Spiritualità – "Piccolo trattato di vita spirituale"
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Piccolo trattato di vita spirituale
Alessandro Scurani S.I.
Una celebre favola di Esopo racconta di una «mosca cocchiera» la quale, issatasi un giorno sul timone di un aratro, incominciò a stimolare a gran voce i buoi perché compissero il loro dovere: «Tira a destra, allunga il passo, muoviti, se non vuoi provare la punta del pungolo…». Vociferò per tutto il giorno, tra la perfetta in¬differenza dei due grossi animali. Finché giunta a sera, sudata e sgolata, esclamò soddisfatta: «Abbiamo arato tutto il giorno».
Quanti di noi, nella vita spirituale, sono come la «mosca cocchiera». Ci diamo un sacco di arie, ritenendoci importanti, e ci affatichiamo come se il successo della nostra perfezione dipendesse in massima parte da noi. Sappiamo benissimo che i protagonisti di ogni perfezione spirituale sono due – Dio e noi – ma dimentichiamo troppo spesso che si tratta di due protagonisti non alla pari. Dio è tutto e noi, se siamo qualcosa, lo dobbiamo unicamente a lui. Dio fa la sua parte, che è indispensabile, e ci aiuta anche a fare la nostra piccola parte, per darci la soddisfazione di partecipare alla sua opera.
Eppure qualche volta ci comportiamo come se fossimo noi a fare tutto. Progettiamo, definiamo, ci impegnamo, siamo tentati perfino di dare consigli a Dio e di concludere alla fine della nostra giornata terrena come la «mosca cocchiera», o come i vignaioli della parabola: «Abbiamo lavorato tutto il giorno, sopportando il peso della giornata e il caldo» (Mt 20, 12)……
Dio, protagonista, unico In realtà è Dio il vero e unico protagonista della perfezione dell’uomo. Talmente unico che la prima norma per chi tende alla perfezione è di dargli spazio, di tirarsi da parte. Dio occupa progressivamente l’anima dell’uomo nella misura in cui l’uomo fa il vuoto dentro di sé.
La premessa di ogni autentica perfezione è la purificazione interiore. Una purificazione radicale, che esige la perdita di ogni valore che non sia voluto da Dio stesso o per motivo diverso dalla sua volontà. Ogni volta che preten¬diamo di sostituire i nostri progetti, le nostre affermazioni, i nostri sogni e desideri al proget¬to di Dio riguardo a noi, al suo progressivo fare spazio in noi, al suo desiderio della nostra perfezione, confondiamo i suoi disegni, lo ostacoliamo nella sua opera, impediamo il lavoro della sua grazia e rallentiamo il cammino delle tre virtù teologali in noi.
Ogni volta che ci preoccupiamo di noi, an¬che della nostra salvezza, ogni volta che prefe¬riamo le nostre sicurezze umane al pacifico det¬tato della sua Parola, il sentiero della speranza si fa più arduo, la fede si oscura, la carità tende a ripiegarsi su se stessa.
La purificazione La purificazione è la prima condizione di
ogni perfezione. È elemento negativo, che comporta perdita, sacrificio, ma non possiamo fare a meno di essa.
Si tratta di purificarci non da alcune cose, ma da tutte le cose. Gesù ha espresso questa necessità di purificazione totale dicendo: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24).
Bisogna purificarsi dall’attaccamento ai beni esteriori, ma anche da quelli interiori, dal proprio corpo non meno che dalle proprie ricchezze. Dai beni materiali, ma anche da quelli spirituali, dalla propria cultura e dalle proprie abili¬tà, dai doni di natura, dal proprio carattere, più o meno gradevole, dalla propria intelligenza. Bisogna purificarsi perfino dalla preoccupazio¬ne della nostra perfezione morale, nella misura
in cui è la nostra perfezione. Bisogna tendere alla perfezione, ma non bisogna tendervi quasi a una forma di autoaffermazione. Non bisogna voler essere santi più di quanto Dio stesso ci comandi di esserlo.
E la purificazione dev’essere totale: non am¬mette eccezioni o sconti. Il padre Lallemant – grande maestro di spirito del ‘600 francese – diceva: «Poco importa se ciò che trattiene un passero è una corda o solo un filo di seta. Finché il filo di seta non si spezza, il passero non può volare».
Il peccato come attaccamento alla vita
Purificarsi vuol dire morire un po’ ogni giorno a se stessi. Ma a noi la morte ripugna. La morte è l’estrema passività dei nostri desideri, è l’abdicazione totale dai nostri progetti. Sta qui la radice di ogni nostro peccato: non vogliamo morire, non vogliamo rinunciare alle realtà di cui è piena la nostra vita. Ogni nostro peccato nasconde questo spasmodico attaccamento alla vita.
