruire. Ogni volta che Dio ci fa comprendere, nel nostro intimo, che dei miracoli stanno per avvenire in noi e attorno a noi, è il segno che cominciamo lentamente a credere. Dio infatti non compie miracoli soltanto affinché si creda, ma perché alcuni uomini credono e si sono aperti con fiducia alla sua onnipotenza. I miracoli scaturiscono dalla loro fede, gli sfuggono dalle mani a loro insaputa, prima ancora che costoro possano sospettarlo. La fede non è altro che questa esperienza, sempre a tentoni, dell’amore onnipotente di Dio: un’esperienza cosciente di essere lei stessa un miracolo di questa potenza e, nei limiti voluti da Dio, un segno luminoso per tutti gli uomini.
CRESCERE MEDIANTE LA TENTAZJONE
Nel capitolo precedente abbiamo visto che Dio resta incrollabilmente fedele a noi: ebbene, questa fedeltà appare in maniera clamorosa nell’ora della tentazione. Non c’è fede che non sia tentata, come non c’è albero che non debba essere potato per portare più frutto (Gv 15,2). La Bibbia non ripete forse che la fedeltà di Dio si afferma, si rende visibile soprattutto nella tentazione? E inoltre, non ci ricorda forse quanto è necessario per noi attraversare la tentazione per crescere nella fede? Ascoltiamo Paolo: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). Ma c’è soprattutto il famoso testo con il quale Giacomo inizia in modo così rude la sua lettera: “Miei fratelli, considerate piena letizia quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la perseveranza. E la perseveranza perfezioni l’opera in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc 1,2-4).
La carne debole
Ma l’uomo sopporta di essere costantemente nella tentazione per diventare così miracolo continuo della grazia di Dio? L’evangelo ci ricorda in svariati modi che i nostri progressi su questa strada avvengono assai di rado in linea retta. La notte precedente la passione, quando Gesù aveva accennato con discrezione al modo poco coerente con cui i discepoli avrebbero cercato di camminare sui suoi passi, Pietro, come suo solito, aveva protestato energicamente: “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai!”. E dopo che Gesù gli fece notare che proprio lui stava per rinnegarlo, Pietro non esitò a puntare ancora più in alto: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò” (Mt 26,30-35). Subito dopo cadde, nonostante la duplice esortazione di Gesù: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mt 26,41). Nessuno può sottrarsi a queste parole di Gesù: anche se il nostro spirito è più o meno ardente, la nostra carne rimane incurabilmente debole. Nessuno può sfuggire a questa disarmonia che arriva fino a una vera lotta tra le due realtà. In qualsiasi esperienza cristiana bisogna vivere così: combattuti tra il fervore e la debolezza, bisogna cioè vivere nella tentazione. Pietro, che diventerà il testimone principale della resurrezione di Gesù e sul quale poco dopo verrà edificata la chiesa, è anche quello che ha dovuto confrontarsi per primo con la tentazione e che, per primo, è stato trovato mancante ed è caduto. Il rinnegamento della notte della passione non è d’altronde privo di precedenti, Pietro non è al suo primo passo falso. Quando Gesù annunciò per la prima volta la passione e la resurrezione che lo attendevano, Pietro si preoccupò immediatamente di distrarlo da queste idee cupe: Dio te ne scampi, Signore! Questo non ti accadrà mai!’. Ma Gesù, voltandosi, disse a Pietro: ‘Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini!”‘ (Mt 16,22-23). Solo quando il Padre 10 assiste in modo particolare Pietro è in grado di confessare che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente: rivelazione che gli sfugge totalmente quando si lascia guidare dalla carne e dal sangue (cf. Mt 16,17), cioè quando si basa su modi di vedere umani. Per precederci nella chiesa e nell’amore di Gesù, Pietro deve innanzitutto precederci nella tentazione. Questo legame è chiaramente espresso da Gesù stesso quando annuncia il rinnegamento di Pietro, secondo l’evangelista Luca: “Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31-32). In queste parole di Gesù troviamo i temi già incontrati nei primi capitoli di questo libro: la tentazione – il vaglio è l’immagine della grande tentazione alla fine dei tempi (cf. Mt 3,12) -, la fede messa alla prova, la conversione che segue la tentazione. Sarà solo dopo essersi dibattuto fino all’estremo in questa tentazione e in questo processo di conversione che Pietro potrà, grazie alla propria esperienza, confermare e guidare i propri fratelli nella stessa prova. E proprio grazie all’esperienza vissuta che Pietro può sapere come la debolezza e la grazia procedono insieme e si accordano l’una all’altra in ogni discepolo di Gesù. Bisogna sottolineare il fatto che, per nominare un capo, Gesù non cerca un modello di virtù e di perfezione da poter essere contemplato e imitato, secondo le possibilità, dai cristiani di tutti i tempi. Se così fosse, Pietro non avrebbe potuto essere preso in considerazione. I tratti che ci hanno lasciato di lui gli evangeli ce lo descrivono in modo trasparente e pittoresco: un gran brav’uomo, rude pescatore, impetuoso e avventato, non sempre capace di dominare i propri sentimenti. E evidentissimo che ama Gesù e gli è perdutamente affezionato: più commette sbagli e si fa rimproverare da Gesù, e più lo ama. No, Pietro non è un modello di virtù, ma è capace di trasmettere l’esperienza che lui stesso ha vissuto grazie all’amore per Gesù e ne potrà sempre rendere testimonianza. Certamente la tentazione l’ha fatto traballare, ma al cuore di questa e nel più profondo della caduta è stato meravigliosamente liberato da Gesù. In realtà, tutto è cominciato già al momento della chiamata: il racconto di Luca lascia trasparire il dialogo avviato tra la debolezza di Pietro e la forza della grazia (cf. Lc 5,1-11). All’inizio Pietro partecipa appena all’evento, alla fine di una brutta nottata: non che non sia riuscito ad addormentarsi, ma non ha proprio dormito del tutto, ha dovuto pescare tutta notte senza alcun risultato. Pietro non doveva certo essere di buon umore mentre controllava le reti, non lontano da quel giovane rabbi intento ad annunciare qualche messaggio ai suoi ascoltatori: se Pietro ascoltava, lo faceva in modo distratto. Non sembra che Gesù avesse notato Pietro che, da parte sua, non conosceva ancora Gesù; tuttavia è proprio quest’ultimo a fare il primo passo: sale sulla barca di Pietro e gli chiede di allontanarsi da riva. La folla lo incalzava ed egli voleva parlarle dalla barca, a una certa distanza. Pietro fu indubbiamente colpito dal fatto che Gesù si rivolgesse a lui: ecco che Gesù gli parla da uomo a uomo, gli chiede un servizio. Pietro non resta insensibile: acconsente alla richiesta e si trova obbligato a prestare attenzione alle parole di Gesù. A questo punto arriva il secondo passo di Gesù: terminato il discorso, invita Pietro a pescare: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca”. Tra Gesù e Pietro è nata una certa simpatia, Pietro può difficilmente rifiutare, anche se sa che in quella zona non ci sono pesci. Accenna a una protesta ricordando lo scacco della notte, ma finisce per arrendersi alla proposta di Gesù. Intuisce forse che Gesù può rimediare a quell’insuccesso? In ogni caso, Pietro si rivolge ora a Gesù in modo familiare, quasi intimo: anche in mancanza di pesci “sulla tua parola getterò le reti”. Questo abbozzo di fiducia permette a Gesù di porre un nuovo gesto: il miracolo della pesca. Pietro prende molti più pesci di quanto avrebbe mai potuto sperare, addirittura più di quanti ne potessero contenere le reti. Ha bisogno di aiuto e tutte e due le barche si riempiono fino quasi ad affondare. Pietro potrebbe adesso ringraziare Gesù per il prodigio insperato ma, nel frattempo, qualcosa è avvenuto in lui: la pesca miracolosa non gli ha soltanto fatto dimenticare la brutta notte. Molto più in profondità dello scacco umano, la pesca ha messo a nudo in lui uno scacco ben più grave e fondamentale. Attraverso il miracolo Gesù ha improvvisamente colpito il peccato di Pietro: “Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: ‘Signore, allontanati da me che sono un peccatore!”‘ Pietro non dice: rabbi, maestro, bensì Kyrios, Signore: è il nome riservato a Dio. In Gesù, Pietro ha riconosciuto Dio; nello stesso istante prende coscienza di essere solo un peccatore. E’ qualcosa di estremamente normale: appena Gesù si rivela, il nostro peccato è messo in luce; e viceversa: ci è impossibile vedere veramente il nostro peccato finché non siamo nella luce di Gesù. Pietro viene così messo a confronto con lo scacco che rappresenta per se stesso e che osa svelare a Gesù. Porta in sé lo scacco più nascosto, più desolante e all’improvviso ne prende coscienza: non è nient’altro che un poveraccio, addirittura un peccatore. E come peccatore, è convinto di non aver nulla a che fare con Gesù, né Gesù ha nulla a che fare con lui: “Allontanati da me che sono un peccatore!”. Enorme sorpresa! E esattamente il contrario che è vero: la confessione stessa di Pietro permette a Gesù di compiere un ultimo passo per mettere alle strette Pietro, a meno che non sia stato Gesù a provocare la confessione di Pietro. In ogni caso, il riconoscimento e la confessione del peccato obbliga entrambi a riconoscersi vinti. Non appena Pietro confessa il suo peccato, Gesù può agire e perdonare; non appena la ferita è scoperta, Gesù può esercitare la sua potenza guaritrice e, per così dire, ricostruire Pietro, ricrearlo: “D’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Non è per nulla sorprendente che, nel momento stesso in cui Gesù chiama Pietro, si imbatta nel suo peccato. Gesù non va in cerca di nessuna qualità eccezionale nei suoi primi discepoli: quello che cerca è la loro debolezza, i loro scacchi inconsci, le loro colpe insospettate, tutte quelle zone malate di ogni uomo che hanno bisogno del suo amore, che possono essere colte e assunte solo dall’amore, sulle quali il suo amore può intervenire con la sua onnipotenza. Gesù è venuto fino a noi proprio per prendere su di sé la nostra debolezza e per trasformarla in forza. E morto una volta per tutte al peccato e il Padre l’ha risuscitato dai morti per una vita nuova.
La forza di Dio nella debolezza
Una delle più antiche professioni di fede della chiesa, e una delle più convincenti, citata da Paolo nella sua seconda lettera ai Corinti, esprime chiaramente questa tensione salutare tra la tentazione e la vittoria, tra la debolezza e la forza, fino ad applicarla alla pasqua di Gesù: “Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4). Gesù fu crocifisso ed è morto a causa della debolezza dell’uomo, debolezza che ha preso su di sé fino all’estremo; ma a partire da questa debolezza è risuscitato e ora vive per la potenza di Dio. Proprio in questa debolezza, che è la nostra, Gesù ha incontrato la potenza di Dio, ed è a partire da questa debolezza che Dio lo ha risuscitato a nuova vita. Anche per Gesù la debolezza dell’uomo e stata il cammino che gli ha permesso di incontrare la potenza del Padre. Ecco perché il discepolo che vuole servire Gesù nel suo cammino deve necessariamente accettare a sua volta la propria debolezza e quindi la tentazione. Dopo che Gesù ha sofferto la nostra debolezza e ne è morto per risorgere, la potenza di Dio è nascosta al cuore di ogni debolezza umana, come un seme che si prepara a germinare grazie alla fede e all’abbandono. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza, la potenza di Dio non può agire in noi. Naturalmente possiamo fare qualche sforzo per correggere un po’la nostra debolezza, ma iù realtà non serve a nulla: la meraviglia della potenza di Dio e la meraviglia della nostra conversione restano al di fuori della nostra portata. Cerchiamo di risolvere i nostri problemi con un misto di buona volontà e di generosità, facciamo del nostro meglio per condurre una vita virtuosa e giusta, ci appoggiamo su buoni propositi e sulle nostre energie naturali, tentiamo di farcela a partire dalla nostra lealtà e generosità… Tutto questo dura per un po’, finché non rischiamo la disfatta e arriviamo al bordo del precipizio. Grazie a Dio! Altrimenti non avremmo mai potuto convertirci e saremmo rimasti al servizio delle nostre illusioni e dei nostri idoli, ignorando l’autentica fede, per quanto possa essere piccola… come un granello di senape. Sarà addirittura necessario che noi un giorno sprofondiamo, per fare l’esperienza concreta della nostra debolezza, quella debolezza in cui potrà finalmente dispiegarsi la potenza di Dio. Come è capitato a Pietro, che non poteva riconoscere Gesù finché annoverava se stesso tra i giusti, ma che si colloca tra i peccatori non appena Gesù si rivela veramente a lui. Come ha detto a chiare lettere, Gesù non viene per i giusti ma solo per i peccatori (cf. Mt 9,13). E qui in gioco un dato essenziale di ogni esperienza cristiana, che è indubbiamente l’unica condizione per essere toccati dalla grazia e per potervi acconsentire. Paolo esprime questo dato più o meno negli stessi termini: costretto dagli avversari a elencare tutti i propri meriti, nella speranza di far accettare la sua testimonianza, comincia con il vantarsi di tutto quello che ha ricevuto e che lo pone in buona luce agli occhi di quanti dubitano della sua missione. Ma alla fine preferisce vantarsi delle proprie debolezze: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,7-10). In cosa consista concretamente questo “inviato di Satana” incaricato di schiaffeggiare Paolo non interessa il nostro discorso. Tuttavia, dal contesto, sembra trattarsi di una forma di tentazione nella quale Paolo era messo di fronte in modo bruciante alla propria debolezza, al punto che cercava rifugio nella preghiera e supplicava il Signore di liberarlo. Forse Paolo aveva paura di fronte alla propria debolezza? Era forse un’idea per lui intollerabile? In ogni caso, Gesù non cede: la tentazione non viene risparmiata a Paolo, perché è molto più vantaggioso per lui restare nella tentazione in modo da imparare come la potenza di Dio è capace di agire al cuore della debolezza. Né la forza di Paolo, né la sua vittoria personale hanno qui importanza, ma unicamente la sua perseveranza nella tentazione e, al contempo, nella grazia. La grazia non viene a innestarsi sulla nostra forza o sulla nostra virtù, ma unicamente sulla nostra debolezza. Allora basta ampiamente, e noi siamo forti solo quando la nostra debolezza ci diventa evidente: è il luogo benedetto in cui la grazia di Gesù può sorprenderci e invaderci.
Riconciliarsi con la propria debolezza
Quanto abbiamo appena detto non è immediatamente evidente nell’esperienza quotidiana della vita spirituale. La maggior parte di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando ci appare, in modo più o meno brutale, la nostra debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna aver già una certa esperienza dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e riconciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere la minima traccia di debolezza in se stessi, il che è molto grave. La vita di costoro può sembrare molto generosa, perché fanno degli autentici sforzi, ma nel contempo sarà sempre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, prossime all’accecamento spirituale. Grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi che portiamo sempre con noi. Spontaneamente pensiamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al peccato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debolezza e dal male e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce con noi: la santità non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno. Sfuggire alla debolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abbandonati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio. È quanto è capitato a Pietro: aveva appena rinnegato il suo Maestro per la terza volta, che “il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito, pianse amaramente” (Lc 22,61-62). Che cosa ha significato quello sguardo per Pietro, possiamo solo immaginarcelo. Non fu certo una condanna: “Non sono venuto per condannare”, dice Gesù stesso (Gv 12,47). Non fu neanche un rimprovero, ma solo un amore dolce e ardente: “Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. (…) Come un padre è tenero con i suoi figli, così è tenero il Signore” (Sal 103,8.13). E questo proprio nel momento in cui Pietro è venuto meno nei confronti di Gesù e si scopre in flagrante delitto di tradimento. In quella precisa situazione lo sguardo d’amore di Gesù lo tocca e lo ferisce e, nello stesso istante, gli offre il suo perdono d’amore. E non si limita ad accordargli il perdono, ma chiama Pietro a una nuova vita: da quel momento, infatti, Pietro è diventato un altro uomo, il suo intimo vacilla, il suo cuore si scioglie, ora sa cos’è l’amore. “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Pietro scoppia in lacrime, lacrime che testimoniano la ferita prodotta dallo sguardo di Gesù, lacrime amare, annota Luca. Questa è senz’altro l’impressione suscitata in coloro che hanno sorpreso Pietro in singhiozzi, ma noi possiamo anche pensare che, nel fondo del suo cuore, sono state lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù infatti, con quello sguardo d’amore, non ha abbandonato Pietro alla sua sofferenza e alla sua disperazione, ma gli ha fatto dono, di persona e all’istante, di un nuovo segno del suo amore. Non sarà l’ultima volta che lo sguardo di Gesù verrà a disturbare Pietro in modo così salutare, sconvolgendolo in profondità. L’occasione più commovente sarà nel giorno stesso di Pasqua, ma gli evangelisti non ci hanno lasciato alcun particolare sull’incontro tra Pietro e Gesù risorto. Solo una breve testimonianza, che costituisce forse il kérygma, il più antico annuncio della resurrezione: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24,34). Anche Paolo, quando elenca le apparizioni del risorto, vi include con risalto l’apparizione a Pietro, citata per prima: “Fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, ed è apparso a Cefa e quindi ai dodici” (1Cor 15,4-5). Secondo altre testimonianze, sembra che Gesù sia apparso dapprima a Maria Maddalena (cf. Mc 16.9) e successivamente a due discepoli “mentre erano in cammino verso la campagna” (Mc 16,12). Ma proprio questi due, che noi conosciamo meglio – grazie al racconto di Luca – come i discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), tornano la sera stessa di Pasqua a Gerusalemme per ascoltarvi la buona novella dalla bocca degli apostoli: Gesù è apparso a Pietro. Ecco per Pietro un altro profondo sconvolgimento. Forse si trovava ancora sotto il peso della sua viltà e del rinnegamento di due giorni prima: Gesù era morto e sepolto, non solo per lui, ma anche per gli altri apostoli, e Pietro si sentiva responsabile di quella morte. Ben lungi dal seguire Gesù fino alla morte, come aveva promesso non senza temerarietà, l’aveva molto semplicemente abbandonato e proprio nel momento più critico. All’alba del mattino di Pasqua c’era stato il problema della tomba vuota, e Pietro vi era corso assieme a Giovanni, per vedere e fare la stessa costatazione. Era vero: il Signore era scomparso e nessuno era in grado di dire chi l’avesse preso o dove l’avesse trasportato. Per Pietro tutto questo era ancor più sconcertante. Finché, all’improvviso… quella stessa voce calda, quello stesso sguardo traboccante d’amore: Pietro perdonato all’istante e per sempre e, nel contempo, guarito dalla sua debolezza più profonda e ristabilito al suo posto proprio a causa di quella debolezza. Le lacrime sgorgarono di nuovo, ma questa volta indubbiamente lacrime di gioia e di riconoscenza. Gesù amava quindi Pietro così intensamente da venire a cercarlo fin nel rinnegamento e nel tradimento per poterlo incontrare in profondità. In quel radioso mattino di Pasqua, Pietro fu il primo dei peccatori perdonati. Giovanni ha riservato l’epilogo di questa avventura per la fine del suo evangelo. Si tratta di quella scena così intima e commovente in cui Gesù, per tre volte, chiede a Pietro se lo ama più degli altri (Gv 21,15-17). E per tre volte anche Pietro può dichiarargli il proprio amore, così come per tre volte l’aveva rinnegato: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene!”. Con ogni probabilità, esattamente come quell’altra peccatrice dell’evangelo – Maria Maddalena – Pietro ora ama Gesù molto più di prima: anche a lui infatti è stato molto perdonato (Lc 7,47). Gesù ne trae immediatamente le conseguenze: “Pasci le mie pecorelle”. Chi ha potuto esperimentare un simile sgorgare di amore e di misericordia sarà anche il primo e il migliore testimone dell’amore. “E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
TRA DEBOLEZZA E GRAZIA
Il titolo originale di questo capitolo era: Virtù e Grazia. Solo dopo un certo tempo mi sono reso conto fino a che punto un simile titolo poteva generare confusione. Dire qualcosa sulla virtù e sull’opera della grazia in noi, senza sembrare di favorire il vizio, resta impresa ardua. Esistono diverse maniere di dedicarsi alla virtù che possono escludersi a vicenda. A grandi linee, possiamo dire che esiste una virtù che non può corrispondere alla grazia e un’altra che può sgorgare solo dalla grazia. E’ importante operare la distinzione tra le due, altrimenti l’uso del termine virtù” senza sfumature provoca seri inconvenienti. Il titolo del capitolo è diventato alla fine: Tra debolezza e grazia perché, come vedremo, la virtù autenticamente evangelica ha a che fare tanto con la nostra debolezza quanto con la grazia.
Una virtù evangelica?
L’equivalente greco del termine “virtù” (areté) non appare mai sulle labbra di Gesù e molto raramente nel Nuovo Testamento (Fil 4,8; 2Pt 1,5). Il discepolo di Gesù non è chiamato alla virtù ma alla santità, e a una santità che non è sua se non in Gesù. Questo non esclude che molte cose siano state dette a proposito della virtù e della perfezione da parte di tutti quelli che hanno parlato dell’esperienza cristiana. Agli occhi di un profano, i cristiani a volte passano addirittura per le persone virtuose per d’amore, di un eccellenza. È difficile che sia altrimenti: chi vuole descrivere l’esperienza della fede e della grazia è forzatamente segnato dagli schemi di pensiero e dal vocabolario del suo tempo riguardo alla perfezione, ma dovrebbe evitare di esserne vittima. E’ sempre difficile parlare di un’esperienza spirituale con termini umani, tuttavia, anche se le parole restano inadeguate, i credenti hanno il dovere di parlare, cosa che del resto hanno fatto da molti secoli. Quando gli autori spirituali parlano della vita della grazia nell’uomo, usano frequentemente espressioni come “avanzare”, “progredire”, “salire più in alto”: restano così tributari di schemi filosofici o umanistici riguardanti la perfezione, schemi che sono quelli della loro cultura. I più grandi pensatori non hanno avuto problemi nel raffigurarsi la perfezione dell’essere umano come un progresso continuo, come un’ascensione più o meno pericolosa, interamente frutto dello sforzo umano. Se ogni perfezione suppone una certa ascesi, la tecnica di questa ascesi sarà inventata dall’uomo stesso e resterà alla portata della sua generosità. Una volta raggiunta la vetta, lo sforzo si trasformerà da solo in una meravigliosa libertà, una libertà per la quale l’uomo avrà pagato un prezzo altissimo. Vale la pena di sottolineare come un simile schema di perfezione è in contraddizione con quanto propone l’evangelo. Gesù ha espresso questa contraddizione, in modo laconico ma pungente, in una breve frase che torna più volte e in contesti diversi: “Chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato” (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14). Gesù ha voluto concretizzare questi due schemi o modelli dello sforzo spirituale nelle figure del fariseo e del pubblicano. Il fariseo rappresenta il percorso di una perfezione umanistica e secolarizzata, mentre il pubblicano rappresenta la via tipicamente cristiana, quella del pentimento e della conversione, via che l’uomo non può scoprire da solo ma verso la quale Dio lo conduce per mano: frutto di un elezione gratuita e meraviglia della grazia. Tra queste due vie esiste sempre il pericolo della contaminazione. Per descriversi, l’esperienza cristiana ha bisogno del linguaggio della perfezione umanistica, l’unico a disposizione. Anche se gli autori cristiani si sforzano di purificare ciò che le parole vi esprimono e, per così dire, le orientano in un’altra direzione, ciò non toglie che essi appaiono spesso aver adottato uno schema umanistico. Gli autori spirituali sono obbligati a utilizzare termini e immagini come progresso, ascensione o salita; si ritengono obbligati a parlare di gradi e di una vetta. Eppure il loro vocabolario corre il rischio di essere frainteso, al punto che il contrasto tra il fariseo e il pubblicano ritorna concretamente in tutta la spiritualità cristiana e monastica. Questo non deve stupire e mette in luce una tensione fondamentale, non solo di vocabolario, che riflette un’inclinazione naturale del cuore umano, forse la tentazione più sottile per colui che cerca veramente Dio, tentazione che può essere vinta solo con una continua conversione del cuore. I primi autori cristiani usano già alcune immagini, mutuate del resto dalla Scrittura: si ascende al Sinai, fino alla nube in cui dimora il Signore, così pure al Carmelo, dove il profeta Elia poté contemplare qualcosa di Dio, e al monte Sion, dove il Signore fece costruire il Tempio; soprattutto si ascende al Tabor, dove Gesù glorificato si rivelò ai discepoli. L’idea dell’ascensione fu ripresa con l’immagine della scala: la scala, apparsa in sogno a Giacobbe e che collegava la terra con il cielo, fu utilizzata dagli autori antichi per descrivere il progresso nella vita spirituale. Questa scala ha diversi gradini, sui quali ci si può coraggiosamente esercitare a salire. Così nel VI secolo un certo Giovanni – soprannominato Climaco, che significa appunto “della scala” – ha presentato tutta la vita monastica come l’ascensione di una scala che aveva addirittura trentatré gradini. Benedetto, di cui riparleremo presto, presenta nella sua regola una scala dell’umiltà, limitata però a dodici gradini. Queste immagini esprimono bene i nostri sentimenti: possono dare l’impressione che si tratti innanzitutto di fare progressi, salendo sempre più in alto, excelsior. E tuttavia importante scegliere bene la nostra scala, perché ne esistono di assolutamente inadatte, come quella fatta di virtù solo umane, per esempio. C’è una sola scala buona, quella dell’umiltà. Benedetto sembra esser stato cosciente dell’ambiguità che si nasconde dietro il termine “gradino”, quando lo usa per indicare i progressi in umiltà. Infatti aggiunge subito che questa scala si sale scendendo e si scende non appena si cerca di raggiungerne la vetta. Bisogna salirla abbassandosi e scenderla innalzandosi: “Exaltatione descendere et humilitate ascendere”. La vetta di questa scala coincide con la vetta dell’umiltà e l’esaltazione che può procurare nel futuro è raggiunta solo attraverso l’umiltà della vita presente. D’altronde nessuno può mettersi all’opera se non vi è chiamato da Dio: solo la vocatio divina può fissare i gradini della scala e permettere, suo tramite, di raggiungere la vetta. Non esiste altra via né altra virtù per il cristiano al di fuori di questo abbassamento nella piccolezza e nella povertà. Tuttavia la tentazione di una perfezione legalista riappare costantemente. Soprattutto in periodi di rilassamento spirituale, diventa reale per le forme di fede impegnata – come il monachesimo, la vita religiosa, la fede militante – il pericolo di lasciarsi contaminare da questa idea di perfezione, proprio quando basterebbe semplicemente rinnovarne l’ispirazione evangelica. L’obbedienza, l’ascesi, la preghiera stessa possono essere distolte dal Dio vivente per essere messe al servizio di un ideale di perfezione che, in fondo, non si differenzia da un’etica profana. Si tratta allora solo di un’opera umana, paragonabile a un bastione dietro al quale ci si protegge contro gli altri e a volte contro Dio stesso. Se un tale sistema di giustificazione mediante le opere concede ancora uno spazio alla contrizione, quest’ultima è solo un esercizio tra gli altri, ma cessa di essere questa meraviglia della grazia che trasforma l’essere da cima a fondo, la soglia che dobbiamo necessariamente varcare per rinascere a una vita nuova ed essere totalmente liberi di fronte alla potenza attraente dello Spirito santo. Di questo tipo fu senza dubbio la vita monastica che Lutero si sforzò, con molta fatica e molta generosità, di realizzare e di cui tentò, a torto, di generalizzare l’immagine dal momento in cui sperimentò sulla sua pelle uno scacco totale. “L’umile atto di seguire Cristo era divenuto, nel monachesimo, opera meritoria dei santi. La rinuncia al proprio io di chi seguiva Cristo si svelò qui come estrema affermazione spirituale di se stessi da parte degli uomini pii. Con questo il mondo aveva fatto irruzione nel monachesimo stesso e agiva di nuovo nella maniera più pericolosa. L’evasione del monachesimo dal mondo si era svelata come il più raffinato modo di amare il mondo. In questo naufragio dell’ultima possibilità di condurre una vita devota Lutero afferrò la grazia. Nel crollo del mondo monastico egli riconobbe la mano salvatrice di Dio tesa in Cristo. Egli l’afferrò convinto nella sua fede che ‘tutte le nostre opere sono inutili, anche nella migliore delle vite”‘ (D.Bonhoeffer, Sequela, Brescia 1971, p. 26). Queste parole di Bonhoeffer rappresentano un’autentica sfida per tutte le forme di fede impegnata; in particolare stigmatizzano un monachesimo degenerato in un’opera e un’impresa unicamente umane, erette contro Dio e la sua grazia. L’incubo di una vita monastica simile non è solo una caricatura dovuta alla penna di Lutero: resta uno scoglio sempre possibile, forse addirittura la tentazione più astuta della nostra epoca. Potrebbe avvenire diversamente per un monachesimo che cercasse di secolarizzarsi fin nel suo essere profondo? Solo l’autentica contrizione potrà liberare il monachesimo da questa chimera e diventarne la salvezza. Infatti solo attraverso un’intensa esperienza della contrizione il monaco potrà scoprire come ogni ascesi e qualsiasi amore di Dio sono al di fuori della portata dell’uomo e non possono mai essere il risultato dei propri sforzi. Sono unicamente opus Dei, opera di Dio in un cuore totalmente abbandonatosi alla propria miseria e alla sovrabbondante misericordia di Dio. Se vogliamo ritrovare nell’evangelo le tracce di questa ambiguità, dobbiamo tornare alla parabola del fariseo e del pubblicano.
