Si può prescindere da Dio?
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Il peccato di superbia
La superbia è un peccato e, se ripetuto, può diventare un vizio, un atteggiamento che si manifesta quasi spontaneamente in una persona per il quale lei si crede non solo superiore agli altri ma addirittura lei stessa prende nella sua vita il posto dovuto a Dio. Non solo è uno dei classici peccati o vizi capitali ma viene spesso considerato come colui che sta al vertice o addirittura la radice profonda degli altri.
a. Partiamo dal Vangelo: fariseo e pubblicano (Lc 18, 9-14)
Credo che sia opportuno partire dal Vangelo perché se un vizio ha fustigato Gesù con forza è stato proprio la superbia di chi, sotto diverse forme, crede di non aver bisogno di Dio. Nella società fortemente religiosa del tempo di Gesù la superbia non si poteva dare con atteggiamenti di autosufficienza di tipo “laico”, ma c’erano altri tipi di autosufficienza religiosa sottili che Gesù ha duramente criticato. La famosa parabola del fariseo e del pubblicano del Vangelo di S. Luca ci può fornire un buon punto di partenza per mostrare l’atteggiamento del superbo. Sin dall’inizio l’evangelista ci indica il perché di questa parabola.
Essa è indirizzata infatti “ad alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18, 9). Ecco uno degli atteggiamenti tipici del superbo “religioso”: credersi giusto. Credere di non aver bisogno della grazia divina, ma di potercela fare da solo a diventare giusto. Dio non c’entra. Sì, esiste, ma siamo noi che con le nostre opere buone diventiamo giusti. In questo aveva capito bene Lutero, quando dava priorità alla grazia come azione di Dio in noi. Esagerava perché non lasciava spazio alla libertà.
Ma aveva visto giusto quando capì che la tentazione pelagiana si nascondeva nell’uomo “forte” o si credeva tale da un punto di vista religioso. Così era il fariseo. La sua preghiera descrive molto bene l’atteggiamento del superbo. In primo luogo il modo fisico in cui prega, in piedi, senza l’atteggiamento di riverenza di chi si sa inferiore a Dio. La sua preghiera inizia con un ringraziamento a Dio, ma non per la Sua grandezza, al contrario, per la propria grandezza: perché non è come gli altri. Gli altri sono inferiori, sono meno dotati, meno perspicaci, non vedono le cose come dovrebbero essere viste.
Egli crede di essere l’intelligente, colui che veramente capisce come stanno le cose, colui che ha ragione in tutto. Per lui gli altri sono “ladri, ingiusti, adulteri”, non compiono la Legge. Egli invece segue tutte le prescrizioni, almeno esteriormente: “digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo”. La sua preghiera è una lista dei propri doni, è una auto-lode, una autoglorificazione. La preghiera sembra più rivolta a se stesso che a Dio. In contrasto con l’atteggiamento del fariseo, il pubblicano, considerato invece dalla società un uomo peccatore perché non seguiva tanto alla lettera le prescrizioni della legge, prega con riverenza (fermatosi a distanza e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo; si batteva il petto).
La sua preghiera invoca pietà: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18, 13). Si sa e si confessa peccatore. Non legge a Dio la lista delle sue buone opere. La sua coscienza invece lo rimprovera per i suoi peccati e non si giustifica per le sue cattive azioni. Chiede solo pietà gratuita. Gesù finisce di raccontare la parabola con un giudizio molto chiaro: “Io vi dico: questi (il pubblicano) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro (il fariseo), perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 14). Sappiamo che il Signore Gesù diceva le cose chiare, senza paura di nessuno.
E questo netto messaggio contro la superbia nelle diverse sue manifestazione giunge anche a noi che siamo arrivati ad un epoca nella quale pensiamo di poter risolvere tutto da soli. Così si arriva non solo all’indifferenza verso Dio ma anche al volerlo “uccidere”, secondo l’espressione di Nietzche (Gott ist tot). Forse questo spiega anche il numero di libri pubblicati recentemente che vogliono dimostrare la non esistenza di Dio, come se Dio disturbasse il nostro volerci mettere come idoli supremi del culto che vogliamo dare al nostro io.
b. I Greci (la “hybris”) Anche la tradizione greca si era interessata al peccato di autosufficienza e le diede il nome di “hybris”. Per loro la “hybris” signicava la presunzione di forza o di potenza dell’uomo che offendeva gli dèi e ne provocava la vendetta. Si usa spesso nell’ambito della tragedia dove appare come una forza negativa che, relazionata con una colpa del passato, ha un influsso negativo nel presente.
Questa colpa avrebbe violato le disposizioni divine e si trasmette alla discendenza manifestandosi in forme oscure che portano gli uomini a commettere azioni malvagie. Al comportamento di “hybris” umana, che comporta disobbedienza alle leggi divine, corrisponde negli dèi la “nemesis” (νέμεσις) che è la vendetta, la punizione a chi si macchia di tracotanza. La colpa che manifesta la “hybris” è quella che ha come profonde motivazioni soltanto quello di umiliare l’altro o di manifestare la propria potenza. È un’azione che si considera anche contro la giustizia (diké) in quanto non misura le proprie azioni.
Una figura che in un certo senso personifica il mito della hybris è quello di Prometeo, figlio del titano Giapeto. Egli è considerato il creatore dell’uomo vitalizzando la creta. Egli ruba il fuoco a Zeus per darglielo agli uomini. Zeus lo incatena ad una rupe sul Caucaso. Un’aquila gli squarcia il fegato che si riproduce causando così un supplizio senza termine. L’atto di disobbedienza di Prometeo è un atto di ribellione contro Zeus. È un atto di hybris che genera dalla parte del padre dell’Olimpo una dura vendetta. Il mito di Prometeo ha molte angolature, ma una è quella della sfida alla divinità.
