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Riflessioni sul Purgatorio – 8

16 Dicembre 2014 | Filed under: Purgatorio
     

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LE PENE DEL PURGATORIO E IL LORO RIGORE

Pena del danno e pena del senso.
Dopo, la divina sentenza, supposto che l’anima sia condannata al Purgatorio, il desiderio di purificazione invade l’anima stessa, che nella pena che le è riservata vede la via che la condurrà più presto in Paradiso. S. Caterina da Genova, nel suo meraviglioso Trattato del Purgatorio, dice che l’anima corre a precipitarsi in Purgatorio, tanto è grande l’orrore che concepisce dei suoi falli dinanzi alla purezza e alla santità di Dio e tanto è impaziente di purificarsi dalle sue sozzure. Ecco le parole della Santa: «Siccome lo spirito mondo e purificato non trova luogo, eccetto Dio, per suo riposo, essendo stato creato a questo fine; così l’anima in peccato, altro luogo non trova adatto, salvo l’Inferno, avendole ordinato Iddio quel luogo per fine suo: perciò in quell’istante in cui lo spirito e separato dal corpo, l’anima corre verso l’ordinato suo luogo, senz’altra guida che la natura del peccato, quando l’anima parte dal corpo in peccato mortale. E se l’anima non trovasse in quel punto quell’ordinazione (procedente dalla giustizia di Dio) rimarrebbe in un maggiore inferno; perciò non tro­vando luogo conveniente, nè di meno male per lei, per l’ordinazione di Dio vi si getta dentro, come nel suo proprio luogo.

« Così a proposito del Purgatorio, l’anima separata dal corpo, non trovandosi in quella purezza nella qua­le fu creata, e vedendo in sè l’impedimento che non le può essere levato se non per mezzo del Purgatorio, presto vi si getta dentro, e volentieri e se non trovas­se questa ordinazione, atta a levarle quell’impaccio, in quell’istante in lei si genererebbe un vero inferno, vedendo di non potere accostarsi (per l’impedimento) al suo fine, che è Dio, il quale le è tanto a cuore, che in comparazione al Purgatorio è da stimarsi nulla, benchè, come si è detto, sia simile all’Inferno (cap- 7)».

Le rivelazioni dei Santi confermano quanto dice S. Caterina da Genova. Leggiamo in S. Geltrude come una religiosa del suo monastero, nota per le sue austere virtù, essendo morta ancor giovane con senti­menti di edificante pietà, si manifestasse alla Santa, mentre questa stava pregando per lei. La defunta fu vista innanzi al trono dell’Altissimo circondata da una brillante aureola e ricoperta di ricche vesti tuttavia sembrava triste in volto e pensierosa, e teneva gli oc­chi bassi quasi si vergognasse di comparire innanzi a Dio. Sorpresa Geltrude, domandò al divino Sposo delle vergini la causa di quella tristezza e di quel ti­more, e lo pregò di invitare quella sua sposa presso a lui.

Allora Gesù, fatto cerino a quella buona religiosa di avvicinarsi, le sorrideva con amore; ma ella sempre più turbata ed esitante, dopo aver fatto un grande inchino alla Maestà di Dio, si allontanò. San­ta Geltrude, più che mai stupita, rivolgendosi diretta­mente a quell”anima, le disse: – Figlia mia, perché egiti e ti allontani, mentre il Salvatore t’invita? Hai sempre desiderato questa suprema felicità durante la vita terrena, ed ora che sei chiamata a goderne, te ne rimani così fredda e impassibile? Non vedi forse che il buon Gesù ti aspetta? – Ma quell’anima rispose – Ah! madre mia, io non sono ancora degna di com­parire innanzi all’Agnello immacolato, poiché mi re­stano ancora alcune macchie da purificare.

Per potersi avvicinare al Sole di Giustizia bisogna essere più puri della luce stessa ed io non ho ancora questa perfetta purezza che egli brama di contemplare nei suoi Santi. Anche se le porte del cielo fossero spalancate dinanzi a me e da me sola dipendesse il varcarle, non oserei giammai di farlo prima di essere intieramente purifi­cata dalle più piccole colpe; mi sembrerebbe che il coro delle Vergini, che seguono di continuo l’Agnello divino, mi dovesse scacciare lontano da lui per non esserne degna. – Ma come può esser ciò che mi dici, rispose la Santa, se io ti vedo, o mia figlia, circon­data di luce e di gloria? – Quanto voi vedete, rispose quella, non è che la frangia delle vesti sublimi del­l’immortalità. Ben altra cosa è il vedere Iddio, il vi­vere in lui e possederlo per sempre! Per conseguire però questa grazia è necessario che l’anima non abbia in sè la più piccola macchia. di colpa.­

Così, dopo il giudizio, si inizia la purificazione, hanno inizio le pene. E quali pene! Vicino alla bara di un nostro caro, che le sofferenze hanno consumato, ci confortiamo ordinariamente dicendo: – Almeno ha finito di patire!… – Oh! finissero veramente, col fi­nire della vita presente, le nostre pene! Il corpo cessa di soffrire, ma le sofferenze dell’anima possono conti­nuare, possono accrescersi, e continuano e crescono generalmente.