Fariseo o pubblicano?
Questa parabola tratta della scala giusta e della sbagliata, dell’autentica virtù e di quella fittizia, della vera e della falsa azione di grazie. Il fariseo si pone nelle prime file del tempio e là esprime una solenne azione di grazie, assolutamente conforme alle azioni di grazie ufficiali della liturgia di quel tempo: “Mio Dio, ti rendo grazie…”. Ma ringrazia Dio per la propria virtù, pensa di essere migliore degli altri: né ladro, né ingiusto, né adultero e certamente non come “quel pubblicano là!”. Il fariseo si colloca evidentemente sulla vetta della scala e si complimenta con Dio di quanto in se stesso crede appartenere all’autentica virtù. Possiamo anche trovarci sulla scala sbagliata, magari uno o due gradini più in basso, ma sempre sulla scala sbagliata. Come quando, per esempio, la presa di coscienza della nostra povertà spirituale o della nostra viltà ci rimanda a noi stessi e genera ogni sorta di sentimenti negativi: insoddisfazione, scoraggiamento, gelosia, forse addirittura disperazione. Arriviamo a invidiare gli altri o ciò che riteniamo virtù e siamo inconsolabili a motivo della nostra mediocrità. Sentimenti come essere contenti o scontenti di sé, giudicare o invidiare gli altri sono sintomi del fatto che siamo sulla scala sbagliata, quella del fariseo, e che la stiamo salendo a rovescio. Il fariseo infatti aveva occhi solo per la propria virtù: aveva rapidamente osservato il pubblicano e lo aveva giudicato in un batter d’occhio. Il pubblicano invece non sembra aver notato il fariseo, né aver sentito la sua preghiera. Il suo sguardo è rivolto solo a Dio, e a se stesso solo nella misura in cui si vede alla luce di Dio: è peccatore. Ma non è minimamente schiacciato dal proprio peccato, infatti se ne ricorda solo per rivelarlo alla misericordia di Dio: “O Dio, abbi pietà di me, il peccatore!”. Ad avanzare, progredire, salire più in alto il pubblicano non pensa nemmeno, anzi, alla luce di Dio, è contento della propria piccolezza: è la sua verità profonda, che gli permette di presentarsi a Dio senza maschera. E’ una verità che vorrebbe scavare e approfondire ancor di più, ma sempre sotto lo sguardo della meravigliosa potenza della misericordia. Questo gli basta e lo rende felice. Viene qui spontaneo pensare alle espressioni di alcuni mistici fiamminghi del XIV e XV secolo: annientarsi, esser nulla e rimanere in questo nulla, aggrapparsi alla propria debolezza e al proprio peccato affinché Dio sia Dio per me. Il mistico può così essere totalmente se stesso: nulla e peccato; e anche Dio può essere totalmente se stesso per lui: misericordia e amore sovrabbondante. Il pubblicano si trova sulla scala giusta e procede nella giusta direzione: humiliando ascendit, umiliandosi, s’innalza. Il fariseo e il pubblicano che Luca ci presenta faccia a faccia nel capitolo 18 del suo evangelo rappresentano due atteggiamenti spirituali di cui Gesù parla continuamente. Da un lato farisei, sadducei e dottori della legge: la virtù ufficiale; d’altro lato pubblicani, samaritani, prostitute: in una parola, i peccatori; due tipi di persone tra le quali c’è tensione e contraddizione. Gesù da parte sua non fa nulla per avvicinarle, anzi, si ha l’impressione che alimenti con piena consapevolezza questa tensione. Ne consegue che i farisei sono gelosi della sua preferenza per i peccatori e i pubblicani: è un’accusa che ritorna costantemente nelle loro discussioni con Gesù. Gesù d’altronde è piuttosto duro e severo nei loro confronti, mentre è incredibilmente buono e indulgente verso gli altri. Nei riguardi dei farisei Gesù sembra esaurire il repertorio delle sue invettive: a suo giudizio sono ipocriti (Mt 23,l3ss.), vipere e razza di vipere (Mt 12,34), sepolcri imbiancati, a fianco dei quali si cammina senza saperlo, belli a vedersi all’esterno ma pieni di putridume all’interno (Mt 23,27), ciechi, guide di altri ciechi (Mt 15,14), che appaiono giusti agli occhi degli uomini ma che dentro sono pieni di ipocrisia e di iniquità (Mt 23,28). Il principale motivo di accusa di Gesù nei loro confronti è che “presumono di essere giusti” (Lc 18,9): non si considerano peccatori e pensano che Dio abbia riguardo solo per il gruppo di uomini nel quale si collocano. Qui sta il malinteso, davvero crudele: Gesù non è venuto per i giusti ma per i peccatori (Mt 9,13), e chi non avverte fino a che punto è peccatore non può incontrare Gesù. I peccatori e le prostitute ci precedono nel regno di Dio (Mt 21,31). Se Gesù si oppone con tale vigore ai farisei è perché in loro ha incontrato l’autentico peccato. Questo non sempre si trova là dove lo cercheremmo volentieri: è quanto emerge da un’altra discussione tra Gesù e i farisei, riportata da Giovanni al capitolo 9 del suo evangelo, in seguito alla guarigione del cieco nato. Non è il cieco nato il vero cieco – dice Gesù – perché questi sta per riacquistare la vista; ma chi pretende di vedere, come i farisei, questi è cieco e si condanna a restare cieco. Erano stati gli stessi farisei ad accostare cecità e peccato: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?” (Gv 9,2). E’ impressionante vedere come, in questo episodio, i farisei attribuiscono il peccato a tutti: il cieco è colpevole perché è nato cieco, Gesù è peccatore perché guarisce in giorno di sabato, gli stessi ascoltatori sono sospettati perché non conoscono la legge (Gv 7,49). E’ quindi evidente che questi bravi farisei si considerano tra i giusti e disprezzano gli altri. Loro conoscono la legge, mentre il popolo, che va dietro a quel rabbi, non la conosce; sanno che quell’uomo, Gesù, non può venire da Dio, perché Dio non ascolta il peccatore che trasgredisce il sabato. E perché mai dovrebbero accettare una lezione da uno che è appena stato guarito dalla sua cecità? “‘Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?’. E lo cacciarono fuori” (Gv 9,34). I farisei non possono essere toccati da Gesù: egli non può nemmeno raggiungerli né fare qualcosa per loro. Vivono rinchiusi nella torre d’avorio della loro sufficienza e della loro giustizia personale. Gesù infatti non è alla ricerca di quelli che vedono: cerca i ciechi, i peccatori, quelli che hanno tutte le possibilità di entrare nel regno senza imbrogliare. Potremmo dire che Gesù ha bisogno di peccatori per essere in grado di compiere la propria missione di salvatore e di redentore. Ecco il giudizio che annuncia e per il quale è venuto: chi conosce il proprio peccato e lo confessa può essere guarito e rialzato, ma chi maschera il proprio peccato dimentica che non sfuggirà al giudizio. Gesù lo dice con altre parole, che chiudono la guarigione del cieco nato: “Io sono venuto in questo mondo per una sentenza, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (Gv 9,39). Non poteva esprimersi in modo più paradossale, e i farisei hanno capito perfettamente che la punta di questo paradosso si rivolgeva a loro: “Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: ‘Siamo forse ciechi anche noi?’. Gesù rispose loro: ‘Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane ” (Gv 9,40-41). Una cosa è chiara: il vero peccatore è chi pretende di non essere cieco; non è il fatto di essere cieco che è grave – un cieco può essere guarito -, bensì la pretesa di vedere: ecco l’unico peccato.
La Buona Novella
Ecco invece, innanzitutto, la buona novella di Gesù: siamo peccatori, ma il nostro peccato è perdonato. A volte ci si è immaginato che la buona novella consistesse piuttosto in questo: teniamo conto del peccato e facciamo del nostro meglio per non caderci; attenzione quindi a sapere bene dove inizia e dove finisce il peccato, cosa è permesso e cosa è vietato. Ma il sapere se questo è peccato e quello non lo è non costituisce assolutamente l’oggetto primario della buona novella: sarebbe una buona notizia per i farisei, non quella di Gesù. Al contrario, la buona novella di Gesù consiste in questo: il nostro peccato, qualunque esso sia, è perdonato. La nostra unica e immensa gioia è di essere peccatori perdonati: l’unica certezza che ci resta qui sulla terra davanti a Dio è fonte di riconoscenza infinita. La grazia che Gesù vuole accordarci, e che noi cominciamo appena a sospettare, è di saperci peccatori: saperlo è il segno che i nostri occhi finalmente si aprono e che stiamo per essere guariti dalla nostra cecità, è il segno certo della grazia, dell’unica grazia sulla terra, che è anche l’unica gioia del cielo: “C’è più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Mediante questa via del pentimento noi osiamo essere la gioia di Dio, perché Dio ha voluto rivelare il suo amore attraverso una pedagogia del peccato e della grazia. In due passaggi Paolo si esprime a questo proposito in modo vigoroso: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia!” (Rm 11,32); “La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo” (Gal 3,22). Rinchiusi sotto il peccato per diventare prigionieri nella rete della misericordia. E’ l’unica via che conduce a Dio, o meglio, quella su cui Dio ogni giorno ci viene incontro: la via della felix culpa, della beata colpa, quella colpa che è la nostra migliore opportunità, perché essa sola ci svela la grazia di Dio. Per questo il peccatore non è certamente un estraneo agli occhi di Dio; al contrario, Dio vuole conoscere solo il peccatore e, viceversa, quest’ultimo è il solo a sapere qualcosa su Dio. Il romanziere inglese Graham Greene, di cui è stato detto che l’unico tema dei suoi romanzi è la contemplazione dei peccatori, ha messo un giorno come motto di uno dei suoi romanzi questa frase di Péguy: “Il peccatore è al cuore stesso della cristianità. Nessuno è così competente in materia di cristianità come il peccatore. Nessuno, se non il santo”. Così, a un certo momento, non c’è più differenza tra il peccatore e il santo: il santo, infatti, non è altro che un peccatore convertito, ed è questo prima di qualunque altra cosa. E ogni peccatore è un santo in potenza. Esaminare questa via del peccato e della misericordia, sotto diverse angolature, è l’intenzione di questo libro. Questa via è il luogo privilegiato per entrare nell’intimità di Dio e innestarsi sulla sua grazia meravigliosa. La breve preghiera del pubblicano, nota in una certa tradizione con il nome di “preghiera di Gesù”, la esprime perfettamente: “Signore Gesù, abbi pietà di me, peccatore!”. Gesù arriva ad affermare che essa ottiene immediatamente il perdono e la giustificazione, cioè la santità: “(Il pubblicano) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Il monaco che si trova sul gradino superiore della scala dell’umiltà descritta da Benedetto riprende la preghiera del pubblicano, diventata per lui l’unica preghiera: è la liturgia ininterrotta del suo cuore, liturgia che celebra ovunque vada o si trovi, seduto o in piedi, senza osare alzare gli occhi verso il cielo e ripetendo incessantemente nel cuore la stessa preghiera: “Signore, abbi pietà di me, peccatore!” In questa breve preghiera l’oriente e l’occidente si incontrano: è infatti conosciuta e praticata sia dai monaci bizantini che da quelli occidentali. Si può forse arrivare a dire che questa preghiera è il fondamento e il cuore della chiesa. Mi ricordo di una mia visita a un eremo nel nord della Moldavia, vicino alla frontiera romeno-sovietica: era un eremo dipendente dalla skita di Sikla, a sua volta legata al monastero di Sihastria, abitato ancor oggi da un centinaio di monaci. L’intera regione, del resto, è una zona monastica da secoli, una specie di Athos romeno. La skita è nascosta nel bosco a mille metri d’altitudine; un po’ più distante, sotto una parete rocciosa alta e scoscesa, si trovava l’eremo. Sulla porta, una mano malferma aveva scritto la preghiera del pubblicano: “Signore Gesù, abbi pietà di me, povero peccatore!”. Era chiaramente diventata il motto di questo eremita, il suo grido al cuore della chiesa. Il grido stesso della chiesa, sposa di Gesù, sintesi e riassunto di ogni preghiera. In realtà non esiste altro che questo grido e, al di là, l’amore, l’abbraccio tra il Padre e il figlio prodigo, tra Gesù e il pubblicano, l’unione a lungo attesa tra l’abisso del nostro peccato e l’abisso della misericordia di Dio.
LA CONTRIZIONE O IL CUORE SPEZZATO
Il titolo di questo capitolo può apparire strano e un po’ desueto: il sinonimo moderno e più usato, pentimento, sarebbe parso preferibile ad alcuni. E vero che termini come contrizione o compunzione sono praticamente scomparsi dal nostro vocabolario, mentre non sono altro che la traduzione letterale delle espressioni latine contritio cordis e compunctio cordis tanto familiari ai padri. Il vantaggio di questi due termini antichi è duplice: innanzitutto non sono logori come pentimento, inoltre descrivono quello che succede nell’esperienza spirituale di cui stiamo parlando con estrema precisione, molto meglio di qualsiasi definizione astratta. Contritio deriva da conterere: frantumare, schiacciare, ridurre a pezzi. E’ il nostro cuore di pietra, di cui parla la Bibbia, che si spezza. Compunctio deriva da compungere: pungere. A un determinato momento il nostro cuore è definitivamente ferito, per così dire trafitto. Da questa ferita al cuore sgorgherà dell’acqua: le lacrime del pentimento. Penso sia meglio utilizzare queste due immagini antiche per parlare del pentimento: ai giorni nostri infatti affrontare l’argomento del pentimento, come del resto quello dell’umiltà, è difficile. Sono termini che provocano opposizione e diffidenza. Di quale pentimento e di quale umiltà si tratta? Ecco una domanda acuta alla quale non è facile rispondere. La difficoltà non nasce solamente dal fatto che è sempre delicato parlare di un esperienza spirituale, come quella del pentimento, e di affrontarla intellettualmente e dall’esterno: questa difficoltà permane sempre la stessa. Ma oggi si complica per due motivi: da un lato, fino a un po’ più di vent’anni orsono, i sensi di colpa e di paura, a volte accompagnati da gravi frustrazioni, avevano un ruolo preponderante in qualsiasi sforzo morale, compresi quelli legati all’esperienza spirituale. D’altro lato, ai nostri giorni ci si è apertamente ribellati contro ogni tipo di costrizione, sia interiore che esteriore. Questo sentimento ha portato l’uomo moderno a reagire con un completo voltafaccia, nella speranza di recuperare a qualunque costo la propria libertà, anche se la permissività nel campo della morale avrebbe rischiato di svuotare qualsiasi concetto di peccato. Come un adolescente sconvolto dalla paura, che si precipita su qualsiasi apparenza di libertà senza aver avuto il tempo di pagarne il prezzo e senza aver saputo attendere il momento della maturità, così l’uomo moderno, compreso il cristiano o il religioso, si trova piuttosto impreparato a lasciar sbocciare nel proprio cuore il fiore delicato dell’autentico pentimento evangelico. E se per caso, o per grazia, questo riuscisse comunque a fiorire, farebbe molta fatica a produrre il suo frutto. La diakrisis o discernimento risulta allora particolarmente difficile: può essere operato solo con l’aiuto dello Spirito santo, dato che la nostra psicologia è piena di scogli che rischiano di far fallire il pentimento. Gli scrittori spirituali di tutti i tempi hanno segnalato il pericolo della falsa umiltà, quell’ansiosa ricerca dell’abbassamento che Fénelon diceva non essere altro, sovente, che orgoglio mascherato. La falsa umiltà è l’espressione maldestra di un vago senso di colpa che non lascia alcuna possibilità per l’autentica umiltà: incatena il cuore e lo paralizza, grazie agli artifici di cui dispone per schivare il momento della verità, l’unico che permetterebbe la presa di coscienza del vero peccato. Oggi, in reazione contro il senso di colpa, una falsa libertà vorrebbe eliminare, in modo altrettanto maldestro, qualsiasi confronto con il peccato. In entrambi i casi si mira inconsciamente a sfuggire al senso di sconfitta e al riconoscimento del peccato. L’alternativa tra falsa colpevolezza e falsa libertà può essere superata solo dall’autentico pentimento evangelico, cioè dal cuore spezzato e contrito, che è pura grazia dello Spirito santo. Solo così l’uomo raggiunge la propria verità davanti a Dio e scopre l’amore autentico: solo l’amore infatti è fonte di autentica libertà.
Colpevolezza e pentimento
“Chi conosce il proprio peccato è più grande di chi risuscita un morto. Chi piange un’ora su se stesso è più grande di chi ammaestra il mondo intero. Chi conosce la propria debolezza è più grande di chi vede un angelo. Chi segue Cristo in segreto e nel pentimento è più grande di chi gode di molta fama nelle chiese” (Logos 34): con questi paradossi Isacco il Siro sottolinea il carattere specifico del pentimento cristiano. Questo va detto con chiarezza: in nessun’altra religione troviamo il pentimento nel senso in cui lo intende la tradizione cristiana. Lo si trova esclusivamente nell’evangelo. Il pentimento cristiano non può essere paragonato a nessun’altra esperienza religiosa naturale. Qualunque sforzo per “fare come se” diventerebbe subito assolutamente ridicolo: il pentimento è un frutto dello Spirito santo e l’impronta più sicura della sua azione in un anima. Nessuno può conoscere il proprio peccato senza contemporaneamente conoscere Dio: non prima o dopo, ma nel medesimo istante, in una sola e identica intuizione di grazia. Chi crede di essere in grado di conoscere il proprio peccato al di fuori di questo incontro con Dio è un illuso. Confonde il pentimento con un senso di colpa, più o meno felicemente sviluppato, con il quale ogni persona normale ha a che fare; oppure misura ancora la propria condotta sul metro di una lista di obblighi e di divieti, con la preoccupazione di essere sempre in regola. Ma non ha la minima idea del suo vero peccato, perché non conosce ancora Dio. Nel medesimo istante in cui il peccatore è perdonato, afferrato da Dio e restaurato nella grazia, il peccato – meraviglia delle meraviglie! – diventa il luogo in cui Dio entra in contatto con l’uomo. Dobbiamo spingerci oltre e affermare che non esiste altro luogo in cui incontrare Dio in verità e conoscerlo, al di fuori della conversione. Prima Dio era solo una parola, un concetto analogico, un presentimento o un vago desiderio, il Dio dei filosofi e dei poeti, ma non ancora il Dio che si rivela in un amore senza limiti. Il Signore infatti è “venuto per chiamare i peccatori , per stare e mangiare ” con loro, “non con i giusti”, per cercare ciò che era perduto” (Mt 9,13; 18,11). Così Dio si fa conoscere perdonando, e il peccatore, scrutando l’abisso del proprio peccato, scopre da parte sua l’infinito della misericordia, nel medesimo istante in cui i due abissi si compenetrano e l’ultimo inghiotte il primo. Questa è l’esperienza assolutamente primaria e fondamentale di qualsiasi vita che vuole essere secondo l’evangelo. È quella dei piccoli e dei poveri in spirito, dei peccatori soprattutto, delle prostitute e dei pubblicani che precedono tutti gli altri nel regno di Dio (cf. Mt 21,31). E in loro e in quanti sono simili a loro che Dio ha deciso di incontrare l’uomo e di salvarlo: non esiste altra situazione umana in cui Dio si presenta in modo così personale e accorda la salvezza. In questo momento di grazia, il peccato e il perdono si rivelano contemporaneamente al cuore dell’uomo. Al di fuori di questo ci può essere solo una conoscenza frammentaria su Dio e sull’uomo: allora noi perveniamo solo a mezze verità, a valori parziali che, come alternative, sembrano escludersi. Riguardo all’uomo, ci urtiamo a infedeltà che si moltiplicano e finiscono per avere gravi conseguenze, oppure a un’apparenza di virtù grazie alla quale l’uomo sembra migliore di quello che è in realtà; un uomo simile è peccatore o giusto? Riguardo a Dio, esitiamo tra la sua potenza e la sua tenerezza, tra la collera e l’amore. Si dimostra Dio della potenza o della tenerezza? Della collera o dell’amore? Entrambe queste definizioni di Dio sono presenti nella Bibbia: sembrano contraddittorie solo alla nostra intelligenza, e questa contraddizione non può essere superata da chi rimane al livello razionale. Solo chi sperimenta in modo concreto ed esistenziale la tenerezza di Dio finisce per cogliere che queste due realtà si fondono l’una nell’altra. Senza poterne dare una spiegazione, costui ormai intuitivamente sa che Dio è nel contempo collera e amore, verità e misericordia. Nessuno può essere oggetto della collera di Dio senza avvertire nel contempo che questa è un’esigenza del suo amore. Nessuno potrà mai riposarsi nell’amore di Dio senza ricordarsi a ogni istante che la gelosia di Dio può accendersi di collera. Dio non è un despota capriccioso, né tantomeno un nonno inoffensivo: è, molto semplicemente, Altro, e non può essere rinchiuso nelle nostre categorie e nelle nostre immagini; mistero e contraddizione che superano la nostra comprensione superficiale! Mistero che può essere colto, e solo progressivamente, unicamente da colui al quale è stato concesso di incontrare Dio nella conversione e nell’amore. La conversione – come abbiamo già visto – è un capovolgimento, uno sconvolgimento del cuore: innesca nel nostro intimo un processo spirituale grazie al quale il cuore si libera da ogni durezza e rigidità, lascia cadere ogni egoismo e ambizione, si libera di sé e si abbandona a Dio, accetta di essere nel contempo oggetto della sua collera e del suo amore. Quando un cuore si offre così a Dio, la scintilla della collera di Dio si trasforma immediatamente in un braciere d’amore e di tenerezza. Dio diventa allora, in piena verità, “fuoco divorante” (Dt 4,24). Solo chi dimora così nella conversione acquisisce l’autentica conoscenza di Dio. Conosce infatti innanzitutto il proprio peccato, e messo di fronte alla collera di Dio ma, nello stesso istante, scopre la grandezza e la portata dell’amore di Dio. Non cesserà mai più di conoscere il proprio peccato, per essere in grado di annunciare la misericordia di Dio: questa confessione non èsolo ammissione di una colpa, ma anche azione di grazie, eucaristia. Le sue lacrime non sono più lacrime di rincrescimento, ma di amore senza limiti; il suo pentimento è la sua gioia, e la sua unica gioia è ormai il pentimento. Ha creduto all’amore, si è affidato all’amore (cf. lGv 4,16), a quel Gesù la cui prima missione è “liberarci dalla collera ventura” (lTs 1,10).
Il monaco e il pubblicano
Si potrebbe obiettare che un’esperienza di questo tipo è riservata al vero peccatore, cioè a qualcuno che, prima di incontrare Gesù, aveva la coscienza particolarmente sporca; ma cosa succede ai cristiani impegnati che hanno solo qualche peccatuccio da rimproverarsi e che per il resto si comportano in modo esemplare? Una simile obiezione tradisce un presupposto inconscio: dividiamo ancora gli uomini in peccatori e giusti e collochiamo spontaneamente noi stessi dalla parte dei giusti. ci. Questo è proprio l’atteggiamento da cui Dio cerca di guarire il peccato che deve essere rivelato a ciascuno di noi, contemporaneamente alla misericordia: nessuno può sfuggire a questa necessità, tantomeno chi vuole seguire più da vicino Gesù, o il cristiano impegnato e militante, o il monaco. Nell’antica tradizione monastica siriaca, il monaco è chiamato abila, che significa piagnone, che piange il proprio peccato. Anche nella regola di Benedetto, che finirà per imporsi a tutto il monachesimo occidentale, il monaco è definito dal pentimento e dalla compunzione del cuore: soffermiamoci un attimo su questo testo. Nel prologo della sua regola, Benedetto colloca il suo discepolo tra la collera e l’amore, tra l’iratus Pater e il pius Pater: alternativa che il monaco può superare solo mantenendosi nell’umiltà della conversione che lo apre al perdono del Padre. Per operare questo prodigio, Dio si fa infinitamente paziente e indulgente: ci accorda il tempo della nostra vita come una proroga. Il tempo allora non è altro che un’astuzia dell’amore di Dio: egli ha bisogno dello scorrere del tempo terreno per permettere alla sua misericordia di dilatarsi. La misericordia può dispiegarsi in tutta la sua ampiezza solo grazie alla pazienza e alla benevolenza di Dio – quia pius est – che ci accorda ogni giorno una nuova proroga e che vigila silenziosamente affinché troviamo il cammino della conversione. La risposta del monaco si trova nell’umiltà con tutte le sue sfumature. Già l’attenzione interiore, considerata da Benedetto come il primo gradino dell’umiltà, definisce il modo in cui cerchiamo di rispondere a questa apparente debolezza di Dio. Dio accorda una proroga e offre una possibilità che il monaco metterà a frutto: si cura di non dimenticare Dio, resta attento, vigila interiormente su tutte le proprie inclinazioni e sui desideri. Questa attenzione ai pensieri costituisce già un preludio alla purezza di cuore, ultimo tocco conferito all’immagine dell’operaio di Dio quando il monaco avrà raggiunto l’ultimo gradino della scala dell’umiltà secondo Benedetto e godrà ormai di tutta la benevolenza divina: zam mundus a vitiis et peccatis, in quanto ormai purificato da vizi e peccati. L’evoluzione del monaco segue esattamente l’esperienza del pentimento del cristiano come l’abbiamo descritta. Anche per il monaco l’umiltà cristiana si trova all’origine e al cuore di tutto ciò che è vissuto interiormente. Già all’inizio della sua vita monastica, costituisce la pietra di paragone della sua vocazione: prima ancora di entrare in monastero non gli verranno risparmiate umiliazioni per mettere alla prova il suo zelo (RB 58). In seguito diventerà la totalità della sua vita e della sua esperienza: la stessa obbedienza, il labor per eccellenza del monaco, mediante la quale va a Dio (RB 71), è proposta come uno stato di umiltà, il primus humilitatis gradus, primo gradino dell’umiltà mediante il quale la relazione tra Dio e l’uomo peccatore viene correttamente situata. Ogni differenziazione o gerarchia all’interno della vita monastica sarà rapportata al metro di questa grazia fondamentale. La preferenza dell’abate andrà ai più umili (RB 2), e anche i presbiteri nel monastero dovranno precedere i fratelli innanzitutto con l’esempio di una più grande umiltà (RB 60). Infine, per descrivere il punto culminante dell’esperienza monastica, Benedetto farà ricorso all’immagine classica del pubblicano, forse la più evangelica che esista. L’umile e fiducioso riconoscimento del peccato non è solo come una preghiera che sgorga da una sorgente inesauribile: ben presto si esprime anche mediante l’atteggiamento esteriore e lo stile di vita. Il monaco perfetto sarà il più nascosto, sia agli occhi degli altri che ai propri, un uomo che non dispera mai della misericordia di Dio (RB 7). Se si trova, umanamente parlando, al gradino più basso e non vi è per lui più alcuna speranza – incurvatus et humiliatus usquequaque – è proprio allora che si trova più vicino a Dio, proiettato in avanti da un inesprimibile desiderio di tenerezza e di amore. Verifichiamo così, ancora una volta, che non esiste altra via per cercare e raggiungere Dio se non l’umiltà, grazie alla quale il cuore, liberato da ogni rigidità di amor proprio, è stato un giorno orientato incondizionatamente verso la grazia e si è visto confermato in una conversione che non avrà mai fine.
E allora l’ascesi?