Ciò che differenzia il mito greco della hybris dal peccato di superbia tale quale appare nella Bibbia è invece, in parole di G. Ravasi, che questo peccato, nella prospettiva biblica, consiste appunto in uno scontro non contro una divinità capricciosa o stravagante (come nel caso dei greci), ma piuttosto la volontà di potere e di orgoglio ricercati per se stessi “per cui l’uomo mira a scalzare Dio per porre se stesso come arbitro della storia”. Per cui, anche nella tradizione cristiana, il mito di Prometeo è stato spesso considerato non sotto l’aspetto della benefica cura del bene degli uomini, ma piuttosto come “simbolo della superbia empia, della protervia dissacrante, della iattanza estrema”.
S. Tommaso ha definito la superbia come l’inordinatum appetitum propriae excellentiae oppure inordinata praesumptio alios superandi, una smodata presunzione di credersi superire agli altri che comporta una specie di innalzamento di sé stessi al di là del dovuto e un disprezzo degli altri. S. Tommaso la considera come la radice degli altri peccati che comporta anche uno speciale disprezzo di Dio stesso. E in quanto implica questo disprezzo della legge divina, egli la considera come radice di ogni altro peccato. La superbia viene descritta come “la madre e la regina di tutti i vizi” e anche dei vizi capitali.
La superbia è fondata su una fallacia, la ricerca di una gloria che è vana, fatua, senza fondamento: è proprio della superbia cercare l’eccellenza della propria vana gloria (inanis). La superbia cerca qualche cosa che è superiore a ciò che si può raggiungere e questo, per S. Tommaso, è anche contrario alla ragione, per cui la superbia implica anche qualche cosa che va contro la ragione retta. La superbia è un eccesso di fiducia in se stessi, nelle proprie capacità e perciò non accetta l’uguaglianza degli altri e cerca di dominarli. Questo suo delirio di grandezza si può manifestare desiderando cose troppo alte, in altre parole, andando oltre la giusta virtù della magnanimità e anche dell’umiltà perché non vuole essere soggetta a nessuno.
Questo desiderio di grandezze, porta il superbo a svincolarsi da Dio e dalle sue leggi ed a prendergli il suo posto . In questo senso S. Tommaso lo considera il più grave dei peccati (gravissivum peccatum) perché nella superbia, l’uomo non si allontana da Dio per ignoranza ma perché non vuole essere sottomesso a Dio[12]. Il superbo resiste a Dio perché vuole opporsi a Lui. L’atto della superbia è il disprezzo formale (contemptus) di Dio. Consiste appunto nell’avversione di Dio (aversio Dei) e perciò è il principio di ogni altro peccato; è addirittura causa aggravante degli altri peccati.
La trattazione di S. Tommaso è diventata classica nella dottrina cristiana che i manuali di teologia spirituali hanno descritto con dovizia di dettagli. Adesso ci fermeremo piuttosto in alcune delle sue manifestazioni.
Manifestazioni dell’autosufficienza – La superbia o autosufficienza può essere manifestata in diverse forme. Ne enumeriamo solamente alcune, consci però che le forme possibili in cui l’autosufficienza può essere manifestata sono molteplici.
1. La prima è costruire tutto intorno a se stessi. Se questa costruzione è teorica, qui raggiungiamo anche alcuni atei che rigettano ogni riferimento a Dio in quanto la fede in Dio toglierebbe loro questo primo e ultimo riferimento a se stessi. Ma è anche l’atteggiamento di chi, nella vita pratica, vive “ut Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Questa forma di vita dove l’uomo è il dio di se stesso diventa una grande tentazione anche nei nostri giorni. Dio viene considerato come il grande antagonista dell’uomo, come un nuovo Zeus che è geloso delle prerogative che Prometeo ha concesso all’uomo.
2. L’egocentricità si può manifestare anche in chi si comporta in modo tale come se i doni avuti, i talenti, fossero soltanto suoi e non di Dio. Non è possibile per loro accettare la domanda paolina, “che hai che non abbia ricevuto? (1 Cor 4, 7)”. Magari in teoria credono in Dio e lo riconoscono come Creatore, ma nella pratica questa fede è vuota e vana. Da qui viene spesso un vano compiacimento nei doni e nei propri meriti, senza un riferimento né implicito né esplicito a Dio. Questo atteggiamento di autosufficenza si può anche dare nelle persone che dicono di tendere alla perfezione: vogliono fare le cose in modo tale che sono solo esse a lavorare, senza lasciare lo spazio a Dio.
3. La superbia tende ad esagerare e a mostrare in modo indebito i doni e i talenti personali portandosi verso la vanità. Questo fa sì che a volte il superbo possa cadere anche in atteggiamenti ridicoli come dice Elias Canetti “Dovunque egli arrivi, il superbo si mette a sedere e tira fuori la sua superiorità”. Il caso tipico è la figura di Nerone del quale racconta Svetonio che morì pronunciando queste parole: “Qualis artifex pereo”, “quale artista con me muore” .
4. Spesso il superbo non è capace di guardare i suoi difetti e guarda con una lente d’ingrandimento le sue capacità o qualità, che porta spesso ad un comportamento orgoglioso verso gli altri, disprezzandoli e trattandoli ingiustamente.
5. Dato che il punto di riferimento è se stesso, ogni autorità dottrinale come la Chiesa, non può venire accettata, perché l’ultima istanza è la loro ragione, senza rendersi conto che anche la ragione umana è limitata.
6. Queste manifestazioni della superbia si possono dare anche a livello di razza, di religione, di classe sociale e anche dentro la Chiesa stessa.
P. Pedro Barrajón L.C
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