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Morale – Il peccato veniale

22 Luglio 2011 | Filed under: Biblioteca
     

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Il peccato veniale

Considerazioni ed esempi

del Venerabile Don Andrea Beltrami

Vi presento qui alcuni pensieri ed esempi, ricavati dalla Sacra Scrittura, dai Pa­dri e dalle vita dei Santi intorno al pec­cato veniale, non già coll’intenzione di erigermi a maestro, ma unicamente per cercare insieme di concepire un sommo orrore all’offesa di Dio, che è il più gran male che esista al mondo, male superiore a tutte le disgrazie temporali ed alla morte stessa.

« Il peccato veniale! ».

Ecco il grande nemico della perfezione cristiana, alla quale noi tutti tendiamo; ecco l’ostacolo che c’impedisce di progre­dire nell’amore di Dio. Un’anima che desidera veramente di salire sul monte del­la Santità, deve muovere guerra spietata ai suoi difetti, alle colpe veniali, e non riposarsi mai finchè non li abbia stermi­nati.

Ognuno sa quanto il nostro dolcissimo, Padre Don Bosco odiasse il peccato e quanto si sforzasse per ingenerare nei­ suoi figli tale orrore. Nell’affidare a qual­che coadiutore l’ufficio di portinaio nei collegi, che andava aprendo, non man­cava mai di raccomandargli sorridendo: « Bada bene di non lasciar entrare nella casa né il peccato né la morte »……. 


………Quando veniva a conoscere che qual­cuno dei suoi giovani aveva commesso qualche peccato, ne sentiva tal pena al cuore, per l’offesa che in casa sua si era fatta a Dio, che gli cagionava tosto mal di capo e lo si vedeva perdere l’appetito e il sonno e passare notti intere sospiran­do, pregando e domandando a Dio per­dono per il disgraziato. Così avveniva al­ santo re Davide: « Exitua aquarum de­duxerunt oculi mea, quia non custodie­runt legm tuam (Ps. CXVIII, 136) ». Rivi di lagrime hanno sparso i miei oc,chi, perchè non hanno osservata la tua legge. « Tabescere me fecit zelus mens quia obliti sunt verba tua inimica mea (Id. 139) ». Il mio zelo mi consumò, per­achè i miei nemici si sono scordati delle tue parole. « Vidi praevaricantes et tabe­scebam, quia eloquia tua non custodie­runt (Id. 158) ». Vidi i prevaricatori e mi consumavo di pena, perchè non hanno osservate le tue parole. – E mentre il no­stro carissimo Padre si mostrava così sen­sibile dinanzi alla più piccola offesa di Dio, non si turbava affatto quando capi­tavano disgrazie temporali, anche gra­vissime, a sé o alla Congregazione, e le riceveva con perfetta rassegnazione all’Adorabile Volere divino.

Nell’incendio gravissimo del 1883, che recò tanto danno all’Oratorio, mentre tutta la casa era sossopra ed il terrore si era impossessato di ognuno, egli solo ri­mase tranquillo e sereno, come se il fuo­co bruciasse roba d’altri. Il triste annun­zio gli fu arrecato in refettorio, quando era ancora seduto a mensa. Non una nu­be di mestizia o di timore compare su quella fronte veneranda, che già pareva illuminata dai primi albori del Paradiso… Solamente domandò se mai alcuno si fos­se fatto male, come tenero padre che è sempre sollecito della salute dei suoi ca­ri figli, salute che antepone a tutte le ric­chezze del mondo. Egli pesava i mali tem­porali nella bilancia della fede, e bere sa­peva che la perdita anche di tutte le so­stanze era sempre inferiore al minimo peccato veniale. Io non dubito che egli non fosse pronto, per impedire la più pic­cola offesa di Dio, di soffrire qualsiasi tor­mento e persino la morte.

Si degni il nostro dolcissimo Padre co­municarci questa santa delicatezza di co­scienza, che ci farà progredire a grandi passi nella via della perfezione. Forse per acquistarla potrà anche giovare la lettura del trattatello che io vi offro. L’idea di comporlo mi venne appunto mentre pre­gavo ai piedi della sua tomba veneranda;­ e più volte sono disceso in quella cara cappella per domandare i lumi necessari. Vivete felici e ricordatevi di me nelle vo­stre orazioni

Affez. iin G. C.  Sac. ANDREA BELTRAMI  Seminario delle Missioni Valsalice (Torino.)

Capo I

PREGIUDIZI GROSSOLANI

Intorno al peccato veniale abbiamo pre­giudizi grossolani, che riescono di gran­de danno al nostro profitto spirituale. Persuasi che sia cosa da nulla, lo com­mettiamo ogni giorno e direi quasi ogni ora, senza pensare alla malizia che rac­chiude in sé, alle tristi conseguenze che lascia ed ai castighi che ci accumula sul capo dall’Eterna Giustizia.

«E’ una colpa veniale, diciamo se non con le parole almeno coi fatti; è un’im­perfezione che si lava con acqua santa, con un segno di croce o con una giacula­toria; e non dobbiamo essere tanto scru­polosi. Non v’è neppur l’obbligo di con­fessarcene, perchè non toglie la grazia di Dio. Se avessi a guardarmi dalle bugie, dal ridere a spalle altrui, dalle piccole go­losità, non la finirei più. Dovrei stare con­tinuamente su me stesso, condurre una vita mesta; ed avrei timore di cadere in scrupoli e rompermi il capo ». Ma non così ragionavano i Santi. Con­templando le cose alla luce divina, essi nutrivano un orrore estremo al peccato veniale e gli mossero guerra a morte, pronti a subire qualunque pena, piutto­sto ché commetterlo.

Udite il concerto armonioso, che s’in­nalza dalle loro vite e che rende splen­dido omaggio alla Giustizia ed alla Bon­tà divina, mentre fa uno strano contra­sto con la nostra vergognosa condotta.