Dice la lettera agli Ebrei a proposito del mistero dell’Incarnazione: «Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli [il Figlio di Dio] ne è divenuto partecipe per ri¬durre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Ebr 2, 14-15).
Purificarsi dal peccato significa, dunque, liberarsi da questo timore angoscioso della morte, che è la catena con la quale lo spirito del male ci tiene legati a sé. Morte e peccato sono realtà tra loro congiunte non solo perché la morte è metafora e conseguenza del peccato, ma perché c’è un rapporto reale tra peccato e rifiuto della morte, come estrema spogliazione di tutti gli egoismi naturali dell’uomo.
Una via ardua, in salita La purificazione dal peccato vero e proprio è solo il primo passo di un cammino lungo e faticoso. San Giovanni della Croce descrive con precisione le varie tappe di questo cammino in salita: dall’oscuramento della sensibilità e dell’immaginazione, alla perdita dell’intelligenza o dello stupore intellettivo, al calare delle tenebre più profonde. Dio è oltre tutto ciò che l’uomo può sentire, immaginare, comprendere, desiderare con le sue sole forze naturali. L’uomo spirituale va di crisi in crisi, penetrando pro¬
gressivamente in un vuoto che lo spaventa. Perché si tratta di chiudere progressivamente gli occhi alla luce che lo ha guidato fino a quel momento per penetrare sempre più a fondo nell’oscura notte della fede. Notte avara di emozioni, di consolazioni, di conforto. Si tratta di «passare da una luce che è tenebra a una tenebra che è luce», come dice san Gregorio Nisseno.
Ma questa notte oscura che l’uomo spirituale deve attraversare ha i suoi tempi e le sue ore: l’ora del buio profondo nel pieno della notte e l’ora che conosce i primi bagliori dell’alba ormai prossima. Sono i preannunci della luce. Al vuoto totale, all’assenza e al silenzio completo di Dio per i nostri sensi e per la nostra intelligenza, ecco che succede una presenza nuova, ancora oscura, ma che s’illumina man mano in forza di una fede sempre più sicura e perspicace.
L’uomo spirituale avverte un bel giorno, improvvisamente, che il Signore è vicino e lo chiama: «Il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11, 28).
La trasformazione interiore Alla purificazione succede allora un progres¬sivo cammino di trasformazione. È l’aspetto po¬sitivo della vita spirituale. Bisogna camminare ancora, ma non più per discendere negli abissi della mortificazione, dello spogliamento. Per salire passo passo l’erta che porta all’unione con Dio e alla trasformazione in lui, guidati dalla luce del suo Spirito, in un abbandono docile e crescente alle sue voci, alle sue ispirazioni.
Se c’è una cosa che dovrebbe preoccuparci, ormai, è la docilità allo Spirito Santo, che diventa il nostro unico maestro interiore. Egli esercita la sua attrattiva in noi con forza e dolcezza insieme. La sua presenza occupante è tanto più efficace quanto più trova libero il nostro cuore da altri interessi e distrazioni. Ci conduce lentamente a custodirlo in noi stessi, in un silenzio e in un raccoglimento pacifico,
che è la condizione del suo operare nascosto. «Pace a voi – dice Gesù ai discepoli dopo la risurrezione -. Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20, 21 s). E lo Spirito nascosto in noi innalza di giorno in giorno la sua lode al Padre, senza strepiti o interruzioni. «Silentium tibi laus»: il silenzio è la tua lode.
Gesù, modello imprescindibile Il vero modello di questa vita nello Spirito è Gesù. Egli che, in quanto Figlio, era unito al Padre come nessun uomo potrà mai esserlo in forza di quell’Amore che è lo Spirito, ha voluto, però, facendosi uomo, tradurre la sua unione unica con il Padre in termini più comprensibili per noi. Ha voluto farsi modello di ogni via di trasformazione nel Padre.
La sua vita d’amore, di docilità allo Spirito si è espressa come perfetta obbedienza di figlio e di discepolo. È lo Spirito che lo guida in ogni passo della sua vita, dal deserto delle tentazioni alla somma afflizione del Calvario. È l’attenzio¬ne alla volontà del Padre che lo rende distaccato da ogni altro interesse umano, indifferente alle suggestioni della ricchezza, della comodità, del successo. L’Amore del Padre incide talmen¬te sulle ragioni del suo vivere e del suo agire da trasformare interamente il mondo dei suoi seri-
timenti. Gesù è modello di ogni vero amore e amicizia, di ogni generosità e liberalità nei confronti della ricchezza, di perfetto equilibrio nella sottomissione umile all’autorità senza cadere nell’abiezione o rinunciare al senso della propria dignità personale.
