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Il Sabato Santo secondo la mistica Maria Valtorta

30 Marzo 2013 | Filed under: Catechesi Liturgica, Pasqua
     

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Il Sabato Santo

Dal “Poema dell’Uomo Dio”

della mistica Maria Valtorta

L’alba viene avanti stenta, a fatica. E l’aurora tarda stranamente, per quanto non ci siano nuvoli in cielo. Ma sembra che gli astri abbiano perso ogni vigore. E come era pallida la notturna luna, così è pallido il sole che appare. Opachi… Han­no forse pianto anche essi, da avere questo aspetto appannato, come lo hanno gli occhi dei buoni che hanno pianto e piangono per la morte del Signore?

Appena Giovanni comprende che le porte sono riaperte, esce, sordo alle suppliche materne. Le donne si asserragliano in casa, ancora più intimorite ora che anche l’apostolo se ne è dato.

Maria, sempre nella sua stanza, con le mani prosciolte nel grembo, guarda fisso fuori dalla finestra, che si apre su un giardino non vastissimo ma abbastanza ampio e tutto pieno di rose in fiore lungo le alte muraglie e le aiuole capricciose. I ciuffi dei gigli, invece, sono ancora senza lo stelo del futuro fiore: folti, belli, ma solo a foglie. Guarda, guarda, ed io credo non veda niente. Ma solo veda ciò che è nel suo povero cervello stanco: l’agonia del Figlio.

Le donne vanno e vengono. Le si accostano, la carezzano, la pregano di prendere un ristoro… e ogni volta, col loro venire, viene un’ondata di un profumo pesante, composto, sbalordente.

Maria ne ha un brivido ogni volta. Ma non ha altro. Non pa­role. Non atti. Niente. É esausta. Attende. É solo un’attesa. É Colei che attende.

Un picchio all’uscio… Le donne corrono ad aprire. Maria si volge sul suo sedile, senza alzarsi, e fissa l’uscio socchiuso.

Entra la Maddalena.

«C’è Mannaen… Vorrebbe essere usato per qualche cosa».

«Mannaen… Fallo entrare. Fu sempre buono. Ma credevo non fosse lui…».

«Chi credevi, Madre?…».

«Dopo… dopo. Fa passare».

Entra Mannaen. Non è pomposo come di solito. Ha una ve­ste comunissima, di un marrone quasi nero, e un mantello uguale. Nessun gioiello e non la spada. Nulla. Sembra un uo­mo benestante ma del popolo. Si curva a salutare, prima con le mani incrociate sul petto, e poi si inginocchia come davanti ad un altare.

«Alzati. E perdona se non rispondo all’inchino. Non pos­so…»……….. 





………«Non devi. Non lo permetterei. Chi sono lo sai. Perciò ti prego calcolarmi tuo servo. Hai bisogno di me? Vedo che non hai un uomo d’intorno. So da Nicodemo che tutti sono fuggiti. Non c’era nulla da fare. É vero. Ma almeno dargli il conforto di vederci. Io… io l’ho salutato al Sisto. E poi non ho più potuto, perché… Ma è inutile dirlo. Anche questo fu voluto da satana. Ora sono libero e vengo a mettermi al tuo servizio. Ordina, Donna».

«Vorrei sapere e far sapere a Lazzaro… Le sorelle sono in pena, e mia cognata e l’altra Maria pure. Vorremmo sapere se Lazzaro, Giacomo, Giuda e l’altro Giacomo sono salvi».

«Giuda? L’Iscariota? Ma lo ha tradito!».

«Giuda, figlio del fratello dello sposo mio».

«Ah! vado», e si alza. Ma nel farlo ha un movimento di dolore.

«Ma sei ferito?».

«Uhm… si. Roba da nulla. Un braccio che duole un poco».

«Per causa nostra, forse? Per questo non c’eri lassù?».