A questo punto sorge la domanda sul significato dell’ascesi e dello sforzo umano. Se dobbiamo contare solo sulla misericordia di Dio, cosa possiamo ancora fare per noi stessi? Ogni sforzo non proviene dal maligno? A questa domanda possiamo rispondere immediatamente che ogni ascesi che non sfocia nella contrizione del cuore è priva di valore; peggio ancora: invece di indirizzarci sulla via che porta alla grazia di Dio, ce ne allontana tragicamente. Il tema dell’ascesi è sempre stato macchiato da alcune ambiguità e richiede di essere trattato con circospezione: è indispensabile un ritorno alle fonti dell’evangelo. Non si tratta di rinunciare a qualsiasi sforzo spirituale o ascesi, ma di imparare a praticare l’ascesi nell’unica maniera in cui può veramente metterci in contatto con la grazia. La nostra sensibilità moderna può aiutarci in questo. Oggi ci poniamo volentieri problemi riguardo a un’ascesi che si limitasse a una generosità puramente naturale. Un’ascesi simile sfocia in un comportamento di tipo spartano o nietzschiano, in cui tutte le energie disponibili sono messe al servizio di un certo ideale, espressione più o meno riuscita di un raffinato umanesimo. Se così fosse, l’ascesi sarebbe il terreno preparato per un orgoglio più o meno mascherato, i successi sarebbero solo momentanei. Infatti lo sforzo richiesto all’asceta è in contraddizione con il suo essere profondo: logora in breve tempo la psiche più solida e può portare molto rapidamente alla depressione. Nessuno può presumere impunemente di possedere la grazia che pur gli viene offerta costantemente; nessuno può andare al di là della grazia e giocare all’ascesi con le proprie forze. Un’altra illusione sarebbe il desiderio morboso di compensare, con il pretesto dell’ascesi, un senso di colpa eccessivo. Una simile ascesi può procurare un sollievo artificiale e passeggero della pressione inconscia avvertita dalla personalità, ma l’equilibrio così raggiunto rimane altrettanto precario. E, cosa ancor più grave, il problema non per questo è superato, anzi, continua a mascherare l’autentico fondo della personalità. Questa ascesi toglie a chi la pratica l’occasione di abbandonarsi interamente a Dio e al suo amore misericordioso. Dove trovare allora l’autentica ascesi, quella che può realmente mettere in contatto con la grazia? Diciamo subito che è normale che il corpo partecipi all’ avventura spirituale alla quale siamo chiamati: non ci può essere impegno spirituale senza partecipazione del corpo perché, fino a quando sono sulla terra, ho bisogno di un corpo per esprimere quello che succede nel mio essere più profondo. Si può addirittura dire che, per entrare in contatto con la mia vita interiore, ho bisogno del corpo tanto quanto delle facoltà spirituali e, analogamente, lo sviluppo di questa vita interiore sarà tributario del mio corpo. Questo è vero per qualunque sforzo spirituale, anche senza riferimento alla fede. Ecco perché le forme normali di vita ascetica sono più o meno identiche in tutte le religioni: povertà, silenzio, digiuni, veglie. Questa partecipazione del corpo allo sforzo spirituale sarà ancor più necessaria in ambito cristiano. Sottolineiamo innanzitutto che non solo lo spirito ma anche il corpo è segnato da quella debolezza innata dell’uomo che la Bibbia chiama peccato. Indubbiamente il battesimo ci ha santificati fin nelle radici, ma non ha completamente annullato le conseguenze del peccato, né nel nostro spirito né nel nostro corpo. Entrambi hanno conservato tracce del peccato: come una discesa pericolosa, lungo la quale scivoliamo facilmente verso il peccato. Anche il corpo fa dunque parte del terreno sul quale la grazia deve affrontare il peccato. Deve essere ripreso in mano poco alla volta dalla grazia e rimesso a disposizione della nostra libertà profonda. E’ sul terreno del corpo che la grazia viene, a dare “il colpo di grazia” al peccato, cioè che mette a morte il peccato nel nostro corpo affinché questo diventi disponibile a una trasfigurazione, che sarà nel contempo trasformazione e glorificazione. Ogni mortificazione – ecco il termine biblico per ascesi – deve infatti sfociare in una trasfigurazione: proprio come la morte di un credente non è altro che il preludio, il primo atto seguito naturalmente e necessariamente dalla resurrezione e dalla vita nuova in Gesù Cristo. In realtà, parlando dell’ascesi, non possiamo dimenticare Pasqua: la morte e la resurrezione di Gesù. In fondo l’ascesi non è altro che una partecipazione al mistero della Pasqua di Gesù, partecipazione provvisoria e parziale, in attesa della morte che ci aggregherà pienamente ad essa. Ogni sforzo di ascesi ci mette così sul cammino del mistero della Pasqua di Gesù e deve, in un modo o nell’altro, aprire una strada alla grazia pasquale, e questo attraverso il nostro corpo che un giorno sarà trasformato a immagine e somiglianza di Gesù. Anche Gesù possedeva un corpo, che aveva assunto proprio per essere in grado di realizzare la nostra salvezza. Prese carne, una carne che era veramente la nostra, per lì scontrarsi con la potenza del peccato e vincerlo mediante la propria vita e la propria morte. Secondo Paolo, è proprio nella carne che Gesù ha vinto il peccato (cf. Ef 2,15). A nostra volta è proprio nella nostra carne, al seguito di Gesù, che possiamo mettere a morte il peccato e offrire così alla vita ricevuta nel battesimo tutte le possibilità di ottenere la vittoria finale. Ogni pratica o tecnica di ascesi ci introduce quindi in modo concreto nel mistero pasquale di Gesù e ci permette di progredire in esso in modo ben preciso. In questo senso si può dire che ogni forma di ascesi possiede in sé un’efficacia propria. Esiste d’altronde un’ascesi naturale che, per la sua stessa struttura, può avere un preciso effetto sull’uomo. Per esempio, è evidente che il silenzio, sia interiore che esterno, unito a una certa solitudine, favorisce in modo naturale il raccoglimento il quale, a sua volta, ridesta l’uomo all’interiorità. Similmente, le ore della notte favoriscono una tranquilla meditazione, il digiuno suscita una fame di nutrimento spirituale, il celibato provoca un vuoto affettivo che richiede un compimento a un livello più profondo e universale. A volte si parla addirittura di una mistica naturale, le cui tecniche non sono completamente estranee a quelle della mistica cristiana, e i cui adepti dimostrano di trovarvi una pienezza spirituale che non è sempre, o non abbastanza, patrimonio del normale cristiano odierno. Si può anche pensare che, in fatto di tecniche di meditazione e di concentrazione mentale, i cristiani hanno spesso qualcosa da imparare dalle tradizioni non cristiane. Eppure bisogna sapere, e dirlo chiaramente, che un’ascesi di questo tipo, nonostante certi risultati effettivamente raggiunti, non è ancora l’ascesi che Cristo chiede ai suoi discepoli, cioè un’ascesi che mette in contatto con la grazia e lascia sbocciare la vita dello Spirito nel nostro cuore. Infatti resterà sempre uno scarto incolmabile tra qualunque sforzo umano, per quanto generoso e perfetto, e il dono della grazia che ci viene accordato solo in Cristo e per Cristo e in modo assolutamente gratuito. Questo è il dato fondamentale di ogni esperienza di fede, al quale l’ascesi non può sottrarsi: se lo facesse, non sarebbe più ascesi cristiana, ma uno squallido miscuglio di morale e mistica pagane. Dio non si lascia vincere in base ai nostri tentativi di piegarlo con i nostri sforzi. Ricordiamoci che Gesù non è venuto “a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Lc 5,32): non sa cosa farsene della virtù che crediamo di possedere, cerca invece il nostro punto debole, l’unico ambito in cui la sua potenza può dispiegarsi illimitatamente (cf. 2Cor 12,9). L’ascesi quindi può essere praticata solo in Gesù Cristo, il che significa innanzitutto questo: praticata nella sequela e secondo l’esempio che Gesù ci ha lasciato. Non è un caso che la maggior parte delle forme di ascesi cristiana praticate nei secoli risalgano a quelle praticate da Gesù quand’era sulla terra. Fu obbediente fino alla morte – l’autore della lettera agli Ebrei arriva addirittura a dire che il corpo fu dato a Gesù per permettergli questa obbedienza (cf. Eb 10,5-9)-; viveva casto; non possedeva neppure una pietra su cui posare il capo (cf. Lc 9,58); digiunò severamente per quaranta giorni (cf. Lc 4,2); si ritirava regolarmente di notte nella solitudine per pregare fino all’alba (cf. Mc 1,35; Lc 6,12). Ancor oggi la via ascetica del cristiano trae la propria forza e le proprie possibilità dalla forza che Gesù le ha conferito mediante la pratica dell’ascesi durante la sua vita terrena. Il cristiano cerca di imitare Gesù, fissando lo sguardo su di lui: i segni concreti dell’ascesi sono oggi ancora gli stessi di quelli dell’ascesi di Gesù, e la forza con la quale il cristiano può viverli è la stessa che sosteneva Gesù, soprattutto quando si trasformarono in prove e tentazioni dalle quali uscì vincitore, il primo di tutti noi. Ma pretendere che l’ascesi si possa praticare solo in Gesù Cristo significa anche un’altra cosa: ogni ascesi può diventare ascesi in Gesù solo nella misura in cui, esaurite tutte le possibilità umane, sfocia inevitabilmente in una specie di fallimento. È proprio lì, al cuore di questo esaurimento e di questo scacco, che potrà essere assunta e sostituita dalla forza di Gesù. L’unica ascesi che può fare appello all’evangelo è l’ascesi di povertà e di debolezza.
L’ascesi di debolezza
Precisiamo innanzitutto cosa intendiamo per ascesi di debolezza. Ogni sforzo naturale è, per così dire, destinato fin dall’inizio a staccarsi da se stesso e a esaurirsi, per raggiungere un punto zero da cui l’uomo non può più avanzare né fare un solo passo ulteriore sulla via verso Dio. Anzi, in questo punto zero lo sforzo dovrà morire a se stesso per esser reso capace di aprirsi e di abbandonarsi alla potenza della grazia di Dio. Lo sforzo dell’asceta cristiano è quindi, per sua natura, destinato all’esaurimento e alla morte, senza mai poter raggiungere il suo scopo. Ma è proprio in questo punto zero, là dove fallisce ogni sforzo umano, che la potenza di Dio lo rimpiazza e lo porta a un risultato che l’uomo non avrebbe mai sperato di raggiungere con le proprie forze. L’esaurimento di cui si parla qui non ha evidentemente niente a che fare con un esaurimento fisico, come se l’ascesi dovesse essere perseguita fino al limite estremo delle forze fisiche. Si tratta invece di un esaurimento morale o spirituale che si impone a noi ogni volta che constatiamo come lo sforzo ascetico superi la nostra generosità e le nostre forze; o anche ogni volta che l’attesa risposta di Dio non ci giunge automaticamente né conformemente ai nostri sforzi. Questo esaurimento morale può arrivare molto lontano: negli scritti monastici antichi è indicato con il termine akedia, parola difficile da tradurre in una lingua moderna. L’acedia indica la tentazione ultima che viene ad attaccare la persona fin nelle sue radici e nelle sue fondamenta. E’ d’altronde il patrimonio dei monaci più esperti, soprattutto degli eremiti che si sono ritirati nel deserto e hanno rinunciato a ogni consolazione umana. Evagrio il Pontico ha analizzato questa crisi con grande perspicacia: descrive l’akedia come uno stato di smarrimento totale in cui la vita monastica stessa può essere messa in discussione. Può abbattere ogni cosa, può perfino accecare gli occhi del cuore (Praktikos 36) e “lacerare l’anima come un cane lacera un cerbiatto” (ivi 23). “Contiene in sé quasi tutte le prove” (Commento al salmo 139,3), non si attacca al corpo ma all’anima, e non solo a una parte dell’anima, come farebbe per esempio l’invidia, ma “imprigiona l’anima intera e soffoca lo spirito” (Praktikos 36). In questo senso l’acedia non è una ferita localizzata o una crisi passeggera: è una malattia cronica del cuore o, se si vuole, una condizione di spirito che minaccia tutto ciò in cui penetra e con cui viene a contatto. E’ pericolosa perché più a lungo si protrae, più diventa sottile fino a che, in uno stadio avanzato, si sottrae completamente allo sguardo di chi ne è affetto: “l’akedia ottenebra la luce divina negli occhi” (Antirrhetikos VI,16). Questo smarrimento assume forme sempre più gravi: ossessionato dai suoi mormorii, il monaco dimentica la preghiera di lode e spreca la propria orazione; durante le veglie, la fonte delle lacrime si inaridisce; la regola perde il suo significato e appare disumana; il futuro è ermeticamente chiuso. “A cosa mi può servire questa vita senza futuro? – pensa il monaco – Ho forse lasciato il mondo per debolezza o per paura? I miei motivi erano sani e onesti? Vivendo nel mondo potrei essere più utile a genitori e amici. Dio chiede davvero una purezza di cuore così esigente come è stata fatta balenare davanti ai miei occhi ingenui di novizio? Dio non si accontenta forse della fede semplice dei laici?”. D’altro canto, non trova risposta a queste domande: anche gli angeli lo hanno abbandonato per lasciarlo preda del demonio. Più nulla sembra in grado di tirarlo fuori da questo vicolo cieco. “La pazienza potrà ancora convincere Dio ad aver pietà di me?” (ivi VI,18). L’akedia riduce così l’asceta agli estremi: “L’anima deperisce e soffre, soccombe all’amarezza dell’akedia. Le sue forze cedono alla sofferenza, la sua perseveranza vacilla davanti alla violenza di un demone così potente. L’anima si trova disorientata e si comporta come un bambino che piange disperatamente e brama essere consolato, senza speranza” (ivi VI,38). Questo accenno a un ritorno alla condizione infantile è significativo: sintomi del genere, inattesi in un grande asceta, indicano il pericolo di regressione psicologica, permettono di cogliere fino a che punto la vita spirituale può essere lacerata dall’akedia. Il monaco è imprigionato nei suoi limiti di uomo. Presto o tardi, ogni asceta si viene a trovare in questo vicolo cieco: l’akedia non è altro che la sensazione di vertigine provata di fronte al vuoto tra Dio e l’anima e l’incapacità di superarlo o, semplicemente, di sopportarlo. Una simile descrizione sembra addirittura suggerire che l’asceta sfiori la follia, il che non deve sorprendere: è normale che una simile prova, mettendo in questione i nostri atteggiamenti nei confronti di Dio – solitamente così rassicuranti – ci aggredisca e ci colpisca nel punto più intimo e più vulnerabile della nostra debolezza. Quale atteggiamento adottare al cuore di questa crisi? I padri ai quali allude Evagrio danno tutti il medesimo consiglio: perseverare, non cedere, non abbandonare la propria cella, a nessun costo. Più. d’uno senz’altro si chiederà con che diritto si possa insistere sulla perseveranza, contro ogni logica, di fronte a una crisi così profonda. La risposta, sempre secondo Evagrio, è semplice: lo svolgimento successivo è assodato. Quando l’angoscia raggiunge l’estremo, la grazia di Dio viene a prendere dimora nell’uomo che, non sapendo più a che santo votarsi, purtuttavia non dispera: “Non temere e non cercare di evitare questo periodo di lotta, così vedrai le grandi opere di Dio: il suo aiuto, la sua cura per te e ogni pienezza in vista della tua salvezza” (Hypotyposis VI). Chi persevera nella solitudine, per amore di Gesù, vedrà che “uno stato di pace e di gioia inesprimibile subentrerà nell’anima al demonio dell’akedia” (Praktikos 12). Basta “credere in Dio”, “affidarsi a lui”, “contare su di lui”, “perseverare nella fiducia in Dio”, “restare tranquillo, solo e silenzioso” per non perdere Dio (Antirrhetikos VI,12,12,40,41). Proprio come Giobbe, la cui figura umile e paziente si intravede in numerosi brani di Evagrio: “Dio fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana” (Gb 5,18 citato in Antirrhetikos VI,31). Evagrio probabilmente è debitore di questa descrizione così concreta dell’akedia al suo padre spirituale e maestro nel deserto d’Egitto, il celebre Macario il Grande. Pare essere stato lui il primo a usare il termine contritio cordis, contrizione del cuore, nella Lettera ai suoi discepoli di cui riportiamo alcuni passi. Macario spiega che l’ascesi sembra facile solo agli inizi, ma molto presto il monaco ha l’impressione che essa vada al di là delle sue forze: “Il monaco arriva a un punto tale che non gli sembra più possibile digiunare, vinto com’è dalla stanchezza del corpo e dalla lunghezza del tempo. I suoi pensieri gli sussurrano all’orecchio: ‘Per quanto tempo riuscirai ancora a sopportare questa fatica?’; oppure: ‘Può forse Dio perdonare così tanti peccati?’; gli ispirano desideri impuri; l’anima si sente di una debolezza estrema e il cuore deperisce, al punto che il monaco giunge alla convinzione che il peso del celibato non è per lui. Le tentazioni gli parlano della vita che appare di una durata infinitamente lunga, della virtù così difficile e della fatica così pesante e infine insopportabile; gli parlano anche del suo corpo, così debole e fragile di natura… Possiamo paragonare questo monaco a una nave senza timoniere che va costantemente a finire contro gli scogli. Il suo cuore è come seccato, a ogni tentazione sembra venir meno… Perché Dio permette alla crisi di scuoterci in maniera così impietosa? E forse l’unico modo che ha per aprirci alla grazia? Macario prosegue: “Infine il Dio benevolo gli apre gli occhi del cuore affinché capisca che è lui che gli dà la forza. Allora quell’uomo è capace di lodare Dio in piena verità e umiltà; come diceva David: Mio sacrificio è uno spirito contrito, la bontà e la mitezza (cf. Sal 51,19). Da questa dura lotta derivano l’umiltà, il cuore contrito, la bontà e la mitezza”. Questo è uno dei testi più antichi della spiritualità monastica. Sovente si è detto che quest’ultima avrebbe contribuito in misura notevole alla formazione di una spiritualità di prestazioni volontaristiche, ma basta il nostro testo per confutare una simile interpretazione. Non ci può essere ascesi cristiana, né sforzo o impegno cristiano, che non sfoci inesorabilmente nella contrizione del cuore, in quel punto zero in cui la potenza pasquale di Gesù prevarrà su tutto, utilizzerà tutte le sue potenzialità e opererà meraviglie nell’abbassamento e nell’umiltà dell’asceta, meraviglie che sorpasseranno gli sforzi più generosi. Nell’ambito dell’ascesi non ha senso parlare di eroismo o di prestazioni grandiose: ci sono solo meraviglie, autentici miracoli. Questo vale per qualsiasi forma di ascesi cristiana: per il celibato e il digiuno come per l’obbedienza e la dedizione nel servizio agli altri. E’ Dio che opera tutto questo in noi, spesso quando meno ce lo aspettiamo e quando l’esperienza ci ha insegnato che qualcosa oltrepassa completamente la nostre capacità. Basta allora prestarsi al miracolo, offrendosi alla sua potenza, nella gioia inesprimibile del cuore spezzato e contrito che osa porre la fiducia nell’amore di Dio, fino alla follia. Torniamo un attimo al significato del termine “ascesi”, nell’uso cristiano ed evangelico. Nel greco classico la parola significa esercizio, allenamento. A cosa ci si allena nell’ascesi? Vuol forse dire che mettiamo alla prova le nostre forze per conoscerne i limiti sul percorso dell’ascesi? No di certo. L’ascesi cristiana non attribuisce alcuna importanza al fatto di sapere fin dove arriva la nostra resistenza; si tratta, al contrario, di sperimentare fin nella nostra carne quanto siamo deboli. Allora, a cosa ci si esercita nell’ascesi? Non alle nostre forze, ma alla grazia di Dio, al piacere della sua grazia. Nell’ascesi infatti l’elemento più importante è di percepire quale grazia mi è effettivamente donata in ogni istante. Se posso avvertire questa grazia e, per così dire, toccarla, allora posso impegnarmi senza esitazioni: celibato, digiuni, veglie… La presenza della grazia è il segno che Dio a questo mi chiama e che la sua grazia non mi verrà mai meno. Ma se non sono certo di questa grazia, con che diritto posso obbligare Dio a intervenire con un miracolo? Sarebbe follia e temerarietà: nessuno può praticare l’ascesi di propria iniziativa, appoggiandosi solo sul fervore e sulla generosità personali, senza essere interiormente certo che Dio l’ha veramente destinato a questa grazia. D’altronde ciascuno di noi riceve una grazia personale ben precisa, la cui misura può essere molto diversa. La grazia dell’uno non ci insegna ancora niente sulla grazia di un altro: ciò che uno riceve non deve necessariamente essere imitato da un altro, se a questo non è destinato. Non serve a nulla voler oltrepassare la misura ricevuta, così come sarebbe deplorevole restare al di qua di questa misura – il che capita molto più spesso. Dio però non cessa di distribuirci la sua grazia in modo suntuoso e regale, poiché il suo braccio non è mai troppo corto (cf. Is 59,1) quando viene a rinnovare le sue meraviglie in favore del suo popolo. Qui nasce inevitabilmente una domanda: “Come discernere la misura della mia grazia?”. Questa domanda pone il problema capitale della didkrìsis, del discernimento degli spiriti. E chiaro che chi è alle prime armi nell’esperienza spirituale è a malapena capace di praticarlo, nella maggior parte dei casi gli è perfino impossibile. Per questo motivo la tradizione subordina le pratiche ascetiche a condizioni ben precise: innanzitutto sottolinea la necessità di un direttore spirituale che sia capace di percepire qualche traccia della grazia in noi e che ci aiuti a vivere e a dialogare con essa. Nulla infatti è più facile che sbagliarsi sulla qualità delle aspirazioni o ispirazioni interiori e, per esempio, attribuire alla grazia ciò che è solo illusione del nostro orgoglio o del nostro egoismo. Voler seguire la via dell’ascesi a qualsiasi costo, senza esservi stati invitati da segni inequivocabili della grazia, significherebbe esporci a passi falsi e tentare Dio. Più avanti avremo comunque modo di ritornare sul tema dell’accompagnamento spirituale.
L’uomo restaurato
Abbiamo appena letto sotto la penna di Evagrio che l’akedia deve trasformarsi in uno stato di pace e in una gioia inesprimibile”. E la condizione della pienezza umana e spirituale verso la quale non cessiamo mai di crescere, la misura dell’uomo perfetto in Gesù Cristo (cf. Ef 4,13). Evagrio e tutta la tradizione dei padri greci la chiamano apdtheia, Cassiano usa il termine integritas, integrità. Quest’ultima espressione è forse preferibile. Non si tratta infatti di uno stato dove le passioni dell’uomo sono annientate, bensì, al contrario, dove ritrovano la loro integrità delle origini: è la condizione primitiva in cui l’anima non era ancora ferita dalle passioni che la lacerano in tutte le direzioni. Le potenze e i desideri dell’anima, che all’origine sono state stornate dal peccato e che rischiavano di disintegrarsi sotto la violenta tempesta dell’akedia, ritrovano la loro unità. L’uomo può nuovamente essere tutto di Dio. Non bisogna però mai dimenticare che questa grazia viene accordata nell’abisso dell’akedia e della disperazione, in un momento in cui la preghiera sale de profundis, dalle profondità di un insondabile sconforto. Non fa altro che aprire questo sconforto: invoca aiuto e implora perdono. A mano a mano che il cuore è purificato dalla preghiera, raggiunge il riposo e si riconcilia con la debolezza e il peccato. Ancora meglio: finisce per distogliere gli occhi dalla propria miseria per contemplare unicamente il volto della misericordia di Dio. La contrizione allora si trasforma impercettibilmente in gioia umile e serena, in amore e in azione di grazie. Nessuna colpa, nessun peccato viene negato o scusato, ma vengono annegati e inghiottiti nella misericordia. Dove abbondava il peccato, la grazia non cessa di sovrabbondare (cf. Rm 5,20). Tutto ciò che il peccato aveva infranto viene restaurato in meglio, molto meglio di prima, dalla grazia. La preghiera porta ancora le tracce del peccato e della miseria – e senza dubbio le porta per sempre – ma la colpa è da quel momento beata, una felix culpa, come cantiamo a ogni veglia pasquale, una colpevolezza che viene inghiottita nell’amore. Tra la contrizione e l’azione di grazie non c e quasi più differenza: le due si compenetrano e le lacrime del pentimento sono anche lacrime d’amore. Poco alla volta questo sentimento gioioso di contrizione finisce per prevalere nell’esperienza spirituale. Da questa ascesi di povertà – patientia pauperum – si leva ogni giorno un uomo nuovo che è interamente pace, gioia, bontà, mitezza. Un uomo segnato per sempre dal pentimento, ma un pentimento pieno di gioia e di amore che affiora sempre e ovunque e che rimane come sottofondo della sua ricerca di Dio. Un simile uomo ha ormai raggiunto una pace profonda perché è stato spezzato e riedificato in tutto il proprio essere, per pura grazia. Stenta a riconoscersi, è diventato diverso: ha toccato da vicino l’abisso profondo del peccato, ma nello stesso istante è stato fatto precipitare nell’abisso della misericordia. Ha finalmente imparato a deporre le armi davanti a Dio, a non più difendersi da lui: resta là, disarmato e indifeso, ha rinunciato a ogni giustizia personale e non ha più progetti di santità. Le sue mani sono vuote, anzi: non contengono altro che la sua miseria, ma ora osa esporla davanti alla misericordia. Dio è finalmente diventato vero Dio per lui, e nient’altro che Dio. Il che significa Salvator, Salvatore dal peccato. L’uomo è addirittura quasi riconciliato con il proprio peccato, come Dio si è riconciliato con esso. E’ felice e riconoscente di essere debole, non è più alla ricerca della propria perfezione: “Eravamo divenuti tutti come una cosa impura e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (Is 64,5). La propria giustizia la possiede in Dio solo: a lui restano solo le sue ferite, ma curate e guarite dalla misericordia, e che si sono sviluppate in meraviglie. Non sa far altro che rendere grazie e lodare Dio, che è sempre all’opera in lui per compiere meraviglie. Per i fratelli e i familiari è diventato un amico, buono e mite, che capisce le loro debolezze. Non ha più fiducia in se stesso, ma in Dio solo. Vive interamente afferrato dall’amore di Dio e dalla sua onnipotenza. Perciò è anche povero, veramente povero – un povero in spirito – e vicino a tutti i poveri e a tutte le forme di povertà, spirituale e materiale. E’ il primo di tutti i peccatori – pensa tra sé – ma un peccatore perdonato: ecco perché sa stare insieme, come uno di loro, un fratello, con tutti i peccatori del mondo. Si sente vicino a loro perché non si sente migliore degli altri; la sua preghiera preferita è quella del pubblicano, diventata come il suo respiro e come il battito del cuore del mondo, il suo desiderio più profondo di salvezza e di guarigione: “Signore Gesù, abbi pietà di me, povero peccatore!”. Gli resta un solo desiderio: che Dio lo metta ancora una volta alla prova per scoprire sempre meglio la sua vicinanza, per abbracciare ancora una volta l’umile pazienza con ancor più amore: quella pazienza e quell’umiltà che lo rendono così simile a Gesù e permettono a Dio di rinnovare in lui le sue meraviglie.
LA PATERNITÀ SPIRITUALE
La conclusione del capitolo precedente segnalava la necessità di essere aiutati o accompagnati per imparare a vivere in contatto e in armonia con la grazia. Questo capitolo vorrebbe appunto trattare delle relazioni tra due persone, una delle quali si sforza di insegnare all’altra come cercare Dio e vivere con lui. Si tratta di quella che una volta si chiamava la direzione spirituale. Oggi, con un’espressione che sembra meno autoritaria e più rispettosa di colui che chiede, la si chiama accompagnamento spirituale. Lo spostamento dall’una all’altra espressione tradisce subito uno dei paradossi della nostra epoca nei confronti dell’esperienza spirituale. Da un lato si constata una certa reticenza verso nozioni come “padre spirituale” e “direzione spirituale”, di solito accuratamente evitate, soprattutto da coloro che per lungo tempo sono stati obbligati a sottomettervisi. Non parlarne più non solleva alcuna obiezione, mentre alcune scoperte moderne, la cui importanza non può essere ignorata, sembrano invitarci a questo prudente silenzio. Ogni credente non deve essere personalmente responsabile della propria avventura spirituale? Perché continuare a dipendere dal giudizio di un altro? Un altro che, nel migliore dei casi, sarà sempre un estraneo che parla dall’esterno, e che invece, nel peggiore dei casi – rischio sempre possibile – fa violenza alla coscienza del suo interlocutore invece di promuovere uno spazio in cui la libertà dello Spirito possa dispiegarsi. Dal lato opposto, mai come oggi la domanda di aiuto spirituale da parte di giovani e meno giovani è stata così grande e così urgente. Numerosi, dentro e fuori la chiesa, sono coloro che si sentono attirati da qualche avventura spirituale e cercano una guida o un maestro. Importunano i responsabili delle chiese con le loro domande: presbiteri, religiosi, genitori, laici esperti hanno dovuto ascoltare simili interrogativi da parte di quanti, e sono numerosi, vanno alla ricerca di una parola – un rhéma, come dicevano i padri del deserto – nel senso più forte del termine. Molti di noi non hanno saputo rispondere a queste domande: abbiamo molta familiarità con alcuni principi che ci sono stati insegnati nel passato, o con qualche ricetta a buon mercato sperimentata da noi stessi con maggiore o minore risultato. Siamo capaci di dare qualche pacca incoraggiante sulle spalle e di evitare con una battuta di rispondere a una domanda un po’ profonda. Ma in profondità non sappiamo fornire una vera risposta, non per mancanza di conoscenza o di sapere, ma molto semplicemente per mancanza di esperienza personale: come possiamo parlare della grazia di Dio se non l’abbiamo sperimentata in noi stessi? Che simili domande rimangano senza risposte o ricevano solo una mezza risposta: ecco indubbiamente un punto delicato della nostra chiesa odierna. Come stupirsi allora se alcuni si rivolgono ad altre chiese cristiane, per esempio, nonostante il loro patrimonio al riguardo non sia diverso dal nostro, o addirittura verso le tradizioni non cristiane dell’oriente che mai metterebbero in dubbio che l’esperienza interiore non possa essere destata e trasmessa senza l’intervento di un maestro? Un apoftegma attribuito ad Antonio il Grande, unanimemente riconosciuto come il padre dei monaci, circolava tra gli anacoreti del IV secolo: “Ho visto monaci dopo molta ascesi cadere e uscir di senno perché avevano confidato nella loro opera e trascurato quel precetto che dice: ‘Interroga tuo padre ed egli ti insegnerà’ (Dt 32,7)”. Antonio si appella alla Parola di Dio per giustificare la necessità della direzione spirituale e insinuare che un’esperienza spirituale senza guida non è mai priva di rischi.
