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Ogni albero si riconosce dal suo frutto

21 Agosto 2011 | Filed under: Medjugorje, Pareri autorevoli
     

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Sulla «verità» di Medjugorje non si potrebbero avere dubbi, se le si applicasse il criterio enunciato da Gesù stesso: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo… Ogni albero si riconosce dal suo frutto…» (Lc 6,43). Tre decenni di esperienza mostrano quanto sia stato e sia spiritualmente abbondante e eccellente il raccolto prodotto da quell’albero cresciuto inaspettatamente nei Balcani.
Erano i primi anni Ottanta, le autostrade erano cosa da Paese capitalista, per attraversare l’Istria e poi scendere verso Sud, lungo la riviera dalmata, non c’era che la vecchia strada federale, angusta e pericolosa. Quando stavo finalmente per giungere alla meta, incappai nel posto di blocco della Milizia comunista: domande sospettose, perquisizioni, sequestro della Bibbia che avevo con me, ammonimenti a non fare «proselitismo». Ero tra i primi a giungere in quel luogo aspro e remoto, dal nome significativo: Medjugorje, in mezzo ai monti.
Dal passaparola più che dai media, che davano solo poche e imprecise notizie, avevo saputo che un gruppo di giovanissimi affermava di «vedere la Gospa», la Signora, la Madonna. E che la cosa stava coinvolgendo folle crescenti nella Jugoslavia orfana di Tito da un anno e dove la religione era ancora una sorvegliata speciale. Partii, dunque, più che da devoto, da giornalista e da studioso del fenomeno delle apparizioni mariane, da amico e discepolo dell’abbé Laurentin, il maggiore storico di Lourdes e divenuto poi il più autorevole autore su Medjugorje…….. 

 

…….Così, grazie alla tempestività del viaggio, fui tra i pochi che ebbero un privilegio invidiato poi dai milioni di pellegrini che seguirono. Quello che chiamavano «l’Incontro» avveniva all’imbrunire nella sagrestia della moderna e strana chiesa del luogo: strana perché enorme, in mezzo a una sorta di deserto stepposo e pietroso, un gigantesco edificio per una parrocchia povera e minuscola, come per l’intuizione che lì sarebbero accorse delle folle. La sagrestia era stipata da gente in piedi, ma tra i francescani qualcuno aveva letto la traduzione di qualche mio libro e mi concessero di pormi in prima fila.
Dovetti sgomitare per mantenere la posizione, cui non volevo rinunciare: per la prima volta potevo assistere a un fenomeno che avevo conosciuto solo su libri e documenti polverosi. Arrivarono i sei giovanissimi, dai 6 ai 16 anni, cominciarono a pregare ad alta voce, anch’essi in piedi. Non avevano davanti una statua o una immagine, guardavano verso l’alto. Ad un tratto, la preghiera si interruppe e, in sincronia, si lasciarono cadere sulle ginocchia, a corpo morto, con un tale tonfo che pensai a rotule fratturate.
Invece, sul volto dei ragazzi, comparvero i segni di una enigmatica trasformazione: si illuminarono, tutti, con un sorriso e, alternandosi, cominciarono un dialogo che si intuiva dalle labbra che si muovevano, senza che noi spettatori udissimo alcun suono. Ero lì come osservatore doverosamente critico, non cedetti all’aura di misticismo che impregnava il piccolo locale sovraffollato, scrutavo il volto dei giovani, a un paio di metri di distanza. Erano, lo dicevo, in sei, inginocchiati uno accanto all’altro: la visione doveva muoversi, perché la seguivano con lo sguardo.
Fissai l’attenzione sugli occhi, constatando che tutti si muovevano in sincronia e nella stessa direzione: eppure, in quella posizione, l’uno non poteva vedere l’altro, era evidente che seguivano «qualcosa» che tutti vedevano e che si spostava nell’aria, davanti a loro. Eguale sincronia nell’alternarsi dei sorrisi e delle espressioni addolorate: nel colloquio la Gospa, se davvero di Lei si trattava, alternava parole amorevoli ad avvertimenti inquietanti e i ragazzi reagivano all’unisono.
Ma, lo dicevo, vista la posizione, non era possibile che si spiassero e si imitassero a vicenda. In perfetta contemporaneità fu anche la fine, dopo circa un quarto d’ora. I sei riebbero il volto di sempre, non più trasfigurato, ritrovarono la voce udibile anche da noi per una preghiera, si alzarono e si allontanarono. Raggiungevano il francescano, loro padre spirituale, che li attendeva nella casa parrocchiale e a lui davano relazione dell’incontro e comunicavano il «messaggio».
Non conoscendo il croato, per giunta nella particolare forma dialettale parlata in Erzegovina, non fui in grado di constatare di persona quanto mi avevano assicurato quei religiosi. I ragazzi, cioè, venivano interrogati subito e separatamente: la coincidenza dei loro resoconti si aggiungeva alla coincidenza dei loro sguardi e delle loro mimiche facciali durante «l’Incontro».