«Sì. Per questo. E solo per questo mi dolgo. Non per la feri­ta. Il resto di fariseismo, di ebraismo, di satanismo che era in me, perché satanismo è divenuto il culto d’Israele, è tutto usci­to con quel sangue. Sono come un pargolo che, dopo la recisio­ne del sacro ombelico, non ha più contatti col sangue materno, e le poche stille che ancora restano nel cordone reciso non van­no in lui, strozzate come sono dal laccio di lino. Ma cadono… Inutili ormai. Il neonato vive col suo cuore e il suo sangue. Così io. Fino ad ora ero ancora non formato del tutto. Ora sono giunto al termine, e vengo, e sono stato dato alla Luce. Ieri so­no nato. Mia madre è Gesù di Nazaret. E mi ha partorito quan­do ha dato l’ultimo grido. So… Perché sono fuggito nella casa di Nicodemo questa notte. Solo vorrei vederlo. Oh! quando an­drete al Sepolcro, ditemelo. Verrò… Il suo Volto di Redentore io lo ignoro!».

«Ti guarda, Mannaen. Volgiti».

L’uomo, che era entrato tanto a capo chino e che aveva avu­to poi occhi solo per Maria, si volta quasi spaventato e vede il Sudario. Si getta bocconi, adorando… E piange. Poi si leva. Si inchina a Maria e dice:

«Vado».

«Ma è sabato. Lo sai. Già ci accusano di violare la Legge per sua istigazione».

«Pari siamo, perché essi violano la legge dell’Amore. La pri­ma e più grande. Egli lo diceva. Il Signore ti conforti».

Esce. E le ore passano. Come sono lente per chi attende… Maria si alza e appoggiandosi ai mobili si fa sull’uscio. Cer­ca di traversare il vasto vestibolo d’ingresso. Ma quando non ha più appoggio vacilla come fosse ebbra.

Marta, che vede dal cortile che è oltre l’uscio, aperto al­l’estremità del vestibolo, accorre.

«Dove vuoi andare?».

«Là dentro. Me lo avete promesso».

«Aspetta Giovanni».

«Basta aspettare. Vedete che sono quieta. Andate, poi che avete fatto chiudere dall’interno, e fate aprire. Io aspetto qui».

Susanna, poiché tutte sono accorse, parte per chiamare il padrone con le chiavi. Intanto Maria si appoggia alla porticina come volesse aprirla con la forza del suo volere. Ecco l’uomo. Pauroso, avvilito, apre e si ritira. E Maria, a braccio di Marta e Maria d’Alfeo, entra nel Cenacolo.

Tutto è ancora come era alla fine della Cena. Il susseguirsi delle cose e l’ordine dato da Gesù hanno impedito manomis­sioni. Soltanto sono stati riportati i sedili al loro posto. E Ma­ria, che pure non è stata nel Cenacolo, va diritta al posto dove era seduto il suo Gesù. Pare che la guidi una mano. E sembra quasi sonnambula, tanto è irrigidita nello sforzo di andare…

Va. Gira intorno al letto sedile, si insinua fra questo e la tavo­la… resta ritta un momento e poi si abbatte attraverso al tavo­lo in un nuovo scoppio di pianto. Poi si calma. Si inginocchia e prega con la testa appoggiata all’orlo della tavola. Carezza la tovaglia, il sedile, le stoviglie, l’orlo del grande vassoio dove era l’agnello, il grande coltello usato a scalcare, l’anfora posa­ta davanti a quel posto. Non sa di toccare ciò che ha toccato anche l’Iscariota. Poi resta come inebetita, con la testa appog­giata sulle braccia conserte messe sul tavolo. Tacciono tutte. Finché la cognata dice:

«Vieni, Maria. Te­miamo i giudei. Vorresti che entrassero qui?»

.

«No. No. É luogo santo. Andiamo. Aiutatemi… Avete fatto bene a dirmelo. Vorrei anche un cofano, bello, grande, chiuso. Per chiudervi dentro tutti i miei tesori».

«Domani te lo faccio portare dal palazzo. É il più bello del­la casa. E robusto e sicuro. Te lo dono con gioia», promette la Maddalena.

Escono. Maria è proprio esausta. Vacilla nel fare i pochi sca­lini. E, se è meno drammatico il suo dolore, è perché non ha più forza di essere tale. Ma nella sua pacatezza è ancora più tragi­co. Rientrano nella stanza di prima. E prima di tornare al suo posto Maria accarezza, come fosse un viso di carne, il santo Volto del Sudario.

