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Si può prescindere da Dio? Alle radici del peccato originale

19 Marzo 2012 | Filed under: Morale
     

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La tematica che oggi vogliamo affrontare è al centro di la questione antropologica. L’uomo può vivere senza Dio? Dio lo aiuta a diventare più umano oppure la fede in Dio disumanizza, togliendo all’uomo ciò che gli è proprio e dandolo a Dio? Sappiamo che, soprattutto a partire dal secolo XIX non poche filosofie hanno voluto dimostrare non solo la morte di Dio ma che egli sia gravemente dannoso per l’uomo oppure il grande antagonista della sua vera felicità? 
Se Dio non esiste allora molte cose cambiano per l’uomo e la pretesa cristiana sarebbe completamente vuota. Ma se Dio esiste …. Oggi vorrei analizzare con voi da dove viene questa pretesa di vivere senza Dio, dove affondano le radici questo desiderio di prescindere da Lui per organizzare la propria vita. Facendo questo toccheremo in modo direi tangenziale uno dei dogmi più importanti del cristianesimo, quello del peccato originale.
Capire il peccato, lo sappiamo, non è facile. Il peccato, essendo ombra, risulta di un’inintelligibilità intrinseca che supera la nostra mente, fatta per la verità e la comprensione del bene. Capire il male è contrario alla struttura stessa della nostra intelligenza, per cui lo dobbiamo intravvedere come in filigrana, alla luce del bene. Ricordiamo come San Tommaso dice che Dio non ha un’idea del male: “Dio non conosce il male per la propria ragione ma per la ragione del bene. 

Per ciò Dio non ha idea del male né in quanto l’idea è esemplare né in quanto l’idea è ragione”. Per Jacques Maritain, il male è per Dio “l’inadmisible à accepter”. Egli rispetta in modo assoluto il libero arbitrio delle sue creature e le loro iniziative di scegliere il nulla. Permettendo il peccato in vista di un bene superiore, egli consente l’inammissibile, non per ricevere supportare il male ma per afferrarlo vittoriosamente. 