« Amo meglio, esclama Sant’Edmondo, gettarmi in un rogo ardente, anziché commettere avvertitamente qualsiasi peccato contro il mio Dio». Santa Cate­rina da Genova getta uno sguardo sul­I’azzurra immensità dell’oceano, pensa al mare di fuoco che sommerge i dannati nell’inferno, come i pesci nell’acqua; e da qui, com’è proprio delle anime amanti che vedono dovunque un segno dell’og­getto amato, risale a Dio, mare di bontà, e medita sui benefizi fatti all’uomo e sul­la malizia del peccato. Allora, fuori di sé per dolore, esclama: « O mio Dio, per fug­gire un peccato anche lieve, io mi gette­rei, se fosse necessario, in un abisso di fiamme e vi resterei per tutta l’eternità, piuttosto che commetterlo per uscirne.

La serafica vergine di Siena, Santa Ca­terina, uscita da un’estasi in cui aveva contemplata la bellezza di un’anima in grazia di Dio e la miseria di quella che è macchiata di peccato, scriveva: « Se l’a­nima, di sua natura immortale, potesse morire, basterebbe ad ucciderla la vista di un peccato veniale che ne scolorisse la bellezza! ».

Sant’Ignazio di Loiola insegnava spes­so ai suoi discepoli: « Chi è geloso della purità della sua coscienza deve confon­dersi alla presenza di Dio per i peccati più lievi, considerando che, Colui contro cui sono commessi è infinito nelle sue perfezioni; la qual cosa li aggrava di una malizia infinita ».

Ammaestrato da questi santi princìpi sant’Alfonso Rodriguez fece risuonare le mura del convento, di cui era portinaio, con quest’ammirabile ed eroica preghie­ra, che trova eco fedele in tutti i cuori veramente divorati dallo zelo per la glo­ria di Dio: « Prima soffrire, o Signore, tutte le pene dell’inferno, che commette­re un sol peccato veniale! ».

Nella storia della Chiesa si trovano spesso anime generose che sacrificarono la vita temporale, anziché salvarla con una bugia o con un peccato veniale. E’ ben noto il fatto di quel Santo che, ricer­cato a morte dall’imperatore, ricoverò in sua casa i soldati che andavano in cerca di lui, li trattò con ogni squisitezza, of­frendo loro cibo e ricovero per la notte. Arrivato il mattino, gli domandarono se avesse notizia di un cristiano, che non viveva secondo le leggi dell’impero ed era perciò stato condannato a morte. Ed egli confessò semplicemente che era lui stes­so; e si offerse pronto ad accompagnarli alla corte. Ma quei soldati, pieni di gra­titudine per le cure ricevute, gli propo­sero la fuga, assicurandolo che avrebbero riferito di non averlo trovato. Il Santo rifiutò recisamente per non farli cadere in una menzogna; ed andò coraggiosa­mente incontro al martirio.

Così ragionano e così operano i Santi. Chi ha ragione, il mondo o questi eroi, seguaci delle massime del Vangelo? Noi che valutiamo le cose alla luce del tem­po, od essi che le considerano alla luce infallibile dell’eternità? Noi, che con lo sguardo miope vediamo solo la terra coi suoi beni miserabili, o essi che con la pu­pilla dell’aquila contemplavano il mondo avvenire e le gioie immortali del Cielo?

Capo II

IL SUICIDIO SPIRITUALE

Che cosa è il peccato mortale?

E’ la morte e la tomba dell’anima. Colui che commette una colpa grave, priva se stesso della Grazia santificante, uccide il suo spirito, lo copre come di un velo mortuario, lo chiude nella fossa; e se non lo risuscita con la penitenza, un’eter­nità di tormenti l’avvolgerà tra le sue fiamme divoratrici. In una parola, il pec­cato mortale è un suicidio spirituale.

Che cosa è il peccato veniale?

E’ la malattia dell’anima, è la lebbra del nostro spirito, che lo rende schifoso. Il peccato veniale non dà la morte all’a­nima, non la priva della grazia di Dio; ma la ferisce, la piaga, la copre come di un’ulcera. E come un’infermità che non è curata può condurre alla fossa, così la colpa veniale può disporre e condurre l’a­nima alla sua morte, cioè al peccato mor­tale.

Ah! se noi sentissimo i mali spirituali, come sentiamo le disgrazie temporali, e fossimo più sensibili dinanzi all’eternità che dinanzi al tempo, muteremmo idea intorno all’offesa di Dio (1). (1) Cristo pianse alla tomba del diletto amico Laz­zaro. I santi Padri, commentando il fatto, asseri­scono che quelle lacrime divine furono versate non già sul defunto che doveva tra poco rivivere, ma sulla morte spirituale del peccatore, di cui quella di Lazzaro era figura.

Quanta sol­lecitudine per la nostra salute corporale! E quanta noncuranza per la sanità spi­rituale! Appena abbiamo qualche raffred­dore o una febbriciattola, corriamo subi­to dal medico a domandar medicine, so­spendiamo il lavoro e sconvolgiamo mez­zo mondo. Invece, se ci accade di cadere in peccato, crolliamo le spalle ci adagia­mo in una deplorevole indifferenza, la­sciando che la nostra povera anima lan­guisca, senza curarci dei rimedi così fa­cili ed abbondanti che il buon Dio ci ha acquistato, a costo del suo preziosissimo Sangue, sul Calvario.

Un giorno il re di Francia San Luigi discorreva con un cortigiano dell’enormi­tà del peccato. Ad un tratto gli domandò se amava meglio diventar lebbroso od offendere il Signore. Il cavaliere, che si intendeva più di guerre e di armi che di religione, uscì in questo sproposito: « Pre­ferirei commettere qualunque peccato, piuttosto che prendermi tale malattia! ». « Ed io, replicò commosso il generoso re, sceglierei cento volte la lebbra, piuttosto che una sola offesa di Dio ».

Questa risposta pare sublime, straor­dinaria, eroica e da lasciarsi solamente al fervore magnanimo dei Santi. Ma c’in­ganniamo. E’ un sentimento che dovreb­be avere ogni cristiano, ogni religioso; è un sentimento che dovrebbe essere ordi­nario, naturale, comune a tutti quelli che credono in un Dio disceso dal Cielo e mor­to su un abominevole legno per espiare il peccato.