Un altro busso al portone. Le donne si affrettano ad uscire e a socchiudere l’uscio. Con la sua voce stanca Maria dice:

«Se fossero i discepoli, e specie Simon

 Pietro e Giuda, che vengano subito a me».

Ma è il pastore Isacco. Entra piangendo dopo qualche mi­nuto e subito si prostra al Sudario e poi alla Madre, e non sa che dire.

É Lei che dice:

«Grazie. Ti ha visto e ti ho visto. Lo so. Vi guardava finché ha potuto».

Isacco piange ancora più forte. Può parlare solo quando ha finito il suo pianto.

«Non volevamo andare via. Ma Gionata ce ne ha pregato. I giudei minacciavano le donne… e dopo non abbiamo più potuto venire. Era… era tutto finito… Dove dove­vamo andare allora? Ci siamo sparsi per la campagna e a notte fatta ci siamo riuniti a mezza via fra Gerusalemme e Betlem­me. Ci pareva di allontanare la sua Morte andando verso la sua Grotta… Ma poi abbiamo sentito che non era giusto andare là… Era egoismo, e siamo tornati verso la Città… E ci siamo trovati, senza sapere come, a Betania…»

«I miei figli!».

«Lazzaro!».

«Giacomo!».

«Sono tutti là. I campi di Lazzaro all’aurora erano sparsi di vaganti che piangevano.. . I suoi inutili amici e discepoli… Io… sono andato da Lazzaro e credevo di essere il primo… In­vece là erano già i tuoi due figli, donna, e il tuo, insieme ad Andrea, Bartolomeo, Matteo. Li aveva persuasi ad andare là Simone Zelote. E Massimino, uscito per la campagna fin dal primo mattino, ne aveva trovati altri. E Lazzaro li ha soccorsi tutti. E ancora lo sta facendo. Dice che il Maestro gliene aveva dato ordine. E così dice lo Zelote».

«Ma Simone e Giuseppe, gli altri miei figli, dove sono?».«Non so, donna. Eravamo stati insieme fino al terremoto. Poi… non so più nulla di esatto. Fra le tenebre e i fulmini e i morti risorti e il tremore del suolo e il turbine dell’aria, ho per­duto la ragione. Io mi trovai nel Tempio. E ancora mi chiedo come potei essere là dentro, oltre il limite sacro. Pensa che fra me e l’altare dei profumi c’era solo un cubito… Pensa! Io dove pongono i piedi solo i sacerdoti di turno!… E… e ho visto il Santo dei Santi!… Si. Perché il Velo del Santo è lacerato da ci­ma a fondo, come l’avesse strappato il volere di un gigante… Se mi vedevano là dentro, mi lapidavano. Ma nessuno vedeva più. Non ho incontrato che spettri di morti e spettri di viventi. Perché spettri parevamo alla luce dei fulmini, al chiarore degli incendi e col terrore nei volti…».

«Oh! il mio Simone! il mio Giuseppe!».

«E Simon Pietro? E Giuda di Keriot? E Tommaso e Filip­po?».

«Non so, Madre… Lazzaro mi ha mandato a vedere, perché gli avevano detto che… che vi avevano uccisi».

«Vai subito, allora, a tranquillizzarlo. Ho già mandato Man­naen. Ma va’ tu pure e dì… dì che solo Lui è l’Ucciso. Ed io con Lui. E se vedi degli altri discepoli, portali con te là. Ma l’Iscariota e Simon Pietro li voglio io».

«Madre… perdonaci se di più non abbiamo fatto».

«Tutto perdono… Vai».

Isacco esce. E Marta e Maria, Salome e Maria d’Alfeo lo soffocano di preghiere, di raccomandazioni, di ordini. Susanna piange piano perché nessuno le parla dello sposo. É allora che Salome si ricorda del suo. E piange anche lei. Silenzio di nuovo. Sino ad un nuovo picchiare al portone. Posto che la città è quieta, le donne sono meno paurose. Ma, quando dall’uscio socchiuso vedono spuntare il volto glabro di Longino, fuggono tutte come avessero visto un morto nel suo lenzuolo funebre o il demonio in persona.

