Padri di ieri
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“Nunc et in hora…mortis nostre…amen”. Non è la voce pacata e sicura del Principe a ricordare il mistero doloroso, né il salone di Villa Salina, il luogo in cui la vecchia, da un inginocchiatoio posticcio, biascica meccanicamente il rosario nel latino delle beghine. Il luogo è il salone spoglio e angusto di Villa Margherita, una delle tante case di riposo, o meglio, per dare alle cose il proprio nome, uno dei tanti ospizi ai piedi dei Colli Albani dove i vecchi vengono mandati a morire. Il vecchio sulla sedia a rotelle, che guarda fisso oltre la porta finestra, verso l’enorme magnolia che domina gran parte del giardino, è tra i pochi a non partecipare alla preghiera.
Dopotutto, Dio non ha mai abitato nella sua mente, neanche quando questa sarebbe stata in grado di ospitarlo. Cosa che non gli ha impedito di battezzare i suoi due figli, farli cresimare e comunicare e, per proteggerli da antichi pregiudizi, di certo non avrebbe avuto niente in contrario se, sposandosi, avessero aderito al rito di Santa Romana Chiesa.
Invece, la scelta della convivenza e del matrimonio civile stava ad indicare che i figli, malgrado l’educazione cattolica fatta di catechismo, oratorio e nonne bigotte che li trascinavano a messa la domenica, una qualche influenza, da parte di quell’uomo che non aveva mai cercato in loro dei nuovi adepti per il suo ateismo, l’avevano comunque subita.
Forse nel corso delle sue rare dispute religiose, quando la sua incontrollata foga oratoria, superando il confine che s’era imposto per la presenza dei ragazzi, lo portava a dire, temerariamente, che non servivano comandamenti divini o precetti evangelici per guidare le azioni dell’uomo. Credendo di citare Bakunin e non Agostino d’Ippona, sosteneva ne bastasse uno solo: Ama e fa ciò che vuoi. Anche se per umana debolezza, come tutti, spesso ne metteva in pratica solo la seconda parte.
Il cielo di novembre è terso e non fa freddo. Il vecchio sulla sedia a rotelle tace. Lo sollevo un po’, gli faccio indossare una felpa pesante e lo spingo fuori, tutt’uno col suo triste ammennicolo. Lui se ne sta immobile, davanti alla sua magnolia, in uno stato di quasi cosciente rassegnazione, come a volermi rassicurare che i miei timori, quelli di una sua ribellione, di un sussulto d’orgoglio che risvegli i suoi istinti aggressivi, ormai sono solo inutili. In un lampo di lucidità forse ha capito che non morirà a casa sua.
Il cielo di novembre è terso e non fa freddo. Il vecchio sulla sedia a rotelle tace. Lo sollevo un po’, gli faccio indossare una felpa pesante e lo spingo fuori, tutt’uno col suo triste ammennicolo. Lui se ne sta immobile, davanti alla sua magnolia, in uno stato di quasi cosciente rassegnazione, come a volermi rassicurare che i miei timori, quelli di una sua ribellione, di un sussulto d’orgoglio che risvegli i suoi istinti aggressivi, ormai sono solo inutili. In un lampo di lucidità forse ha capito che non morirà a casa sua.
Non chiede più nemmeno dell’Innominabile, il capocomico da avanspettacolo permanente che va in onda ogni giorno in un’Italia in caduta libera. Mi domando dove sia finita la sua esuberanza, quell’agilità di gesti e di parola che solo un anno fa ostentava con la tracotanza di un ragazzino. Faccio fatica a riconoscere in questo uomo novantenne, quasi demente, il genitore “illuminato” che sosteneva le mie prime lotte politiche, in quella splendida stagione romantico giacobina in cui lo sfogo delle inquietudini giovanili era la piazza e il mondo sembrava a portata di mano.
In realtà nel suo sostegno, tout court solo in apparenza, si poteva cogliere un principio d’immenso valore educativo: la conquista del diritto all’indignazione attraverso lo studio, l’impegno, la non ricattabilità. La cultura dei diritti deve procedere di pari passo, sempre, con quella dei doveri. Questa la lezione che nella vita mi accompagna ancora e che cerco ogni volta di trasmettere ai giovani. Adesso è completamente “dissociato”. Mi chiede della casa dove è nato, se ci abita ancora suo padre; della moglie, morta sei anni fa, non parla più da tempo. Conserva intatta la memoria del passato, nulla o quasi di quella del presente.
La mia sofferenza si trasforma in pena, il peggiore dei sentimenti perché, come la “tolleranza”, esclude l’uguaglianza. E la pena porta con sé il rimorso, che a volte si tenta di lenire, più o meno ingenerosamente, discreditando l’immagine della persona cara con il ricordo dei suoi lati peggiori.
La mia sofferenza si trasforma in pena, il peggiore dei sentimenti perché, come la “tolleranza”, esclude l’uguaglianza. E la pena porta con sé il rimorso, che a volte si tenta di lenire, più o meno ingenerosamente, discreditando l’immagine della persona cara con il ricordo dei suoi lati peggiori.
Ecco allora, accanto all’uomo di sinistra con i suoi sani e rigidi principi, l’arrogante atteggiamento del padre padrone, il suo malcelato maschilismo, i torti e le sofferenze inflitti a mia madre, i rimproveri gratuiti e gli atti violenti, corollario dei suoi eccessi d’ira; gli insuccessi dei suoi figli vissuti come un affronto personale e non come normale fase di un percorso esistenziale; il vanto esagerato per i loro successi di cui, smascherando il suo smisurato egoismo, si è sempre servito per dare lustro a se stesso.
Sui colli scende la sera e l’aria si fa umida. Devo andare, è bene che lo riporti dentro. Tornerò presto, non so se lo ritroverò vivo. Uno che per scelta non ha voluto figli, quando sarà il momento, non saprà se dirgli grazie o salutarlo semplicemente con un addio, come una persona che ha fatto soltanto il suo dovere.
Alvaro Colombi
“Incontrosenso”
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