Quando si tratta del peccato, siamo di fronte ad una tale mancanza di luce che a volte ci fa paura andare avanti. Per ciò, l’unico rimedio che abbiamo è la rivelazione, che ci dà alcuni spunti su come poter cogliere il male e il peccato attirandoli sotto la suprema luce che emana dalla bontà di Dio e dal mistero della redenzione.
1. Il primo peccato di autosufficienza
2. Il peccato degli angeli
3. Il peccato di superbia
4. A grandi mali, grandi rimedi
1. Il primo peccato di autosufficienza
La Bibbia ci racconta in modo simbolico il primo peccato dell’uomo. Il capitolo secondo, quello del racconto jahvista, termina dipingendo la bellezza e l’innocenza originarie: “tutti e due erano nudi e non provavano vergogna” (2, 25). Non erano ancora toccati dal peccato. Ciò che Dio aveva fatto era non soltanto buono, ma nel caso dell’uomo e della donna, “molto buono” (Gen 1, 31). Giovanni Paolo II ha elaborato tutto un ciclo di catechesi per commentare la bellezza di questa situazione originaria e ha indicato delle ragioni teologiche di grande interesse per mostrare l’assenza della vergogna prima del peccato.
Il capitolo terzo introduce invece una figura enigmatica, il serpente, descritto come “il più astuto di tutti gli animali selvatici”. L’aggettivo “astuto” è in ebraico “arum”, che viene usato nel versetto precedente (Gen 2, 24) per indicare la nudità dell’uomo e della donna. Alcuni autori vedono in questo una certa somiglianza del serpente con gli uomini. Sarebbe il più umano degli animali, e questo verrebbe comprovato anche dal fatto che usa il linguaggio, capacità che gli animali non hanno. Ma il suo linguaggio è pervertito, non corrisponde al vero e non cerca il vero; nel suo dire, vuole ingannare. 
Il serpente riprende le parole di Dio, ma si presenta come colui che ne deve dare una giustificazione veritiera, come se le parole di Dio avessero bisogno di un’ ulteriore conferma da parte sua. In altre parole, il serpente si presenta come la suprema istanza della verità. Ciò che Dio ha detto è vero nella misura in cui egli lo ratifica e lo convalida. Egli inizia la conversazione con la donna con una domanda che sembra ingenua e che invece vuole condurla alla crisi della sua fiducia in Dio. “Non morirete affatto!”. 
Il serpente si sente in potere di contraddire la parola di Dio, di negarla. Anzi, presenta Dio come l’antagonista del potere degli uomini: Dio non vuole che mangino del frutto proibito perché, il giorno in cui lo facessero, l’uomo e la donna potrebbero diventare come lui, conoscitori del bene e del male; e quel giorno non morirebbero. È il sapere, la sapienza a dare l’immortalità. Essa non è un dono di Dio, ma la conoscenza del bene e del male. 
Questo è il primo intervento del serpente, che nega il comandamento di Dio e lo presenta come falso, come ostile alla felicità dell’uomo. Egli parla di un “aprirsi degli occhi”, come se Dio avesse creato gli uomini con gli occhi chiusi o ciechi di fronte alla verità. Dio, stando al serpente, è fondamentalmente un mentitore. Questi sostiene che da soli si può vedere la verità, che non serve una rivelazione divina per accedervi. Chi segue le parole di Dio non sarebbe maturo, avrebbe gli occhi chiusi. 
Chi non vede, in questi atteggiamenti, quelli odierni di chi pensa che la fede in Dio rende immaturi, che non lascia guardare la realtà con la dovuta scientificità? Il serpente accumula menzogne su menzogne quando dice: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3, 5). Ecco la promessa, falsa, del serpente: “diventereste come Dio” conoscitori del bene e del male. 
È vero che Dio è colui che conosce il bene e il male, ma Dio non è solo conoscitore. L’essenza di Dio è ben di più, e questo “di più” non viene messo in evidenza dal serpente. Dice mezze verità, non la verità tutta intera. È la strategia tipica del Maligno: usare una verità corrotta, una parte di verità, una menzogna sotto la specie di verità. È interessante notare che il testo biblico, nel versetto successivo (6), ci dipinge il momento in cui la donna mangia; non però perché realmente l’abbia convinta il serpente, ma piuttosto perché “vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”. 
Non è tanto la promessa di essere come Dio, quanto invece la desiderabilità del frutto. Non è tanto il peccato di superbia, il voler essere come Dio; è piuttosto una mancanza di controllo del desiderio, alla quale si aggiunge la promessa del serpente, che ha fatto credere alla donna che lo stato in cui sono stati costituiti non li fa vivere nella saggezza. Il verbo ebraico può essere tradotto come “essere più intelligente”, ma anche con “avere successo”. La donna sceglie ciò che crede le conferirà un maggior sapere, e il sapere le garantirà un successo maggiore. 
Il testo biblico parla di una prima azione della donna, che mangia e successivamente offre al marito il frutto proibito. Allora si aprono gli occhi di entrambi. Quegli occhi di cui il serpente aveva detto che erano chiusi alla verità, lo sono veramente adesso, quando hanno disobbedito al precetto di Dio. “Si accorsero di essere nudi”: si è persa l’innocenza originaria, e con essa “la coscienza beatificante del significato del corpo”. 
La situazione è radicalmente cambiata per loro: “Nello stato di innocenza originaria, la nudità … non esprimeva carenza ma rappresentava la piena accettazione del corpo in tutta la sua verità umana e quindi personale. Il corpo, come espressione della persona, era il primo segno della presenza dell’uomo nel mondo visibile … Era un testimone fedele e una verifica sensibile della ‘solitudine’ originaria dell’uomo nel mondo”; ma adesso, dopo il peccato, “l’uomo perde in qualche modo la certezza originaria dell’immagine di Dio, espressa nel suo corpo. 
Perde anche in certo senso il suo diritto a partecipare alla percezione del mondo di cui godeva nel mistero della creazione”. Perde soprattutto quella fiduciosa relazione con Dio che, da amico che era, viene percepito come un nemico: inizia la paura di Dio. Adamo ed Eva si nascondono da Lui (Gen 3, 8). Adamo infatti confessa: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3, 10). 
Molte altre considerazioni si sarebbero potute fare su questo primo peccato, la cui interpretazione nella tradizione teologica è attestata nella riflessione di S. Tommaso come segue: “il diavolo e il primo uomo hanno desiderato in modo disordinato la somiglianza divina … ma il primo uomo peccò principalmente desiderando la somiglianza divina in relazione alla conoscenza del bene e del male, cioè che in forza della sua stessa natura potesse determinare per sé cosa fosse buono e che cosa cattivo nell’agire”. 
Il peccato fu la volontà di determinare autonomamente i principi della morale, potersi plasmare una morale per sé, costruirsi questa morale senza riferimento a Dio; un voler, in altre parole, conquistare il bene e superare il male senza riferimento al Creatore: un non volersi riconoscere creature. Si tratta di “una pretesa di essere come Dio, in definitiva, di non accettare la condizione di creature, un peccato di orgoglio” (superbia).
Alcune tendenze nella morale odierna, anche cattolica, tornano a rivendicare questa totale autonomia della libertà umana, che “potrebbe creare i valori e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa dunque rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente significherebbe la sua sovranità assoluta”.

 P. Pedro Barrajón L.C.

     

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