La sequela di Gesù consiste nel diventare suoi discepoli in questo cammino che tende all’unione con il Padre, attraverso una trasformazione progressiva e completa, che si attua a diversi livelli: dalla trasformazione dei senti¬menti, a quella dell’intelligenza per l’oscuro sentiero della fede, fino a toccare il vertice dell’unione con la trasformazione della nostra volontà, quando giungiamo a volere e desiderare solo ciò che Dio vuole e desidera.
La trasformazione dei sentimenti e dei desideri
Si tratta di scoprire che esistono altri valori, diversi da quelli che sono oggetto del nostro desiderio naturale, e di imparare ad apprezzar¬li, fino a preferirli a tutto. Modello di questa trasformazione dei sentimenti è la donna sama¬ritana che Gesù incontra al pozzo di Giacobbe. Dalle parole di Gesù scopre improvvisamente un mondo di valori che le era sconosciuto e che esercita su di lei un’attrattiva straordinaria, capace di annullare le altre attrattive, che fino a quel momento avevano guidato la sua vita. Una trasformazione radicale conosce anche la peccatrice di Magdala e forse la donna sorpresa in adulterio, toccata dalla profonda bontà di Gesù. Per non parlare di tutti i discepoli e apostoli, strappati dall’esempio mirabile di Cristo dal¬le loro considerazioni mondane, dalle loro va¬nità.
Il dinamismo del nostro desiderio naturale è
descritto in breve da san Giovanni, quando ci esorta a combattere contro le tre concupiscenze del mondo: «Concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum et superbia vitae», concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita (1 Gv 2, 16). Possiamo vedere adombrate in queste tre concupiscenze le tre attrattive fondamentali della vita di ogni uomo: il bisogno degli affetti familiari; l’attrattiva per le ricchezze e le comodità; l’istinto della propria autoaffermazione e del potere all’interno del gruppo sociale.
La trasformazione dell’esigenza affettiva avviene quando l’uomo si convince che è Dio l’oggetto primo di ogni suo vero affetto. Tutti gli altri affetti sono da sé soli insufficienti a soddisfarlo. Perciò l’amore di Dio dev’essere messo al di sopra di ogni altro amore. Questa convinzione porta non solo ad affermare la priorità dell’amore per il Signore, ma in qualche modo anche la sua esclusività. Non c’è nessun altro amore che possa entrare in competizione con l’amore di Dio. Tanto che alcuni decidono di scegliere Dio come oggetto unico del loro amore, rinunciando spontaneamente agli affetti familiari, come fece Gesù stesso. Altri, pur scegliendo la vita coniugale e familiare, affermano
il valore dell’amore naturale in quanto è figura e via per andare a Dio. L’amore per l’uomo non è un valore sul quale ci si possa attardare: è forma viale e mediatrice per passare oltre. L’amore umano diventa segno sacramentale, ef¬ficace di un amore più alto. Non per nulla san Giovanni presenta l’amore reciproco come il luogo privilegiato in cui trovare Dio, il segno certo che il suo amore è in noi (1 Gv 4, 7). L’amore del seguace di Cristo o è carità o è solo impropriamente amore.
Anche il desiderio delle ricchezze è una delle molle più efficaci dell’agire umano. Lottare contro questa concupiscenza vuol dire moderare il desiderio insaziabile di possedere. Ciò diventa più facile per l’uomo che ha posto in Dio la sua unica ricchezza. È Dio la vera e sola sicu¬rezza dell’uomo, ma Dio non vuole entrare in concorrenza con le altre false sicurezze. Predilíge il povero, che non ha altro valore a cui affidarsi. Gesù stesso ha scelto costantemente la via della povertà e della spogliazione, procedendo serenamente secondo le indicazioni del Padre, senza essere debitore a nessuno di qual¬che privilegio o senza sentirsi creditore nei confronti di qualcuno per la sua maggiore ricchezza o capacità.
Perché la ricchezza economica è quasi sempre legata all’importanza sociale: essere qualcuno, avere potere, autorità. È qui che s’innesta la terza concupiscenza: la superbia della vita. Affermarsi, far carriera è un’altra delle grandi attrattive dell’uomo. Comandare agli altri, superarli in autorità e potere. Gesù ha scelto la via dell’umiltà e del servizio perché più palese fosse che la sola, grande autorità è quella del Padre, il quale non ha preferenze per nessuno, anzi predilige i poveri, gli umili. In loro trova minore resistenza al suo volere supremo, in loro più docile è la sottomissione ai suoi incom¬prensibili disegni. L’uomo abituato a comandare, a decidere, a calcolare rinuncia infatti difficilmente a discutere con Dio, a pretendere di capire, a contrattare il proprio assenso.