Il padrone di casa, che per curiosità ciondola nel vestibolo, è il primo a scappare. Accorre la Maddalena, che era con Maria. Longino, con un involontario sorrisetto canzonatorio sulle labbra, è entrato ed ha chiuso da sé il pesante portone. Non è in divisa. Ma ha una veste grigia e corta sotto un mantello pure oscuro. Maria Maddalena lo guarda e lui guarda lei. Poi, rimanendo sempre addossato alla porta, Longino chiede:

«Posso entrare senza contaminare nessuno? E senza fare terrore a nessuno? Ho visto stamane all’aurora il cittadino Giuseppe e mi ha detto del desiderio della Madre. Chiedo perdono se non giunsi di mio a pensarlo. Ecco la lancia. L’avevo tenuta per ricordo di un… del Santo dei Santi. Oh! questo sì che lo è! Ma è giusto l’abbia la Madre. Per le vesti… è più difficile. Non glielo dite… ma forse sono già state vendute per pochi denari… E diritto dei soldati. Ma cercherò di trovarle…»

«Vieni. Ella è là».

«Ma io sono pagano!».

«Non importa. Glielo vado a dire. Se lo desideri».

«Oh! non… non pensavo di meritarlo».

Maria Maddalena va dalla Vergine.

«Madre, Longino è lì fuori… Ti offre la lancia».

«Fallo passare».

Il padrone di casa, che è sull’uscio, brontola:

«Ma è un pa­gano».

«Sono Madre di tutti, uomo. Come Egli di tutti è il Reden­tore».

Longino entra e sulla soglia saluta romanamente col gesto, col braccio (si è levato il mantello) e poi con la voce:

«Ave, Do­mina. Un romano ti saluta: Madre dell’umano genere. La vera Madre. Non avrei voluto essere io a… a… a quella cosa. Ma era ordine. Però, se servo a darti quanto desideri, perdono al desti­no di avermi scelto per quella orrenda cosa. Ecco», e le dà la lancia avvolta in un drappo rosso.

Il solo ferro. Non l’asta. Maria la prende divenendo ancora più pallida. Si annullano persino le labbra nel pallore. Pare che la lancia la sveni. E trema fin con le labbra mentre dice:

«Egli ti conduca a Sé. Per la tua bontà».

«Era l’unico Giusto che io abbia incontrato nel vasto impe­ro di Roma. Mi pento di non averlo conosciuto che per le paro­le dei compagni. Ora… è tardi!».

«No, figlio. Egli ha finito l’evangelizzare. Ma il suo Vangelo resta. Nella sua Chiesa».

«Dove è la sua Chiesa?».Longino è lievemente ironico.

«Qui è. Oggi è percossa e dispersa. Ma domani si riunirà co­me un albero che ravvia la chioma dopo la tempesta. E, anche non ci fosse più alcuno, io ci sono. E il Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio e mio, è tutto scritto nel mio cuore. Non ho che guardarmi il cuore per potervelo ripetere».

«Verrò. Una religione che ha per capo un tale eroe non può essere che divina. Ave, Domina!».

E anche Longino se ne va. Maria bacia la lancia, dove ancora è il Sangue del Figlio… Né vuole levarlo quel Sangue. Ma lo lascia, «rubino di Dio, sulla lancia crudele», dice…

La giornata, fra schiarite di nuvole e cupezze di temporale, passa così.

Giovanni torna solo quando il sole a perpendicolo dice che è il mezzogiorno.

«Madre. Io non ho trovato nessuno, fuor­ché… Giuda di Keriot».

«Dove è?».

«Oh! Madre! Che orrore! Egli pende da un ulivo, gonfio e nero quasi fosse morto da settimane. Putrido. Orrendo… Su lui gli avvoltoi, i corvi, che so, urlano in risse atroci… É stato il loro clamore che mi ha chiamato in quel senso. Ero sulla via del monte Uliveto, e su un poggio ho visto ruote e ruote di uc­cellacci neri. Sono andato… Perché? Non lo so. E ho visto. Che orrore!…».

«Che orrore! Dici bene. Ma sopra la Bontà fu la Giustizia. Infatti la Bontà è assente, ora… Ma Pietro! Ma Pietro!… Gio­vanni, ho la lancia. Ma le vesti… Longino non ne ha parlato».