Inifatti secondo quello che insegnano i Dottori, i patimenti del Purgatorio non solo son riservati a quasi tutte le creature umane, ma per la loro intensità nep­pure sono da paragonarsi ai patimenti della vita pre­sente. Secondo S. Tommaso, il quale del resto non fa che riferire l’unanime insegnamento dei Padri, le pene del Purgatorio in nulla differiscono dalle pene dell’In­ferno, eccetto che nella durata. Altrettanto asseriscono i mistici. Ecco quel che leggiamo in S. Caterina da Genova

«Le anime purganti provano un tal tormento, che lingua umana non può riferire, nè alcuna intelligenza darne la più piccola nozione, a meno che Iddio non lo facesse conoscere per grazia speciale (Tratt. del Purg., cap. 2).

V’è nel Purgatorio, come nell’Inferno, doppia pe­na, quella del danno, che consiste nella privazione di Dio, e quella del senso. La pena del danno è senza paragone più grande, ed è tanto più intensa in quan­tochè quelle anime vivendo nell’amicizia di Dio; sen­tono più forte il bisogno di unirsi a lui » (Id.).

La Chiesa non si è mai pronunziata sulla natura della pena del senso. Nel Concilio di Firenze fu lungamente dibattuta anche questa questione fra i Greci e i Latini, ma per non porre ostacolo alla desiderata unione delle due Chiese, nulla venne deciso. Però sic­come tutti i teologi insegnano che questa pena è quella del fuoco, come pei dannati, sarebbe temerità allontanarsi da tale opinione. Secondo S. Gregorio Magno, S. Agostino e S. Tommaso, questo fuoco è sostan­zialmente uguale a quello dell’Inferno: la differenza consiste solo nella durata.

Agli insegnamenti dei Padri e dei Teologi, fanno eco gli insegnamenti dei Mistici e le rivelazioni dei Santi. Nella storia del Padre Stanislao Choscoa, do­menicano, leggiamo il fatto seguente (Brovius, Hist.Hist, de, Pologne, année 1590).

Un giorno, mentre questo santo religioso pregava per i defunti, vide un’anima tutta divorata dalle fiamme, alla quale avendo egli domandato se quel fuoco fosse più penetrante di quello della terra: – Ahimè!, rispose gridando la misera, tutto il fuoco della terra paragonato a quello del Purgatorio è come un soffio d’aria freschissima. -. E come ciò è possibile? sog­giunse il religioso. Bramerei farne la prova a condi­zione che ciò giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire in Purgatorio. – Nessun mortale, replicò allora quell’anima, potrebbe sopportare la minima parte di quel fuoco senza mo­rirne all’istante tuttavia se tu, vuoi convincertene, stendi la mano: – Il padre, senza sgomentarsi, porse la mano, sulla quale il defunto avendo fatto cadere una goccia del suo sudore, o almeno di un liquido che sembrava tale, ecco all’improvviso il religioso emettere grida acutissime e cadere in terra tramortito, tanto era grande lo spasimo che provava. Accorsero i suoi confratelli, i quali prodigarono al poveretto tutte le cure, finchè non ottennero che ritornasse in sè. Allora egli pieno di terrore raccontò lo spaven­toso avvenimento, di cui egli era stato testimone e vit­tima, conchiudendo il suo discorso con queste parole – Ah! fratelli miei, se ognuno di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai facciamo penitenza in questa vita, per non doverla poi fare nell’altra, perché terribili sono quelle pene; com­battiamo i nostri difetti, e correggiamoli, e special­mente guardiamoci dai piccoli falli, poichè il Giudice divino ne tiene stretto conto.

La maestà divina è tanto santa che non può soffrire nei suoi eletti la minima macchia. – Dopo di che si pose in letto, ove visse per lo spazio di un anno in mezzo ad incredibili sof­ferenze prodottegli dall’ardore della piaga che gli si era formata sulla mano. Prima di spirare esortò nuo­vamente i suoi confratelli a ricordarsi dei rigori della divina giustizia, e quindi morì nel bacio del Signore. Lo storico soggiunge che questo esempio terribile ria­nimò il fervore in tutti i monasteri, e che i religiosi si eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, affine d’essere salvi da così atroci supplizi.

Un fatto quasi uguale avvenne alla beata Caterina da Racconigi (Diario Domenicano, Vita della Beata, 4 Sett.).