Nel Medio Evo era assai comune in Eu­ropa l’orribile malattia della lebbra, tra­sportata dall’Oriente con le Crociate; ed in molti luoghi si edificavano lazzaretti o lebbrosari per raccogliere quei disgra­ziati. Ora alcuni impetrarono dal Signore il terribile malore per espiare i loro pec­cati e farne penitenza in questa vita. Essi avevano certamente una giusta idea dell’offesa di Dio; e pesavano i mali tem­porali ed i mali eterni sulla bilancia del Vangelo.

Conosco un sacerdote religioso che fu visitato da Dio con una lunga malattia, la quale lo tiene continuamente sull’orlo della tomba. Molte sono le sue sofferenze fisiche e morali. Egli era nel flore dell’età, aveva le più belle speranze di lavorare nella vigna della Chiesa, sognava infini­te conversioni di anime, quando ad un tratto il Signore lo colpì di una inesora­bile malattia che troncò tutte le sue aspi­razioni. Nelle ore di sconforto, nei mo­menti in cui sente tutto il peso dei suoi mali e la natura piange tante belle spe­ranze svanite, egli ragiona così: « Che cosa è dopo tutto questa mia malattia? E’ una disgrazia inferiore a un solo pec­cato veniale. Io dovrei piangere assai più amaramente il più piccolo peccato com­messo, che non la sanità perduta. Corag­gio, dunque, anima mia, che non sei in­felice; più infelice è chi offende Dio ». Questo pensiero lo sostiene, lo conforta e gli rende dolce il patire.

Quel caro giovanetto, Domenico Savio, che profumò con le sue virtù l’Oratorio di S. Francesco di Sales, quasi cespuglio di rose nei lieti giorni di primavera, ave­va preso per suo programma queste ge­nerose parole: « La morte, ma non pec­cati ». E con la grazia di Dio fu fedele. Chi lo conobbe assicura che nessuna om­bra di peccato macchiò la candida stola della sua innocenza.

Capo III

SULLA BILANCIA DELLA FEDE

Vediamo il peccato veniale alla luce dell’eternità. Che cosa è mai? E’ un di­sordine che si commette col pensiero, con la parola, con l’azione o con l’omissione contro la legge del Signore, ma che non è cosa grave da farci incorrere nella sua disgrazia. Nei termini pertanto di questa colpa si rinchiude tutto ciò che costitui­sce un vero peccato, cioè: Dio che coman­da e l’uomo che ricusa di obbedire. Quin­di non vi è altra differenza tra il peccato mortale ed il veniale che dal più al me­no, cioè conoscenza più o meno perfetta, consenso più o meno completo, materia più o meno grave.

Ma è sempre un’indegna preferenza ac­cordata alla volontà dell’uomo su quella di Dio, e perciò è una vera offesa che si fa a Dio. Se lo confrontiamo col peccato gra­ve, il veniale è certo cosa lieve; ma se lo consideriamo in se stesso, è un affronto che racchiude una gravità infinita, per­ché offende una infinita maestà. La nostra terra paragonata al sole, a Sirio o ad al­tre stelle è come un granellino di sabbia perduta negli spazi; ma guardata in se stessa non è certo piccola; e le cinque parti del mondo con le loro sublimi mon­tagne ed i cinque oceani con la loro ster­minata quantità di acqua, offrono una estensione che sembra interminabile.

Bisognerebbe cambiare il nome al ve­niale. Al nostro orecchio, avezzo alle mas­sime del mondo, peccato veniale significa quasi cosa da nulla, peccato che non è peccato. Eppure è un’ingiuria che noi, vi­li esseri della terra, destinati alla corru­zione del sepolcro, impastati di ogni mi­seria, facciamo al Dio eterno, che con una parola distese il padiglione dei cieli e lo disseminò di stelle, pari a rubini brillan­ti; al Dio immenso che con una parola ci trasse dal nulla e con una parola, men­tre l’offendiamo, potrebbe riversarci nel nulla.

Mettiamo da un lato l’uomo con le sue miserie, dall’altro Dio con le sue infinite perfezioni, e poi vedremo se il peccato ve­niale è cosa da poco. I Santi sogliono pa­ragonare la colpa veniale ad una ingiu­ria che si fa a Dio, ad una crollata di spalle, mentre dicono che il peccato mor­tale è un pugnale piantato in cuore a Dio, Perchè, per quanto è in sé, nega, di­strugge, uccide il Creatore. E vi par poca fare un’ingiuria a Gesù Cristo che ci re­dense? Noi abbiamo forse pianto al leg­gere nel santo Vangelo l’empietà crudele di quel servo che diede uno schiaffo al Divin Redentore nel Sinedrio dinanzi a Caifa.

Quanto più dovremmo invece piangere sulle nostre colpe veniali, che insultano. più amaramente il dolce nostro Signore; dico più amaramente, Perchè quel servo non riconosceva in Gesù il Figlio di Dio, mentre noi lo conosciamo e pur l’offen­diamo.

Un cortigiano si guarda bene dal crol­lar le spalle quando il Re comanda. E Perchè noi le crolliamo a Dio con tanta facilità? Si! Perchè Dio è buono, noi abu­siamo della sua bontà. Egli non fa come il re Assuero che degradò la regina Vasti, solo Perchè non volle andare al suo con­vito e la sostituì con Ester: egli ci perdo­na e noi seguitiamo ad offenderlo.

Si racconta che Maometto II fece apri­re il ventre a quindici paggi per sapere chi avesse mangiato un frutto, colto nel giardino imperiale. Due suoi figli entra­rono in un parco di caccia che si era ri­serbato per sè e li condanna inesorabil­mente alla morte. Ma volendo poi riser­barsi un successore, fece tirare le sorti, quale dovesse morire e quale regnare.

Nei paesi non ancora illuminati dalla luce soave del Vangelo, questi fatti av­vengono di frequente, e perciò i cortigia­ni vegliano attentamente per non com­mettere nessun errore in presenza del monarca e stanno tremanti, attendendo gli ordini.

