Sofferenza – "Perchè tanto soffrire?"
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PERCHÉ TANTO SOFFRIRE?
Antonio M. Alessi
Il più grande interrogativo
La sofferenza, che accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, suscita uno dei più gravi interrogativi, a cui resta difficile dare una risposta soddisfacente, convin¬cente. Dal vagito del bimbo, che nasce soffrendo, al rantolo del morente, l’esistenza scorre per tutti tra sofferenze di ogni genere: mali fisici, sofferenze morali, carenze affettive, difficoltà e privazioni di ogni genere. A queste si aggiungono mali e dolori causati da feno¬meni naturali: inondazioni, devastazioni, incendi, malattie infettive e quelli anche più gravi determinati dalla malvagità degli uomini: guerre, delitti, ingiustizie, violenze di ogni genere.
Male ultimo, che inesorabile attende tutti: la morte, che ci priva del bene supremo, la vita e ci rende sotto questo aspetto più infelici degli animali, i quali ignorano di dover morire.
La sofferenza è il tessuto della nostra vita; ci accompagna costantemente, sia pure con una gradualità e di¬versità per ogni individuo.
Di fronte a questa realtà ci sono vari modi di comportarci: affrontare il dolore come una realtà inevitabile, come accettiamo il giorno e la notte, l’inverno e l’estate, il sereno e la pioggia…
Premunirci, difenderci, ricorrendo a tutti i rimedi che la scienza e la ricchezza possono offrire, non fosse altro per attenuarlo e magari prolungare la vita oltre il termine naturale.
Accettare la sofferenza e la morte come mezzo di purificazione e santificazione; più ancora come collaboratori di Dio per la salvezza dei nostri fratelli, come afferma S. Paolo: “Ora sono felice di soffrire perché con le mie sofferenze completo in me ciò che Cristo soffre a vantaggio del suo corpo, cioè la Chiesa” (Col. 1,24).
Ma cerchiamo di dare qualche risposta a questa tragedia del dolore, che, malgrado l’accresciuto benessere, i progressi della tecnica e della scienza, non sembra essere diminuita, anzi si è accresciuta, offrendo nuove possibilità alle molte sofferenze della vita.
L’origine del male
Ma il mondo non è stato creato da Dio, onnipo¬tente, bontà infinita? Come è possibile che esista tanto male? E perché Dio non interviene?
La fede in un Dio padre, che può tutto ciò che vuole, il quale ha creato per amore l’universo e l’uomo “fatto a sua immagine e somiglianza”, rende difficile anche al credente accettare il male e l’esperienza del dolore.
Per comprendere la realtà del male e le sue terribili conseguenze, dobbiamo risalire all’origine della crea¬zione.
La Scrittura e la Tradizione raccontano come Dio, dopo avere creato l’universo, lo popolò di Angeli buoni, meravigliose creature spirituali, chiamate a far parte del grande concerto dell’universo, per cantare in eterno la bontà e la gloria di Dio. Sono essi l’anello di congiunzione tra le realtà terrestri e quelle celesti, mes¬saggeri di Dio e protettori dell’uomo.
Prima di ammetterli a partecipare alla sua gloria e fe¬licità in Paradiso, Dio li sottomise a una prova. Secon¬do una tradizione, rivelò loro che Gesù, suo Figlio, si sarebbe fatto uomo per salvare l’umanità, che avrebbe fallito la prova a cui sarebbe stata sottoposta. Una parte di loro rifiutò di accettare Gesù, inferiore a loro come uomo, ribellandosi a Dio. Si scatenò allora una lotta tra gli Angeli buoni e quelli ribelli, che S. Giovanni descrive bene nel libro dell’Apocalisse.
“Scoppiò una guerra nel cielo: da una parte Michele e i suoi Angeli, dall’altra il dragone e i suoi angeli. Ma questi furono sconfitti e non ci fu più posto per loro in cielo e il drago fu scaraventato fuori. Il grande drago, cioè il serpente antico, che si chiama Diavolo e Satana, ed è il seduttore del mondo, fu gettato sulla terra, e an¬che i suoi angeli furono gettati giù” (Ap. 12,7-9).
Cacciato dal Paradiso, il demonio ha continuato a fare del male, soprattutto contro l’uomo, chiamato a partecipare a quella felicità eterna dalla quale era stato definitivamente escluso con gli angeli ribelli. Lo stesso S. Giovanni lo ricorda nel Vangelo riportando il rimpro¬vero di Gesù a coloro che si rifiutavano di ascoltare la sua parola: “Voi avete il diavolo per padre e vi sforzate di fare quello che lui desidera. Fin da principio egli vuole far del male all’uomo e non è mai stato dalla parte della verità, perché in lui non c’è verità. Quando insegna il falso, esprime veramente sè stesso, perché è bugiardo e padre della menzogna”. (Gv. 8,44).
Le prime vittime del diavolo sono stati i nostri pro¬genitori: Adamo ed Eva, come racconta la Genesi. Ingannati da Satana, disobbedirono al comando di Dio, che aveva chiesto una prova di fedeltà e obbe¬dienza: “non mangiate i frutti dell’albero in mezzo al giardino, altrimenti morirete”. Ascoltarono invece l’in¬ganno del tentatore: “non è vero che morirete, anzi Dio sa bene che se li mangerete i vostri occhi si apriranno e diventerete come lui: avrete la conoscenza del bene e del male” (Gn. 3,3-4).