Esplorare la vita
Qual è la natura di questa avventura spirituale che non è assolutamente propria dei monaci ma che interessa ogni battezzato che voglia prendere sul serio il germe di vita deposto dalla grazia in fondo al suo essere? Si tratta, per l’appunto, di un germe, di un seme: di una vita, quindi, cioè di qualcosa che, di per sé, deve muoversi, crescere, svilupparsi se non vuole languire e morire. La vita non è mai statica: si evolve sempre, in un senso o nell’altro; di conseguenza, prendere sul serio la vita significa coltivarla, ascoltarla, circondarla di premure, liberarla dagli ostacoli, nutrirla e lasciare che sbocci e fiorisca in pienezza. Sarebbe estremamente più semplice per tutti se la vita cristiana si riducesse a una catechesi, all’insegnamento di alcune verità elementari e assolute: in tal caso basterebbe memorizzarle con assiduità per tirarne le logiche conseguenze a tempo opportuno. Lo stesso avverrebbe se la fede fosse costituita essenzialmente da un codice di precetti e di divieti o se si esaurisse in un grandioso progetto di azione o di conquista: sarebbe sufficiente conformarvi il nostro comportamento quotidiano. In realtà si tratta di qualcosa di molto più vasto, anche se la fede si esprime necessariamente in un corpo di dottrine, anche se genera un determinato comportamento morale e spinge il credente a un impegno effettivo e concreto a servizio del Regno già da ora. Ma prima e ben più in profondità di tutto questo, la fede è una vita – la vita di Dio in noi – che può essere soffocata dalle nostre membra carnali, cioè dall’orgoglio del cuore e da un corpo ribelle: è una vita che deve aprirsi un cammino per progredire. D’altronde non è innanzitutto a un insegnante, né a un catechista, né a un professore di morale e nemmeno a un manager di grandi imprese spirituali e apostoliche che pensa colui che cerca un aiuto spirituale. Pensa innanzitutto a qualcuno che conosca per esperienza diretta questa vita e sia capace di trasmetterla. Ebbene, la stessa trasmissione della vita è un affare di vita: non c’è nulla di più naturale e di meno sofisticato per la vita che sciamare e diffondersi. La vita diventa spontaneamente trasparenza e agisce per osmosi. Tra i primi monaci del IV e V secolo, dove la paternità spirituale costituiva la pedagogia fondamentale, un apoftegma circolava in diverse versioni. Eccone una, attribuita ad abba Poemen, uno dei più famosi padri del deserto: “Un fratello chiese ad abba Poemen: ‘Dei fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?’. ‘No – gli dice l’anziano – fa’ il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi’. Il fratello gli dice: ‘Ma sono proprio loro, abba, a volere che io dia loro ordini’. Dice a lui l’anziano: ‘No! Diventa per loro un modello, non un legislatore”‘. Questo aspetto della tradizione monastica cristiana richiama singolarmente un altro detto – appartenente, questo, alla tradizione chassidica del giudaismo – in cui un discepolo spiega come gli sia bastato guardare il proprio maestro che si allacciava un sandalo per restare edificato: un semplice gesto e il messaggio è trasmesso! La guida infatti è molto più di un maestro: è lui stesso l’insegnamento, l’intera sua vita costituisce il messaggio. La vita desta la vita. E l’anziano o l’accompagnatore si presta a questo mistero di vita non con quello che sa e ancor meno con quello che può dire, ma molto semplicemente in forza di ciò che è e che di conseguenza può trasmettere, nel senso più forte di questo termine, in virtù della qualità del suo essere che irradia senza neanche che lui lo sappia e che delle parole debbano nascere. Risulta subito chiaro che la paternità spirituale raggiunge una notevole profondità di quelle che si è soliti chiamare relazioni umane e ne costituisce un caso privilegiato. Si tratta infatti di due esseri che si trovano di fronte, che sono chiamati a fare un pezzo di strada insieme e tra i quali deve accadere un evento importante. Una scintilla di vita sprizzerà dall’uno verso l’altro: non una vita qualsiasi, ma la vita stessa di Dio, la luce e la forza del suo Spirito. Evento spirituale, senza dubbio, ma che in nessun momento potrà essere separato dall’intensità della relazione che unisce questi due individui. Questa stessa intensità si trova al servizio del mistero della Parola di Dio che ancora una volta è destinata a compiersi ma, come sempre, incarnandosi negli uomini che siamo noi. Ne consegue l’importanza capitale, in materia di paternità spirituale, della qualità stessa di questa relazione: è proprio la qualità dell’esperienza vissuta in comune e non la quantità – cioè la frequenza dei contatti, il numero o la lunghezza delle lettere o dei colloqui – a permettere all’evento di sbocciare; anzi, la quantità in alcuni casi rischierebbe di impedire che qualcosa avvenga e manterrebbe i due protagonisti in una stasi che presto si rivelerebbe futile e in ogni caso inefficace. Si può arrivare a dire che l’accompagnamento spirituale è una delle forme più alte della relazione umana? Secondo il filosofo danese Kierkegaard, il padre spirituale è più di un amico, mentre Dante, parlando di Virgilio, sua guida spirituale, confessa che per lui è più di un padre. L’antico termine celtico ananchara significa “padre della mia anima”, e il linguaggio buddista usa l’espressione lama, “madre incomparabile”; possiamo ricordare anche il termine greco-ortodosso che indica il monaco come kalégeros, “bel vecchio”, immagine che suggerisce sapienza e calore al contempo. Qual è questa qualità dell’essere al cui contatto la vita scaturisce? Ha un nome solo: agépe, amore, perché è interamente a immagine di Dio e del Figlio suo tra di noi, di cui chi accompagna un fratello tende a diventare l’icona. Sul volto di un uomo e attraverso il suo modo di agire finiamo per percepire l’amore di Dio e tutte le sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Ne veniamo sconvolti, trasformati: è come se una profondità sconosciuta venisse scavata in noi. A volte abbiamo l’impressione di sapere finalmente chi siamo e perché esistiamo, ci viene svelato un nuovo nome, il nostro, quello vero: è come una rinascita, un essere generati alla vera vita. La forza di un simile sconvolgimento spiega come mai, fin dalle prime generazioni cristiane, si utilizzano per descriverlo i termini di paternità e maternità. Eppure Gesù sembra aver chiesto il contrario: “Non fatevi chiamare padre, né maestro… uno solo è il vostro Padre, uno solo il vostro Maestro”. Ma già Paolo, in diversi passi delle sue lettere, descrive la propria attività di apostolo come quella di un padre o addirittura come quella di una madre. E’ padre, come sostiene, perché attraverso l’evangelo ha generato dei figli in Cristo Gesù (cf. iCor 4,14-15). Ma è anche madre, dato che altrove confessa di soffrire nel proprio corpo i dolori del parto finché Cristo non sia formato nei suoi discepoli (cf. Gal 4,19). Padre e madre nel contempo, a immagine di Dio che è Padre al di là di ogni paternità e anche Madre al di là di ogni maternità terrena. D’altronde Gesù ha chiesto solo di non farsi chiamare padre: questa ingiunzione corrisponde a una delle condizioni essenziali per un accompagnamento spirituale fruttuoso. Nessuno si arroga da sé una paternità, non ci si può erigere a guida di un altro. Anzi, avviene il contrario: non è il padre che sceglie il discepolo, è invece il discepolo che discerne il proprio padre, a volte dopo averlo cercato a lungo. In un certo senso possiamo addirittura dire che spetta al figlio far sbocciare una paternità, spetta al discepolo consentire al maestro di rivelarsi. Ci sarà quindi un atteggiamento del discepolo assolutamente indispensabile affinché l’avvenimento possa prodursi: sarà un atteggiamento di completa disponibilità, di apertura, di attesa che riuscirà a ridestare in un altro la guida e il maestro che ancora sonnecchia. Un detto dei monaci del deserto lo diceva un po’ bruscamente: “Perché i monaci di oggi non hanno più parole da offrire? – chiedeva un anziano – Perché i figli non sanno più ascoltare”. Detto cristiano che ricorda un proverbio indù: “Quando il discepolo è pronto, appare il maestro”. Esiste infatti una certa correlazione, una sottilissima reciprocità precedente tra il discepolo e il maestro. La chiave del nostro essere profondo la portiamo indubbiamente in noi stessi, ma siamo incapaci di farla emergere da soli: ci vuole una parola proveniente dall’esterno che si ripercuota in noi e desti un’armonia, un accordo profondo. Ciò che il discepolo attende dal maestro lo porta già inconsciamente in se stesso: aspetta solo di vedere il proprio mistero svelato da un altro. Egli indovina, intuisce questa capacità di svelamento in colui che sta per scegliersi come guida, perché è qualcosa che coincide con la propria profondità più segreta, con quel meglio di se stesso che per ora conosce solo in modo confuso. Per questo siamo sempre destinati ad avere quel maestro piuttosto che quell’altro. Infatti quello che il maestro dirà, magari senza neanche esprimerlo, quello che farà provare, affiorare nello spirito del discepolo, sgorgherà in realtà dal cuore stesso di quest’ultimo. Da quel momento le parole o i gesti del maestro non verranno pesati dal loro contenuto oggettivo, potranno addirittura essere solo simbolici; l’essenziale è la chiave interiore di ciascuno, il maestro interiore, destato nel cuore del discepolo, grazie al quale il suo essere profondo riceve vita e forma. Dobbiamo anche spingerci oltre, dato che parliamo di un’esperienza della vita di fede, quindi retta dai principi dinamici di questa fede. La chiave o il maestro interiore di cui si parla, in un credente non è altro che lo Spirito santo in persona, infallibilmente presente come realtà anteriore a qualsiasi velleità spirituale, e che prende in mano progressivamente il cammino interiore e l’orienta secondo il disegno di Dio. L’azione dello Spirito però non dispensa dal testimone esterno che è là per attestarla e per aiutare a discernerla correttamente. La ragion d’essere della paternità spirituale è di favorire la venuta al mondo di questa vita nuova, della nuova creatura nello Spirito santo. Si tratta di accompagnare attentamente il passaggio progressivo da quello che il Nuovo Testamento chiama l’uomo vecchio all’uomo nuovo. La psicologia ha messo in luce come un processo analogo avvenga anche a livello psicologico: divenire o essere adulto suppone un passaggio continuo dall'”io” superficiale all'”io” profondo, come pure un’integrazione dell’inconscio nella vita quotidiana cosciente. In ogni uomo si cela un tesoro segreto di cui deve prendere coscienza, che deve essere purificato e assunto affinché possa dare frutto. In questo modo la vita cresce in noi, come un albero che ogni anno porta molti fiori e nuovi frutti. Viene liberata in noi una verità più profonda, la quale deve integrarsi nella nostra vita e perfino nel nostro modo di vivere l’amore. Questa evoluzione continua è d’ altronde l’indice che la vita è ancora all’opera in noi, che non è né paralizzata né irrigidita, ma che è sempre capace di dare nuovi frutti. La vita nuova nello Spirito santo progredisce e si sviluppa allo stesso modo – come diceva Paolo – fino a raggiungere la statura di un “uomo maturo, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13). La crescita di quest’uomo nuovo è sempre legata alla realtà psicologica di ciascuno e in modo difficile da controllare: la guida spirituale ne terrà conto. Non potrà mai discernere chiaramente tra ciò che è puro dato psicologico e ciò che proviene solo dallo Spirito santo. Un chirurgo può distinguere tra un nervo, un muscolo e una vena, ma quando si tratta di vita interiore, un simile discernimento non è possibile. Ogni dato è innanzitutto psicologico, ma nello stesso tempo in armonia o in disaccordo con lo Spirito. Il che significa che l’azione dello Spirito santo può appoggiarsi sia sugli elementi oscuri che su quelli luminosi della personalità. Un equilibrio psicologico non è mai una condizione sine qua non del progresso spirituale, così come un handicap psicologico non è mai un ostacolo insuperabile. L’importante è discernere come vengono messi in opera gli elementi oscuri e quelli luminosi, in che direzione si sviluppano se positiva o negativa e, infine, se sono o meno al servizio dell’amore. Questa è la posta in gioco della paternità spirituale, che cerca di accompagnare e di illuminare questo processo. In altri termini, si tratta della scoperta di quella che oggi si chiama l’interiorità presente in ogni uomo, il suo essere e la sua realtà più profondi, il suo stesso fondamento. Da soli siamo incapaci di far affiorare questo fondo, di destare questa nuova sensibilità ai valori spirituali: dobbiamo essere indirizzati sul cammino, abbiamo bisogno di una parola che illumini questa nuova situazione, in modo da potervi scoprire e riconoscere il lato migliore di noi stessi. In questo senso l’accompagnamento spirituale si avvicina a quella che Socrate chiamava maieutica. Potremmo anche chiamarla ostetricia spirituale, e la guida assomiglia sempre un po’ a una levatrice. E’ uno dei motivi per cui Thomas Merton, in uno dei suoi ultimi scritti (Final Integration. Towards a Monastic Therapy), pone come obiettivo della vita monastica quello di essere fully bom, “pienamente nato”, con il che intende: essere in grado di vivere a partire dalla propria esperienza interiore che si discerne e si avverte sgorgare dal proprio intimo profondo. Quando questa integrazione ha luogo, diventa fonte di grande maturità e di sapienza: la profondità dell’essere umano infatti è più universale dell’io empirico e superficiale. Poiché ha toccato il fondo del proprio essere, un uomo simile ha acquisito una dimensione cosmica, è divenuto un uomo téleios, compiuto, perfetto. Ha raggiunto un’identità integrale più ampia di quella del suo piccolo io limitato, che è solo un frammento del suo essere autentico. Può ora identificarsi con tutti gli uomini e partecipare della loro vita; è infatti diventato uomo universale, sorgente di amore per tutti. E’ in grado di percepire l’amore e la sofferenza di ciascuno e, ciononostante, di restare libero nei confronti di tutti; ha raggiunto la sorgente della vera libertà al fondo del proprio essere, sorgente che è lo Spirito santo. Non è più guidato dalla propria generosità esteriore, o da nobili sentimenti, e nemmeno dalla fredda intelligenza. Ormai sa vivere spontaneamente e gratuitamente a partire dalla propria interiorità e dalla sua sorgente profonda, là dove Dio lo abita e lo guida. La spontaneità interiore è segno di libertà interiore; in questo senso bisogna intendere l’espressione di Agostino: Ama et fac quod vis, “ama e fa’ ciò che vuoi”. E sufficiente amare, e amare sempre più. Adesso ci è facile rispondere a una domanda frequente: “Si può fare a meno della paternità spirituale?”. Naturalmente Dio può sempre guidare qualcuno in modo diretto, ma normalmente non agisce così. Per chi desidera sinceramente inoltrarsi un po’ nello spessore dell’esperienza spirituale, si impone un certo accompagnamento da parte di un fratello; e non solo agli inizi, quando si concepisce più facilmente l’inevitabilità di una certa iniziazione, ma anche più tardi, soprattutto ogni volta che, sotto l’azione dello Spirito santo, uno è invitato a fare un passo in avanti nel cammino verso Dio. Ogni volta infatti bisogna oltrepassare una specie di tetto, accedere a un nuovo stadio della vita. Quando si è sul punto di doppiare la boa, affiorano le stesse incertezze, si presentano gli stessi tranelli: bisogna scartare illusioni, evitare scogli, e sempre, nel dedalo di innumerevoli e sottili reazioni del nostro orgoglio, stupito e insieme ferito, minacciato di essere colpito a morte, bisogna individuare quel tenue filo della grazia, la dolce e quasi impercettibile mozione dello Spirito, per aprirsi a lei, lasciare che si impadronisca di noi e ci conduca là dove non pensavamo, là dove spesso non avremmo mai voluto andare, verso ciò che occhio non ha mai visto, né orecchio udito, né mai è entrato nel cuore dell’uomo. Ma ogni volta – ed è questa una certezza della fede – anche la guida sarà là: se siamo pronti, Dio la metterà sul nostro cammino. Allora il più povero e l’ultimo dei nostri fratelli o delle nostre sorelle potrà offrirci la sorpresa di una Parola di Dio, a condizione che la sappiamo attendere.
Manifestare i propri desideri
Abbiamo appena visto come la qualità della paternità spirituale dipenda dalla qualità di una relazione umana. Ebbene, la qualità di ogni relazione umana riflette in buona parte la qualità del dialogo che si instaura tra le due persone in questione. Tutta la tradizione è unanime su questo punto: l’accompagnamento si basa sul dialogo, il discepolo interroga suo padre nell’attesa di una parola che si presume che questi sia in grado di offrirgli. Anche il contenuto di questo dialogo è ben attestato: lo si chiama comunemente apertura del cuore o manifestazione dei pensieri. Di cosa si tratta? Precisiamo subito che è bene tener distinti accompagnamento spirituale e sacramento della confessione. Al presbitero, ministro del sacramento, si confessano i peccati realmente commessi per i quali si chiede l’assoluzione. Al padre spirituale – al di fuori di qualsiasi contesto sacramentale, dato che nulla vieta che sia un laico – si manifestano i desideri e le tendenze che affiorano nel cuore e nell’immaginazione, anche se nessun peccato è stato commesso, né interiore né esteriore. La confessione può essere il punto di partenza di un colloquio spirituale che può eventualmente seguirla, ma questo non è indispensabile: con l’assoluzione finale, la confessione è pienamente compiuta. D’altro canto, un colloquio spirituale non è necessariamente seguito dalla confessione: nella maggior parte dei casi non è così. D’altronde la guida spirituale non è forzatamente un presbitero: la paternità spirituale non ha nulla a che vedere con il sacerdozio ordinato. Un laico, uomo o donna, che abbia un’esperienza personale della vita dello Spirito santo può farsene carico altrettanto bene che un presbitero, e senz’altro meglio che un presbitero che abbia poca o nessuna esperienza. Alla propria guida spirituale non si manifestano innanzitutto i peccati effettivamente commessi, ma piuttosto ciò che gli anziani chiamavano i logismoi, i pensieri. La traduzione è ambigua. Non si tratta tanto di quello che pensiamo, ma piuttosto di quello che sentiamo, di ciò verso cui tendiamo: sentimenti, desideri, inclinazioni che si fanno strada, incontrollati, nel cuore e nella mente, anche se non sfociano – se non raramente – in peccati veri e propri. Il termine “confessione” qui sarebbe perciò errato, soprattutto nella sua accezione sacramentale: si tratta unicamente di mettere in luce, di scoprirsi di fronte al proprio interlocutore. Chi apre così il proprio cuore non chiede un’assoluzione e nemmeno un incoraggiamento o una parola rassicurante, anche se così potrebbe sembrare. Chiede innanzitutto di essere accettato: poter esprimere a un altro desideri e sentimenti, così a lungo repressi e rimossi, costituisce per lui un evento straordinario che, già di per sé, rappresenta un enorme sollievo. Non è più solo con loro, gli è possibile confidarli a un altro che li accoglierà tranquillamente e con amore. Accogliere i sentimenti degli altri è infatti innanzitutto una questione di amore. I primi momenti del colloquio spirituale, quando i sentimenti più difficili vengono finalmente in superficie, sono sempre i più importanti. La qualità e l’autenticità dell’amore dell’accompagnatore (e possiamo ben dire del padre spirituale) sono qui messe alla prova. Troppe guide spirituali commettono un grave errore: quello di parlare troppo presto, sia per biasimare che per rassicurare. Spiegheremo più avanti in che cosa consiste questo errore tattico; ora ci basta sottolineare che l’ascolto attento e benevolo di quanto viene confidato riveste un’importanza determinante per il prosieguo della relazione. Ancora una volta, non si tratta assolutamente di approvare o di condannare le inclinazioni e i desideri che si affacciano; si tratta semplicemente di accettare una persona per come si presenta, magari anche afflitta da sentimenti che riesce a esprimere solo con difficoltà. Ha il diritto di essere quello che è, come si sente e come si mostra: con i suoi desideri. Che questi siano buoni o cattivi non deve entrare in linea di conto, per il momento, neanche se sono espressi con un linguaggio molto confuso. Siamo qui di fronte al punto più delicato dell’accompagnamento spirituale: dietro questa confusione, apparentemente inaccettabile, si nascondono sentimenti umani insoddisfatti e difficili da esprimere, i quali non solamente sono fondamentali, ma anche vitali e profondamente sani. Il fatto che questi desideri si esprimano per il momento in modo confuso è solo un male relativo che si spiega il più delle volte con l’imperizia e la mancanza di esperienza unite a incidenti del passato con tutte le conseguenti malformazioni: tutte cose per le quali la vittima non ha alcuna responsabilità. Quanto c’è di profondamente sano in questa persona deve innanzitutto essere schiettamente riconosciuto mediante la confutazione di alcuni desideri o fantasmi, deve essere ascoltato e, nella misura del possibile, messo in valore nella sua verità profonda. Ecco l’unica possibilità di metterci in contatto con la misericordia di Dio e con la grazia che vengono a valorizzare l’uomo fin nella sua debolezza più profonda, fino a guarirlo se ne ha bisogno. E’ noto il consiglio che Benedetto dà all’abate: oderit vitia, diligat fratres, “odierà i vizi ma amerà i fratelli” (RB 64,11). Il fratello deve sentirsi amato nonostante la propria debolezza, e al cuore stesso della propria debolezza. Va amato com’è, e basta. Con Dio non ci sono condizioni imposte per aver diritto all’amore, né colpe imperdonabili che farebbero decadere dall’amore: il padre spirituale diventa qui l’icona del Padre celeste, “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5,45), l’icona di Gesù, che non è “venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17). Il fatto che sentimenti e desideri a lungo repressi possano finalmente emergere al cuore del colloquio spirituale è importante per un motivo ancora più profondo: è forse la prima volta che siamo in grado di raggiungere perfino i nostri desideri più profondi, il che è assolutamente necessario se la grazia deve un giorno portare frutto in noi. I nostri desideri più profondi infatti non sono di tipo razionale, non si situano nemmeno a livello della nostra volontà o delle nostre facoltà d’azione. La grazia scende molto più in profondità nell’uomo, raggiunge i suoi desideri più segreti e ancora totalmente inespressi, là dove questi si sente più vulnerabile e dove effettivamente è stato maggiormente ferito, là dove sa di essere incredibilmente debole, là dove, secondo Paolo, “la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne” (Gal 5,17). La carne per Paolo va intesa in senso lato: sono i nostri desideri profondi, quelli che costituiscono il punto di contatto tra la grazia di Dio e la persona umana, il punto d’impatto in cui lo Spirito e la carne tentano di sopraffarsi l’un l’altra, dandosi battaglia con desideri opposti. Ma è proprio questo il luogo in cui possiamo essere assolutamente certi di incontrare la grazia. Per essere in grado di ascoltare in noi i desideri dello Spirito, bisogna innanzitutto che i desideri della carne emergano in superficie e si rendano percepibili. Dove la carne non fosse percepita, come potrebbe esserlo lo Spirito, lui che lotta incessantemente contro la carne? Ecco perché è estremamente importante essere messi di fronte ai propri desideri più profondi, osare guardarli in faccia, senza paura e anche senza temerarietà, affinché l’impulso profondo dello Spirito possa anch’esso sorgere e aprirsi un varco. E proprio questo l’obiettivo della paternità spirituale: avvicinare una persona ai propri sentimenti e ai propri desideri più profondi, al fine di avvicinarlo allo Spirito santo.