Quest’attenzione dovremmo averla noi verso il nostro buon Dio, non tanto per timore dei castighi, quanto per quell’amore filiale che rifugge dal disgustare un Padre affettuoso che ci ama come la pu­pilla del suo occhio. L’anima in grazia di Dio, uscita dal lavacro salutare del Battesimo o lavata dalla Penitenza, è bella come la luce dell’aurora, candida come il giglio, tersa come un cristallo. Ma il peccato veniale offusca questa bel­lezza divina di cui sfavilla, come quelle nubi che scolorano gli splendori del sole e rendono il grande astro del giorno lan­guido, pallido, quasi malato.

L’anima in grazia di Dio è una princi­pessa vestita a nozze, adorna di perle e diamanti, risplendente di vesti e di mo­nili preziosi, e diventa sposa di Gesù Cri­sto. Or bene il peccato veniale imbratta questa magnifica veste nuziale, le mac­chia il volto, quasi fosse stata colpita dal vaiolo e la rende meno bella, meno gra­dita all’Amante celeste.

Prendiamo la bilancia della Fede: po­niamo da un lato le lacrime tutte della povera umanità, dall’alba della creazione fino al giudizio, tutti i tormenti atroci dei martiri, le austerità degli anacoreti, i travagli, i dolori e la carità di tutti i Santi, tutte le opere buone fatte e che si faranno, le preghiere degli Angeli e, qua­lora gli astri siano abitati, le soddisfazio­ni ed i meriti di tutte quelle creature (1). Se dall’altro lato collochiamo un solo pec­cato veniale, la bilancia trabocca da que­sta parte, e rimane sempre piegata. fin­ché alle soddisfazioni delle creature non uniremo una soddisfazione od un sospiro, od una preghiera, od una goccia del San­gue dell’Uomo-Dio.

Il peccato veniale è un’offesa di una Maestà infinita; e per ripararlo ci vuole un risarcimento di valore infinito. Solo Gesù Cristo può riparare condegnamente l’offesa recata a Dio col peccato, che noi riteniamo cosa da poco. Né Maria, né i nove cori degli Angeli, né i Santi, lo po­trebbero fare. Quale confusione per la no­stra durezza di cuore, pronto sempre a disprezzare Dio per un nonnulla. Viola­bant me ad populum meum propter pu­gillum hordei et fragmen panis. Mi disonorarono dinanzi al mio popolo per un po’ d’orzo e per un tozzo di pane. Così diceva il Signore delle false profetesse di Israele.

E forse noi l’offendiamo anche per co­sa, da meno, per un puntiglio, per una cu­riosità, per appagare l’amor proprio, per salvarci da una riprensione.

I teologi per farci comprendere la ma­lizia del peccato veniale, ricorrono a sup­posizioni impossibili ad avverarsi, ma che dimostrano la grande verità che stiamo meditando.

Se con un peccato veniale si potessero spegnere le fiamme eterne dell’inferno e mandare tutti i dannati in Paradiso; se si potesse convertire il mondo tutto, non sarebbe lecito commetterlo; e noi do­vremmo rinunciare alla salvezza di tan­te creature per non disgustare l’infinita Maestà divina.

Sarebbe anche male minore di un pec­cato veniale, se tutti gli uomini andas­sero perduti eternamente, se l’universo si riducesse in polvere. E la ragione è sem­pre la medesima. L’offesa ed il danno, an­che eterno, delle creature finite e limita­te, non ha paragone coll’offesa recata a Dio, bontà infinita.

Caro Gesù! Quando finiremo di persua­derci che peccando anche venialmente contro di Te commettiamo un gran male? Quando ameremo talmente la tua glo­ria da anteporla alla vita ed alla morte, alle sostanze ed alle ricchezze ed a tutte le cose miserabili del tempo? Illuminaci con la tua santa grazia.

Capo IV

MICROBI DEL CORPO E DELL’ANIMA

Una nave, carica di merci preziose, usciva dal porto per recarsi ai celebri mercati di oriente. Era fortissima, forni­ta di robusti fianchi e pareva sfidare i venti e le tempeste. Nella stiva si formò una piccola spaccatura, appena visibile, e l’acqua cominciò a filtrare. Nessuno si accorse; e la fessura andò sempre più in­grandendosi, finchè una notte la nave ca­lò a fondo. Ecco la storia delle tristi con­seguenze del peccato veniale. Qui spernit modica, paulatim decidet (Eceli. XIX, 1). Chi disprezza le cose piccole, chi non tien conto delle venialità a poco a poco an­drà in rovina, cadrà in peccato mortale.

Seguitiamo pure a commettere difetti ad occhi aperti: Dio ritirerà le sue grazie, l’anima resterà indebolita e presto avre­mo a piangere qualche caduta fatale.­

La scienza moderna ha indagato ardi­tamente le cause delle malattie contagio­se e scoperto che traggono origine dai microbi, ossia esseri piccolissimi ed invi­sibili, che entrano nel corpo umano e si moltiplicano a dismisura consumando e distruggendo le membra. Poniamo la ti­si. Che cosa è mai questa infermità, che divora tanta gioventù nel fiore degli an­ni? E’ un bacillo o microbo che invade i polmoni ed a poco a poco li consuma.

L’infelice giovane comincia a tossire, scolorisce, dimagra; ed in breve tempo col cader delle foglie di autunno, discend­e nella tomba.

Se il male è preso in tempo, la medici­na potrà isolare od uccidere il bacillo mi­cidiale; ma, se si aspetta che abbia preso stanza e si sia moltiplicato, i rimedi non faranno che tormentare il povero amma­lato, e non allontaneranno da lui la morte.

Il peccato veniale è il bacillo, il micro­bo dell’anima, e se non si vince in tem­po, la disporrà al mortale.

Se gli Angeli potessero piangere, ver­serebbero lacrime amare al vedere l’uo­mo offendere con tanta facilità il suo Creatore, il suo Padre celeste, il suo Re­dentore, che per amore di lui prese la croce e s’incamminò per l’erta sanguino­sa del Golgota, per essere crocifisso.