Una sera, mentre ella assalita dalla febbre stava co­ricata in letto si mise a pensare agli ardori del Pur­gatorio, e secondo la sua abitudine, rapita di lì a poco in estasi, fu condotta da nostro Signore in quel luogo di pena.

Mentre osservava con terrore quegli ardenti bracieri e quelle fiamme divoratrici, in mezzo alle quali son trattenute le anime che hanno ancora da espiare qual­che fallo, udì una voce che le disse: – Caterina, af­finchè tu con maggior fervore possa procurare la libe­razione di queste anime, sperimenterai per un istante nel tuo corpo le loro sofferenze. – In questo mentre una favilla di quel fuoco andò a colpirla nella guan­cia sinistra: le consorelle che si trovavano vicino a lei per curarla videro benissimo questo fatto, e nel tempo stesso osservarono con orrore che il viso di lei si gon­fiò in maniera spaventosa, mantenendosi poi per più giorni in quello stato.
La Beata raccontava alle sue sorelle che tutti i patimenti da lei sofferti fino a quel momento (ed erano stati molti), erano nulla a para­gone di quello che le faceva soffrire quella scintilla. Fino a quel giorno erasi sempre occupata in modo tutto speciale di sollevare le anime purganti, ma d’al­lora in poi raddoppiò il fervore e l’austerità per acce­lerare la loro liberazione, poichè sapeva omai per espe­rienza il gran bisogno che quelle hanno d’essere sot­tratte ai loro supplizi.
Racconteremo ora quanto accadde a Sancio virtuo­sissimo re di Spagna, com’è riferito da Giovanni Va­squez. (Cronica, an. 940)

Questo principe, fervente cristiano, morì avvelenato da uno de’ suoi vassalli. Dopo la sua morte la con­sorte Guda non cessava di pregare e di far pregare pel riposo di quell’anima: fece celebrare un numero immenso di Messe, e per non separarsi da quelle care spoglie, prese il velo nel monastero di Castiglia, dove era stato sepolto il corpo del consorte. Indi a qualche tempo mentre un sabato ella stava pregando con gran fervore la SS. Vergine per la liberazione del defunto, le apparve costui, ma oh Dio! in qual misero stato! Era vestito in gramaglia, e per cintura portava doppio giro di catene arroventate, e rivolgendosì a Guda, le dìsse: – Ti ringrazio delle preghiere che fai per me e delle Messe che facesti celebrare in mio suffragio, ma prosegui, te ne prego, in quest’opera caritatevole. Se tu sapessi quanto io soffro faresti certamente assai di più, e il tuo zelo nel sollevare me, che tanto amasti sulla terra e che non hai cessato di amare, aumente­rebbe d’assai. Per le viscere della divina misericordia soccorrimi, o Guda, soccorrimi, poichè queste fiamme mi divorano! – La pia Regina incominciò allora a raddoppiare preghiere, digiuni e buone opere affin di sollevare quell’anima si duramente martoriata.

Per quaranta giorni non cessò di piangere a calde lacrime per ispegnere le fiamme che divoravano il suo povero marito; fece dispensare larghe elemosine ai poveri a nome del defunto, fece celebrare un gran numero di Messe, e a tal fine donò al monastero splendidi arredi. Passati i quaranta giorni le apparve nuovamente il Re, ma libero dalle catene di fuoco, e invece di gra­maglia, ricoperto di un manto candidassimo, nel quale Guda riconobbe con sorpresa quello da lei donato alla chiesa del monastero, e che scomparso all’improvviso – dalla sacristia, si credette involato dai ladri. – Ecco, le disse il Re; grazie a te, io son libero e non ho più nulla a soffrire; sii benedetta per sempre! Persevera nei tuoi pii esercizi, e medita spesso sul rigore delle pene dell’altra vita e sulle gioie del Paradiso, dove io vado ad aspettarti. – A tali detti la Regina, piena di gioia, volle tendere le braccia verso il defunto con­sorte, ma questo disparve lasciando in mano di lei il mantello, che ella rese alla chiesa cui lo aveva donato la prima volta.

Assai interessante il fatto seguente, che leggiamo nella vita di S. Nicola da Tolentino. Un sabato, di notte, mentre il Santo dormiva, vide in sogno una povera anima del Purgatorio, che lo supplicò di ce­lebrare nella mattina seguente il divin Sacrificio per lei e per molte altre anime che soffrivano in Purgato­rio. Il Santo, avendo riconosciuto la voce di chi gli parlava, senza potersi tuttavia ricordare a quale per­sona a lui nota appartenesse, domandò allo spirito chi – fosse. – Io sono il tuo defunto amico Fra Pellegrino da Osimo, che purtroppo sarei andato dannato senza il soccorso della divina misericordia; mi trovo in luogo di pena; ho bisogno del tuo aiuto, ed anche a nome di molte altre anime infelici vengo a supplicarti di voler celebrare per noi domani la santa Messa, dalla quale attendiamo la liberazione, o almeno un gran sol­lievo dalle nostre pene. –