La censura interiore
Abbiamo visto sopra che il ruolo del padre spirituale consiste nel risvegliare nel discepolo il Maestro interiore, cioè lo Spirito santo. Prima di arrivarci, entrerà inevitabilmente in conflitto con un’istanza interiore che, in ciascuno di noi, rappresenta il nemico giurato del Maestro interiore. Chiamiamo questa istanza la censura interiore, il censore interiore. Chi possiede qualche nozione di psicologia avrà già capito a cosa ci si riferisce: si tratta del super-ego, struttura necessaria di ogni psiche umana, che svolge un ruolo preponderante nella nostra vita morale. Nessuno sfugge alla sua influenza il cui risultato può essere sia paralizzante che liberatore. In ogni caso anche il super-ego dev’essere modellato e guarito dalla grazia. In ciascuno di noi agisce come un’istanza inconscia che esercita una certa autorità sulle nostre opzioni concrete. E’ una sorta di cristallizzazione dei ricordi che ogni autorità esercitata nei nostri confronti, soprattutto nella prima infanzia, ha lasciato in noi. Ancor oggi noi percepiamo, senza saperlo, l’eco di disapprovazione o di incoraggiamento di ordini, comandi o divieti ricevuti nel passato, di punizioni che ci sono state inflitte e di sensi di colpa da cui siamo stati schiacciati. Inutile dire che la figura del padre o, meglio, le tracce che nostro padre, a torto o a ragione, ha lasciato in noi hanno svolto un ruolo determinante nella formazione di questo super-ego. Ma anche tutti quelli che hanno esercitato qualche autorità su di noi – insegnanti, educatori, preti – hanno lasciato la loro impronta, positiva o negativa. Come una volta sotto il controllo più o meno severo del padre, così ora mi trovo sotto il dominio altrettanto vincolante di questa istanza interiore che chiamiamo censore interiore: essa svolge il ruolo di spauracchio che mi vieta certe cose, mi impedisce di riuscire e a volte mi fa fallire. E’ ancora lei che mi minaccia e mi incute timore, che mi punisce e mi schiaffeggia, che suscita in me il sentimento di colpa e di vergogna. Se proviamo difficoltà a svelare i nostri sentimenti e i nostri desideri, non è innanzitutto perché sono cattivi, ma perché ci sentiamo inconsciamente giudicati, per quanto li concerne, dal nostro censore interiore. Sentirsi intimiditi o vergognosi di fronte al nostro consigliere spirituale deriva dal fatto che attribuiamo a lui i giudizi di valore di cui soffriamo a ogni istante a causa della nostra censura interiore. Questa identificazione del padre spirituale con il censore interiore, compiuta inconsapevolmente dal discepolo, racchiude da un lato la possibilità di autentica liberazione e, dall’altro, il rischio di un fallimento senza alcuna speranza. Rischio notevolmente aggravato se l’accompagnatore prende inconsciamente e anche solo in parte il posto del censore interiore, ingrandendo e rafforzando l’influenza nefasta di quest’ultimo, seppur con le migliori intenzioni. Questo capita molto più velocemente e più spesso di quanto si pensi e, nella maggior parte dei casi, molto prima che lo si sospetti. D’altronde, se il colloquio spirituale non conduce alla libera manifestazione dei desideri e dei sentimenti più profondi, ci sono scarse possibilità che possa succedere qualcosa di diverso. Consideriamo per un momento lo svolgimento classico di un colloquio spirituale come lo si praticava fino ad alcuni anni orsono, senza per questo negare che spesso sia stato fruttuoso: vi era un grosso pericolo che l’accompagnatore prendesse il posto del censore interiore. Si trattava innanzitutto di inculcare nel figlio spirituale alcune ferme convinzioni. L’accompagnatore gli proponeva quindi un ideale attraente. Il giovane non deve forse sognare un ideale e applicarsi per realizzarlo? La volontà del candidato veniva fortemente stimolata: se era abbattuto, lo si incoraggiava; se avveniva qualche scivolone o passo falso, si faceva appello al repertorio classico delle minacce, in cui il concetto di peccato mortale aveva un ruolo obbligato e insostituibile. Nel migliore dei casi, per favorire la guarigione, veniva stilato un piano concreto di mortificazioni, in cui la tattica di “allenarsi a cose faticose e difficili” per non più cedere alle tentazioni faceva la parte del leone. Tutto questo, naturalmente, con l’aiuto della grazia di Dio: aiuto che era sempre supposto ma scarsamente messo in rilievo da una simile strategia. Il punto nevralgico di una direzione spirituale di questo tipo è indubbiamente il fatto che l’accompagnatore è portato a dare il cambio al super-ego, al censore interiore del discepolo. Insieme corrono così il rischio di non raggiungere mai il Maestro interiore, né la grazia dello Spirito santo, fonte di ogni autentica libertà. Un simile accompagnatore non solo non farà mai opera di risveglio alla vita, ma aumenterà l’ansietà e irrobustirà la censura interiore, anche se userà spesso la parola libertà. Anche il concetto di libertà, infatti, può essere adoperato con il tono dell’obbligo, il che non fa che rendere ancora più confusa la situazione. Abbracciare il ruolo del censore interiore nel corso di un colloquio è cosa relativamente frequente e non si esagera mai nell’evitarlo. E quello che avviene se l’accompagnatore si permette di dire: “E ancora colpa tua”, “Dovresti aver vergogna”, “Non ci sono scuse per la tua debolezza”. Ma il risultato è altrettanto funesto se approva o rassicura con generosità: “Bravo! Molto bene”, “Non c e niente di male in questo”, “L’intenzione era buona”, “Al giorno d’oggi questo è permesso”: frasi simili sono anch’esse graditissime dal super-ego. Se l’accompagnatore se ne lascia trascinare, cade sempre nel tranello dello stesso ruolo: non ha preso le distanze e si colloca ancora nel ruolo di chi stabilisce cosa si può o non si può fare, ciò che è permesso e ciò che è vietato. Non fa altro che dare il cambio al censore interiore. Il caso dello scrupoloso è assolutamente tipico. Un uomo simile si trova letteralmente schiacciato sotto il peso della censura interiore, incapace di scegliere tra il bene e il male. Gli resta una sola via d’uscita: eseguire con timore e tremore gli imperativi dell’istanza interiore, eventualmente anche in contrasto con il buon senso, cosa di cui sovente si rende perfettamente conto. Per aiutare quest’uomo è inutile calmare i suoi scrupoli con frasi come: “Questo non è male”, “Non volevi veramente fare questo”, “Non eri pienamente libero in quel momento”. L’esperienza dimostra che la tregua è di breve durata. Non c’è da stupirsi: parlando in quei termini, l’accompagnatore si è identificato con il censore interiore. Dove questi di solito condanna, ora pronuncia un’assoluzione. Ma la calma relativa che ne consegue non dura: voltate le spalle, l’angoscia ritorna al galoppo, l’aguzzino interiore si rimette all’opera e tutto ricomincia da capo. Come aiutare la persona prigioniera della propria censura interiore, anche se questa non è sempre così forte come nel caso dello scrupoloso? Il primo aspetto importante è la qualità del rapporto. Questo suppone una forte dose di amore autentico. Nel discepolo l’affetto si esprime in una profonda fiducia; nell’accompagnatore, in un’oggettività e in una capacità di ascolto e di valutazione. Solo così il legame affettivo tra il maestro e il discepolo potrà controbilanciare gradualmente il legame che incatena il discepolo al suo super-ego. Quest’ultimo legame infatti, per quanto intessuto di colpevolezza e di timore, ha anch’esso a che fare con l’affettività. Quello che un tempo ci veniva comandato o proibito dai genitori o da qualsiasi tipo di autorità aveva sempre a che fare con l’affetto che ricevevamo da loro. Dietro ogni sentimento d’angoscia inculcato dal censore interiore riecheggia quello che un tempo percepivamo implicitamente negli ordini ricevuti: “Se non ti comporti come ti dico, non sarai più amato, non ti amerò più”. Ecco perché il legame affettivo ha un’importanza così grande nel rapporto tra accompagnatore e discepolo: solo un amore autentico sarà finalmente in grado di mettere in crisi la posizione di forza occupata dal censore interiore. In seguito, basandosi su questo affetto, l’accompagnatore avrà il compito di neutralizzare il censore interiore del discepolo. D’altronde sa già in anticipo che questo censore se la prenderà con lui, tentando innanzitutto di tirarlo dalla sua parte e di cedergli il posto. Come abbiamo già visto, il padre spirituale dovrà stare attento a non cadere nel tranello, evitando tutto ciò che potrebbe portare a questa sostituzione. Farà attenzione a evitare frasi come: “Insomma, dovresti…”, “Le cose dovrebbero andare così Non susciterà angoscia né senso di colpa, però si guarderà anche dal giustificare. In questo modo ci sono buone probabilità che la censura interiore allenti la presa sulla sua vittima: la sua dinamica languisce e muore e i suoi colpi vanno a vuoto. Verrà il momento in cui l’accompagnatore potrà, al cuore stesso del rapporto, dare il colpo di grazia al censore interiore dell’altro e metterlo in rotta. In che modo? Impossibile descriverlo, ma questo succede, e succede molto semplicemente aderendo alla vita. E’ qualcosa che scaturisce all’improvviso dall’accompagnatore, come una scintilla di vita e di libertà che si comunica all’altro: è qualcosa che proviene molto semplicemente dalla vita e da un inizio di autentica libertà che deborda dall’accompagnatore. All’improvviso gli è dato di mettere fuori combattimento il censore interiore e di raggiungere il discepolo a un livello molto più profondo della sua personalità, là dove la vera vita si nasconde dietro questo schermo di vergogna e di, angoscia. Tutta l’abilità consiste nel liberare questa vita e nel consolidare ciò che è nascosto dietro lo scrupolo e che, a prima vista, sembrava essere un male. Il male assoluto, infatti, è raro negli uomini: nella maggior parte dei casi il male è solo un bene distorto e deformato. L’arte del padre spirituale consiste nel raddrizzare con amore ciò che è distorto; una volta raddrizzata la stortura, il male svanisce e la vita autentica può sgorgare liberamente. Emerge allora che il peccato non si trovava là dove avevamo l’abitudine di collocarlo, così come il bene non si trovava sempre là dove eravamo soliti cercarlo. Il bene e il male erano altrove, non alla superficie della nostra personalità ma ben più in profondità, in un luogo in cui Dio è presente in noi. Senza la luce e lo sguardo di Dio non saremmo capaci di identificarli: ci riusciremmo a fatica in noi stessi, e ancor meno negli altri. “Non giudicate, e non sarete giudicati” (Mt 7,1). Quanto abbiamo appena descritto non avviene di colpo, fin dal primo incontro: implica il processo di tutta una vita, di cui il padre spirituale non è l’attore principale, si presta solo all’opera della potenza di Dio in lui. Il colpo di grazia inferto a questa malformazione sarà alla fine il frutto della Parola di Dio, del suo Spirito, del suo amore incredibile. Essere accolti come si è nell’affetto del padre spirituale, con tutti i propri peccati e la propria debolezza, è il segno – osiamo dire il sacramento – dell’accoglienza che ci viene fatta dalla misericordia di Dio. Dove c’è l’amore, c e una gioia inesprimibile: là incontriamo anche l’autentico pénthos, il pentimento secondo l’evangelo. Nulla è maggiormente liberatore e più costruttivo del vero pentimento. Questo non ha nulla in comune con i sensi di colpa suscitati dal censore interiore: ed è, senza dubbio alcuno, quest’ultimo che sbarra la strada all’autentico pentimento. Il senso psicologico di colpa e la conoscenza evangelica del nostro peccato sono due realtà radicalmente diverse: il vero pentimento è accolto nell’amore e con infinita gratitudine, al cuore della nostra debolezza e del nostro peccato. La forza di Dio infatti non si manifesta altrove che nella nostra debolezza. Una volta messo fuori combattimento il censore interiore, l’accompagnatore può agevolmente prendere in mano la situazione. Intendiamoci: l’autentico accompagnatore, cioè lo Spirito santo, davanti al quale la guida umana potrà presto ritirarsi. Questo potrà avvenire senza rischi non appena il discepolo avrà stabilito il contatto con lo Spirito e avrà, a partire da questo contatto, imparato a vivere da uomo libero. Eccoci alla sorgente della coscienza cristiana e dell’autentica libertà: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Rm 8,14).
Il Dio-specchio
Accanto al censore interiore, portiamo in noi un altro idolo che ci impedisce di vivere secondo la grazia e che potrebbe venir consolidato da un accompagnamento spirituale maldestro: si tratta dell’immagine idealizzata di sé, immagine riflessa come in uno specchio, che ci si è creata nel corso degli anni e alla quale si può essere appassionatamente legati quanto si è asserviti al censore interiore. Abbiamo tutti presente il mito di Narciso, innamoratosi della propria immagine riflessa in uno stagno e annegato nel momento in cui volle abbracciarla. Questo mito è l’espressione simbolica di un elemento fondamentale della nostra condizione umana: l’immagine ideale di noi stessi – ideale umano, ma a volte anche spirituale, portato alle stelle – è sempre più bella della realtà. Quello che faccio o non faccio, le imprese in cui riesco come quelle in cui fallisco vengono tutte inconsciamente valutate con il metro di questa immagine riflessa di me stesso. Desiderando a ogni costo di essere ciò che non sono in realtà, rifiuto di essere quello che sono: la mia immagine-specchio è la facile consolazione mediante la quale cerco di affrontare la vita come posso. Anche se quest’ultima non è una gran riuscita, mi resta sempre la consolazione di sbirciare verso quell’immagine-specchio che pretendo di aver di mira. L’accompagnatore si trova qui di fronte a una realtà delicata che presenta un rischio considerevole. Una guida spirituale troppo ingenua può infatti favorire l’influenza dell’immagine-specchio, adottandola inconsciamente e intervenendo a partire da essa: applaudirà quando qualcuno agirà in conformità alla sua immagine e rimprovererà nel caso contrario. D’altronde non è solo colpa sua se assume l’immagine riflessa del suo discepolo: fin dall’inizio quest’ultimo si è inconsciamente dato da fare perché questo avvenga. In mancanza di meglio, si è presentato alla sua guida con lo specchio in mano, per così dire, con i lineamenti di questa immagine idealizzata che si è creato a suo uso. E siccome nulla è più rassicurante per entrambi i protagonisti del dialogo, l’accompagnatore non tarda a cadere in trappola. Da quel momento è a sua volta al servizio dell’immagine-specchio e ridotto a un semplice annesso alla problematica del discepolo. Ebbene, la pedagogia di Dio va esattamente in senso inverso: Dio fa di tutto per spezzare lo specchio e l’immagine. Quando questo avviene, può avere conseguenze molto serie: bisognava che Paolo cadesse a terra e restasse cieco per tre giorni; per diventare apostolo non poteva più vivere guardandosi allo specchio della perfezione giudaica, al contrario, doveva riconciliarsi con la propria debolezza e i propri limiti e magari addirittura con l’ambiguità del proprio peccato. Questo non sarebbe potuto capitare prima di incontrare Gesù, ma avvenne immancabilmente nel momento stesso in cui gli apparve Gesù. Come per Paolo e per molti altri convertiti, nel momento in cui lo specchio e l’immagine vanno in frantumi si apre una crisi temibile. Ci sembra di aver perso ogni punto d’appoggio, di essere scossi fin nelle fondamenta: è come se il terreno, quel terreno sul quale avevamo edificato tutta la nostra personalità, ci franasse sotto i piedi. In momenti simili l’esperienza spirituale può sfiorare il crollo psicologico, pericolo che può essere scongiurato solo da quanto ci viene rivelato nel medesimo istante: l’amore e la misericordia infiniti di Dio, in una parola: la grazia. Proprio a partire da una simile esperienza Paolo potrà più tardi affermare convinto: “Per grazia di Dio sono quello che sono” (1Cor 15,10). In quest’attimo decisivo, il ruolo del padre spirituale si limita a predisporre tutto per favorire questo incontro con Dio o, per lo meno, a mantenerne aperta la strada. Infatti, non appena lo specchio e la sua immagine idealizzata sono in frantumi, la strada è realmente aperta. L’accompagnatore resisterà alla tentazione di raccogliere i cocci dell’idolo per tentarne un restauro: nulla sarebbe più funesto, anche se l’interlocutore dovesse ottenerne un momentaneo sollievo. Non c’è alcun pretesto che autorizzi la ricostruzione di un nuovo idolo. Al contrario, il discepolo imparerà a dimorare accanto ai cocci dell’idolo primitivo, senza amarezza, nella tranquillità e nell’abbandono, con il cuore ben presto colmo di riconoscenza e di speranza. Nella maggior parte dei casi, in una crisi del genere, saranno la pace, la fiducia e la comprensione affettuosa della guida ad aiutare il discepolo. Proprio il padre spirituale sarà spesso il primo segno dell’amore di Dio e il canale attraverso il quale si manifesterà al discepolo sconcertato. Ora che lo specchio con l’immagine idealizzata è in frantumi, la strada è aperta a Dio. E’ estremamente importante, perché il mistero profondo di ogni uomo non consiste nell’immagine idealizzata che si è formato da sé, ma risiede molto più in profondità e può essergli rivelato solo da un’altra persona e in un clima di amore. Spesso il padre spirituale è il primo che incontra sul suo cammino: molto dipenderà dal contatto che si stabilirà con lui. Attraverso le parole della guida, riflesse nel suo sguardo e nel suo amore, il discepolo potrà assumere il proprio essere profondo; non per perdersi nella guida, ma per esserne assunto, capito e confermato in quanto c’è di migliore nella sua identità reale. Allora una parola, un’autentica parola sarà non solo possibile ma anche assolutamente richiesta. Abbiamo già detto come, nei primi momenti del colloquio, le parole vanno utilizzate con circospezione da entrambi gli interlocutori: in genere arrivano troppo presto e danneggiano il dialogo, quando addirittura non lo interrompono definitivamente. Una volta instaurato il clima di fiducia e di amore ed espressi e liberati dall’angoscia e dalla vergogna i sentimenti e i desideri, a quel momento scocca l’ora di una parola che, per quanto discreta, è ormai in grado di dare frutto. Una sola parola, pronunciata con amore e con il tono appropriato, nella maggior parte dei casi è più che sufficiente. Sulla bocca del padre la parola ritrova la forza primitiva che dovrebbe sempre essere la sua: è creatrice, portatrice di vita, come la Parola di Dio. Possiede la forza di destare un uomo nuovo. Una parola simile ci colpisce alla sorgente stessa della nostra libertà, che è anche la sorgente di ogni amore in noi; essa scava e sprigiona la nostra libertà. E alla luce di questa libertà così acquisita, tutto il resto sarà ormai valutato nella giusta misura. Così sarà infine possibile discernere correttamente dove può nascondersi il peccato, operazione spesso non esente da sorprese: ciò che sembrava male appare assolutamente innocente, mentre ciò che veniva preso per virtù si scopre essere illusione. Molto orgoglio nascosto si rivela improvvisamente in modo inatteso, così come la mancanza di amore e di fiducia filiale in Dio. Ma colui che è capace di valutare nella giusta misura il peccato, è anche pronto a lasciarsi inondare dalla misericordia e a trovare la propria gioia più profonda nelle lacrime del pentimento. Eccoci nuovamente alle lacrime: nulla è più liberante delle lacrime. Non per niente gli autori spirituali, già i più antichi, hanno paragonato le lacrime del pentimento all’acqua di un secondo battesimo nel quale dobbiamo essere nuovamente battezzati affinché il primo battesimo dia tutti i suoi frutti.
Il vero Dio per l’uomo libero
Secondo Benedetto, il padre spirituale deve vegliare attentamente sul novizio per vedere “se davvero cerca Dio” (si revera Deum quaerit: RB 58,7). Potremmo formulare altrettanto bene questa esigenza così: se cerca il vero Dio”. Avrete capito che si tratta di sapere se non sia alla ricerca di un falso Dio, di cui porta in sé l’immagine. Deve invece raggiungere il vero Dio, quello che, al solo incontrarlo, lo libera. La guida deve aver incontrato anch’essa questo vero Dio e possedere il senso e il gusto di un’autentica libertà. La libertà è il riflesso di Dio nell’uomo: l’accompagnatore deve essere in grado di discernere questo riflesso nell’altro e di capire cosa avviene in lui, percependo i luoghi in cui è ancora prigioniero, minacciato di ripiegamento, nonostante un altrettanto evidente fervore solo esterno. Sorveglierà innanzitutto il censore interiore e l’influenza esercitata dall’immagine idealizzata: in questo il discernimento degli spiriti, o diakrisis, è assolutamente necessario. Il vero Dio non è quello delle nostre convinzioni o della nostra generosità ma – come dice in modo pregnante Ruusbroec – “il Dio che ci avviene dall’interno verso l’esterno”, il Dio che bisogna accogliere nel nostro intimo più profondo. Può essere importante saper interpretare i sintomi di una mancanza di libertà negli altri. Eccone alcuni esempi: chi è carente di libertà può svilupparsi solo in una parte della propria personalità, mentre l’altra parte resta evanescente. E’ un tipo di persona che si incontra frequentemente ai nostri giorni: in lui le relazioni sociali sono in primo piano, assieme alla ragione, alla volontà e alla generosità, spesso interpretate come segni di un atteggiamento di fede. Altre forze sono invece relegate in secondo piano, spesso ridotte al silenzio, rimosse o per lo meno fortemente censurate: sono le forze vitali, proprio quelle che dovrebbero dare la vita; invece le si guarda con sospetto e sfiducia: sono circondate da dubbi mai espressi apertamente ma molto pesanti. Citiamo solo la tenerezza e l’amore, spesso confusi con erotismo e sensualità; lo spirito di decisione e l’efficacia, confusi con mancanza di delicatezza e di tatto; l’energia, scambiata per durezza; l’amore per la bellezza, interpretato come lusso superfluo; la fiducia in se stessi, confusa con l’orgoglio. Tutte queste forze vitali sono la ricchezza dell’uomo: Dio ne è l’autore ed esse dovrebbero restare a disposizione del suo regno. È quindi importante non tenerle sotto chiave ma renderle disponibili per una purificazione. Purtroppo vengono spesso sospettate, senza che si riconosca il loro valore positivo, la loro capacità di essere trascinate nel dinamismo dello Spirito che si incaricherà di dilatare ulteriormente le loro potenzialità nel suo amore e nella sua forza. Ecco alcuni tratti di questa divisione interiore che incontriamo così spesso. Essa rappresenta un carico pesantissimo per l’interessato, perché comporta un enorme dispendio di energie. Senza rendersene conto, quell’uomo esaurisce la propria energia nell’allontanare da sé tutte le proprie potenzialità di vita. Quando l’ego e la struttura psicologica della persona implicata sono fragili, questo dispendio di energie comporta anche dei rischi. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, viene trovato un compromesso vivibile: la persona in questione sembra vivere libera, anche se la sua umanità risulta diminuita. Resta chiusa all’amore e ripiega su un certo numero di ruoli paralleli che le richiedono molte energie e che finiscono per sopprimere ogni possibilità di amore e di vita autentiche. Sarebbe facile enumerare anche altri sintomi che indicano la mancata coincidenza piena e rappacificata con il proprio essere profondo e l’agire non conforme alla sorgente intima. Certi estremismi, per esempio: essere molto progressisti o estremamente conservatori, molto spirituali o assolutamente secolarizzati. Di fatto si tratta solo di nomi diversi dell’immagine idealizzata o della schiavitù del super-ego. Anche la malattia o un affaticamento cronico possono essere il segno di una tensione troppo forte; oppure i compiti che ci si è inventati senza che nessuno ce li abbia chiesti, o quelli richiesti che si assolvono in modo febbrile. Alcune forme di attivismo – l’incapacità di rifiutare qualcosa, di sospendere il proprio lavoro, di riposarsi, di andare a letto all’ora conveniente – sono solo sintomi di tensione interiore, così come certi riti nei quali si rinchiude la propria vita e per amore dei quali si spreca un tempo enorme. I confratelli giudicano spesso questi sintomi con un’ironia feroce, che però coglie nel segno; e anche il linguaggio popolare è ricco di espressioni a questo proposito. Di uno si dirà: “Se gli togli quell’incarico, è la sua fine!”, o di un malato: “Se il medico gli toglie le medicine, ne farà una malattia!”; di qualcuno particolarmente virtuoso si dirà che è “un mostro di virtù”, di un altro che impone a sé e agli altri un ritmo indiavolato: “E un boia! Si ammazza di lavoro”. Ci sarebbe da domandarsi chi è la vittima e chi il carnefice… Quando un monaco viene definito “regola vivente” merita senza dubbio il rispetto, ma a condizione che oltre alla regola, qualcos’altro viva in lui. Visto dall’esterno un simile stile di vita può apparire soddisfacente, fino a un certo punto e per un certo tempo; a volte è addirittura oggetto di lode, ma in realtà la vita è soffocata in persone simili: non diventano mai adulte, sempre scontente, mai soddisfatte, si raggomitolano su se stesse. Nei loro rapporti non sono aperte agli altri e sono incapaci di donarsi gratuitamente. Saranno anche eroi – o vittime? – del dovere, ma non trasmettono la vita, sono sterili e sopravvivono a fatica. Hanno infatti bisogno di tutta l’energia disponibile per mantenere e controllare il processo in atto. Solo la morte le libererà, a meno che un giorno non assumano il rischio di confrontarsi con la propria debolezza, alla presenza e con l’aiuto di un fratello o di una sorella che le accoglie per quello che sono, con amore.
I momenti salienti dell’accompagnamento
Dobbiamo ora applicare a tre casi concreti queste condizioni generali relative a ogni dialogo spirituale, tre casi in cui questo si rivela spesso indispensabile. Si tratta di tre momenti decisivi in ogni cammino spirituale: il discernimento della volontà di Dio; la scoperta della nostra interiorità; l’apprendistato dell’agire di Dio in noi e del nostro agire in lui. Innanzitutto il discernimento della volontà di Dio, che si tratti sia di opzioni fondamentali – la scelta di un mestiere, per esempio, odi una vocazione, o del compagno di vita – sia di una delle molteplici decisioni a cui la vita ci obbliga incessantemente, ma di fronte alle quali ci sentiamo così spesso sollecitati in direzioni opposte. Vorremmo scegliere bene, cioè scegliere secondo Dio e i suoi piani: è uno dei casi in cui anche chi non si rivolge regolarmente a un padre spirituale, sarà portato a farlo per chiedere luce. Non che quell’altro fratello, anche se è abituato ad ascoltarci, abbia in tasca la soluzione in virtù di una sapienza personale; o che abbia ricevuto qualche rivelazione a nostro riguardo e che sia in grado di fornirci non solo un consiglio, ma quasi un ordine da parte di Dio. No, al contrario: il padre spirituale non detiene alcuna soluzione e, se svolge correttamente il proprio ruolo, lo sa fin troppo bene. La soluzione l’abbiamo in noi stessi, ci è accordata in anticipo, nel nostro intimo, grazie allo Spirito santo che ci è donato. Questo significa molto concretamente che quello che cerchiamo come volontà di Dio si trova già da qualche parte in noi e che, tutto sommato, non dovrebbe essere così difficile percepirlo. In realtà incontriamo molte difficoltà a farlo e d’altronde sappiamo per esperienza che, in occasione dell’una o dell’altra scelta cruciale, ci è già capitato di sbagliarci. Quello che ci auguravamo, e addirittura credevamo, fosse la volontà di Dio si è presto rivelato un inganno, una dolorosa illusione, alimentata in noi da qualche altro desiderio o tendenza più o meno confessabile, al cui riguardo non avevamo visto chiaro. Il fatto è che la volontà di Dio in noi fa per così dire misteriosamente corpo con il complesso sistema di desideri e di inquietudini del quale abbiamo parlato. Questo miscuglio tuttavia non costituisce ancora il fondo del nostro essere ma è, in una zona più superficiale, come una specie di cappa che rende difficile la trasparenza della volontà di Dio. Il ruolo del padre spirituale non è quello di toglierci questa cappa: nessuno ne sarebbe veramente capace e, anche se lo fosse, una simile operazione provocherebbe un disorientamento così totale che sarebbe meglio risparmiarci questa prova. Il padre spirituale innanzitutto ci ascolterà: attraverso tutti i desideri e le velleità superficiali che si contendono il nostro cuore, come li percepiamo e li esprimiamo, è possibile che colui che ha l’udito fine – e il cuore puro – riesca a cogliere il desiderio di Dio che giace in fondo al nostro cuore, la sua volontà costitutiva del nostro essere. Quando ne avrà percepita qualche traccia, ce la indicherà, non come per imporcela: ancora una volta, non servirebbe a nulla. Ci aiuterà invece a fare noi stessi la cernita, per esempio ponendo alcuni punti di domanda, o verificando i nostri desideri alla luce della Parola di Dio. Ci farà prendere cocienza di quello che differenzia il desiderio di Dio in noi dai nostri piccoli desideri personali. Infatti, non appena saremo in grado di veder chiaro in tutto ciò che ingombra l’ingresso del nostro cuore e ostacola la volontà di Dio, desidereremo immediatamente rinunciarvi, senza neanche grandi sofferenze, pur di offrire tutte le possibilità alla volontà di Dio. Questa, quando davvero ci riguarda, si impone da sola con una forza mite e irresistibile insieme che, senza violenza alcuna, trascina dolcemente la nostra libertà. La volontà di Dio infatti fa parte del nucleo più intimo del nostro essere: da lei dipende tutto ciò che siamo ed è sempre lei che ci condurrà alla nostra piena realizzazione. Un altro punto cruciale dell’esperienza spirituale è costituito dalla scoperta della nostra interiorità. La preghiera è spesso il luogo in cui avviene questa scoperta, a volte abbastanza presto, altre volte solo dopo lunghi anni. In quest’ultimo caso la preghiera ha cessato di essere per noi una sconosciuta: abbiamo già esplorato un certo numero di sentieri, abbiamo tentato diversi metodi e l’uno o l’altro ci sono sembrati efficaci per un periodo. Forse ci siamo familiarizzati con un piccolo trantran che per il momento ci basta: un po’ di lettura, un pizzico di riflessione o di meditazione, qualche invocazione, nei giorni migliori anche l’abbozzo di un buon proposito. Perché non esserne felici, soprattutto con i tempi che corrono, o per lo meno accontentarsene, senza voler fare troppo i difficili? Ma arriva il giorno in cui Dio non se ne accontenta più. Per tirarci fuori da questo trantran e invitarci ad andare allargo, Dio dispone di un solo mezzo: troncare la corrente e chiudere i rubinetti. Intelligenza, immaginazione, cuore si trovano contemporaneamente e improvvisamente a secco e devono far fronte a un irrefrenabile disgusto, se non alla disperazione. E’ lo scacco di tutti i nostri sforzi finalizzati alla preghiera, scacco amaramente gustato dal nostro amor proprio ormai senza scampo? No, è esattamente l’opposto che ci viene proposto: lungi dall’essere uno scacco e l’annientamento di ogni speranza, è la possibilità di Dio che ci si presenta, la speranza autentica che ci viene offerta, e che bisognerebbe esser capaci di cogliere al volo. E infatti Dio che prende finalmente in mano la situazione, che affretta il passo e vorrebbe vederci accelerare il nostro. A prezzo, è vero, di una grande prova e di un profondo disorientamento. Eccoci tuttavia alle soglie di un mistero che non finirà più di affascinarci non appena avremo compiuto il passo. Ma quale passo? L’espressione è ancora inadeguata: non c’è alcun passo da fare, come potremmo esser capaci di farlo? C’è solo da lasciar cadere tutto ciò che ci ingombra le mani e il cuore, da mollare la presa e quindi fare molto meno, per lasciarci ondeggiare e cadere verso la nostra interiorità, verso quel mondo nuovo al fondo del nostro essere, verso quella parte migliore di noi stessi che sfocia misteriosamente in Dio: profondità vertiginosa, che abbiamo difficoltà a intravedere e che, una volta intravista, ci attira e ci fa paura nel contempo. In genere anche qui deve intervenire un altro, non per spingerci con forza là dove non siamo ancora decisi ad andare, ma per aiutarci a prendere coscienza di quella vertigine interiore alla quale basterebbe abbandonarsi perché si tranquillizzino le tensioni inutili e si distenda la contrazione dei nostri sentimenti. Dio stesso è questa vertigine al fondo del nostro cuore e la sorgente della preghiera che cerca solo di liberarsi. Benedetto quel cuore in cui questa sorgente ha potuto sgorgare liberamente in seguito a una sola parola – a un solo sguardo, a volte – di un fratello amico. Un terzo punto cruciale di ogni esperienza spirituale consiste nell’apprendistato dell’agire di Dio in noi e di un modo nuovo di collaborare con lui. Come in un dato momento della nostra vita siamo tentati di reinventarci da soli i cammini della preghiera, così siamo soggetti a voler dettare noi stessi le condizioni della nostra militanza al servizio del regno. Mentre invece è Dio a essere all’opera e noi siamo al suo servizio e dovremmo imparare a scovare questa attività di Dio in noi e attorno a noi, affinché possa sostituirsi alle nostre opere personali. Questo suppone una trasformazione progressiva ma molto conseguente del nostro solito modo di agire. Dio desidera tanto insegnarci come prestarci efficacemente alla sua forza che, come un uragano, si scatena continuamente sul mondo e sulla chiesa. Ma noi non sappiamo assolutamente captare questa forza divina, sia perché ci troviamo su una lunghezza d’onda completamente diversa, sia perché disturbiamo l’agire di Dio con le nostre emissioni e attività intempestive. Bisognerebbe innanzitutto fermarci a lungo per far silenzio, in modo che l’agire di Dio possa emergere nel nostro cuore. E, una volta percepiti i segni inequivocabili di questo agire, dovremmo prestarci ad essi interamente, anima e corpo. Si tratta insomma di passare da un attivismo benintenzionato ma sconsiderato a una certa passività nell’azione stessa, che lascia Dio pienamente all’opera in ciascuno di noi. Questo passaggio implica sovente una crocifissione, un’autentica Pasqua, di cui inconsciamente cerchiamo di allontanare il più a lungo possibile il calice. Dio però non manca di mezzi per farci consegnare le armi e costringerci a una resa incondizionata, eppure, nella maggior parte dei casi, non sappiamo riconoscere questi interventi di Dio, soprattutto quando si contrappongono ai nostri. Più ci sarebbe bisogno di rallentare e di fermarsi e più noi ci agitiamo. L’agire di Dio in noi ci sconcerta stranamente: prima di trasformarsi in roccia sulla quale costruire solidamente, è per noi pietra di scandalo e d’inciampo. Eppure solo la potenza di Dio ci permette, malati come siamo, di intraprendere ogni cosa in colui che ci dà forza, ma il cui vigore si manifesta solo nella debolezza, cioè nella passività sovranamente attiva della nostra pazienza umile e fedele. Anche qui abbiamo bisogno dello sguardo e della parola di un altro, di qualcuno esperto sia nelle vie di Dio che nella propria debolezza, qualcuno che ha come sorpreso Dio mentre scriveva diritto sulle righe storte della propria vita, qualcuno che sia riconciliato con la propria insignificanza così come con le meraviglie che Dio non cessa di operare, al di là di tutti i limiti dell’uomo e addirittura a dispetto di tutti gli artifici che così spesso l’uomo cerca di mettere in opera per fare meglio di Dio nel suo campo. Soprattutto in materia di accompagnamento, il padre spirituale non cercherà mai di fare meglio e più veloce di Dio, né di sopravvalutare la grazia. Per il discepolo dovrebbe essere sufficiente osservare il proprio padre all’opera con lui per vedere in che modo unico un uomo può essere chiamato a collaborare con la grazia. Collaborare con la grazia di Dio significa anche collaborare alla gioia dell’uomo: questa è, in definitiva, la posta in gioco della paternità spirituale. La misura della sua attuazione e la verifica della sua riuscita – se di riuscita si può parlare in questo campo – sarà la gioia. Come Dio è alla caccia della gioia dell’uomo – c’è infatti gioia in cielo per un peccatore che torna verso il Padre così il padre spirituale è alla caccia della gioia che cova nel cuore del discepolo. Gioia segreta, impercettibile per ora, gioia di Dio in un uomo, ancora vacillante per il momento, ma già destinata a invadere tutto il suo essere: corpo, anima, psiche, profondità dello spirito e del cuore. Non appena sarà stata percepita questa gioia, basterà che il padre spirituale e il discepolo le si aggrappino quasi alla cieca, ma con dolce testardaggine e nonostante tutto. Quando la gioia di Dio è nel cuore del padre spirituale e quando la gioia di Dio è nel cuore del discepolo, allora tutto diventa possibile, perché “Dio ama chi dona con gioia”.