Così nella folle illusione di diventare eguali a Dio e non dipendere più da lui, disobbedirono. Dal quel mo¬mento il male, la sofferenza, le passioni, la violenza e la morte entrarono nel mondo. Come da sorgente avve¬lenata, noi tutti loro discendenti, portiamo le tremende conseguenze di quella colpa, accresciuta lungo i secoli da tutti i peccati volontariamente commessi da noi chiamati come loro a scegliere tra il bene e il male, la vita e la morte.
La nostra responsabilità
Pur accettando come l’origine di ogni male è il pec¬cato, la disobbedienza dei progenitori Adamo ed Eva, ci domandiamo perché siamo responsabili anche noi di una colpa commessa da loro?
In realtà non siamo colpevoli di quel loro peccato, ma ne portiamo le conseguenze. Come una famiglia, che ha dilapidato tutte le sue ricchezze, si ripercuote sui figli, i quali non sono colpevoli del patrimonio per¬duto, ma ne portano le conseguenze. Avviene sovente anche sul piano fisico: genitori malati trasmettono ai fi¬gli tare, malattie infettive, cattive inclinazioni, che hanno conseguenze nella loro vita.
Persino sul piano morale sovente le colpe dei geni¬tori limitano la responsabilità dei figli. La scienza oggi dimostra come certe tendenze criminali derivano dagli abusi da parte dei genitori, i quali trasmettono esi¬stenze anormali, menomate in partenza. Una pianta ba¬cata, malata, non produce fiori e frutti sani; da un ani¬male infetto, difettoso, non nascono creature sane.
Ma oltre a queste realtà capaci di limitare e persino togliere la responsabilità all’agire umano, ogni persona è normalmente responsabile delle sue azioni. La cono¬scenza della legge naturale, sancita dai Comandamenti, scolpiti nella coscienza di ogni uomo, lo rende respon¬sabile dei suoi atti. L’intelligenza di cui siamo dotati, rende possibile distinguere il bene dal male, il vero dal falso, l’utile dal dannoso; la volontà, guidata dalla li¬bertà, privilegio dell’uomo tra tutti gli esseri creati, gli offre la possibilità di sceglier il bene, evitare ciò che è proibito, fare del male a sè e agli altri.
Ovviamente ci sono molte cause concorrenti, capaci di accrescere o diminuire la responsabilità delle nostre scelte: le passioni, le tentazioni, l’ambiente, le circo¬stanze in cui viviamo, l’egoismo sempre pronto ad af¬fiorare. I vizi capitali, radicati nella natura ferita dal peccato originale, sono capaci di generare altri peccati: la superbia, l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la golo¬sità, desideri cattivi, parole, azioni, colpevoli omis¬sioni…
Comunque il peccato è sempre personale ed è tale quando chi lo commette conosce chiaramente il male e liberamente decide di farlo, violando la legge di Dio. Uno può anche rendersi responsabile di peccati com¬messi da altri, consigliandoli, prendendovi parte, ap¬provandoli, non denunciando o proteggendo il colpe¬vole.
Ogni peccato può essere grave, mortale, quando viola una legge fondamentale; veniale quando si tratta di trasgressione leggera o anche in materia grave, ma senza la piena consapevolezza e il totale consenso.
Oltre la responsabilità personale del peccato, vi è anche quella collettiva, troppo dimenticata. Siamo tutti parte integrante della famiglia umana, il peccato di uno si ripercuote su tutti gli altri: l’odio, la violenza, la guerra, la fame, ci rendono in maniera diversa, tutti colpevoli. Un membro malato determina uno stato di sofferenza esteso anche ai membri sani. Per questo S. Paolo scrive: “Tutti hanno peccato e si sono privati della presenza di Dio che salva” (Rm. 3,23). San Giovanni afferma: “Se diciamo siamo senza peccati, in¬ganniamo noi stessi e la verità di Dio non è presente in noi” (1 Gv. 1,8).
È questa la dolorosa realtà che ci accompagna nel cammino della vita e ci rende responsabili del tanto male e dolore che regna nel mondo.
La gravità del peccato
E’ difficile per l’uomo, creatura finita, limitata in tutte le sue conoscenze ed esperienze, accettare la realtà del dolore, come conseguenza del peccato, realtà con¬traria al concetto di Dio amore, bontà infinita. Rimane difficile ritenere che la colpa di un uomo, essere finito, possa avere conseguenze infinite, come la dannazione eterna per chi muore impenitente.
Un problema sicuramente difficile, anzi impossibile, perché bisognerebbe essere Dio per capire la giustizia con la quale punisce il male.
Negli Angeli ribelli, puri spiriti, dotati di grande intel¬ligenza e perfettamente liberi nelle loro scelte, è facile capire la loro condanna e maledizione eterna.