Trent’anni sono passati da quel giugno 1981 in cui tutto ebbe inizio, non sono più tornato in quei luoghi, ma non ho cessato di informarmi e, soprattutto, di imbattermi in chi vi era stato: gente di ogni età, condizione, livello culturale. Eppure protagonisti, tutti, di un’esperienza che considerano importante e non pochi addirittura decisiva. Ho visto vite cambiate, vocazioni religiose sbocciate, pratiche religiose riscoperte.
Sulla «verità» di Medjugorje non si potrebbero avere dubbi, se le si applicasse il criterio enunciato da Gesù stesso: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo… Ogni albero si riconosce dal suo frutto…» (Lc 6,43). Tre decenni di esperienza mostrano quanto sia stato e sia spiritualmente abbondante e eccellente il raccolto prodotto da quell’albero cresciuto inaspettatamente nei Balcani.

Ma, per Medjugorje, è avvenuto il contrario che per Lourdes o per Fatima, dove la negazione è giunta da atei, laicisti, anticlericali. Qui, entrambi i due vescovi succedutisi alla guida della diocesi hanno assunto un atteggiamento sempre più negativo, sino a parlare di «una delle maggiori truffe nella storia della Chiesa». Altrove, poi, la difesa delle apparizioni ha caratterizzato i cattolici tradizionalisti, mentre quelli cosiddetti «aperti» esprimevano dubbi.
Anche qui, le posizioni sono invertite: sono i seguaci di mons. Lefebvre che negano polemicamente che possa essere «vera» una Madonna nei cui messaggi ravvisano quelle che chiamano «deviazioni eretiche conciliari». Credenti pubblicano dossier dal titolo Medjugorje: è tutto vero. Ma altri credenti replicano con instant book: «Medjugorje: è tutto falso». Lo stesso episcopato è diviso: vi è il vescovo (magari il cardinale, come quello di Vienna) che si reca di persona in pellegrinaggio e chi fa rispettare puntigliosamente ai suoi preti il divieto di Roma di guidare ufficialmente dei gruppi.

Per la Santa Sede, Medjugorje è un dilemma tormentoso. Da un lato si riconosce con gratitudine l’abbondanza dei frutti spirituali, dall’altro lato non si dimentica il vulnus al diritto canonico, con un tale movimento mondiale combattuto dagli ordinari del luogo, cui spetta il discernimento. Al punto in cui si è giunti, una sconfessione ufficiale della verità dei fatti da parte di Roma sarebbe una catastrofe sul piano pastorale.
Ma catastrofico sarebbe anche il contrario: una smentita ufficiale, cioè, della posizione di due vescovi che negano senza esitazione la soprannaturalità e parlano non di miracoli, ma di truffe e inganni. Questo avrebbe effetti inediti e imprevedibili sul diritto ecclesiale. Non c’è da invidiare, davvero, il cardinal Ruini, responsabile della commissione ufficiale d’inchiesta: è possibile che neanche la sua lunga esperienza e la riconosciuta prudenza riusciranno a chiarire questa sorta di «mistero» del rosario che sembra, al contempo, «gaudioso» e «doloroso».
Vittorio Messori
Corriere.it


     

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