A PROPOSITO DI ALCUNI FRUTTI DELLO SPIRITO
L’espressione “frutti dello Spirito” è dovuta all’apostolo Paolo che si sforza di far capire ai primi cristiani che devono vivere non più a partire dalla Legge bensì secondo lo Spirito che hanno appena ricevuto. Perciò avverte il bisogno di indicare i segni che permettono di riconoscere coloro che vivono mossi dallo Spirito santo. Questi frutti dello Spirito, come li chiama, appariranno in chiunque viva della libertà interiore originata dallo Spirito. La lettera ai Galati li elenca: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Questo capitolo si soffermerà su alcuni di questi frutti perché costituiscono il terreno su cui ci è dato di imparare a vivere conformemente alla grazia. Ci limiteremo a tre soli: la gioia, il raccoglimento e l’amore.
La gioia
Il più grande desiderio di Gesù è che il nostro cuore si rallegri che nessuno possa rapirci questa gioia (cf. Gv 16,22-23). E’ questa l’intenzione della preghiera di domanda: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,24). E anche la ragione della venuta di Gesù: è venuto a portare la vita e la gioia. “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Già l’annuncio della sua nascita ai pastori fu una buona notizia e un messaggio di gioia: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). E’ davvero Gesù ci porta la gioia in pienezza: la sua venuta è la buona notizia per eccellenza, e lui stesso, durante tutta la sua vita, non cesserà mai di diffondere la gioia. In lui l’amore e la bontà di Dio sono apparsi sulla terra; secondo la testimonianza degli evangelisti ha fatto bene ogni cosa e ha diffuso ovunque il bene (cf. Mc 7,37). Gesù è straordinariamente mite in mezzo agli uomini: guarisce i malati, risuscita i morti, non fa del male a nessuno, è fonte di gioia e di consolazione per tutti quelli che incontra, soprattutto per i discepoli che aderiscono a lui senza difficoltà. E’ sempre vicino a loro, li rianima quando sono scoraggiati, li porta in un luogo tranquillo in disparte perché possano riprendere le forze. Non appena Gesù è presente, è festa, perché è lo Sposo che scaccia ogni tristezza. Ecco perché i discepoli non digiunano: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?” (Mc 2,19). La tristezza, o la penitenza che l’esprime, è il segno che Gesù non è, o non è più, presente. E’ questo il motivo per cui Gesù smette di digiunare dopo la resurrezione, come testimoniano i racconti della resurrezione: è impressionante notare come il pane sia continuamente spezzato e mangiato (cf. Lc 24,30.35; Gv 21,13). Lo Sposo è dunque tornato e il discepolo di Gesù ha immediatamente il diritto di ricevere il centuplo promesso da Gesù già al presente (cf. Mc 10,30). E perché no? Secondo le parole stesse di Gesù, i nostri nomi sono scritti nei cieli, per nostra grande gioia (cf. Lc 10,20). Dobbiamo però porci la domanda che, anche se avessimo voluto evitarla, si sarebbe inevitabilmente imposta: da dove viene questa gioia? Che legame c’è tra questa e la gioia che il mondo può dare? E difficile dare una risposta finché non si è sperimentata la gioia data da Gesù: perciò le opinioni sono molto divergenti, anche tra i teologi di professione. Gli uni insistono sul fatto che la gioia di questo mondo è già un riflesso e un’anticipazione della gioia futura del regno. Con questo vogliono dire che la gioia di questo mondo non può essere ignorata e che ha la sua importanza, contiene già la gioia futura. Altri invece mettono l’accento sulla necessità di rinunciare alle gioie passeggere di questo mondo, fissando lo sguardo sulla gioia a venire. Ritroviamo queste due tendenze nella storia della spiritualità: alcuni insistono sulla continuità tra ciò che è ora e ciò che sarà nell’aldilà; altri sottolineano il passaggio verso la luce e la rottura che questo comporta. Per questi ultimi, non esiste denominatore comune tra la gioia di questo mondo e la gioia di Gesù. Su questo argomento non è sempre necessario arrivare a una sintesi teologica perfettamente soddisfacente. Basta saper convivere con le nostre gioie semplici e vigilare sempre più a riceverle dalle mani di Gesù e attraverso lo Spirito santo. Se ci riusciamo, qualcosa trasformerà a poco a poco la nostra gioia, per quanto mondana ed egoista fosse all’origine. Non appena Gesù è implicato in ciascuna delle nostre gioie, non possiamo che crescere nella gioia, anche se questo raramente avviene senza rottura o strappo: sono i segni di una vita che cresce e quindi anche di una gioia sempre più profonda e che rimbalza sempre più in alto. Questa stessa tensione tra l’oggi e il domani, tra presente e passato, tra ciò che viene e ciò che permane si trova anche nell’evangelo: ci parla incessantemente della gioia eppure non sfuggiamo all’impressione che la gioia di oggi è sempre limitata e che tutto ha una fine. La gioia perfetta e completa di cui parla Gesù non è identica alle gioie del mondo: è come se non potessimo passare da queste alla gioia futura senza che sopraggiunga qualcosa di sconvolgente, addirittura su scala planetaria. Davvero il regno di Gesù non è di questo mondo (Gv 18,36), anche se il seme è già stato seminato e sta germogliando in modo misterioso. Nella vita di Gesù e in quella dei suoi discepoli ci sono momenti in cui sembrano incappare in punti morti: potremmo chiamarli momenti di deserto. Facciamo un esempio: Gesù annuncia la Parola, non senza successo; una folla numerosa si raduna, conquistata dalla sua Parola, lo segue entusiasta per due, tre, addirittura quattro giorni, fino a un luogo sperduto nel deserto. Improvvisamente tutti si rendono conto che la notte si sta avvicinando, che la folla ha fame e che non c’è nulla per sfamarla. Eppure la loro fiducia non sarà delusa: Gesù moltiplica i pani. Nulla poteva essere più adatto a infondere nuovo entusiasmo nella folla che decide di fare di Gesù il suo re: Gesù è alle soglie di una carnera politica. Ebbene, in quel preciso momento Gesù si ritira e fugge, perché non può imboccare quel cammino: il suo regno è altrove, lontano dal successo e dalla felicità che il mondo e i discepoli gli offrono. Gesù acconsente per un attimo ad accogliere i favori della folla, arriva perfino a servirsene fino a un certo punto, per il bene della Parola. Anche un successo mondano può servire all’annuncio della buona novella, ma solo per un certo tempo. Nel momento decisivo, quando il successo immediato minaccia di accaparrare tutto, compresa la persona di Gesù, questi viene allontanato da qualsiasi riuscita mondana, verso qualcosa di radicalmente diverso. Qualcosa che ci appare strano, talmente strano che Pietro, al primo annuncio della passione, vi si oppone apertamente. L’esperienza di Pasqua avrà aspetti analoghi: dapprima sembra essere uno scacco definitivo e la fine di ogni gioia. Gesù muore al mondo per tornare, al colmo della gioia, presso il Padre, lasciandoci solo una vaga promessa di ritorno. Il legame tra Gesù e la nostra gioia in questo mondo non è facile da individuare. Se vogliamo seguire Gesù sul cammino della sua gioia, saremo sempre fortemente tentati di allontanarcene per cercare le nostre piccole gioie provvisorie e limitate, correndo così il rischio di perdere per sempre la gioia autentica. E come se la gioia di Gesù procedesse a spirale fino a un punto centrale: noi dovremmo seguire il più fedelmente possibile la curva di questa spirale, ma nel contempo siamo incessantemente tentati di partire per la tangente, per uscire dalla spirale e continuare da soli. Allora aumenta il rischio che ci allontaniamo dal regno di Dio al centro della spirale per perderci – temporaneamente o definitivamente – nelle nostre piccole gioie umane. Qui ritorna la domanda: dobbiamo allora rinunciare alla gioia per seguire Gesù? E, se sì, in quale misura? Oppure, al contrario: la penitenza e la mortificazione non significano forse percorrere la via di Gesù per raggiungere la gioia perfetta, la gioia in pienezza (cf. Gv 15,11)? Come esiste un amore spinto all’estremo, che passa per la morte di Gesù (cf. Gv 13,1), non potrebbe esserci una gioia spinta all’estremo, attraverso questa stessa morte e resurrezione? Prima di andare oltre, sottolineiamo un attimo che la gioia autentica non è innanzitutto un sentimento di esaltazione. Non bisogna confondere la gioia con le sue diverse espressioni ai vari livelli: c’è il piacere, il benessere, la gioia intellettuale e artistica, la soddisfazione per il lavoro ben fatto o per l’impresa realizzata; ci sono soprattutto le innumerevoli gioie dei rapporti umani, compresa la gioia dell’amore, che deve accompagnare l’uomo durante tutta la sua vita. Eppure tutte queste esperienze sono solo forme esteriori della gioia. Più queste forme sono importanti, più hanno radici profonde; la gioia autentica si trova a una grande profondità e dobbiamo scavare molto profondo in noi per permetterle di sgorgare. E senza dubbio il senso dell’espressione che usiamo abitualmente per esprimere una grande felicità: “Sono profondamente contento”. Ecco perché ogni grande felicità è anche silenziosa: non può essere espressa, è indicibile, raramente affiora in superficie e saremmo incapaci di farne sfoggio. E’ proprio alla radice del nostro essere che siamo abitati dalla nostra gioia. La gioia è il terreno in cui ogni vita mette radice per essere in grado di esistere. Senza la gioia non potremmo vivere, o meglio, non potremmo sopravvivere. La gioia sgorga in modo particolare in occasione di momenti esistenziali eccezionali, quando ci è dato di fare esperienza della nostra realtà profonda, della bellezza o della vita. Pensiamo alla gioia che può procurare un’opera d’arte: A thing of beauty is a joy for ever (una cosa bella è una gioia per sempre). Nel godimento artistico sboccia la vera gioia, proprio perché, grazie all’arte, scopriamo meglio l’essere delle persone e delle cose e, in qualche misura, lo tocchiamo. E’ qualcosa che non possiamo osservare tramite la via normale dei sensi: la realtà profonda degli altri è normalmente qualcosa di inesprimibile, ma la gioia che proviamo al contatto di un essere è sempre il segno che ci è donata una profonda comunione con lui. Questa gioia è destinata a crescere nella misura in cui cresce l nostro essere, perché la gioia è la caratteristica di un essere vivente e in crescita, di un essere che si sviluppa verso un plusessere. La gioia è quindi sempre legata alla dinamica degli uomini e delle cose, possiede in sé un ritmo che, per il nostro sviluppo, è importante abbracciare. Inoltre la gioia che giace alla sorgente del nostro essere ci spinge sempre in avanti; il suo compito specifico è quello di farci crescere nell’essere. Solo la gioia ne è capace. Dove la vita è in crescita, là sgorga sempre una gioia nuova. L’esempio più lampante è la gioia legata alla paternità e alla maternità, a partire dal concepimento, il cui piacere è il segno di una gioia e di un amore che vengono da un ambito più alto di quello umano. Ovunque l’uomo partecipi alla creazione, sorge una gioia nuova e sconosciuta. Analogamente la gioia è legata anche al processo della crescita spirituale, soprattutto quando qualcuno può accogliere una vita nuova da parte di Dio: è la gioia profonda del pentimento, quando Dio ci ricrea nel suo amore misericordioso. Essere toccati dalla grazia e dalla misericordia di Dio per vivere nuovamente in lui è indubbiamente uno dei momenti esistenziali più intensi della nostra vita. E’ un’esperienza simile all’amicizia, quando ci sentiamo accettati da un altro con il nostro essere più profondo, con quella realtà ancora provvisoriamente nascosta ai nostri occhi ma tuttavia già riconosciuta dall’amore di un altro. Nell’amicizia autentica l’incontro non comporta più alcuna minaccia: siamo incoraggiati a essere pienamente noi stessi, in modo più profondo che nelle apparenze. Ecco perché diciamo che l’amicizia “ci fa bene”: intendiamo dire che essa ci sostiene e ci aiuta a sviluppare il meglio di noi stessi. La gioia è quindi una caratteristica dell’essere, a condizione che questo cresca e allarghi le proprie frontiere. In un certo senso, la nostra gioia anticipa sempre di poco il luogo in cui ci troviamo al momento: è una chiamata e una sfida. E gioia nella misura in cui accettiamo di essere già situati più lontano – in un altro, o in Dio -, più lontani di dove ci troviamo attualmente. Ma nella misura in cui la gioia ci fa entrare nella spirale della felicità, esiste anche il rischio di deviare e di smarrirsi nella ricerca di un’altra felicità. Sul sentiero della gioia incontriamo spesso dei bivi in cui ci è data la possibilità di imboccare la tangente verso una felicità ristretta e limitata, nella quale rischiamo, alla lunga, di invischiarci. Questa gioia immediata non proviene necessariamente dal maligno, però non è più la nostra gioia di oggi, la gioia che corrisponde al nostro ritmo profondo, nel momento preciso in cui ci troviamo. Per quanto preziosa, ci separa dalla nostra dinamica interiore: potremmo essere più avanti, già più vicini alla gioia assoluta, al centro della spirale. Vivere infatti è crescere, e crescere sempre di più; vivere è svilupparsi: una vita che cessa di svilupparsi è già morta. Ecco perché la vita autentica arreca sempre una certa lacerazione, per muoversi verso una rinascita incessantemente più profonda: lacerazione paragonabile ai dolori e alla gioia del parto. L’unica ascesi che possa essere imposta alla gioia ne abbraccia il ritmo, è il movimento della spirale che abbandona progressivamente i cerchi esterni per flettersi verso il proprio centro più intimo. L’ascesi della gioia è quindi la gioia stessa. La gioia autentica, come l’amore autentico, porta in sé la propria purificazione; per purificare una gioia non bisogna mai restringerla dall’esterno, basta seguirla nel suo sentiero, sposarne la spirale: allora ci sarà impossibile sottrarci alla purificazione, perché questa risiede nella gioia stessa. Per salvare la gioia autentica dobbiamo sempre staccarci da ciò che ne è solo un’espressione provvisoria. In ogni istante dobbiamo essere pronti a mollare una povera felicità limitata per scavare fino a una gioia più profonda, fino alla gioia estrema che coincide sempre con l’amore estremo. Non è possibile parlare di ascesi o di penitenza se non in vista della gioia. La penitenza non deve mai aggredire la nostra gioia, come se ogni gioia dovesse sempre essere guardata con sospetto e andasse vissuta in cattiva coscienza, come se ogni gioia dovesse essere corretta o ristretta dall’esterno. L’ascesi non è altro che offrirsi alla vita autentica e alla gioia profonda che ci abitano. In questo senso non è tanto un agere contra, un “agire contro”, ma piuttosto un agere secundum, un “agire secondo” la gioia, in armonia con il nostro essere profondo; o, se vogliamo accentuare ancora la dinamica particolare della gioia, l’ascesi può essere solo un agere ultra, un “andare oltre”, un superamento della gioia provvisoria e limitata che era data solo per ieri e oggi e che domani sarà interamente nuova. Ecco perché la vera ascesi ha poco a che fare con la forza di volontà e non deve mai sfociare nell’irrigidimento. Al contrario, l’ascesi è un abbandono sciolto e morbido di fronte alla gioia che ci abita, una distensione e un’apertura che permettono alla vita di trascorrere senza ostacoli e quasi senza fatica. E’ la liberazione e la nascita di un uomo nuovo: l’ascesi ricorda allora stranamente quello che viene chiamato parto indolore. Più la futura madre è ansiosa e tesa, più si oppone inconsciamente al processo fisiologico che si compie in lei, maggiori saranno i dolori del parto. Viceversa, più si distende, più si abbandona con naturalezza al frutto maturo della vita cui apre un cammino attraverso il proprio corpo, più si arrende pacificata alla gioia della maternità, maggiori saranno le probabilità che il parto avvenga senza dolore. Il parto indolore è la più bella immagine dell’ascesi, che implica gioia e dolori insieme: esprime l’unica ascesi possibile in un’ottica cristiana, un’ascesi che si fonda sulla gioia e ad essa si abbandona. La misura dell’ascesi sarà quella della gioia se ciò che ha di mira è di essere senza dolore: è necessariamente “gioiosa penitenza” (Pe#ectae Caritatis 7) perché si tratta della vita di Gesù che sta nascendo in noi, che, attraverso il nostro corpo e il nostro cuore, si apre un cammino per impossessarsi di tutto il nostro essere. Gesù ha utilizzato questa immagine del parto indolore parlando delle sofferenze inevitabili degli ultimi tempi, che tuttavia saranno fonte di gioia profonda e definitiva: “In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,20-23a). La donna che partorisce soffre a causa della vita che cresce in lei, ma nel contempo è colma di gioia causa del bambino di cui sarà madre. Più si avvicina la sua liberazione, meno soffrirà e più facilmente potrà abbandonarsi con riconoscenza alla gioia e alla vita che nascono da lei. Ogni discepolo di Gesù, in cui la vita di Gesù deve crescere incessantemente è, come questa partoriente, in preda alla fatica e alla gioia della crescita. Vive di questa gioia, a partire dalla piena statura dell’età adulta in Cristo alla quale tende. Ecco perché la sua ascesi è sempre gioiosa e l’unica misura della sua ascesi va ricercata nella gioia che gli è donata dallo Spirito santo. Benedetto non dice forse nella sua regola che ogni ascesi o mortificazione straordinaria ha valore solo se può essere offerta a Dio nella gioia che viene dallo Spirito santo (cf. RB 49,6)? E quindi importante che ogni discepolo di Gesù aderisca alla sua gioia. Ci sono due modi di ferire la gioia e, nel contempo, la vita di Dio in sé: mirare più in alto della gioia che è stata effettivamente ricevuta, oppure rimanere al di qua della gioia che ci èstata assegnata. Nel primo caso vogliamo compiere uno sforzo, anche se siamo privi di gioia. E’ il tipico esempio di un’ascesi cattiva, un’ascesi che non è guidata dall’impulso dello Spirito santo, di cui la gioia è il frutto sensibile. Agli occhi di Dio una simile ascesi è nulla e non avvenuta, non è altro che sforzo pagano, il più delle volte mescolato a sufficienza e orgoglio. Qui è possibile incontrare tendenze masochiste che trovano la propria soddisfazione in pratiche di penitenza sospette. Tutto questo ha poco o nulla a che vedere con la grazia: nel migliore dei casi vi si rivela un segno di buona volontà, che Dio d’altronde non lascia senza risposta, ma di cui non ha, in realtà, alcun bisogno. Un’ascesi pagana ci fa puntare al di là di quanto ci è dato come misura di grazia nella gioia dello Spirito; a lungo andare potrebbe addirittura spegnere questa gioia e smorzare pericolosamente la nostra sensibilità spirituale. Ma più spesso accadrà che miriamo al di qua della gioia donataci e che facciamo in tal modo torto alla grazia e alla vita di Gesù in noi. Per paura della sofferenza sempre collegata a ogni processo di crescita, restiamo attaccati alla nostra piccola felicità limitata. Questo può addirittura imparentarsi con una gioia realmente spirituale: una consolazione nella preghiera, un successo nell’apostolato… E’ infatti possibile anche attaccarsi a una gioia spirituale, in modo tale che non ci permette più di progredire verso una gioia più profonda. Ecco perché è bene, ogni tanto, pregare per scoprire in noi questa gioia profonda o, meglio ancora, perché un giorno ci afferri veramente. Quando l’ascesi sarà in pieno accordo con la gioia, allora sarà libera, felice e raggiante. Non sarà più necessario aggrapparsi a qualche piccola felicità passeggera: la gioia stessa di Gesù si aggrapperà a noi e ci trascinerà attraverso ogni mortificazione verso la sua resurrezione e la vita nuova.
Raccoglimento e silenzio
Il silenzio, sempre in rapporto con l’interiorità e il raccoglimento, è anch’esso un terreno eminente di incontro con la grazia. Solo la grazia infatti può attirarci all’interno di noi stessi e placarci accanto alla Parola di Dio, per esprimere così davanti a Dio, senza parole, il nostro essere e quello del mondo. D’altronde il silenzio ha sempre a che fare con la parola: o si accorda a una parola che siamo chiamati ad accogliere, oppure è lo spazio in cui prendiamo noi stessi la parola. Ma prima che questo avvenga, il silenzio non è privo di ambiguità: può essere espressione di impotenza e di peccato, ma anche di pienezza e di fecondità. Nel libro della Genesi, Adamo prima del peccato è per eccellenza un uomo che parla: prendendo la parola, svolge un ruolo attivo nella creazione; Dio lo invita addirittura a dare un nome a tutte le creature e viene di persona a dialogare con l’uomo al calar del sole, alla brezza della sera. Questo dialogo fu interrotto dal peccato. Quando Dio si manifestò nuovamente nella sua passeggiata serale, Adamo ed Eva si nascosero per la vergogna, non osando più accogliere Dio. Anche tra di loro il dialogo è interrotto: Eva tenta Adamo e Adamo accusa sua moglie davanti a Dio. La loro parola non esprime più l’amore bensì l’impotenza e l’odio, non sarà più parola di benedizione: ora è capace di maledire. La confusione delle lingue alla torre di Babele è un’immagine evidente della divisione che ormai regna tra gli uomini perfino nel linguaggio, la cui diversità ostacola notevolmente l’intesa reciproca. Anche all’interno dell’uomo adesso regna la divisione e la confusione: non è più capace di essere leale nei confronti della sua stessa parola. L’uomo è diventato mentitore e con la sua lingua può far torto alla verità: la bocca infatti parla dalla pienezza del cuore (cf. Mt 12,34). Il cuore dell’uomo è diventato cattivo, perciò la sua parola è ambigua, può fare il bene come il male: è uno strumento con il quale possiamo sia lodare Dio che fare del torto ai fratelli, scrive Giacomo in un brano significativo della sua lettera in cui insiste sui pericoli che può provocare la lingua (cf. Gc 3,1-12). Ecco una prima ragione per essere attenti a maneggiare con serietà la parola, e anche, eventualmente, per tacere: la nostra impotenza e la nostra povertà. Spesso è meglio osservare il silenzio perché, parlando, si corre un rischio: Gesù stesso ci ha detto che verremo giudicati per ogni parola inutile (Mt 12,36), ammonimento che sottolinea sia il valore che l’ambiguità della parola. Questa prima forma di silenzio non sembra decisamente positiva, però ci aiuta più spesso di quanto crediamo. E’ bene vivere come esseri feriti, che conoscono le loro ferite e che, con tutti i loro atteggiamenti, dimostrano di cercare la guarigione. Questo stesso silenzio, che nasce dalla nostra impotenza, regna a volte tra Dio e noi, specialmente al momento della preghiera. Non è ancora il silenzio che ci afferra dall’interno, quando una parola di Dio sorge improvvisa come una luce nel nostro cuore. Al contrario, è un silenzio che nasce dall’eccessiva distanza tra Dio e noi, però un silenzio che è pieno di speranza e di attesa e che può veramente purificarci in profondità. Noi crediamo che Dio un giorno scavalcherà tutti i nostri peccati e sarà il primo a riprendere la parola per darci un segno di pura grazia. Il nostro mutismo esprime questa speranza e il desiderio di dire la nostra attuale insoddisfazione: è il silenzio del mendicante che non cessa di tendere la mano, il che include il rifiuto di tutto ciò che potrebbe distrarre da Dio. Il povero autentico è colui che è persuaso che solo Dio può salvarlo e che solo la sua Parola può compiere meraviglie. Una meraviglia simile è già apparsa nella vita di Gesù: questi è venuto sulla terra non tanto per tacere quanto piuttosto per ristabilire il dialogo spezzato tra Dio e Adamo. E’ lui che toglie la dissonanza che impedisce al nostro cuore di entrare veramente in dialogo con Dio. Gesù lo fa con facilità ancora maggiore per il fatto che è nel contempo Dio e uomo. Come Dio, è la Parola vivente e perfetta del Padre che ci è concesso di ascoltare molto chiaramente; come Dio, Gesù è nello stesso tempo la risposta del Padre al punto che, in quanto uomo, era il solo in grado di restaurare il dialogo tra l’umanità e Dio. Gesù è innanzitutto la Parola del Padre rivolta a noi. È quanto appare chiaramente in ciò che dice il Padre nella Trasfigurazione: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo” (Lc 9,35). Gesù stesso ha sovente ricordato di essere soltanto la Parola del Padre: è l’inviato del Padre e non può far altro che trasmettere ciò che ha ricevuto dal Padre. Ai giudei, che si meravigliavano di vederlo presentarsi come Maestro, dice esplicitamente: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato” (Gv 7,16). Il fatto che Gesù si esprima in questi termini suppone in lui un’intensa apertura e un abbandono totale al Padre, il che è anche una forma di silenzio e di interiorità. Per essere soltanto Parola del Padre, Gesù deve essere, fin nella sua umanità, unicamente silenzio, attenzione e ascolto del Padre. Per essere risonanza di quanto il Padre vuole comunicare, bisogna che Gesù sia impregnato di riservatezza, che assuma un atteggiamento essenzialmente di ascolto, in sintonia completa con il Padre. Gesù è in grado di essere Parola di Dio fin nella sua umanità perché al fondo del suo essere regna un silenzio infinito. Tuttavia Gesù è nel contempo risposta dell’uomo a Dio. Grazie al suo silenzio e alla sua Parola, il dialogo, interrotto da Adamo, è ristabilito. Paolo, nella seconda lettera ai Corinti, ha espresso in modo sintetico questi due aspetti di Gesù-Parola: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi (…) non fu si e no, ma in lui c’è stato il si. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono divenute sì. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro amen per la sua gloria” (2Cor 1,19-20). E’ proprio perché Gesù è così disinteressato e così trasparente alla Parola del Padre che è stato anche la risposta migliore e più positiva dell’uomo. E’ stato il primo Amen, al quale acconsentiamo e ribadiamo il nostro accordo a ogni liturgia: Amen, Alleluja. Il silenzio essenziale e infinito dell’umanità di Gesù era così riempito fino al colmo dal sì dell’umanità, dall’amen del cielo come da quello della liturgia terrena. Amen non è forse il nome che Giovanni ha dato a Gesù nell’Apocalisse: “Così parla l’Amen” (Ap 3,14)? Per dire ed essere sempre l’Amen, Gesù ha dovuto abbandonarsi alla Parola, alla volontà e all’amore del Padre. “Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!” (Mc 14,36). In quel momento decisivo la volontà umana di Gesù si è per così dire zittita e ha raggiunto la pace assoluta. Oggi, il silenzio di un credente si riallaccia a quelle parole di Gesù, perché abbiamo bisogno di tempo e di pace per essere in grado di pronunciare consapevolmente quelle stesse parole di fronte al Padre. E perché, a un dato momento, quelle parole basteranno per sempre: Amen! Alleluja!