Ma l’uomo non è mai perfettamente libero; ogni sua scelta, ogni azione è condizionata da situazioni e moti¬vazioni diverse, fino a limitarne la libertà e quindi atte¬nuare o togliere ogni responsabilità. Per questo il giudi¬zio spetta solo a Dio, come dice chiaramente Gesù: ” Il mio giudizio è giusto perché non cerco di fare ciò che penso io, ma come vuole il Padre che mi ha mandato” (Gv. 5,30) e raccomanda: “non vogliate giudicare se non volete essere giudicati” (Mt. 7,1).
La gravità di un peccato può essere valutata solo da Dio, che conosce perfettamente il grado di colpevo¬lezza di chi lo commette. Gli uomini, chiamati a giudi¬care gli altri, per tutelare il bene comune, lo possono fare in base alla prove di colpevolezza e sempre in base a leggi e doveri a cui tutti devono sottostare. Ogni giudizio umano si basa esclusivamente sulla violazione di una legge, mai sull’intenzione che aumenta o dimi¬nuisce la responsabilità.
Perché il peccato sia tale, oltre alla violazione della legge divina, sono necessarie due condizioni assoluta¬mente fondamentali: conoscere, sapere ciò che è proi¬bito e volerlo fare con piena libertà, in opposizione alla volontà di Dio.
La gravità di una colpa si deve misurare sempre dalla violazione di una legge, interprete della legge di¬vina, e del danno arrecato a chi viene offeso.
Per questo affermiamo come ogni peccato, in quanto offesa a Dio, ha di per sè una malizia infinita. Anche sul piano umano un affronto a una persona del nostro rango non è equiparabile a un’offesa fatta a un ministro, al Capo dello Stato, per cui sono previste san¬zioni diverse.
Il peccato è sempre un atto di mostruosa ingratitu¬dine verso Dio, datore di ogni bene, anche perché di¬sobbedendogli, offendendolo, abbiamo bisogno del suo aiuto, usiamo i doni che ci offre: intelletto, volontà, gli occhi, le mani, la lingua, il cuore…
Esiste poi una diversità abissale tra il giudizio degli uomini e quello di Dio. La giustizia umana non conosce pietà: chi è colpevole deve sempre essere condannato. La giustizia di Dio, a chi riconosce il suo peccato, cede sempre alla misericordia, al perdono totale.
“Anche se i vostri peccati sono rossi come il fuoco” dice Dio per bocca di Isaia, “vi farò diventare bianchi come la neve e puri come la lana” (Is. 1,18).
Gesù nel Vangelo annuncia come è venuto al mondo per perdonare le colpe degli uomini. “Non hanno biso¬gno del medico i sani, ma gli ammalati” (Mt. 9,12).
“Vi assicuro che in cielo si fa più festa per un pecca¬tore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc. 15,7). Le tre parabole della dracma perduta, della pecora smarrita, del figlio prodigo, aprono il cuore a qualsiasi peccatore oppresso dal rimorso, colpevole di qualunque peccato. II peccato più grave è non credere, dubitare dell’amore infinito di Dio.
Il Vangelo ci presenta tutta una serie di peccatori, col¬pevoli di gravi mancanze che la legge condannava a morte: l’adultera sorpresa in peccato; la Maddalena, pub¬blica peccatrice; Zaccheo sanguisuga del popolo, capo degli agenti delle tasse, a servizio dei romani; la samari¬tana, appartenente a una setta nemica del popolo ebraico, “una donna che aveva avuto cinque mariti e l’uomo che aveva ora non era suo marito” (Gv. 4,17)…
Ultimo, in ordine di tempo, un criminale, un assas¬sino, crocifisso accanto a lui, che gli dice soltanto: “Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”. E Gesù gli risponde: “Ti assicuro oggi stesso tu sarai con me in Paradiso” (Lc. 23,42-43).
Questo è il vero volto di Dio, il Giudice che ci at¬tende tutti al termine della vita per introdurci nel regno della gloria e felicità infinita.
Il silenzio di Dio
Dove sta Dio? Che cosa fa? Perché non impedisce il male se è buono e può tutto?
Domande impertinenti, quasi blasfeme, che tuttavia ci poniamo, particolarmente di fronte a certi delitti, atti di malvagità e crudeltà che ci rendono peggiori delle belve, perché la tigre sbrana, uccide se attaccata, deve saziare la fame o difendere i suoi nati. L’uomo arriva a uccidere senza alcun motivo, solo per il gusto di tortu¬rare, annientare esistenze che non gli appartengono, creature che hanno ricevuto come lui la vita, con il di¬ritto inalienabile di vivere.
Abbiamo assistito ad atti di barbarie, di ferocia che nessuna ragione può spiegare, tanto meno giustificare. 1.500.000 morti nella lotta fratricida tra tlutu e Tutsi nel Ruanda, che si prolunga tuttora nel Burundi, con bambini trucidati nel seno delle madri, orrendamente mutilati prima di essere gettati nel fiume. Una tragedia che si rinnova con inaudita crudeltà nel Sudan, in Serbia, in Somalia, in Palestina, in tanti altri paesi del mondo.
Come dimenticare i milioni di morti del Vietnam, della Cambogia, lo sterminio di milioni di Ebrei nell’olo¬causto, che tutti vorremmo non fosse mai esistito!