«Madre, voglio andare al Getsamni. Egli è stato preso senza mantello. Forse è là ancora. Poi andrò a Betania».

«Vai. Per il mantello, vai… Gli altri sono da Lazzaro. Non andare perciò da Lazzaro. Non occorre. Va e torna qui».

Giovanni parte di corsa. Senza prendere ristoro. Come sen­za ristoro sta Maria. Le donne hanno mangiato in piedi pane e ulive, sempre lavorando ai loro balsami. E viene, con Gionata, Giovanna di Cusa. E una maschera dal gran pianto. E appena vede Maria dice:

«Mi ha salvata! Mi ha salvata e Lui è morto. Ora non vorrei più essere stata salvata!».

É la Madre Dolorosa che deve consolare questa creatura guarita, ma rimasta di una sensibilità morbosa. E la consola e la fortifica dicendole:

«Non lo avresti conosciuto e amato e non lo potresti servire ora. Quanto ci sarà da fare, in futuro! E noi dovremo fare perché, lo vedi… Noi siamo rimaste, e gli uo­mini sono fuggiti. É sempre la donna la generatrice vera. Nel Bene. Nel Male. Noi genereremo la nuova Fede. Di essa siamo ripiene, deposta in noi dallo Sposo Iddio. Ed essa genereremo alla Terra. Per il bene del mondo. Guardalo come è bello! Co­me sorride e mendica questo nostro santo lavoro! Giovanna, io ti amo, lo sai. Non piangere più».

«Ma Egli è morto! Si. Lì sopra è ancora simile ad un vivo. Ma ora vivo non è più. Che è il mondo privo di Lui?».

«Egli tornerà. Va. Prega. Attendi. Più crederai, più presto risorgerà. É la mia forza questo credere… E solo io, Dio e sa­tana sappiamo quanti assalti sono dati a questa mia Fede nella sua Risurrezione».

Anche Giovanna va via, esile e piegata come un giglio trop­po saturo d’acqua. Ma, uscita lei, Maria ricade nel tormento.

«A tutti! A tutti devo dare la forza. E a me chi la dà?».E piange, accarezzando il Volto dell’effigie, perché ora si è seduta presso il cofano su cui il Sudario è steso.

Vengono Giuseppe e Nicodemo. Ed evitano alle donne di uscire per comperare mirra e aloe, perché ne portano dei sacchetti. Ma la loro forza cede davanti al Viso impresso nel lino e al viso devastato della Madre. Si siedono in un angolo dopo averla salutata e tacciono. Seri, funebri… Poi vanno.

Né Lei ha più forza di parlare. Ma, più scende la sera, pre­coce per la nuvolaglia afosa, e più diviene una povera creatura straziata. Le ombre della sera sono anche per Lei, come per tutti i dolenti, fonte di maggior dolore.

Anche le altre si fanno più tristi. E specie Salome, Maria d’Alfeo e Susanna. Ma per loro infine viene il ristoro, perché in gruppo giungono Zebedeo, lo sposo di Susanna e Simone e Giuseppe d’Alfeo.

I due primi restano nel vestibolo, mentre spiegano che li ha trovati Giovanni mentre passava per il sob­borgo di Ofel. I due altri invece sono stati trovati da Isacco er­ranti per la campagna, incerti se tornare in città o andare dai fratelli, che supponevano a Betania. Simone dice:

«Dove è Maria? La voglio vedere», e preceduto dalla madre entra e bacia la parente straziata.

«Sei solo? Perché non è con te Giuseppe? Perché vi siete la­sciati? Ancora in urto fra voi? Non dovete. Vedete? La ragione dell’attrito è morta!».

E accenna al Volto del Sudario. Simone lo guarda e piange.

Dice: «Non ci siamo più lasciati. E non ci lasceremo. Si, la ragione dell’attrito è morta. Ma non come tu credi. É morta perché Giuseppe, ora, ha compre­so… É lì fuori Giuseppe… e non osa venire…».

«Oh! no. Io non faccio mai paura. E non sono che pietà. Avrei perdonato anche al Traditore. Ma non posso più. Si è uc­ciso».