Il demonio, sempre pieno di quell’astu­zia e malizia con cui sedusse Eva, non ci tenta subito di peccato mortale, perchè noi lo ributteremmo con orrore. Cerca di farci cadere in colpe veniali, le une più gravi delle altre, ci indebolisce e ci sner­va a poco a poco. Quando vede che siamo privi degli aiuti soprabbondanti del Si­gnore, svogliati nelle pratiche religiose, ormai deboli, allora ci assale arditamente e ci fa precipitare in colpa grave.

Cosi un capitano esperto, prima di as­salire la città, abbatte le fortificazioni avanzate, i terrapieni ed i parapetti; e passo passo avanza sotto le mura per da­re l’assalto definitivo.

Si narra che un prigioniero, rinchiuso in un’altissima torre, inventò questo stra­tagemma per fuggire. Legò ad uno ad uno i suoi lunghi capelli: e lanciandoli giù dalla finestra con un leggero peso al fon­do, tirò a sè un filo di seta che un suo amico gli porse. Col filo di seta tirò su una funicella più forte, e con questa in­fine una grossa corda, con la quale si ca­lò giù e si pose in libertà.

Lo spirito maligno ci domanda un non­nulla, poi qualche cosa più considerevo­le, e così via via fino a chiederci una gra­ve trasgressione della legge divina.

E perciò lo Spirito Santo ci avverte per bocca del grande Apostolo S. Paolo, di non dar adito al diavolo: Nolite locum dare diabulo.

Narrasi che Semiramide, regina di As­siria, con le sue scaltrezze ottenne da Ni­no di poter comandare e farla da impe­ratore per un giorno solo. Appena ebbe nelle mani le redini del governo, fece get­tare in una prigione e poi decollare il di­sgraziato marito e regnò da sola su Ni­nive e sul vasto impero.

Si racconta parimenti che la regina Di­done approdò alle spiagge Africane; e do­mandò al re Jarba tanto terreno quanto ne poteva chiudere una pelle di bue. Il monarca acconsentì ridendo; ma la scaltra donna prese la più grossa pelle che gli venne fatto di trovare, fece filare i peli, tagliò il cuoio in liste sottilissime e le distese in modo da chiudere un’area. amplissima, ove edificò la potente città, di Cartagine, che soggiogò tutta l’Africa. Il disgraziato Jarba si avvide troppo tar­di dell’inganno; e maledisse quella con­cessione.

Il perfido tentatore usa le stesse arti domanda poco per ottenere il molto, chie­de da noi il peccato veniale e poi passa, al mortale. Guai a noi se gli diamo ascol­to! Non si diventa grandi in un giorno: nemo repente fit summus; e neppure si diventa cattivi tutto un tratto: nemo ne­pente fit pessimus. E perciò il dottore S. Gregorio Magno dice che, sotto un certo” aspetto, vi è maggior pericolo nelle pic­cole colpe che non nelle grandi; perché le grandi quanto più chiaramente si co­noscono, tanto maggiormente con la co­gnizione del maggior male muovono ad evitarle e ad emendarsene; ma le colpe piccole quanto meno si conoscono tanto meno si fuggono, e non facendone conto, si replicano e si continuano e l’uomo se ne sta giacendo in esse, senza mai risol­versi virilmente di scacciarle da sé e li­berarsene; e perciò da piccole diventano grandi. S. Giovanni Grisostomo va più in là ed osa dire che alle volte dobbiamo badar più alle piccole colpe che non alle ,grandi, perché le gravi di loro propria natura recano di per sé un certo orrore che induce ad odiarle e a fuggirle; ma le altre, per la ragione che son piccole, ci tengono negligenti e siccome le valu­tiamo poco, non pensiamo di uscirne e così ci vengono a recare gran danno. Chi ha veramente cura della salute, bada bene a curare i primi assalti delle malattie, le indisposizioni anche leggere, i piccoli raffreddori, per timore di peggio. Cosî dobbiamo far noi:  Bada ai primi sintomi, perchè la me­dicina è inutile, quando il male per lun­ga trascuranza ha preso stabile piede.

Capo V

BELLEZZA DI UN’ANIMA IN GRAZIA

Chi desidera arrivare alla perfezione deve assolutamente muovere guerra atro­ce di sterminio ai difetti ed alle colpe an­che leggere. La santità è incompati­bile coi peccati veniali commessi ad oc­chi aperti, con piena cognizione del ma­le che facciamo. Bisogna essere generosi col Signore e non disgustarlo continua­mente, se desideriamo che anch’Egli sia largo con noi delle sue grazie. L’anima che sta attaccata alle creature con affe­zioncelle, non può volare liberamente al­l’amplesso beato di Dio. Che importa al­l’uccellino di essere legato con filo sot­tile o con una grossa corda, se non può librarsi a piacimento nell’aria?

Vaga è la rosa, fragrante e ci attira coi suoi colori brillanti alla luce del so­le: ma se ha una foglia avvizzita, perde molto del suo pregio. Una mela matura e bella se ha una parte guasta, per quan­to piccola, non è più degna di essere col­locata sulla mensa reale. Un magnifico vestito di seta, adorno di oro e di gem­me, ricamato da mano esperta, riceve una piccola macchia. Via, via! La regina non lo vestirà più. Dev’essere tutto puro, tut­to immacolato, senza alcun neo. Nella reggia non entrano che vesti convenien­ti alla maestà, regale.

Dio è la santità stessa che scorge im­perfezioni anche nei Serafini che trema­no dinanzi a Lui, velandosi il volto colle ali; e vuole che le anime, consacrate in modo speciale al suo amore, cerchino di acquistare la purezza di coscienza. Chi dunque fa pace coi suoi difetti, chi si adagia mollemente nelle sue imperfezioni,. chi ripete sempre le stesse colpe compiacendosi in asse e non curando di emen­darsi, non speri di arrivare alla perfezio­ne, di essere ammesso nella intimità del­l’Amor divino ed inebriato di celesti con­solazioni. Perchè Dio si comunichi intie­ramente all’anima, bisogna che essa sia vuota di ogni affetto terreno e spoglia di ogni attacco alle creature. Se il nostro cuore è lordo di fango, se ama le cose caduche della terra, non può essere illu­minato dai raggi divini e riempito del soave liquore della sua santa grazia. Il balsamo perde presto il suo profumo se vi muore dentro una mosca.