Davanti a questi orrori Dio rimane impotente, indif¬ferente? L’uomo capolavoro di Dio, è diventato l’aborto del creato? Un essere che non avrebbe diritto di esi¬stere, tanto meno di essere chiamato a una gloria e fe¬licità infinita.
L’enorme differenza tra animale e uomo è che la be¬stia è guidata dall’istinto, l’uomo, e solo lui, è dotato di intelligenza e libertà che gli permettono di conoscere e scegliere tra il bene e il male. È quindi il vero responsabile del bene e del male che avviene nel mondo, salvo certi fenomeni naturali i quali dipendono dalle leggi na¬turali.
È facile e comodo scaricare su Dio il male operante nel mondo, dimenticando la tremenda responsabilità personale e collettiva degli uomini. Se milioni di per¬sone muoiono ogni giorno di fame, come documen¬tano le statistiche della NATO, non è perché manchi il nutrimento. La terra ha la possibilità di mantenere non solo i cinque miliardi di abitanti presenti, ma addirit¬tura il doppio della popolazione attuale.
I morti per fame, come le vittime di tutte le stragi, sono dovute all’egoismo, alla perversa volontà del¬l’uomo, che usa dei beni creati per tutti a suo uso per¬sonale; ogni atto di violenza è frutto dell’abuso di quel dono della libertà che distingue l’uomo dall’essere irra¬zionale:
E Dio è sempre presente nelle scelte umane, sia quando operiamo secondo la legge naturale, scritta nella coscienza di ogni uomo, sia quando la rifiutiamo.
Una spiegazione ai più efferati delitti della storia la trovo in un racconto di Ellie Wiesel, un non credente, il famoso cacciatore di criminali nazisti. Uscito vivo da Auschwitz, dove erano morti il padre, la madre, la so¬rella, nel racconto, “Notte”, narra come una sera, di ri¬torno dal lavoro con gli altri prigionieri nel “lager”, tro¬varono tre forche alle quali dovevano essere impiccati tre di loro, che avevano nascosto armi nel campo. Tra questi un bambino che aveva taciuto, anche sotto tor¬tura. I prigionieri furono costretti ad assistere all’esecu¬zione. I due adulti morirono subito, il bambino più leg¬gero agonizzò per mezz’ora.
Dietro a me, scrive Wiesel, un uomo chiese forte: “Dov’è questo Dio?” Io sentii in me una voce profonda che rispondeva: “Eccolo là, sta morendo in quel bam¬bino appeso in quella forca”.
Questa è la sola, unica risposta alle nostre do¬mande: in ogni uomo che soffre, in ogni persona tortu¬rata, uccisa dalla malvagità umana, c’è Dio che soffre.
Per rispettare la libertà dell’uomo, Dio rinuncia alla sua onnipotenza, per lasciare all’uomo la sua potenza, anche se malvagia. Presente in ogni uomo egli ha vo¬luto partecipare fino in fondo alla tragedia dell’uomo, accettando la condanna, il disprezzo, le torture, fino alla morte in croce, per darci la prova suprema del suo amore per noi: “Nessuno ha un amore più grande di chi è disposto a dare la vita per i suoi fratelli” (1 Gv. 3,16).
Gesù, cuore del mondo
Di fronte al dilagare del male e alle incredibili soffe¬renze che ne sono la conseguenza, esiste una sola spiegazione: Gesù, Figlio di Dio, Salvatore di tutti gli uomini, venuto nel mondo per liberare l’uomo dal pec¬cato e dalla morte.
“Gesù Cristo e nessun altro può darci la salvezza: in¬fatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci” (At. 4,12); “In lui infatti noi vi¬viamo, ci muoviamo, esistiamo” (At. 17,28). “Egli era con Dio; egli era Dio. Era in principio con Dio e per mezzo di lui, Dio ha creato ogni cosa… e si è fatto uomo e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1,1-14).
L’Incarnazione di Gesù, nel seno della Vergine, per opera dello Spirito Santo, ci ha reso tutti fratelli suoi e perciò figli del Padre ed eredi della sua gloria e felicità infinita.
La nascita di Gesù come uomo è il più grande mi¬stero e miracolo di amore di Dio per salvare l’uomo, li¬berarlo dal peccato e dalla morte. La ribellione dei no¬stri genitori e le nostre colpe personali esigevano una riparazione adeguata alla gravità della colpa. Per que¬sto Dio, non potendo lui espiare e riparare il male, si fece uomo come noi, si addossò tutte le nostre colpe, pagando con sofferenze di ogni genere, fino alla morte di croce, il nostro debito.
Solo così ha potuto ridonarci il diritto alla vita im¬mortale e la felicità del Paradiso, da cui il peccato ci aveva privato per sempre. “Cristo ci ha redento dalla maledizione della legge”, dice S. Paolo il peccato ha portato con sè la morte e di conseguenza tutti gli uo¬mini sono morti perché tutti hanno peccato… Per la di¬sobbedienza di uno solo tutti risultarono peccatori, per l’obbedienza di uno solo (Gesù) tutti sono accolti come figli di Dio” (Rm. 5,18).
La prova più convincente dell’amore di Dio per l’uomo, è l’entrata di Gesù nella storia del mondo: “Dio ha tanto amato il mondo, afferma S. Giovanni, da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv. 3,16).