Crescere verso l’interiore
Le motivazioni del silenzio potrebbero essere ambigue e la sua pratica ha bisogno di un certo apprendistato: potrà crescere solo poco alla volta. C’è stato un periodo della nostra vita in cui abbiamo osservato un silenzio assoluto e nel contempo abbiamo vissuto intensamente, un tempo in cui crescita rapida e mutismo si confondevano. Era il tempo in cui non disponevamo ancora della parola, prima e dopo la nostra nascita. In quel silenzio obbligato c’è stata una scoperta progressiva della parola che avremmo un giorno balbettato all’indirizzo dei nostri genitori. Quel silenzio era d’altronde relativo: fin dall’inizio, infatti, il contatto con i genitori è stato estremamente intenso, lo scambio era incessante e l’esperienza non faceva che aumentare. Fin dal giorno stesso della nascita il contatto con la madre si è stabilito attraverso il corpo e la pelle; ben presto siamo stati in grado di riconoscere i nostri genitori con lo sguardo: da quel momento tra loro e noi c’è stato un linguaggio visivo. Un passo ulteriore avvenne qualche settimana più tardi: il sorriso; con il sorriso gli abbiamo fatto sapere che li riconoscevamo, consolidando così il legame tra loro e noi. A quel punto eravamo già capaci di registrare le loro parole e, in una certa misura, di capirle. La prima parola che abbiamo padroneggiato e, per così dire, inventato è stata “mamma” o “papà”: conferma e chiamata, maturate in un lungo silenzio. Si trattava già allora della migliore espressione di noi stessi, di come ci percepivamo, avvolti nell’amore dei nostri genitori. Ma prima ci sono voluti mesi di silenzio, un lento e paziente scavo di questa nuova capacità, senza dubbio anche molta sofferenza. Il primo frutto è stata una parola d’amore, parola densa di significato, una vera parola. Molto più tardi, quando ormai sapevamo padroneggiare il linguaggio, siamo stati a nostra volta sorpresi dalle parole: ci oltrepassavano, erano ben lungi dall’essere sempre vere e chiare. Abbiamo imparato per esperienza che l’uomo è capace di usare una parola in disaccordo con la propria verità, e di nascondervisi dietro: ogni uomo può diventare bugiardo. La parola gli serve allora da difesa, lo separa dal prossimo, da se stesso e a volte anche da Dio. Le parole possono essere solo formalismo e convenzione, una maschera dietro la quale restiamo invisibili. Tutto questo può renderci avidi di silenzio, ma di un silenzio che è ancora il silenzio di una certa impotenza: vorrei sbarazzarmi della maschera superficiale con la quale inganno gli altri e me stesso. Per essere veramente fecondo, il silenzio dev’essere qualcosa di più: deve rivelarmi il desiderio che vive in me, nascosto sotto molto rumore e molte parole, deve aiutarmi a raggiungere il mio intimo in cui si trova la fonte del silenzio autentico. Dovremo procedere a lungo fino al cuore della nostra interiorità, là dove ci aspetta il Padre da cui procede ogni paternità (cf. Ef 3,15) e di cui cerchiamo di articolare il nome. Nel nostro intimo più profondo, infatti, c’è un altro legame d’amore, di cui quello che ci univa ai genitori era solo il segno: il legame con il Padre, nel Figlio e per mezzo dello Spirito. E lo Spirito che ci fa balbettare: “Abba, Padre” (Rm 8,15). La stessa invocazione, che è stata un giorno la nostra prima parola umana, viene ora nuovamente balbettata, al di là di un silenzio che è diventato solo pienezza d’amore. Si crea così un andirivieni tra il silenzio che ci imponiamo all’esterno e il silenzio interiore, o interiorità, di cui cominciamo a discernere in noi la profondità insondabile. E il processo non è ancora finito: poco alla volta questa interiorità rimpiazzerà il silenzio esteriore perché questo è chiamato a trasformarsi in interiorità, una realtà che è silenzio che respira la vita, in quanto è vita essa stessa, vita interiore, vita spirituale, vita eterna. Isacco il Siro sostiene che il silenzio è la lingua del mondo futuro. Per favorire questa interiorità è necessario non solo il silenzio esteriore, ma anche quello interiore. Quest’ultimo è molto più importante del primo anche se, purtroppo, è molto meno conosciuto. Il nostro universo interiore non è spontaneamente in accordo con Dio, salvo il suo nucleo più profondo, là dove il nostro essere si riceve dalle mani di Dio. Questo nucleo è ricoperto da una cappa di desideri e di pensieri che impedisce un contatto diretto con Dio che ci abita. Come il nostro corpo, così anche il nostro essere interiore conserva delle tracce del peccato: ecco perché è sempre necessaria una vigilanza interiore per non cedere al primo desiderio che si presenta. Una certa povertà o sobrietà di desideri e di pensieri aprirà in noi un vuoto, creerà una cavità attraverso la quale la vita dello Spirito potrà sgorgare, come sorgente inarrestabile, nel fondo del nostro cuore. La sorgente è forse l’immagine migliore del silenzio, perché questo ha sempre a che fare con lo Spirito, immagine d’altronde già usata da Gesù: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Gv 7,37b-39). Grazie al silenzio e al raccoglimento, lo Spirito santo scava in noi un vuoto, una cavità che sarà lo spazio che consentirà alla sorgente di scaturire: questa sorgente è lo Spirito stesso. Siamo infatti nati da acqua e da Spirito (cf. Gv 3,5), da un’acqua che sgorga non appena il silenzio le crea lo spazio. Scavare diventa allora inutile perché il silenzio autentico, quello interiore, si sostituisce al silenzio imposto dall’esterno. L’acqua scava da sola il proprio letto, sempre più profondo: basta lasciarla scorrere.
L’umile amore
Nulla rivela un essere meglio della sua capacità di amare, anche se è altrettanto evidente che questa capacità non è immediatamente disponibile. Solo dopo un processo di maturazione, che può durare anni – e a volte anche tutta una vita -, arriviamo a liberare progressivamente tutto l’amore che è racchiuso nel nostro cuore. Il nostro sviluppo spirituale e l’esperienza acquisita svolgono un ruolo importante in questo processo. In fondo l’amore ha a che fare con Dio – Dio infatti è Amore – e noi possiamo amare solo nella misura in cui abbiamo potuto sperimentare qualcosa dell’amore di Dio e della sua grazia. L’abbiamo già visto più volte in questo libro: è al cuore della tentazione e della conversione che impariamo come prendere contatto con la grazia e come vivere conformemente ad essa. È lì infatti che incontriamo la misericordia straripante di Dio. Nella misura in cui ogni amore è il frutto dello Spirito in noi, una simile esperienza della nostra impotenza e della misericordia, fatta al momento della conversione, si ripercuote forzatamente sulla nostra capacità di entrare in contatto con gli altri attraverso l’amore. Questa esperienza infatti libera in noi un amore che va ben al di là dei limiti del nostro amore naturale, un amore che finisce per somigliare all’amore del Padre celeste, di cui Gesù testimonia che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni (Mt 5,45). L’amore andrà così lontano che Gesù vuole che si estenda non solo a quelli che ci amano – anche i pagani fanno altrettanto – ma addirittura a quelli che ci odiano, perfino ai nostri nemici (Mt 5,44). E’ una missione gravosa, impossibile da realizzare finché lavoriamo solo con la nostra generosità. Solo una lunga familiarità con la grazia, o meglio con l’agire della grazia in noi, un agire paziente e generoso, mite e forte insieme, ci insegna come amare sempre meglio. Non è tanto facile parlare dell’amore come esperienza spirituale: fino a poco tempo fa, l’aspetto sensibile dell’amore creava a molti un certo disagio. Da allora molte cose sono state scritte a questo proposito, ma non è detto che la situazione si sia evoluta così velocemente come lascerebbe pensare la marea di parole e di scritti: affermazioni scottanti, anche se ben intenzionate, generalmente non bastano a infiammare un cuore; e la precipitazione con cui si parla di una cosa solitamente tradisce il malessere che proviamo nei suoi confronti. Non è mia intenzione soffermarmi su questa difficoltà: vorrei soltanto ricordare una duplice deformazione dell’amore, che a volte si incontra ancora ai nostri giorni e la cui origine risale forse all’atteggiamento adottato dalle generazioni precedenti nei confronti della tenerezza e dell’amore sensibile. Una prima deformazione concerne il fatto che l’amore è stato spesso forzato nel senso di un servizio attivo: per amare non sarebbe essenziale sentire qualcosa ma, al contrario, fare qualcosa. La seconda deformazione porta ad accentuare in modo unilaterale gli aspetti sociali dell’amore, a danno degli aspetti personali: è più facile che ci venga chiesto di amare un popolo, una classe, una giusta causa, magari la chiesa stessa, piuttosto che la persona che incontriamo per caso all’angolo della strada. Questa duplice deformazione procura seri rischi all’amore. E’ indubbio che l’amore deve portarci a dedicarci a quanti ne hanno veramente bisogno: ogni pagina dell’evangelo ce lo ricorda. Tuttavia non bisogna dimenticare che in ogni amore autentico quello che conta innanzitutto è che io stesso mi senta indigente. La mia povertà in amore ha un ruolo altrettanto importante del bisogno materiale o spirituale del mio prossimo. A prima vista, ciò può apparire egoista, ma non è così: se mi preoccupo troppo in fretta del servizio da offrire all’altro, salto una tappa importante dell’amicizia, forse addirittura una tappa essenziale. E’ anche possibile che, inconsciamente, questa omissione ci venga a costare meno: in fondo è più piacevole fare qualcosa per un altro piuttosto che accettare che si avvicini a me come a un povero. E’ tuttavia per l’amore è essenziale che io sia per primo ferito dall’altro, gli devo lasciare l’occasione e il tempo di procurarmi questa ferita. Quando amo, sorge in me un bisogno che può venir colmato solo dalla persona amata; amare significa dire a qualcuno: “Sei la mia gioia, senza di te non posso vivere, ho bisogno di te”. L’amore desta un bisogno, rende indigente e povero, arriva a farmi dipendere dall’altro. L’amore mi apre all’altro, mi insegna ad ascoltare, mi rende ricettivo. In questo senso l’amore non può mai essere dissociato dall’autentica umiltà: e soprattutto l’amore che mi rende umile nei confronti di colui verso il quale mi sento così fortemente attratto. E forse quanto c’è di più difficile nell’amicizia: non il carattere troppo sensibile dell’amore e i problemi che pone, ma il fatto che l’amore ci porti a riconoscere che abbiamo bisogno dell’altro, un altro che solo può darci quello che ci manca, nella misura in cui ci abbandoniamo a lui. E’ comprensibile che molti oppongano inconsciamente resistenza a quanto può apparire debolezza o viltà, e che facciano tutto il possibile per evitare questa prova. Allora un’attività generosa diventa spesso la via d’uscita più onorevole che lusingherà il nostro amor proprio. Un simile amore, che pretende di essere disinteressato, è un sistema facile per schivare l’amore vero e soprattutto l’autentica umiltà dell’amore. Mostrarsi eroici nell’amore del prossimo è relativamente semplice. “Eroe della carità!”: curiosa espressione che ha trovato molto presto diritto di cittadinanza. Un simile eroismo ha però poco a che fare con l’amore autentico, il quale riguarda piuttosto la vulnerabilità e la fragilità della persona amata. Non si parla mai di eroi dell’amicizia, né di amore coniugale eroico: l’amore non sa che farsene dell’eroismo che potrebbe essere al massimo un amore che schiaccia. L’amore è amore e basta a se stesso. Un altro modo di schivare il confronto con la nostra debolezza sarebbe quello di indirizzare il nostro amore solo verso gruppi di persone. Ci si dedica attivamente agli altri (al plurale!), alla parrocchia, alla chiesa, alla patria, ai paesi sottosviluppati. E’ una semplice distrazione se non si menziona mai l’uomo concreto? E così facile amare al plurale, di un amore astratto e idealizzato che non fa male a nessuno – né a noi, né agli altri – ma che non fa neanche del bene ad alcuna persona concreta. Allora si può essere occupatissimi con un prossimo lontano (già la contraddizione dei termini dovrebbe dirci qualcosa!), in qualche paese straniero, ed essere in difficoltà con tutti i propri compagni di lavoro: è ancora un modo di sfuggire all’amore autentico, che si vive sempre al singolare. Non si ama un gruppo, ma innanzitutto una persona, qualcuno che mi può ferire, davanti al quale accetto di perdere la faccia e al quale faccio l’onore di essere l’unico che, in un dato momento, mi salva dalla miseria. Questa capacità di essere feriti dall’amore, questa debolezza che nasce in ogni relazione d’amore possiamo impararla solo da Dio e dalla sua grazia. E’ lui che ci ha lasciato l’esempio assoluto dell’amore nella sua azione redentrice, lui il cui amore si occupa di noi ogni giorno. Non ha forse tanto amato il mondo da offrire il suo Figlio unigenito (Gv 3,16)? E suo Figlio non ha forse detto – lui, il buon pastore – che abbandonerebbe le novantanove pecore nel deserto per cercare la pecora smarrita (cf. Lc 15,4)? Non si è forse paragonato al Padre che ogni giorno si mette di sentinella per correre verso il figlio prodigo e abbracciarlo non appena lo vede sbucare all’orizzonte (cf. Lc 15,20)? E quando, alla vigilia della sua passione, ha voluto dare un segno del suo amore infinito, non si è forse tolto la veste e, come un servo, non si è inginocchiato davanti ai suoi discepoli, Giuda compreso, per lavar loro i piedi (cf. Gv 13,5)? La vulnerabilità di Dio di fronte all’uomo è così grande, il suo desiderio di lui è così intenso, il prezzo che è disposto a pagare è così alto che non c’è gioia più grande in cielo di quella che solo il peccatore è in grado di dare a Dio quando decide di tornare dal Padre suo (cf. Lc 15,7). L’amore di Dio non schiaccia mai, anzi: è discreto e umano, mite, umile e riconoscente. L’amore umile, humilis caritas, ecco forse la virtù evangelica per eccellenza. E’ molto più rara di quanto lascerebbe supporre l’uso odierno del termine amore; è l’amore a immagine di Dio: generoso, paziente, mite con tutti, con il prossimo vicino come con quello lontano, con l’amico come con il nemico, un amore che si offre anche al primo venuto. Un abate cistercense del XII secolo, Guerrico d’Igny, l’ha espresso a modo suo: “Proprium est amicitiae humiliari pro amicis. Proprio dell’amicizia è umiliarsi per gli amici”. Persone simili sono una grande grazia per la chiesa e per il mondo. Di solito sono persone facilmente riconoscibili perché l’amore autentico attira gli altri, a sua insaputa. A volte vivono nascoste, in disparte, ma una sola delle loro parole, pronunciata sulla porta del loro eremo, può bastare a gettarci a terra, come è capitato a Paolo, e a farci gustare qualcosa della grazia di Dio. Vorrei concludere questo capitolo sui frutti dello Spirito con il ricordo personale di un pellegrinaggio presso alcuni eremiti del Monte Athos. C’è poco da dire, se non che me li ero immaginati completamente diversi: magari come uomini rozzi, rudi e duri, degli eroi dell’ascesi e della solitudine, restii a ogni contatto umano. La realtà è stata tutt’altra: raramente ho potuto sperimentare un amore simile, un amore mite e umile che mi ha immediatamente fatto sentire accolto nella loro preghiera e mi ha trascinato, come mio malgrado, verso Dio. Raramente mi sono anche sentito così vicino agli uomini, immesso nel cuore stesso del mondo che non cessa di battere per Dio e che così pochi, purtroppo, sanno ascoltare.
PREGARE: RESPIRARE AL RITMO DELLA GRAZIA
Nei capitoli precedenti, ogni volta che abbiamo accennato alla grazia, siamo istintivamente sfociati nella preghiera. Difficilmente avremmo potuto fare diversamente: quando preghiamo non cessiamo di camminare con la grazia, o meglio, è la grazia che ci scorta e cammina con noi. Pregare significa molto semplicemente vivere e respirare al ritmo della grazia. In quest’ultimo capitolo vorremmo ritornarci in modo più esplicito.
A proposito della preghiera
È forse opportuno ricordare innanzitutto cosa intendiamo per preghiera. Esistono infatti molte forme di preghiera: preghiera vocale o silenziosa, preghiera esteriore o interiore, preghiera liturgica o personale. Con il movimento carismatico sono anche emerse nuove forme di preghiera come, per esempio, la preghiera in lingue. Non è mia intenzione operare una scelta o esprimere preferenze. Ci sono infatti molti cammini che conducono alla preghiera: l’importante è che tutti sfocino nell’evento che si impadronisce dell’uomo intero quando la preghiera profonda sgorga in lui. Ogni forma di preghiera deve pervenire a questa preghiera profonda che è l’unica autentica. La preghiera suppone che qualcosa accada in colui che prega: è sempre un evento nel senso forte del termine, è l’evento della preghiera. Cosa succede esattamente nella preghiera? Dobbiamo rinunciare momentaneamente a date una definizione della preghiera e cercate innanzitutto di descriverne l’evento esterno, con l’aiuto di alcune immagini familiari. Immagini e simboli possono essere più suggestivi di una definizione. Per prima cosa, l’evento della preghiera ci prende alla sprovvista, ci coglie impreparati. Quello che ci sorprende non è qualcosa di estraneo, di profano, bensì qualcosa di familiare: ci sentiamo sorpresi da ciò che era già da tempo in noi, che portavamo senza saperlo e che all’improvviso appare in superficie e si impossessa interamente di noi. Eccoci presi da lui: sulle prime, ci appare un estraneo, ma ben presto ci accorgiamo che è proprio cosa nostra, che gli apparteniamo, che è addirittura un altro aspetto – un aspetto ancora sconosciuto – del nostro io. Non un aspetto oscuro, ma un aspetto luminoso; non un lato addormentato, bensì il lato più dinamico, una fonte di forza viva e vitale. E’ il nostro lato più profondo e migliore, il nostro fondo di eternità che si annuncia e si manifesta. Una seconda immagine che permette di cogliere meglio questa preghiera-evento potrebbe essere quella di una presa di coscienza. Pregare significa diventare coscienti di qualcosa rimasto a lungo inconscio in noi. Per ogni uomo c’è un lungo periodo in cui la preghiera rimane inconscia: era già presente ma egli non lo sapeva. Pregare significa rendere cosciente in noi questa preghiera inconscia. Diventare coscienti di quanto era inconscio in noi costituirà sempre una tappa importante nella nostra vita, come in ogni terapia. Una terapia infatti punta proprio a far emergere ciò che era inconscio in noi: dapprima siamo confrontati con questo, poi dobbiamo accettarlo e incorporarlo per integrarlo in modo equilibrato nella nostra vita quotidiana, nelle nostre azioni e nei nostri gesti, nei pensieri come negli affetti. La preghiera è il lato divino in noi che diventa cosciente e deve lentamente integrarsi nella nostra vita. Un’altra immagine che potrebbe descrivere la preghiera-evento è quella della sorgente, una sorgente che è stata a lungo ostruita da una pietra: la sorgente era là da sempre, ma era provvisoriamente sigillata, chiusa. Non appena si toglie la pietra, l’acqua sgorga spontaneamente. Si tratta d’altronde di una fonte di acqua viva, secondo l’immagine usata da Gesù nell’evangelo per descrivere la vita dello Spirito (cf. Gv 4,10). L’acqua viva sgorga senza sforzo e possiede una rara potenza: trasporta, spinge, scava. Quando una diga si rompe o ha luogo un’inondazione, si deve temere il peggio. Una diga che si rompe: la preghiera-evento ha anche qualcosa a che vedere con una rottura improvvisa, con qualcosa che cede o si apre con violenza. E’ qualcosa di violento e di tenerissimo insieme: più che di rottura bisognerebbe parlare di sboccio. Tuttavia l’evento ha anche a che fare con la violenza dell’uragano di Pentecoste. Nel suo olandese antico, a volte così lirico, Ruusbroec paragona la preghiera a un oerwoet, l’impeto ardente delle origini simile a un uragano irresistibile. Non possiamo far altro che abbandonarci a una simile tempesta, cedere di fronte a lei e lasciare che segua il suo corso. Infine la preghiera è paragonabile a una nascita, alla venuta al mondo di una nuova vita. La nascita è accompagnata dai dolori del parto, ma anche dalla gioia profonda perché un nuovo essere sta per venire al mondo. La preghiera-evento è sempre come una nuova nascita: una vita profonda, che portavamo in noi da tempo, che germinava e cresceva in noi, si rivela all’improvviso e a volte in modo sconvolgente. In che cosa consiste questa vita finora sconosciuta che si manifesta improvvisa? Chi è quest’uomo nuovo che viene al mondo, questo nostro lato inconscio che diventa cosciente? Per tutti i mistici c’è una sola risposta a questa domanda. Pregare significa percepire la nostra realtà più profonda, quel punto preciso del nostro essere in cui – inconsciamente, insensibilmente, senza mai averlo visto – noi giungiamo a Dio, scortiamo in Dio, tocchiamo Dio; o meglio, quel punto in cui, a ogni istante, mentre non cessa di crearci, Dio ci tocca. Gli scrittori bizantini chiamano a volte questo punto il topos tou theou, il luogo in cui Dio è presente in noi. L’unica differenza tra i mistici è il nome che danno a questo logo: nous, mens, cor, il fondo dell’essere, l’intimo, il nucleo, l’abisso dell’anima, la vetta dell’anima, la sommità dello spirito. Mi vengono in mente spontanei i celebri versi di un poeta fiammingo, Guido Gezelle: Sono lontano da te, mentre tu, dolce sorgente di tutto ciò che è vita, o di tutto ciò che fa vivere, tu sei per me il prossimo a me più prossimo, mentre tu mandi, o sole amato, nel mio intimo più profondo il tuo fuoco divorante che tutto penetra. Dio ci tocca mentre ci crea, come l’ha raffigurato Michelangelo nella sua celebre Creazione: il dito del Padre sfiora appena il dito di Adamo, ma per non lasciarlo mai più. Possiamo allora chiederci: sarà possibile captare nella coscienza umana questo contatto creatore tra Dio e l’uomo? Ma Dio, ricreandoci dopo la caduta, ci tocca in modo ancor più profondo nel Figlio che dimora in noi e con noi, e nello Spirito che è stato effuso nei nostri cuori e il cui mormorio o gemito nel nostro intimo precede ogni nostra preghiera, ben prima che iniziamo a pregare coscientemente. La forza dei testi di Paolo a questo riguardo non lascia il minimo dubbio (cf. Rm 8,26). Sorge di nuovo la stessa domanda: questa preghiera concessa in anticipo nel nostro profondo, è percepibile? Può diventare cosciente? Se sì, come?