Santa Margherita Maria Alacoque, la fortunata discepola del Cuore divino, en­trata nel monastero e datasi alla più su­blime perfezione, conservò un attacco sensibile ad una compagna. Gesù le ap­parve e le fece intendere che quel dolce legame contristava il suo amore, geloso di regnare nel cuore di lei, e che doveva assolutamente troncarlo. La santa vergi­ne, sensibile ad ogni minima prova di af­fetto, lottò per vari mesi contro quell’at­taccamento e infine trionfò; ed allora lo Sposo Divino la inondò di consolazioni e l’abbellì di favori singolari, che fino al­lora le aveva nascosti, perché non anco­ra libera di se stessa.

La serafina del Carmelo, S. Teresa di Gesù, ebbe una terribile visione, in cui le fu mostrato l’inferno ed il luogo pre­parato per lei se non si emendava di al­cuni difetti che la avrebbero poco per vol­ta trascinata alla perdizione. Ed un’a­nima veduta dalla ven. Suor Anna del­l’Incarnazione, morta in concetto di san­ta, fu veramente dannata per difetti leggeri che la portarono a colpe gravi.

I peccati veniali in una persona che si dà alla perfezione fanno l’effetto di mo­scerini o polvere negli occhi. Un granel­lino di sabbia od una pagliuzza è un non­nulla; ma se entra in un occhio lo fa la­crimare e soffrire atrocemente: lo si vede gonfiare, diventar rosso e, finché non è uscito, non si può star fermi e neppure veder bene gli oggetti.

La beata Chiara di Montefalco un gior­no s’invanì di una sua azione, ed il Si­gnore le sottrasse subito i lumi e le ce­lesti consolazioni per molto tempo, nono­stante che ella facesse penitenza del suo fallo e ne chiedesse perdono con un pro­fluvio di lacrime.

Gesù Cristo è uno Sposo geloso, che non può tollerare le infedeltà al suo amore nelle anime a Lui consacrate. Egli le amò perdutamente fino a discendere dal cielo, vestire umana carne, soffrire dolorosissi­ma passione e finalmente morire in cro­ce; ed ha diritto che esse gli donino tutto il loro cuore, senza dividerlo con le crea­ture. E’ così piccolo questo cuore che non ammette due amori; e conviene che ar­da tutto per Colui che lo creò e lo reden­se e desidera santificarlo.

La santa vergine olandese Liduvina, vissuta per trentott’anni in un letto, col­pita da tutte le infermità, alla morte di suo padre si afflisse più che non conveni­va ad un cristiano, il quale sa che la tom­ba non è che la culla dell’immortalità. In castigo di quell’affetto troppo naturale ed eccessivo, Dio la privò delle dolci con­solazioni, con cui soleva visitarla sul let­to del suo dolore: e gravò la mano su di lei mandandole molte pene interne.

Un pio solitario fu avvertito di quanto passava in quell’anima e le mandò a di­re che si correggesse di quell’imperfezio­ne e si rassegnasse all’adorabile Volere divino, se voleva riacquistare i favori di prima.

Appelliamoci infine alla nostra espe­rienza. Non è forse vero che quando cadia­mo in difetti volontari, quando neghia­mo a Dio il sacrifizio delle nostre piccole voglie ed accontentiamo le affezioni disor­dinate del cuore, subito sentiamo dimi­nuire la grazia di Dio, la soavità nella pratica della virtù e lo slancio nel cammino della perfezione? Allora l’anima no­stra sonnecchia nel servizio divino: Dor­mitavit anima mea pro taedio (Psal. CXVIII); e non è più capace di propositi generosi e di magnanime risoluzioni. E’ malaticcia, è ferita, come il disgraziato sulla via di Gerico, e se non ci affrettia­mo a medicarla, presto morirà. Perciò se vuoi farti santo, muovi guerra spietata alle colpe veniali avvertite. Non essere avaro con Dio, non misurare col compas­so o col metro fin dove arrivi il lecito e l’illecito, il mortale e il veniale, l’obbligo grave e quello leggero. Questo è difficile e pericoloso, perchè i limiti non sono sempre chiari. Cerca invece di evitare qualsiasi offesa di Dio, obbedendo sem­pre alle soavi ispirazioni della Grazia.

Volere è potere; e chi vuole tenacemen­te si fa santo, perchè gli aiuti divini non mancano mai a chi li riceve con prontez­za e li traffica con sollecitudine.

Capo VI

TERRIBILI CASTIGHI

Il nome di veniale, dato al peccato di cui parliamo, è nome improprio, che non ne designa la natura, perchè si può at­tribuire anche al mortale, il quale è pur remissibile, capace di venia cioè di per­dono, se l’uomo si pente, ne domanda perdono a Dio e lo confessa al sacerdote. Del resto anche la colpa veniale non ot­tiene remissione che con la penitenza o con qualche atto soddisfatorio. Se tu pec­chi, per quanto leggermente, e non ti penti, Dio ti punirà o in questa vita o nell’altra, e ti farà scontare severamente la colpa commessa.

Anzi talvolta la Giustizia divina ha castigato in questo mondo certe colpe ve­niali, con un rigore che ci riempie di spavento e ci dimostra quanto essa odia il peccato, anche leggero. Nella Sacra Scrit­tura possiamo trovare non pochi esempi.

L’infelice moglie di Lot fu colpita di morte istantanea e cambiata in una sta­tua di sale per una curiosità. Udiva il cre­pitar delle fiamme, le grida disperate dei cittadini; e si voltò per osservare quel terribile spettacolo.