Fin dalla nascita egli volle partecipare alla soffe¬renza per espiare i nostri peccati. Nasce in una grotta abbandonata, come il più povero dei bambini e asso¬cierà fin da quel momento la Vergine Madre, per ren¬derla con lui partecipe della nostra salvezza. È co¬stretto a fuggire nel cuore della notte, per sottrarsi alla crudeltà di Erode, un criminale, reo di tanti delitti, che Dio avrebbe potuto annientare con un solo pensiero. Visse profugo con i genitori in Egitto, un paese stra¬niero, di cui ignoravano lingua e costumi. Tornato a Nazareth trascorse trent’anni di vita come un uomo qualunque, lavorando duramente nella bottega di fale¬gname, con il padre putativo S. Giuseppe.
Entrato nell’età adulta si allontana dalla famiglia, ri¬fiutando la sicurezza di una casa, le tenerezze di una madre dolcissima. Si trova solo, senza un tetto, privo di aiuti fino ad affermare: “Le volpi hanno una tana, gli uccelli un nido, ma il Figlio dell’uomo non ha un posto dove riposare” (Mt. 8,20). Si circonda di discepoli, sce¬gliendoli tra umili lavoratori, rozzi, ignoranti, rissosi, tesi alla ricerca di posti di comando. Con infinita pa¬zienza e bontà li trasforma in apostoli, affidando loro la conquista del mondo: “andate in tutto il mondo, fate diventare miei discepoli tutti gli uomini… insegnando loro ad obbedire a tutto ciò che vi ho comandato” (Mt. 28,18).
Conosce la sofferenza della morte di persone care, come la morte del cugino Giovanni Battista, ucciso da Erode; si commuove davanti al pianto di una madre per la morte del figlio richiamandolo in vita; piange per la morte dell’amico Lazzaro, restituendolo alle sorelle Marta e Maria. Conosce l’amarezza e l’abbandono di tanti discepoli, che pur avendo assistito a tanti suoi mi¬racoli, si allontanano da lui, fino al tradimento di Giuda, che baciandolo lo consegna ai suoi nemici per¬ché sia condannato.
Nell’orto dei Getsemani, prima di essere catturato, conoscendo la terribile morte che lo attendeva, fu “preso da grande tensione e il suo sudore cadeva in terra come gocce di sangue” (Lc. 22,44).
Volle persino sperimentare lo stato di sentirsi ab¬bandonato persino da Dio, fino a pregare: “Padre se è possibile allontana da me questo calice di dolore! Però non si faccia la mia, ma la tua volontà” (Mt. 26,39).
L’uomo del dolore
La sofferenza umana è proporzionata alla resistenza fisica e alla sensibilità della persona.
Gesù, l’uomo perfetto, l’uomo-Dio, possedeva tutte le perfezioni della natura creata dall’Onnipotente. Credo che il dolore più grande per una persona sia sentirsi rifiutato, non amato, abbandonato, anche dagli amici, dalle persone più care. E Gesù ha voluto provare anche questo. A Nazareth, la sua città, i concittadini si rifiutarono di ascoltarlo. E Gesù li apostrofò duramente dicendo: “Un profeta è disprezzato soprattutto nella sua patria e nella sua famiglia” (MI 13,57). Quando, oppresso dalla folla, non trovava neppure tempo per mangiare, i parenti, “si mossero per andarlo a prendere perché ritenevano fosse diventato pazzo” (Mc. 3,21). Una delle grandi sofferenze è sicuramente l’ingratitu¬dine. Dopo avere guarito dieci lebbrosi, “solo uno di loro, appena si accorse di essere guarito, tornò indietro e lodava Dio con tutta la voce che aveva. Poi si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo ed era un samaritano”. Gesù allora osservò: “tutti i dieci lebbrosi sono stati guariti, dovè sono gli altri nove? Perché non sono tor¬nati indietro a ringraziare Dio? Nessuno lo ha fatto, ec¬cetto questo uomo che è uno straniero” (Lc. 17,15-18). L’ingratitudine più dolorosa fu sicuramente quella degli Apostoli: erano vissuti con lui, avevano ascoltato i suoi insegnamenti, assistito ai grandi miracoli operati: guarigioni di malati di ogni genere, morti richiamati in vita, moltiplicazioni del pane per sfamare folle im¬mense; li aveva persino preparati alla grande prova che lo attendeva: “Mentre erano tutti insieme in Galilea, Gesù disse loro: il Figlio dell’uomo sta per essere con¬segnato nelle mani degli uomini ed essi lo uccideranno, ma il terzo giorno risusciterà” (Mt. 17,22). Ma nell’ora della prova tutti l’abbandoneranno; Gesù lo aveva ripetuto chiaramente, al termine della Cena Pasquale, quando aveva dato loro la prova suprema dei suo amore: “Questa notte tutti voi perderete ogni fidu¬cia in me” (Mt. 26,31). E alla protesta di Pietro: “Anche se tutti gli altri perderanno ogni fiducia in te, io non la perderò mai”. Povero Apostolo che avrebbe fatto ben presto la prova della sua fragilità. “Io invece ti assicuro, rispose Gesù, che questa stessa notte, prima che il gallo canti, tre volte tu avrai detto che non mi conosci” (Mt. 26,34-72).