Voglia il Signore appli­carti i meriti del suo Sangue prezioso, rispose il San­to, ma in quanto a me, non posso soccorrerti domani col suffragio che mi domandi, perchè essendo offician­te di settimana, siccome domani è giorno di festa, non potrei celebrare all’altare del coro la Messa dei defun ti. – Deh! vieni, vieni almeno con me, gridò allora il defunto con lacrime e sìnghiozzi, te ne scongiuro per amor di Dio, vieni a contemplare le nostre soffe­renze, e non sarai più sì crudele da negarmi il favore che ti domando: so che il tuo cuore è troppo buono perchè tu possa più oltre lasciarci in tante pene. ­

Parve allora al Santo di essere trasportato in Purga­torio, dove vide una vasta pianura, nella quale una moltitudine di anime di tutte le età e condizioni erano tormentate con vari ed atroci supplizi. E qui biso­gnerebbe la penna dell’immortale Alighieri, del can­tore sublime dell’Inferno e del Purgatorio per riferire i tormenti indicibili da cui vide il Santo afflitte quelle povere anime, e forse l’immaginazione stessa di Dante impallidirebbe dinanzi a tanto spettacolo di dolore. Non ci proveremo quindi a farlo, ma diremo solo che quegli spiriti penanti imploravano in coro coi gesti e colla voce gemente l’aiuto di san Nicola, al quale Fra Pellegrino disse: – Ecco, come vedi, la situazione di quelli ché mi hanno a te inviato: essendo tu caro al Signore, confidiamo che nulla rifiuterà egli all’obla­zione del santo Sacrificio compiuta dalle tue mani, e siamo sicuri che la divina misericordia ci libererà. – Sparita in tal modo l’apparizione, il Santo non potè frenare le lacrime alla considerazione di sì straziante spettacolo, e postosi in preghiera per tutto il resto della notte, appena albeggiato corse a trovare il priore per raccontargli l’accaduto. Questi, penetrato dalla descrizione di quelle pene, lo dispensò non solo per quel giorno, ma per l’intera settimana dall’ufficio di ebdomadario, onde potesse durante quel tempo offrire il divin Sacrificio a sollievo di quelle povere anime.

Il Santo in quel giorno e per tutta la settimana celebrò la Messa con straordinario fervore, dedicandosi inol­tre giorno e notte alla pratica delle virtù e delle peni­tenze più austere, prolungando le sue veglie e le sue orazioni, digiunando a pane ed acqua, martoriando il suo corpo con discipline e portando una catena di fer­ro strettamente serrata ai fianchi. Al termine di quei sette giorni, il Santo ebbe la consolazione di vedersi nuovamente comparire Fra Pellegrino, non più in mezzo a quelle orribili torture, ma ricoperto di una veste candidissima e circondato di splendori celesti, in mezzo ai quali gioivano molte altre anime bene­dette, che tutte salutarono il Santo, chiamandolo loro liberatore, e cantando mentre salivano al cielo: Sal­vasti nos de af fligentibus nos, et odientes nos confu­disti! (Ps. 43, 7)

Un altro fatto assai impressionante si legge nelle cronache domenicane a proposito del fuoco del Pur­gatorio (v. Ferdinando di Castiglia, Storia di S. Do­menico, 2a parte, libro I, cap. a3).

A Zamora, città del regno di Leon in Spagna, vi­veva in un convento di Domenicani un buon religio­so, legato in santa amicizia ad un Francescano, uomo anch’egli di esimia virtù. Un giorno in cui i due frati s’intrattenevano fra loro di cose spirituali, si promi­sero scambievolmente che il primo che fosse morto sarebbe apparso all’altro, se cosa Dio fosse piaciuto, per informarlo della sarte toccatagli nell’altro mondo.

Morì per primo il Francescano, e, fedele alla sua pro­messa, apparve un giorno al religioso Domenicano mentre stava preparando il refettorio, e – dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere bensì salvo, ma che gli rimaneva ancora molto da soffrire per una infinità di piccoli falli, dei quali non si era emendato durante la vita. Poi soggiunse: – Niente v’è sulla terra che possa dare un’idea delle mie pene. – E perchè l’amico ne avesse una prova, il defunto stese la destra sulla tavola del refettorio, dove l’impronta rimase così profonda, quasi vi aves­sero applicato sopra un ferro rovente. Quella tavola si conservò a Zamora fino al termine del ‘700, epoca nel­la quale le rivoluzioni politiche la fecero sparire in­sieme con tanti altri ricordi di pietà dei quali abbon­dava l’Europa.


     

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