Pregare nell’impotenza
La risposta a questa domanda non è facile: l’esperienza che abbiamo della preghiera è generalmente limitata e piuttosto sfortunata; a un dato momento, diventa addirittura profondamente frustrante. Allora ci rendiamo conto di non sapere come pregare: abbiamo tentato diversi metodi ma, nella maggior parte dei casi, senza risultato. Alcuni di questi metodi usano l’immaginazione: raccomandano di raffigurarsi scene ispirate dagli evangeli oppure immagini dell’iconografia tradizionale. E un metodo eccellente. Un posto preminente va riservato all’icona di Gesù, con i tratti dell’oriente o dell’occidente: il Volto santo del Redentore, figura sacramentale del Kyrios glorificato. Come Dio ha lasciato a nostra disposizione la sua Parola sotto la forma delle parole umane della Bibbia, così il suo Essere invisibile si è reso visibile nei tratti umani del volto di Gesù: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dice Gesù stesso (Gv 14,9). Secondo una tradizione secolare, l’arte cristiana avrebbe conservato fedelmente i lineamenti autentici del volto di Gesù, che ha mantenuto l’invisibile forza spirituale del mistero della salvezza. Ne consegue il ruolo importante ricoperto dalle icone e dai quadri nella liturgia e nell’esperienza spirituale, per lo meno fino all’inizio di questo secolo. La liturgia un po’ rattrappita precedente al Vaticano Il, unitamente alla crisi delle arti figurative, ci ha disabituato all’esperienza concreta e vivificante delle immagini sacre. Comunque sia, il cuore di questa esperienza ha le sue radici nella forza spirituale racchiusa nell’icona o nella sacra imago, l’immagine sacra, come dice l’occidente. Questa permette a chi contempla l’icona di non fermarsi all’immagine in se stessa o alla propria fantasia. Al contrario: attraverso l’immagine, è il cuore che viene toccato, così come la Parola di Dio nella Bibbia non si rivolge innanzitutto alla nostra intelligenza ma deve ferire il nostro cuore. E quindi estremamente importante che l’uso delle immagini non ci rinchiuda nell’immaginario: le immagini potrebbero distoglierci dall’essenziale. Se, per esempio, ho fatto un pellegrinaggio in Israele e cerco di rappresentarmi i luoghi santi durante la preghiera, non sono mai sicuro di non andare al di là dei semplici ricordi di un viaggio, per quanto istruttivo. Ma sono sicuro che, così facendo, raggiungo la persona di Gesù? Ogni immagine deve condurci a un’esperienza. E qui rispunta la domanda: che tipo di esperienza? Con l’aiuto di un’immagine si può destare dentro di sé ogni sorta di sentimenti: di gioia, di amore, di fiducia, di riconoscenza, almeno fino a un certo punto. Ci si può addirittura compiacere in simili sentimenti e trovarvi una certa soddisfazione; ma si può anche, in breve tempo, annoiarsi abbondantemente, magari non alla prima volta, ma alla seconda o alla terza: i nostri sentimenti non sono inesauribili, sono limitati e in stretto rapporto con il nostro umore, i nostri buoni propositi e quanto assomiglia a desideri spirituali. Anche quando questo metodo ha successo perché si è dotati di una ricca affettività, cosa si ottiene? E Dio che mi ferisce, che tocca il fondo della mia affettività quando sono tutto intento ad attizzare i miei sentimenti come farei con dei carboni ardenti che stanno per spegnersi? Ben presto sarei saturo, non perché manchi di generosità o di perseveranza, ma per il semplice motivo che i miei sentimenti non sono inesauribili. Solo Dio è inesauribile in me, ma, per l’appunto, come raggiungere in noi quel Dio inesauribile? Altri pensano di riuscire meglio nella preghiera imboccando un itinerario razionale: lasciano parlare soprattutto la propria intelligenza. Il termine ancora in uso di meditazione indica questa pista. Nel peggiore dei casi si tratterà di considerazioni astratte sulla verità, nel migliore, queste riflessioni sfoceranno in una visione più chiara delle cose o in una convinzione più forte; convinzione che sarà forse capace di ridestare i nostri sentimenti religiosi. Tuttavia le parole della Scrittura non sono destinate principalmente a essere meditate intellettualmente: sono là per ferirci e aprirsi così un varco verso il nostro intimo più profondo. Si rivolgono innanzitutto al nostro cuore e non alla nostra intelligenza. Se si fermassero alla nostra intelligenza, sarebbero solo una pacca incoraggiante sulla spalla, come per dire: “Vedi, abbiamo la situazione in pugno, continua a fare del tuo meglio!”. Esagero, ma avrete indovinato che seguendo questa strada rischiamo di scivolare in un attimo verso un moralismo sospetto. Fino a quel momento infatti non è successo niente e continua a non succedere niente: la strada è semplicemente sbarrata e noi la manteniamo tale e quale, ci accontentiamo di sforzarci di fare del nostro meglio e proprio questo è sterile. Se soltanto facessimo un po’ meno di sforzo, troveremmo più facilmente l’unico luogo in cui Gesù ci aspetta e in cui è possibile l’autentico incontro. Possiamo definire questo luogo come un’impasse, un vicolo cieco, un punto morto, una strada senza uscita. Impasse inevitabile e necessaria! È là che impariamo a nostre spese che non succede nulla attraverso la ragione, né attraverso l’immaginazione e nemmeno attraverso i nostri sentimenti. Qualcosa succederà, certo, ma altrove: l’impasse deve portarci ad abbandonare tutte queste piste finora così familiari. Allora diventa importante fermarsi, restare in un profondo silenzio interiore e là aspettare, con estrema semplicità, che qualcosa sopraggiunga nella nostra vita dall’interno. Non un’idea, non un sentimento, non un immagine, ma qualcosa di diverso: una presenza silenziosa, inavvertita, senza immagine, senza pensieri; non tanto qualcosa di diverso, ma piuttosto Qualcuno di diverso, un Altro, l’Altro assoluto. Cerchiamo di descrivere qui una tappa molto importante della preghiera, tappa che in realtà tutti quanti temiamo: l’inutilità dei nostri sforzi ci fa finalmente prendere coscienza, a nostre spese, che la preghiera è impossibile per noi! Alcuni allora si agitano come possono e si sforzano di fare del loro meglio in generosità, fervore o dedizione agli altri. Tutte cose in fondo più facili che fare esperienza della nostra radicale impotenza di fronte a Dio. Che fare allora in questa impasse? La risposta a questa domanda è una delle più semplici: soprattutto non agitarsi, ma semplicemente dimorare nell’impasse, che significa non fuggire con nessun pretesto. E’ proprio lì, in questa impasse in cui ci dibattiamo ingloriosamente, che dovremo essere liberati e guariti dalla nostra impotenza. Abbiamo detto essere liberati, al passivo: è essenziale. Non si tratta mai di liberarsi da soli, ma proprio di essere liberati da un altro. Questo vuol dire non essere più in grado di gestire la situazione, restare nella nostra impotenza affinché proprio lì, e non altrove, venga a prenderci la forza di Dio. La preghiera infatti è anche esperienza di salvezza e deve diventare illustrazione concreta delle parole di Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte perché la potenza di Dio si manifesta nella debolezza” (cf. 2Cor 12,9-10). A volte questo processo è molto lungo. Si tratta di imparare progressivamente ad abbandonarsi in profondità: il nostro progetto personale di preghiera deve, in modo impercettibile ma certo, essere rimpiazzato dall’azione di Dio in persona e, in un modo o nell’altro, perdersi in essa. A questo punto spetta a Dio assumere l’iniziativa, a noi lasciarlo agire e abbandonarci alla sua azione in noi. Un tale abbandono non è facile: a volte gli opponiamo resistenza a lungo, spesso anche con una certa ostinazione, con uno zelo benintenzionato ma perfettamente inutile e addirittura nefasto. Dio, che ci conosce meglio di noi stessi, ci lascia fate per un po’, tollera le nostre resistenze nei suoi confronti, a volte ci lascia addirittura credere che stiamo facendo progressi nella preghiera… Ma solo per un po’ di tempo. In realtà quello che Dio ci chiede adesso è particolarmente faticoso: ci toglie la preghiera, in modo che abbiamo l’impressione di perdere tutto quello che pensavamo di aver conquistato. Indubbiamente avevamo forse acquisito un certo risultato di preghiera, o almeno così ci sembrava, ma adesso tutto è improvvisamente bloccato, appare nullo, come se non fosse mai avvenuto: non c’è più risposta. Segniamo il passo, senza più speranze. Non è necessario attribuire questa disavventura a una colpa o a una mancanza di generosità da parte nostra: è Dio stesso, nella maggior parte dei casi, che ha disposto così perché vuol farci sapere che ormai ci attende altrove. La preghiera ci viene ancora e sempre donata in anticipo, ma altrove, a un livello molto più profondo. Prima desideravamo indubbiamente questo dono di Dio chiamato grazia, per essere in grado di pregare; pero avevamo nello stesso tempo l’impressione di possedere già in parte questa preghiera, di esserne padroni: i nostri sforzi non erano stati inutili! Ormai Dio preferisce porre il problema in modo completamente diverso. La preghiera alla quale ci invita adesso è la sua preghiera: è pura grazia, noi non abbiamo alcun potere su di lei. L’unico gesto che possiamo ancora compiere è quello di aprire le mani e il cuore affinché la preghiera ne scaturisca come un dono del Signore, là dove gli piacerà concedercela. Perseverare nell’impasse significa anche non ritornare sui nostri passi, non aggrapparci ai metodi con i quali avevamo tentato, con più o meno successo, di pregare. Più precisamente: non rimanere ancorati alla nostra intelligenza, alla nostra immaginazione, ai nostri sentimenti. Queste facoltà dovranno passare attraverso un digiuno, calmarsi, riposarsi, starsene tranquille, essere, per così dire, disinserite. Più ci sforziamo, meno sono le possibilità che la preghiera ha di sgorgare in noi: il percorso è ostruito da un ostacolo, continua a esserci una pietra che blocca la sorgente. Il termine perseverare ha una sfumatura di volontarismo che non esprime esattamente quello che deve avvenire nell’impasse. Il linguaggio biblico e dei padri utilizzava il verbo hypomenein e il sostantivo hypomoné: letteralmente “stare sotto”. Potremmo quasi tradurre “rannicchiarsi” e star fermi, aspettando che ci capiti qualcosa. Il fatto di essere così staccati da ogni altra attività interiore è normalmente causa di una certa oscurità, di una sensazione di aridità, di desolazione, forse anche di un’impressione di vuoto, di profondità vertiginosa, a volte abbiamo la sensazione di soffrire la fame e la sete. Queste sensazioni apparentemente negative sono segnali estremamente positivi perché ci fanno capire che abbiamo un accesso parziale a qualcosa al di là del nostro piccolo mondo familiare. Ma a nostra insaputa, dal momento che non vi siamo assolutamente abituati: tutto appare ancora così strano, tutto sembra andare a rovescio. Buon segno: dimorando nell’impasse penetriamo già, senza saperlo, al di là. Ormai l’evento può accaderci. Quando Gesù vuole parlare della vita dello Spirito in noi, usa l’immagine della sorgente che sgorga: la paragona all’acqua viva che deve diventare in noi come “una sorgente zampillante per la vita eterna” (Gv 4,14). La preghiera è questa sorgente profonda in noi: è lì da sempre, come il soffio dello Spirito santo che prega incessantemente in noi, solo che noi non ne eravamo coscienti, senza saperlo avevamo accumulato una montagna di pietre attorno alla sorgente. Ogni sorgente ha in sé la propria pressione che si può ostacolare in modo artificiale; oppure si può lasciarle libero corso e abbandonarvisi. Questa pressione infatti diventa la nostra forza, mentre i nostri sforzi più intensi non possono aggiungere nulla a questa forza. Dobbiamo anzi fare attenzione, perché proprio i nostri sforzi potrebbero essere le pietre che impediscono alla sorgente di sgorgare naturalmente. Per pregare di più e meglio, dobbiamo spesso fare meno da noi stessi, rinunciare alle nostre buone intenzioni e limitarci all’abbandono alla corrente interiore dello Spirito, non appena questa sgorga in noi e cerca di trascinarci. Tutti i nostri sforzi e i nostri metodi di preghiera devono, in fin dei conti, rivelarsi inutili e sparire perché lo Spirito di Gesù possa offrire una possibilità alla sua preghiera in noi.
La preghiera: un grido
Finché dimoriamo nell’impasse avvertiamo incertezza, angoscia, addirittura disperazione. A che punto siamo? Chi verrà a tirarci fuori? L’invocazione di aiuto nasce spontanea: Dal profondo grido a te, Signore!” (Sal 130,1). Ed è così che sale alle nostre labbra la forma più primitiva e più elementare di preghiera: il grido. Sono tentato di gridare la mia disperazione, ma posso arrischiarmi? Non sarebbe meglio non cedere a quella che può sembrare una debolezza? Nient’affatto! Ecco un momento estremamente importante: quando, pregando, oso esprimere davanti al volto di Dio la mia disperazione con un grido. Gridare è un’attività profondamente umana: è stata la prima che abbiamo imparato appena venuti al mondo. I nostri polmoni erano ancora chiusi e, al primo contatto con l’aria, appena usciti dal grembo materno, rischiavamo di soffocare. A quel punto abbiamo gridato, inventato il grido. Era un grido vitale, che ci salvava per la vita: infatti, nel gridare la nostra disperazione, abbiamo aperto i polmoni permettendo così all’aria di irrompervi. È stato il grido delle nostre origini, il nostro primo grido, il grido primale secondo una certa scuola, che ci ha salvato dalla morte e ci ha dato la vita. Il ricordo di questo primo grido è rimasto impresso nella nostra psiche e nel nostro corpo, ne siamo segnati per sempre: ogni volta che ci troviamo in una situazione difficile l’eco di questo grido ritorna a galla. Poter gridare la nostra disperazione è allora un grande sollievo e, in certi casi, rappresenta già il primo passo verso la guarigione. Una recente scuola di psicanalisi ne ha addirittura tratto una tecnica terapeutica che consiste nel lasciar gridare e piangere il paziente per dargli l’occasione di esprimersi e di liberare la sofferenza inconscia che lo paralizza da anni. Nasciamo in un grido, viviamo anche gridando, anche se spesso in modo inconscio. Gesù morì gridando: “Gridò a gran voce Gridò di fronte al Padre il suo dolore mortale, ma anche il suo amore e il suo abbandono: “Nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). La sua morte fu un appello di angoscia e di fiducia insieme, un’autentica preghiera. Fu anche una Pentecoste, come suggerisce Giovanni, che usa “effuse lo spirito” in un duplice significato: rendere l’ultimo respiro e, nel contempo, donare lo Spirito ai discepoli. L’ultimo grido di Gesù è stato la sorgente di ogni preghiera. La Bibbia contiene numerosissime grida lanciate verso Dio, nel salterio per esempio. Ma è soprattutto il libro di Giobbe che è un immenso grido di disperazione e di rivolta. Giobbe è nell’impasse e nessuno, neanche un amico, può tirarlo fuori. Giobbe grida per protestare contro Dio; protesta che si trasforma poco alla volta in maledizione: Giobbe maledice Dio per avergli dato la vita con tutte le sofferenze. L’impasse può portarci così lontano nella preghiera! Notiamo come Dio non ha esitato a raccogliere queste grida di maledizione di Giobbe, dal momento che fanno parte delle Scritture ispirate: queste maledizioni sono diventate Parola di Dio per noi. Dio conosce la nostra disperazione e, attraverso Giobbe, vuole ascoltare un’altra volta questo grido e darci così l’occasione di esprimerglielo. Dio agisce così per compatire la nostra disperazione; aspetta il nostro grido, così come aspettava quello di Giobbe e quello del suo Figlio diletto, Gesù Cristo. Questo grido e questa impasse, infatti, sono l’unica via mediante la quale può salvarci. Se si ripercorre la letteratura monastica, si è colpiti dal vedere che queste grida erano la preghiera normale dei primi monaci. Le loro grida erano in massima parte tratte dall’evangelo: “Abbi pietà di noi; salvaci; guariscici; fa’ che io veda; abbi pietà di me, povero peccatore”. Erano anch’esse grida che sgorgavano da un’impasse e da un profondo sconforto. Saper gridare questa disperazione è una tappa importante: così facendo ci familiarizziamo poco alla volta con lei, il che è assolutamente positivo. Non rifiutiamo più la nostra miseria, al contrario, ci identifichiamo così bene con lei che siamo diventati capaci di esprimerla con un grido che è già preghiera. Ogni bisogno, dolore o desiderio è un dato umano tra i più preziosi. Ognuno dei nostri desideri è degno di essere ascoltato ed esaudito. Per quanto strano possa apparire sulle prime, contiene un bisogno molto più profondo, che è urgente esaudire: ecco perché ogni nostro bisogno sarà ascoltato con attenzione e amore. Poco alla volta i nostri bisogni saranno così svelati, liberati fino a che il nostro desiderio più profondo verrà alla luce. Poiché quest’ultimo ha sempre qualcosa a che fare con Dio, anche il brulichìo dei nostri desideri ha sempre a che fare con l’impasse della preghiera. Ogni desiderio è destinato ad essere ascoltato e guarito dalla Parola di Dio, alla quale ci apriamo, pieni di speranza, nel momento della preghiera. Un grido non è solo l’ostentazione di una disperazione: si rivolge sempre a qualcuno. Ecco un elemento essenziale di ogni preghiera: se mi rivolgo a qualcuno, esco concretamente da me stesso per far appello a un altro. Non è così facile come potrebbe sembrare a prima vista, soprattutto quando sono occupato a pregare. Solo una situazione di emergenza ci forza per così dire a uscire dal nostro guscio per invocare qualcun altro. Non è quanto avviene sempre nel momento della preghiera: posso infatti essere occupato in qualche pensiero molto edificante – e di idee su Dio ne esistono a bizzeffe… Posso anche nutrire sentimenti, fare buoni propositi, elaborare progetti di santità o di impegno a servizio degli altri. Ed eccomi ancora e sempre a occuparmi di me stesso, dei miei sentimenti, delle mie decisioni. Solo un grido è capace di aprirmi. E un passo importante nella direzione giusta. Anche se l’Altro sembra assente, anche se testo ancora per un po’ a muovermi a tentoni nelle tenebre, so tuttavia che mi ascolta e ho fiducia che mi esaudirà. Non ho bisogno di vederlo, il mio grido l’ha raggiunto e ciò basta. In un certo senso, il mio grido me lo rende presente. Grazie all’invocazione che ho lanciato, non sono più ripiegato su me stesso, né sulla mia esperienza. Pur ancora immerso nell’oscurità, sono ora in sintonia con lui, posso tenermi pronto, a disposizione della grazia. Nel mio profondo sono io stesso quel grido che chiede guarigione e che nel contempo la ottiene. Nella mia invocazione risuonano molte altre grida: c’è il mio primo grido, quello della mia nascita; c’è il grido del mio peccato e della mia impotenza; ci sono le imprecazioni di Giobbe e i lamenti dal salmista; c’è infine il grido dell’angoscia e dell’abbandono di Gesù sulla croce. Attraverso tutte queste grida, riesco a penetrare fino al grido più fondamentale in me, il grido che ancora non ho mai saputo ascoltare bene, quello dello Spirito santo: “Abba, Padre!”. Paolo lo dice esplicitamente: in fondo al mio cuore lo Spirito di Dio, che è anche lo Spirito di Gesù, grida incessantemente: “Abba, Padre!” (Gal 4,6). Questo grido dello Spirito diventerà poco alla volta il mio grido personale: è la prova che sono veramente diventato figlio di Dio. Ho il diritto di farlo mio; mi è dato di balbettare con il Figlio: “Abba, Padre!” da qualche parte nel cuore di Dio, al seno stesso delle tre persone della Trinità. La preghiera è forse altro da questa tentazione di unirci allo Spirito e di lasciar sgorgare incessantemente il suo mormorio in noi? Beato colui che ha potuto percepirne un eco e l’ha saputa assumere nella propria preghiera. Non appena siamo realmente all’ascolto di Dio, ogni pericolo di ripiegamento su noi stessi, di fusione tra Dio e noi è effettivamente sventato. Dio infatti non è ripiegato su se stesso, né su di noi: resta aperto a tutta la sua creazione. Paolo interpreta il mormorio dello Spirito in noi anche come il gemito dell’intera creazione che soffre per i dolori del parto, mentre è sul punto di venir ricreata e di passare al mondo nuovo della resurrezione. Nella preghiera raccogliamo un’eco di questo gemito creaturale: lo Spirito intercede per il mondo intero, per il mondo materiale come per quello spirituale. Pregare significa lasciarsi trascinare nella nuova creazione che, in Gesù Cristo, cresce lentamente ma sicuramente fino alla sua pienezza. Pregare significa identificarsi con lo zampillare di questa vita nuova in noi, che è la vita della resurrezione. Pregare significa attendere con impazienza che si apra un varco e mi raggiunga: Usquequo Domine? Fino a quando, Signore? Marana tha! Vieni, Signore Gesù! Il grido migliore, la migliore preghiera è il nome di Gesù, riassunto per eccellenza della Parola di Dio. Ben presto i monaci presero l’abitudine di usare questo nome come giaculatoria: “Gesù, aiutami! Gesù, salvami! Gesù, misericordia!”. L’uso orientale, di cui si trovano tracce anche in occidente, è oggi sufficientemente conosciuto e praticato da molti: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”. Questo grido si leva dalla nostra disperazione più profonda, dalla presa di coscienza del peccato che ci allontana dall’amore vero. Non esiste d’altronde preghiera possibile per il cristiano all’infuori di quella che nasce dalla coscienza del proprio peccato, coscienza che solo Dio può dare nel momento stesso in cui perdona il peccato e accoglie nel suo amore il peccatore. Così la preghiera di Gesù non è solo un primo passo sulla via della preghiera, ma è già un punto d’arrivo: ricordo del Padre misericordioso che non cessa di attenderci e che ci permette di cadere nelle sue braccia. Per alcuni, questa ripetizione accorata, ritmata con il respiro, della preghiera di Gesù basterà abbondantemente. Il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome abbreviato di Dio, esprime per loro tutti i sentimenti possibili: il pentimento come l’amore, la confessione della colpa come la comunione più intima. Il nome di Gesù finisce per diventare dolce mormorio, che copre lentamente tutti gli altri rumori del cuore. Col tempo, l’orante vi pianta la tenda: abita nel Nome, dimora nell’amore, seduto al bordo della sorgente, nel fondo del cuore, il cui abisso sfocia in Dio. La ripetizione incessante del nome di Gesù e un avventura che alla lunga diventa vertiginosa, ma la cui vertigine non è altro che Dio in persona, nascosto nel nostro cuore: basterà cedere molto semplicemente a questa vertigine per cadere incessantemente in Dio. La preghiera ci riconduce così al centro più profondo del nostro essere, ci unifica, ci consegna a Gesù, ma nel contempo guarisce il nostro io, restaura la nostra unità interiore. Mentre ripetiamo il nome di Gesù, impariamo il nostro nome, quel nome che solo lui conosce e che cerca continuamente di insegnarci. Quando, nella notte, cerchiamo di riconoscere i tratti del suo volto, noi ritroviamo i nostri; e mentre ci abbandoniamo al suo amore, impariamo ad amare noi stessi realmente e per sempre.
Unificarsi a partire dall’interno
Una volta trovato il nostro essere profondo grazie alla preghiera, siamo subito in grado di vivere a partire da questa profondità. Come Agostino, a lungo avevamo cercato il Signore fuori di noi, ma invano. Ora sappiamo per esperienza che è dentro di noi: intimior intimo meo. E il nostro oergrond, il nostro fondo primordiale, il nostro io nascosto: la sua vita sale in noi dall’interno. Gesù ci viene incontro “dall’interno verso l’esterno”, dice Ruusbroec. E dunque là che dobbiamo cercarlo, nell’interiore, è sempre là che dobbiamo attenderlo, rivolti, orientati verso l’interno. Dobbiamo imparare a vivere di fronte al nostro interiore, a raccoglierci. Non appena avremo instaurato un rapporto con la nostra interiorità, ci accorgeremo presto che questa realtà intima di noi stessi è non solo il nucleo e il centro di gravità del nostro essere, ma anche la sorgente capace di ristrutturarlo interamente: una sorgente di forza, di luce, di vita. Tutto ci è dato a partire dall’interno, e l’insieme delle nostre facoltà potrà funzionare bene solo nella misura in cui esse sono collegate con questo mondo interiore. L’uomo nuovo è fecondato dalla sua interiorità a partire dal di dentro, così come è condotto dallo Spirito a partire dall’interno. Per descrivere questo processo di unificazione e di ristrutturazione, la tradizione bizantina usa un’espressione figurata: la mente (il nous) scende nel cuore. Con questo vuol dire che l’intelligenza abbandona momentaneamente le sue elucubrazioni indipendenti e viene a unirsi al cuore, dove si trovano le facoltà affettive e intuitive dell’uomo. Questa unione della mente e del cuore crea nell’uomo una pace profonda, già al semplice livello naturale. Non solo, ma, come abbiamo visto prima, il cuore è il luogo in cui Dio è presente nell’uomo. E lì che questi può, per così dire, toccare Dio e aderire a lui. Che la mente scenda nel cuore significa allora che l’essere tutto intero è entrato nella vita di Dio ed è integrato all’azione dello Spirito che diventa così il fattore di unificazione per eccellenza della totalità dell’essere. L’uomo può allora ritrovare tutte le proprie facoltà, senza eccezione alcuna. Prima abbiamo parlato di un digiuno delle potenzialità, delle facoltà che dovrebbero momentaneamente venir disinserite: e un esigenza solo temporanea. Nella preghiera, nulla di umano deve scomparire, anzi. L’intelligenza può ora appoggiarsi senza rischi su un cuore che è interamente afferrato dal fuoco dello Spirito e che ha ritrovato la propria profondità, terreno per la preghiera. L’intelligenza è illuminata dall’interno grazie alla preghiera e all’amore insieme: ne riceve una nuova perspicacia, perché è fecondata dall’amore. L’amore è così diventato inseparabile dalla conoscenza, e la conoscenza dall’amore. L’amore è diventato lui stesso conoscenza, perché l’amore è la fonte di ogni conoscenza autentica. La celebre formula: Ipse amor notitia est (l’amore stesso è conoscenza), così frequente nella letteratura mistica dell’occidente a partire da Gregorio Magno, ritrova così tutta la propria pregnanza. L’amore non si sostituisce all’intelligenza, ma l’abbraccia dall’interno, come un fuoco che covava sotto la cenere. Questo vale anche per tutte le altre facoltà umane, e in particolare per l’amore del prossimo. Tutta la vita ora è retta da questa nuova realtà sprigionata dalla preghiera nelle profondità del nostro essere. La preghiera è divenuta ambiente discreto e caloroso, sottofondo musicale nel quale la vita di ogni giorno può continuare a scorrere con tutta la sua intensità. Forse anche in modo più intenso ed efficace, perché abbiamo finalmente raggiunto la sorgente stessa del nostro essere e agiamo solo a partire da lei. E come una dolce e quasi impercettibile melodia che niente e nessuno può disturbare e che crea un clima dal quale non possiamo più staccarci. Una dulcis memoria, come la chiamano i mistici: un ricordo dolce e caloroso dell’Amato, che im-pregna tutta la nostra esistenza e ne copre tutti, i rumori estranei.
Libertà nello Spirito
Solo chi fa l’esperienza di un amore perfetto può diventare perfettamente libero, perché l’autentica libertà è il riflesso attivo dell’amore di Dio nell’uomo. Quando la preghiera si riduce all’essenziale, a non essere altro che una progressiva presa di coscienza della vita di Dio in noi, si trova allora vicinissima alla sorgente della nostra libertà. L’esperienza della preghiera diventa, giorno dopo giorno, la norma che determina le nostre parole e le nostre azioni, la legge spirituale che ci anima dall’interno. E’ come se portassimo in noi un fuoco di cui possiamo trasmettere il calore agli altri. Imparare ad agire così, a partire dall’interno, costituisce una svolta importante nella vita di un credente. Anche se fino a quel momento era sempre stato molto attivo, si trattava solo della sua generosità spontanea e naturale, e per esperienza sapeva che questa non lo avrebbe portato molto lontano e che avrebbe presto dato segni di esaurimento. Per altri, un senso innato del dovere ha potuto svolgere un ruolo importante. Anche il senso del dovere, il cui fattore determinante sarebbe la prescrizione morale, dovrebbe essere analizzato attentamente. Cosa succede realmente in me quando mi applico solo ad essere coscienzioso? Sappiamo per esperienza che un simile sforzo può diventare, alla lunga, insopportabile e che la vita autentica non passa attraverso queste cose. Chi invece ha ricevuto la grazia di essere all’ascolto del proprio cuore nella preghiera è immediatamente sensibile alla dolce spinta dello Spirito santo in lui. Senza che lo vediamo né lo sentiamo, lo Spirito ci tocca e ci spinge in avanti: sarà come un instinctus interiore in ciascuno di noi. Chi è così guidato dallo Spirito va d’istinto a cercare non ciò che è meglio o più virtuoso in sé, ma ciò verso cui lo Spirito lo spinge concretamente, ciò che lo Spirito gli chiede in quel preciso momento: niente di più, ma anche niente di meno. Sa ascoltare lo Spirito, vive liberamente, inserito su questa lunghezza d’onda e capace di cogliere i segni dello Spirito, docile alla grazia. E’ quello che Agostino chiama il Magister interior, il Maestro interiore. Riconosciamo qui l’unzione interiore di cui parla Giovanni nella sua prima Lettera, unzione di cui nessun credente è sprovvisto: “Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. (…) Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di traviarvi. E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna” (1Gv 2,20.26-27).
EPILOGO
Quando i pittori di arte sacra del XV e XVI secolo hanno voluto raffigurate la fede militante, hanno spesso fatto ricorso a un evento insolito della vita di san Girolamo. Molti musei e anche alcune chiese ne hanno conservato il ricordo. Il racconto di questo episodio ci servirà di conclusione: non ne saprei trovare una più eloquente. Ben prima di diventare un sapiente e stimato esegeta, brillante consigliere di nobildonne dell’alta società romana, Girolamo aveva tentato per un periodo di vivere da eremita in una grotta del deserto di Giuda. Con la presunzione tipica dell’età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: il tempo gli avrebbe fatto presto capire che la sua vera vocazione era altrove nella chiesa e che il suo soggiorno tra i monaci della Palestina ne costituiva solo il preludio. Tuttavia Girolamo doveva ancora imparare molte cose e intanto, da giovane novizio, si trovava immerso nella disperazione: nonostante tutti i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta dal cielo. Andava alla deriva, senza timone, in mezzo a tempeste interiori, al punto che le vecchie tentazioni, già così familiari, non tardarono a rialzare la cresta. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Dov’era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui? Come ristabilire il contatto con la grazia? Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all’improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra e si percosse il petto con gesto solenne e vigoroso. E’ in questa posizione umile e supplicante che lo raffigura la maggior parte dei pittori. Subito Gesù rompe il silenzio e si rivolge a Girolamo dall’alto della croce: “Girolamo – gli dice – cos’hai da darmi? Cosa riceverò da te?”. La semplice voce di Gesù basta già a ridare coraggio a Girolamo che si mette subito a pensare a qualche regalo da poter offrire all’amico crocifisso. “La solitudine nella quale mi dibatto, Signore”, gli risponde. “Ottimo, Girolamo – replica Gesù – ti ringrazio. Hai fatto davvero del tuo meglio. Ma non hai qualcosa di più da offrirmi?”. Girolamo non esita un attimo. Certo che aveva un sacco di cose da offrire a Gesù: “Naturalmente, Signore: i miei digiuni, la fame, la sete. Mangio solo al tramonto del sole!”. Di nuovo Gesù risponde: “Ottimo, Girolamo, ti ringrazio. Lo so, hai fatto del tuo meglio. Ma hai ancora qualcos’altro da darmi?”. Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora che ricorda le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo, giorno e notte, della Bibbia, il celibato nel quale si impegnava con più o meno successo, la mancanza di comodità, la povertà, gli ospiti più imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolate e con una faccia non troppo burbera, infine il caldo di giorno e il freddo di notte. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia. Lo sapeva da tempo: Girolamo ci tiene così tanto a fare del suo meglio! Ma ad ogni offerta, Gesù, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza ancora e gli chiede: “Girolamo, hai qualcos’altro da darmi?”. Alla fine, dopo che Girolamo ha enumerato tutte le opere buone che ricorda e siccome Gesù gli pone per l’ennesima volta la stessa domanda, un po’ scoraggiato e non sapendo più a che santo votarsi, finisce per balbettare: “Signore, ti ho già dato tutto, non mi resta davvero più niente!”. Allora un grande silenzio piomba nella grotta e fino alle estremità del deserto di Giuda e Gesù replica un’ultima volta: “Si, Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati, affinché possa perdonarteli!”.
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