Ma seguiamo brevemente la sua Passione per capire a quale prezzo Gesù ha espiato i nostri peccati.
Viene catturato come un malfattore, trascinato da¬vanti al tribunale ebraico e condannato a morte, col¬pito con schiaffi, pugni, sputi, violenze di ogni genere (Mt. 26,67). Portato davanti a Pilato, il procuratore ro¬mano, cui spettava la condanna capitale, viene ricono¬sciuto innocente, ma per timore della folla che tumul¬tuava chiedendo fosse crocifisso, “lo fece frustare a sangue e lo consegnò ai soldati” (Mc. 15,15).
Questi, per schernirlo, gli tolsero i vestiti, lo copri¬rono con un manto rosso come fosse un re, “gli prepa¬rarono una corona di rami spinosi, mettendogliela sul capo, nella destra gli misero in mano una canna e per deriderlo, si inginocchiavano davanti a lui ridendo, di¬cendogli: salve o re dei giudeil Gli sputavano addosso, lo percuotevano con un bastone, dandogli colpi sulla testa” (Mt. 27,27-31).
Usciti dalla città, lo caricarono della pesante croce, costringendolo a portarla fino al Golgota, dove lo avrebbero crocifisso. Perché giungesse vivo al luogo dei supplizio “costrinsero un certo Simone, originario di Cirene, che passava di là, di ritorno dai campi, a por¬tare con lui la croce” (Mc. 15,21).
Sul Calvario, come atto di estrema umiliazione e di¬sprezzo, lo spogliarono delle sue vesti e lo inchioda¬rono all’infame patibolo, cui erano condannati i più grandi criminali. Accanto a lui “crocifissero due malfat¬tori, uno a destra e uno a sinistra” (Lc. 23,33). Prima di morire il martire divino fa ancora una preghiera per noi poveri peccatori: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc. 23,34).
E ancora un ultimo dono di amore all’umanità che lo uccideva. “Accanto alla croce stavano alcune donne: la Madre di Gesù, sua sorella Maria di Cleofa e Maria di Magdala”. A Giovanni, il discepolo prediletto, additando la Madre, che partecipava allo strazio infinito del Figlio, che moriva per noi, dice: “Donna ecco tuo figlio!” (Gv. 19-26), affidando cosi ciascuno di noi alla sua univer¬sale maternità.
La sua missione terrena è terminata: ha pagato il prezzo del nostro riscatto, con la morte in croce ha vinto per noi la morte, come aveva promesso: ” Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore vivrà” (Gv. 11,25).
Il valore della sofferenza
Il problema del dolore e della morte è sempre stato per tutti la verità più difficile da accettare. Tutta la vita è una lotta per allontanarli e quando arrivano cer¬chiamo in tutti i modi non lasciarci sopraffare, per com¬batterli. Fuori della fede sono il più grande enigma dell’esistenza umana, al quale è impossibile dare una risposta.
Ma dal momento che Gesù è entrato nella storia, si è fatto nostro compagno e fratello nel cammino della vita, anche la sofferenza e la morte stessa hanno acqui¬stato una nuova dimensione, sono diventate una grande ricchezza, la via più sicura per avvicinarci al modello divino e meritarci di vivere con lui eterna¬mente beati in cielo.
Ci aiutano a staccarci dalla terra, dalle stesse crea¬ture che amiamo, “perché non abbiamo qui una città nella quale resteremo per sempre, ci ricorda S. Paolo, ma tendiamo alla città che ci attende per l’eternità” (Rm. 13,14).
Il tempo che ci è dato non è per arricchirci di godi¬menti e di beni materiali, che servono spesso per ren¬derci più fragili e poveri, ma per accumulare quei tesori che troveremo al momento della morte e ci rende¬ranno ricchi e felici per tutta l’eternità. “Non accumu¬late ricchezze in questo mondo, ammonisce Gesù. Qui i tarli e la ruggine distruggono ogni cosa e i ladri le por¬tano via.
Accumulate piuttosto le vostre ricchezze in cielo. Là i tarli e la ruggine non le distruggono e i ladri non vanno a rubare” (Mt. 6,19-20).
Penso non ci sia nessuno al mondo tanto povero da non poter offrire un aiuto al fratello che soffre.
È sulla carità che saremo tutti giudicati al termine della vita: qualunque cosa avremo fatto a uno dei no¬stri fratelli Gesù lo ritiene fatta a sè (Mt. 25,31-46).
Ognuno di noi ha continue occasioni di accostare un fratello bisognoso, sofferente, non fosse altro per dirgli che lo ama e sovente una parola buona è più gra¬dita di un dono materiale. La parabola del buon samaritano è un invito per tutti a fermarci a soccorrere chi ha bisogno del nostro aiuto, perché in ogni uomo che sof¬fre c’è Cristo che soffre. Chi non sa soffrire, non sa amare. La fede, come l’amore verso Dio, deve tradursi in opere di carità. “La fede senza le opere è morta”, scrive S. Giacomo. “Anche i demóni credono… per cui la fede se non è accompagnata dai fatti non serve a nulla” (Gc. 2,18-20).
