Piccolo trattato di vita spirituale – II
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Il peccato come attaccamento alla vita
Purificarsi vuol dire morire un po’ ogni giorno a se stessi. Ma a noi la morte ripugna. La morte è l’estrema passività dei nostri desideri, è l’abdicazione totale dai nostri progetti. Sta qui la radice di ogni nostro peccato: non vogliamo morire, non vogliamo rinunciare alle realtà di cui è piena la nostra vita. Ogni nostro peccato nasconde questo spasmodico attaccamento alla vita.
Dice la lettera agli Ebrei a proposito del mistero dell’Incarnazione: «Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli [il Figlio di Dio] ne è divenuto partecipe per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Ebr 2, 14-15).
Purificarsi dal peccato significa, dunque, liberarsi da questo timore angoscioso della morte, che è la catena con la quale lo spirito del male ci tiene legati a sé. Morte e peccato sono realtà tra loro congiunte non solo perché la morte è metafora e conseguenza del peccato, ma perché c’è un rapporto reale tra peccato e rifiuto della morte, come estrema spogliazione di tutti gli egoismi naturali dell’uomo.
Una via ardua, in salita La purificazione dal peccato vero e proprio è solo il primo passo di un cammino lungo e faticoso. San Giovanni della Croce descrive con precisione le varie tappe di questo cammino in salita: dall’oscuramento della sensibilità e dell’immaginazione, alla perdita dell’intelligenza o dello stupore intellettivo, al calare delle tenebre più profonde. Dio è oltre tutto ciò che l’uomo può sentire, immaginare, comprendere, desiderare con le sue sole forze naturali.
L’uomo spirituale va di crisi in crisi, penetrando progressivamente in un vuoto che lo spaventa. Perché si tratta di chiudere progressivamente gli occhi alla luce che lo ha guidato fino a quel momento per penetrare sempre più a fondo nell’oscura notte della fede. Notte avara di emozioni, di consolazioni, di conforto. Si tratta di «passare da una luce che è tenebra a una tenebra che è luce», come dice san Gregorio Nisseno.
Ma questa notte oscura che l’uomo spirituale deve attraversare ha i suoi tempi e le sue ore: l’ora del buio profondo nel pieno della notte e l’ora che conosce i primi bagliori dell’alba ormai prossima. Sono i preannunci della luce. Al vuoto totale, all’assenza e al silenzio completo di Dio per i nostri sensi e per la nostra intelligenza, ecco che succede una presenza nuova, ancora oscura, ma che s’illumina man mano in forza di una fede sempre più sicura e perspicace.
L’uomo spirituale avverte un bel giorno, improvvisamente, che il Signore è vicino e lo chiama: «Il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11, 28). La trasformazione interiore Alla purificazione succede allora un progressivo cammino di trasformazione. È l’aspetto positivo della vita spirituale. Bisogna camminare ancora, ma non più per discendere negli abissi della mortificazione, dello spogliamento. Per salire passo passo l’erta che porta all’unione con Dio e alla trasformazione in lui, guidati dalla luce del suo Spirito, in un abbandono docile e crescente alle sue voci, alle sue ispirazioni, alle sue illuminazioni.
Se c’è una cosa che dovrebbe preoccuparci, ormai, è la docilità allo Spirito Santo, che diventa il nostro unico maestro interiore. Egli esercita la sua attrattiva in noi con forza e dolcezza insieme. La sua presenza occupante è tanto più efficace quanto più trova libero il nostro cuore da altri interessi e distrazioni. Ci conduce lentamente a custodirlo in noi stessi, in un silenzio e in un raccoglimento pacifico, che è la condizione del suo operare nascosto. «Pace a voi – dice Gesù ai discepoli dopo la risurrezione -. Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20, 21 s). E lo Spirito nascosto in noi innalza di giorno in giorno la sua lode al Padre, senza strepiti o interruzioni. «Silentium tibi laus»: il silenzio è la tua lode.
P. Alessandro Scurani S.I.
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