Mosè ed Aronne furono esclusi dalla terra promessa per una mancanza di con­fidenza, quando percossero due volte la rupe per ottenere l’acqua tra le infuo­cate arene del deserto. Quanto non sono imperscrutabili i giudizi divini! Dio per­donò al capo del sacerdozio levitico il gra­ve peccato di aver assecondato Israele, nel fabbricarsi il vitello d’oro, e non per­donò quella leggera diffidenza! E notia­mo la gravezza del castigo. I due fratelli avevano strappato il loro popolo dalla schiavitù dei Faraoni, l’avevano condot­to per il deserto, attraverso a mille sten­ti, difendendolo dai nemici. Avevano spe­so tutta la loro vita nel beneficarlo. no­bilitarlo della lunga schiavitù ed elevar­lo a vera nazione. Non rimaneva più che introdurlo nella terra promessa, luogo sospirato da tanto tempo e riposo beato di lunghe fatiche. Quanto tranquilli sa­rebbero allora discesi nella tomba bene­detti dalla tribù! Ma no: essi hanno com­messo un peccato veniale, e per questo peccato non toccheranno la meta arden­temente bramata. Vedranno da lungi quella terra fortunata, contempleranno le fertili valli baciate dalle onde del Gior­dano, le colline popolate di vigneti, le pia­nure biondeggianti di messi mature; ma non vi porranno piede. Altri coglierà il frutto delle loro fatiche, altro gusterà la gioia di porre fine al pellegrinaggio d’I­sraele ed intonare il cantico finale di rin­graziamento all’Eterno, che nutri il suo popolo con la dolce manna e lo salvò da mille pericoli. Mosè ed Aronne moriran­no senza compiere la loro missione, in ca­stigo della loro diffidenza.

Infelice Davide! Nel colmo di sua po­tena dimenticò per un istante che Dio dal campo lo aveva sollevato al trono e gli aveva cambiato l’umile bastoncello nello scettro. Fece il censimento del suo popolo e si compiacque vanamente di quel numero sterminato di sudditi, at­tribuendo quasi a sè quella gloria che era di Dio. Subito l’ira divina scese su di lui e domandò una severa espiazione, propo­nendogli tre orribili flagelli: la peste, la fame e la guerra. « Venga la pestilenza, esclamò l’umile monarca pentito, e così correrò anch’io il pericolo comune di es­sere infetto e punito personalmente del­la mia colpa ». Ed il contagio invase il popolo, e ben sessantamila perirono.

L’Arca santa veniva portata processio­nalmente, con gran pompa, dalla casa di Aminadab a Gerusalemme. Davide, se­guito da trentamila guerrieri, il fiore del­l’esercito d’Israele, nelle loro brillanti ar­mature, le faceva corteggio, al suono del­le cetre e dei timpani, tra il fumo degli incensi ed il lieto canto dei salmi. Ad un tratto i buoi recalcitrando, fanno dondo­lare l’Arca; ed Oza stende la mano per fermarla. Non l’avesse mai fatto! All’i­stante cade al suolo morto, quasi colpito dal fulmine. Egli era semplice Levita e non poteva toccare l’Arca. Quella morte improvvisa gettò lo spavento in tutti. Da­vide concepì un’idea così grande della maestà divina, che non osò più ospitare l’Arca nel suo palazzo, e la fece condurre nella casa di Obededon

– Profeta, disse un dì il Signore a Se­meia, va’, distruggi l’altare profano che Geroboamo edificò agli idoli ed annunzia­gli terribili castighi. Ma bada di non mangiare, né di bere cosa alcuna in quel luogo maledetto e di non ritornare per la via per cui sei venuto. – Veloce il ser­vo di Dio vola alla reggia, parla con voce franca all’empio monarca e con un cen­no atterra l’altare. – Legate il temera­rio, esclamò furibondo Geroboamo; e ste­se la mano verso le guardie. Ma quella, mano resta paralizzata; ed allora il superbo dovè umiliarsi ed implorare la sa­nità dal profeta. L’uomo di Dio pregò e gliela ottenne. Compiuta la sua missio­ne, Semeia, rifiutando i doni del re, se ne ritornava per una via diversa da quella per cui era venuto. Quand’ecco incontra un altro profeta, il quale, per mettere al­la prova la sua obbedienza, lo invita con calde istanze a rifocillarsi. Resiste egli, ma poi si lascia vincere. Poco dopo un leone, strumento dell’ira divina, lo sbra­nò per punire quella trasgressione agli ordini ricevuti.

Ascendeva Eliseo, già vecchio cadente, la bella collina di Bethel, popolata di ver­di foreste; ed una turba di monelli si pre­se a burlarlo, dicendo: « Vieni su, o vec­chione, vieni su, o calvo ». Il servo di Dio fu afflitto da quella mancanza di rispet­to alle sue calvizie, e maledisse gli inso­lenti nel nome del Signore. Subito usci­rono dalla selva due orsi feroci, che si scagliarono su quei tristi, sbranandone quarantadue.

Più terribile fu ancora la punizione toccata ai Betsamiti. Migliaia e migliaia di essi restarono fulminati per aver guar­dato con curiosità ed irriverenza nell’Ar­ca santa.

Maria, sorella di Mosè, per una mor­morazione contro il fratello fu punita di lebbra. Anania e Safra dissero una bu­gia a S. Pietro e furono colpiti di morte istantanea.

Dinanzi a queste terribili punizioni vengono spontanee le parole della Scrit­tura: Quis non timebit te, o Rex gen­tium? (Ier. X, 7) – Quis novit potesta­tem irae tuae, et prae timore tuo iram dinumerare? (LXXXIX, 11, Ps.). Notiamo che in tutti questi fatti scritturali, i san­ti Padri vedono per lo più solamente una colpa veniale, per difetto dì materia, o per difetto di cognizione, o per difetto di volontà o per altre circostanze atte­nuanti.

Soggiungiamo poi a nostro conforto che certamente Dio punì con rigorosa pena temporale tali mancanze per usare misericordia nella vita futura.

Ora se Dio castiga con la morte, che è la massima pena temporale, il peccato veniale, dobbiamo concludere che essa non è cosa da nulla, come talvolta ci pen­siamo, ma un male grandissimo da evi­tare a qualunque costo.