Nel discorso della montagna, Gesù proclama il più sconvolgente programma di vita per coloro che vo¬gliono seguirlo: “Beati i poveri, gli affamati, quelli che piangono, i perseguitati, gli oppressi, i tribolati…” “Siate lieti e contenti perché Dio ha preparato per voi una grande ricompensa” (Mt. 5,1-1 1). La croce, il do¬lore, sono la prova più alta dell’amore, la garanzia di essere discepoli di Gesù: “Chi non prende la sua croce e mi segue non può essere mio discepolo” (Mt. 10,28). Le sofferenze sono la via scelta da Gesù e perciò la più sicura per entrare nel regno della vita. “Ritengo infatti, dice S. Paolo, che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rive¬lata in noi” (Rm. 8,18).
E S. Giovanni nell’Apocalisse ci rivela: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimora tra di loro ed essi sa¬ranno suo popolo ed egli sarà il Dio con loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, nè lutto, nè lamento, nè affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap. 21,3-4).
Il Paradiso è il grande segreto che ha portato milioni di martiri a sacrificare la vita per conquistarlo: altri mi¬lioni hanno seguito il divino Maestro sulla via della croce e della santità; milioni tuttora nel mondo affron¬tano sacrifici, sofferenze di ogni genere nella certezza che li attende una vita di felicità senza fine. Il Paradiso attende ciascuno di noi. Gesù lo ha guadagnato con il suo martirio in croce e la sua risurrezione. Ce lo ha as¬sicurato prima di risalire al Padre: “Vado a preparare un posto per ciascuno di Voi” (Gv. 14,2).
Rimorso e perdono
Le parole colpa, peccato, non hanno più significato nella mentalità corrente e quando suscitano un senso di paura e di sofferenza, consigliano il ricorso a uno psichiatra, il quale, con una serie di sedute, profumata¬mente pagate, tenta di liberarci.
In realtà il rimorso per il male commesso è un feno¬meno universalmente conosciuto, capace di togliere la pace, fino a portare il colpevole alla disperazione e al suicidio. Non servono medici e tranquillanti a ridonare serenità e pace a chi si sente colpevole.
Non sono rari i casi di persone, che arrivano ad au¬toaccusarsi dei male commesso, chiedendo di essere puniti.
Recentemente un uomo si recò in tribunale denun¬ciando di aver truffato la ditta per cui lavorava di una grossa somma.
– Ma non esiste alcuna denuncia a vostro carico, disse il magistrato.
– È la mia coscienza che mi accusa, rispose l’impie¬gato, non riesco più a vivere con questo peso sulla co¬scienza.
Ho conosciuto una donna disperata, anche se vi¬veva in una famiglia cui non mancava nulla: bene¬stanti, un marito che l’adorava, due stupende creature
di cui era madre attenta e premurosa…
– Apparentemente dovrei essere felice, disse pian¬gendo, ma il male sta qui dentro, un peccato che mi rode continuamente: dieci anni fa ho ucciso il mio bambino che chiedeva di nascere. Nessuno lo sa, ma io so di essere una assassina!
A noi sacerdoti capita sovente di conoscere casi di persone, incapaci di perdonarsi, anche perché certe colpe sono irreparabili.
Per fortuna noi credenti abbiamo un rimedio sicuro, infallibile per riparare il peccato, perché Gesù ha pa¬gato per tutti qualunque sia la sua gravità.
Gesù incontra sovente persone colpevoli di gravi colpe, che si accostano a lui per essere liberati dal peccato, causa di tutti i mali, perché solo Dio, autore della legge, ha il potere di perdonare la colpa.
Il Vangelo di Marco racconta di un paralitico, calato dal tetto davanti a Gesù, per l’impossibilità di farsi largo tra la folla. “Gesù vista la fede di quelle persone, disse al paralitico: figlio mio i tuoi peccati sono perdo¬nati”, suscitando scandalo tra i maestri della legge pre¬senti: “Costui bestemmia! Solamente Dio può perdo¬nare i peccati!” E Gesù subito replicò: “Ebbene io vi farò vedere che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il po¬tere di perdonare i peccati. Rivolto al paralitico gli disse: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa” (Mc. 2,1-12).
Commovente e significativo anche l’incontro di Gesù con una prostituta, nota a tutti come ” la pecca¬trice”. Entrata, non invitata, nella casa di un ricco fari¬seo che ospitava Gesù, “si rannicchiò ai suoi piedi piangendo e cominciò a bagnarli con le sue lacrime, li asciugava con i suoi capelli e li baciava cospargendoli di profumo”.
Una presenza e un comportamento che suscitarono l’indignazione del ricco anfitrione. “Se fosse un pro¬feta”, pensava tra sè, “saprebbe che donna è questa che lo tocca, una prostituta”. E Gesù gli dà una lezione indimenticabile sul comportamento di quella poveretta, alla quale dice: “donna la tua fede ti ha salvata, va in pace” (Lc. 7,36-50).
Questo potere divino di rimettere i peccati Gesù lo conferirà ai suoi sacerdoti, chiamati a continuare nel mondo la sua missione di perdono e salvezza.
Prima di salire al Padre disse ai discepoli: “Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati saranno perdonati, a chi non li perdonerete non saranno perdo¬nati” (Gv. 20,22-23).