La trasformazione dell’intelligenza È forse il passaggio più oscuro della trasformazione interiore. La nostra intelligenza è fatta per la luce, per l’evidenza delle cose certe. Capire vuol dire garantirsi contro le sorprese, vuol dire dotarsi di sicurezze. Ma arriva il gior¬no in cui il Signore chiede all’uomo di rinun¬cíare a tutte le sue sicurezze naturali, in cui l’intelligenza deve accettare di essere in perdita, deve cedere il passo all’oscurità della fede.
È veramente un entrare nel deserto per imparare l’abbandono fiducioso. Dio condusse il suo popolo nel deserto perché, privo ormai di ogni soccorso naturale, si abbandonasse com¬pletamente alla sua Parola. Lo Spirito conduce Gesù nel deserto perché, attraverso le tentazioni, affermi un identico totale abbandono alla volontà del Padre. Alla proposta ragionevole di Satana perché affronti l’opera messianica confidando su mezzi materiali, sulla popolarità, sul-
l’entusiasmo delle folle, conquise dalla constatazione dei suoi poteri straordinari, Gesù risponde con le parole della fede umile e abbandonata: «Non di solo pane vive l’uomo»; «Non tenterai il Signore Dio tuo»; «Lui solo adorerai» (Mt 4, 4.7.10). Accetta la Parola del Padre come Parola definitiva, al di fuori di ogni altra umana certezza.
Preferire la fede all’intelligenza significa trasformare a poco a poco la luce dell’intelligenza stessa, imparare a interpretare in prospettiva di fede gli avvenimenti della propria vita e della storia degli uomini, affrontare con un atteggiamento nuovo i nostri rapporti con il prossimo. In una parola: vivere tutto con spirito di fede. Come Cristo, appunto, che durante tutti i giorni della sua vita terrena non perdette mai di vista il Padre e il suo disegno di salvezza, al quale aderì senza esitazione e senza pretendere spiegazioni, con abbandono veramente pronto e totale.
La trasformazione della volontà È il culmine dell’unione e della vita spirituale. Volere ciò che Dio vuole, amare ciò che Dio ama, anche la propria sofferenza e i propri insuccessi; uniformare a lui la propria vita fino a lasciarsi occupare completamente dalla sua forza, dalla sua superiore sapienza, dal suo indomabile amore.
I grandi maestri di spirito dicono che fu questo il nucleo sobrio ed essenziale della spiritualità di Gesù. In ogni istante della sua vita Gesù amò ciò che il Padre amava e volle ciò che il Padre voleva. Non ci fu mai tra loro la minima divergenza o incrinatura. Anche per questo Gesù poteva ben dire: «Chi vede me ve¬de il Padre», tanto profonda era la sua identificazione, anche umana, con il Padre.
Era l’atteggiamento tipico del Figlio, che non s’accontenta di ascoltare il Padre, ma è tutto proteso a fare la sua volontà, a soddisfare
ogni suo desiderio, ad amare ciò che il Padre ama, facilitato da una somiglianza di indole, di gusti basati sullo stretto legame del sangue, nel caso del Figlio di Dio sull’identità della natura divina. Ruysbroeck, il grande mistico fiammingo del secolo XIV, indica nell’imitazione di questo atteggiamento filiale di Gesù il vertice della perfezione per ogni uomo.
Aderire al Padre con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutto il cuore in atteggiamento di figlio amorosissimo, vuol dire divenire veramente puro ascolto di lui, pura sua risonanza. Vuol dire accettare di scomparire come personalità autonoma, preferire al proprio agire l’agire di Dio, alle proprie parole umane la grande Parola di Dio, oscura e incomprensibile, che tuttavia riempie di gioia ineffabile l’uomo in adorazione, come accadde ai tre discepoli sul Tabor.
Ecco che il punto d’arrivo della perfezione sembra ricongiungersi con l’inizio: l’uomo perfettamente purificato, che ha dimenticato se stesso, si ritrova del tutto rinnovato nell’amore divino che a sé l’attira. Non c’è più nulla al di fuori di questa attrattiva, non c’è altra alternati¬va a questo fuoco dirompente dell’Amore, che in un certo senso distrugge l’uomo per ricrearlo.
Diceva già suor Elisabetta della Trinità: «Tutto passa. Alla fine della vita solo l’amore resta. Bisogna fare tutto per amore. Bisogna dimenticare se stessi senza posa. Il Signore ci ama nella misura in cui dimentichiamo noi stessi. Oh, se lo avessi sempre fatto» (Souvenirs, Dijon 1911, p. 252).
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