E si alza. Cammina curva chiamando: «Giuseppe! Giusep­pe! ».

Ma Giuseppe, affogato nel pianto, non risponde. Ella si fa sulla porta, come era per parlare a Giuda, e soste­nendosi allo stipite stende l’altra mano e la posa sulla testa del più anziano e tenace dei nipoti. Lo carezza e dice:

«Lascia che io mi appoggi ad un Giuseppe! Tutto era pace e serenità finché avevo quel nome come re nella mia casa. Poi il mio Santo mi è morto… E tutto il bene umano della povera Maria è stato mor­to esso pure. E rimasto il Bene soprannaturale del mio Dio e Figlio… Ora sono la Derelitta… Ma se posso essere fra il cer­chio delle braccia di un Giuseppe che amo, e tu lo sai se ti amo, io mi sentirò meno derelitta. Mi parrà di tornare indietro. Di poter dire: “Gesù è assente. Ma non morto. É a Cana, a Naim per lavori, ma ora torna…”. Vieni, Giuseppe. Entriamo insie­me dove Egli ti aspetta per sorriderti. Ci ha lasciato il suo sor­riso per dirci che non ha rancore».

Giuseppe entra, tenuto per mano da Lei, e come la vede se­duta le si inginocchia davanti con la testa nel grembo e sin­ghiozza:

«Perdono! Perdono!».

«Non a me. A Lui lo devi chiedere».

«Non me lo può dare. Sul Calvario ho cercato di attirare il suo sguardo. Tutti ha guardato. Ma non me… Ha ragione… L’ho conosciuto e amato, come Maestro, troppo tardi. Ora è fi­nito».

«Ora incomincia. Tu andrai a Nazaret e dirai: “Io credo”. Il tuo credere avrà un valore infinito. Lo amerai con la perfezio­ne degli apostoli futuri, che avranno il merito di amare il Gesù conosciuto solo dallo Spirito. Lo farai?».

«Sì! Si! Per riparare. Ma vorrei sentire da Lui una parola. E non la sentirò mai più…».

«Il terzo giorno Egli risorgerà e parlerà a coloro che ama. Tutto il mondo attende la sua Voce».

«Te benedetta che puoi credere…».

«Giuseppe! Giuseppe! Il mio sposo ti era zio. E credette ad una cosa che è ancora più difficile a credere di questa. Ha sa­puto credere che la povera Maria di Nazareth fosse la Sposa e Madre di Dio. Perché tu, nipote di questo Giusto e portatore del suo nome, non puoi credere che un Dio possa dire alla Mor­te: “Basta!” e alla Vita: “Torna!”?».

«Io non merito questa fede, perché sono stato cattivo. In­giusto fui con Lui. Ma tu… tu sei la Madre. Benedicimi. Perdo­nami… Dammi pace…».

«Sì… Pace… Perdono… Oh! Dio! Una volta ho detto: “Co­me è difficile essere i redentori” . Ora dico: “Come è difficile essere la Madre del Redentore!”. Pietà, mio Dio! Pietà!… Va, Giuseppe. Tua madre ha tanto sofferto in queste ore. Confortala.. . Io resto qui… Con tutto quanto ho del mio Bambino… E le mie lacrime solitarie ti otterranno la Fede. Addio, nipote mio. Dì a tutti che voglio tacere… pensare… pregare… Sono… So­no una povera Donna tenuta sospesa su un abisso da un filo… Il filo è la mia Fede… E la vostra non-fede, perché nessuno sa credere totalmente e santamente, urta continuamente questo mio filo… E non sapete quale fatica mi imponete… Non sapete di aiutare satana a tormentarmi. Va… ».

E Maria resta sola… Si inginocchia davanti al Sudario. Ba­cia la fronte, gli occhi, la bocca del Figlio e dice:

«Così! Così! Per avere forza… Devo credere. Devo credere. Per tutti».

La notte è calata. Senza stelle. Buia. Afosa. Maria resta nell’ombra col suo dolore. Il giorno del Sabato è finito.

Ma la notte è ancora lunga e solo all’alba lo Spirito del Signore rientrerà nel Suo Corpo ridandogli la Vita


     

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