Questa disponibilità di Gesù al perdono turba Pietro, che un giorno gli chiese: “Quante volte devo perdonare al fratello che fa del male? Fino a sette volte?” Rispose Gesù: – No, non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette!” (Mt. 18,21-22). Perdonare tutti, perdonare tutto, perdonare sempre, questa è la missione di Cristo e della sua Chiesa.
Terapia nel dolore
Oggi la scienza ha fatto enormi progressi per curare le varie malattie, lenire le sofferenze dei pazienti, pro¬lungarne la vita.
Nelle nazioni ricche abbiamo eccezionali prestazioni medico-chirurgiche che la maggior parte della popola¬zione mondiale non può permettersi. Oltre alle cure tradizionali, molti ricorrono anche ad altre terapie alter¬native e complementari: omeopatia, fisioterapia, prano-
terapia, a guaritori ritenuti dotati di poteri speciali e non pochi a stregoni di varia natura, capaci di prepa¬rare intrugli diversi, frutto spesso di imbrogli per sfrut¬tare la credulità della gente, con un giro di molti mi¬liardi.
Anche la Chiesa offre servizi liturgici per aiutare i malati e alleviare le loro sofferenze. Gesù, inviando i suoi discepoli a esercitare l’apostolato, diede loro il po¬tere “di scacciare gli spiriti maligni e curare ogni sorta di malattie” (Mc. 16,17-18).
Un potere da sempre esercitato nella Chiesa, basato su queste considerazioni: Dio ama l’uomo e non vuole che soffra; desidera l’integrità fisica e morale di ogni persona. Gesù ha promesso di seguire e aiutare tutti i suoi seguaci, assicurando che avrebbe concesso qua¬lunque cosa avessero chiesto con fede.
San Giacomo Apostolo raccomanda a tutti i soffe¬renti il Sacramento istituito da Gesù, l’Unzione degli in¬fermi: “Chi è malato chiami i presbiteri della Chiesa, preghino su di lui, dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il ma¬lato. Il Signore lo consolerà e se ha commesso peccati gli saranno perdonati… Molto vale la preghiera del giu¬sto, fatta con insistenza” (Gc. 5,14-16).
Purtroppo l’uso di questo Sacramento incontra an¬cora molta diffidenza, frutto di ignoranza. Era chiamato “estrema unzione” e sovente veniva amministrato quando l’ammalato aveva perso conoscenza.
Oggi la mentalità sta cambiando; non solo è dove¬roso riceverlo con la piena partecipazione del malato e dei parenti, ma premettere anche, se possibile, la Confessione e la Comunione Eucaristica. Sacramenti che aiutano a sopportare la sofferenza e mirano al re¬cupero della salute, se è nei disegni di Dio.
Ho conosciuto un grande missionario, P. Antonio Alessi, che per ben 14 volte, spacciato dai medici, ha ricevuto il Sacramento degli infermi, uscendone gua¬rito, continuando a lavorare fino a 89 anni, a servizio dei poveri e dei sofferenti.
Anch’io ho ricevuto già tre volte questo Sacramento e sono ancora sulla breccia.
La fede è il requisito fondamentale per rivolgersi a Dio e ottenere il suo aiuto, Gesù lo chiedeva sempre a coloro che si rivolgevano a lui. Al padre che lo suppli¬cava di guarirgli il figlio morente dice: “Tutto è possi¬bile a chi ha fede”. Subito il padre del ragazzo si mise a gridare: “Io ho fede, ma tu aiutami se ho poca fede” (Mc. 9,22-24).
Con la fede, la preghiera rimane sempre il mezzo più efficace, anzi infallibile per ottenere quanto domandiamo al Signore, lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che chiederete nella preghiera, se avrete fede, lo riceverete”. In tutte le apparizioni la Madonna ha raccomandato di pregare e sovente ai pellegrini che invo¬cano il suo aiuto, ottiene da Dio guarigioni miracolose, scientificamente accertate. Gesù stesso raccomanda ai discepoli di “pregare senza stancarsi mai” (Lc. 18,1).
Poco tempo fa un gruppo di medici ha voluto fare una prova sulla efficacia della preghiera. Ha diviso un certo numero di pazienti, colpiti dallo stesso male, in due gruppi: uno pregava, si raccomandava a Dio e chiedeva preghiere a parenti e amici; l’altro, non credente, si affidava esclusivamente alle terapie prescritte. Si è notato come il primo gruppo aveva avuto notevoli miglioramenti, anzi alcuni la guarigione, a differenza del secondo che si era rifiutato di ricorrere a questo aiuto.
Certo la preghiera più gradita ed efficace è quella insegnata da Gesù, il “Padre nostro”, particolamente l’invocazione: “Sia fatta la tua volontà” che ne è il centro. Questa disponibilità a fare in ogni momento la volontà di Dio, sicuri che vuole sempre e solo il nostro bene, è la migliore disposizione per accettare la sofferenza e la morte, che ci apre la nascita alla vita immortale, a una felicità senza fine. Sofferenza e dolore non sono mai una punizione, ma un mezzo di santificazione per prepararci all’incontro con Dio, Padre e Salvatore di tutti.
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