Mentre Dio suole spesso flagellare con tanto rigore il peccato veniale, spesso premia anche con preziosi favori le pic­cole corrispondenze alla grazia, per invi­tarci ad essere fedeli nel poco. Fu rive­lato a S. Gregorio Magno, che il Signore gli donò la somma tiara pontificia, per un’elemosina fatta ad uno sconosciuta Euge, serve borse et fidelis, quia super pauca fuisti fidelis super multa te con­stituam (Matth. XXV, 23). Orsù, servo buono e fedele, perchè nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto.

Un giovane gesuita, in tempo di vacan­za, stava per andare a diporto, quando un Padre lo pregò di fermarsi a servirgli la Santa Messa. Acconsentì egli di buon gra­do, e rinunciò alla passeggiata. Dopo al­cuni anni andò missionario tra gli infe­deli, e colse la palma del martirio. Venne rivelato ad un confratello, che il fortu­nato giovane era stato da Dio favorito della grazia insigne di versare il sangue per la fede, per quel piccolo sacrifizio fat­to in quel dì, a richiesta del sacerdote. O altitudo divitiarum sapientiae et scien­tiae Dei: quam incomprehensibilia sunt judicia eius et investigabiles viae eius – (ad Romanos XI, 33)! O profondità delle ric­chezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto incomprensibili sono i suoi giudizi ed imperscrutabili le sue vie!

Capo VII

PENE DEL PURGATORIO

Abbandoniamo ora questa terra e spin­giamo lo sguardo oltre la tomba, per con­templare i castighi terribili con cui Dio punisce il peccato veniale. Vi è un car­cere creato appositamente a ciò dalla giustizia divina, carcere pieno di fuoco e di tutti i tormenti: il purgatorio. Che co­s’è il purgatorio? E’ un inferno tempora­neo; e le stesse fiamme che bruciano il dannato purificano pure l’eletto. Eodem igne, dice S. Tommaso, torquetur dam­natus et purgatur electus. Tra l’inferno ed il purgatorio non passa, altra differen­za che quella della durata: il primo non finisce mai, mentre il secondo ha un ter­mine, che varia a seconda della gravità e del numero delle colpe. La più piccola pena del purgatorio è di gran lunga superiore alla più grande di questo mon­do. Il fuoco nostro è freddo, dice un Santo, a paragone di quello che brucia. quelle povere anime. Tra le fiamme del purgatorio e le nostre v’è la differenza, che passa tra il fuoco reale ed il dipinto. S. Caterina da Genova scrive: « Le ani­me purganti provano un tal tormento, che lingua umana non può riferire, né alcuna intelligenza darne la più piccola nozione, eccetto che Dio non lo facesse conoscere per grazia speciale ». Vi è nel purgatorio come nell’inferno doppia pena, quella del danno, che consiste nel­la privazione di Dio, e quella del senso. La pena del danno è senza paragone più grande: ed è tanto più intensa, perchè quelle anime, vivendo nell’amicizia di Dio, sentono più forte il bisogno di unir­si a Lui, come l’ago calamitato si volge al polo, la freccia vola al centro ed il fuoco tende ad elevarsi.

Un religioso di S. Francesco, morto in concetto di molta virtù, comparve dopo lungo tempo ad un suo amico, lamentan­dosi d’essere stato abbandonato. Ciò era vero, perchè il confratello, stimando il defunto già pervenuto alla gloria eterna, non pregava più per lui, e su questa sup­posizione faceva a quell’anima le sue scu­se. Diede allora un lamentevole grido l’a­nima abbandonata; e disse tre volte: Ne­mo credit, nemo credit, nemo credit, quam districte judicet Deus et quam se­vere puniat. Nessuno può credere, nes­suno può credere, nessuno può credere quanto laggiù si è giudicati severamen­te. Il Divin Redentore stesso ci ha avver­tito, che non ne usciremo, senza prima aver pagato tutti i nostri debiti fino al­l’ultimo centesimo: Donec reddas novis­simum quadrantem (Matth. V. 26).

Verso la metà del nostro secolo, il Si­gnore nella; sua bontà permise un’appa­rizione di oltre tomba per confermarci nella fede del purgatorio e dimostrarci l’intensità dei patimenti che laggiù si soffrono. Nel monastero delle Francesca­ne di Foligno una Suora, morta, da poco tempo in concetto di santità, apparve al­la sorella che l’aveva sostituita nel suo ufficio, per impetrare suffragi. « Ahi! quanto soffro » disse; e per darne una prova, toccò con la palma della mano la porta e vi lasciò l’impronta carbonizzata, riempiendo la camera di fumo denso e di odor di legno bruciato. Quel terribile segno si conserva ancora; e chi non cre­desse può recarsi nel convento per osser­varlo da vicino e leggere la cronaca del fatto.

A Zamora, città della Spagna, viveva in un convento di Domenicani un buon religioso, legato in santa amicizia con un Francescano, uomo come lui di grande virtù. Un giorno in cui s’intrattenevano di cose spirituali,, si promisero, scambie­volmente che il primo a morire sarebbe apparso all’altro, se così a Dio fosse pia­ciuto, per informarlo della. sorte tocca­tagli nell’altro mondo. Morì il France­scano e, fedele alla sua promessa, appar­ve al religioso Domenicano, mentre sta­va preparando il refettorio. Dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere salvo, ma che gli re­stava ancor molto a soffrire per alcuni piccoli falli dei quali non s’era abbastan­za pentito in vita. Indi soggiunse: « Nien­te c’è sulla terra che possa dare un’idea delle mie pene ». E perchè il Domenicano ne avesse una prova,. stese la destra sulla tavola del refettorio. All’istante il legno andò in fumo ed in fiamme, e vi restò la impronta, come se la mano fosse stata un ferro rovente. Immagini ognuno la com­mozione del Domenicano a quello spet­tacolo! Corse a chiamare ì confratelli, mostrò loro quel segno ferale e tutti si ritirarono subito in Chiesa a pregare per l’infelice defunto. Questa rivelazione é narrata nella vita di S. Domenico, scrit­ta da Ferdinando di Castiglia (28 parte, libro I, capo 23). La tavola si conservò a Zamora religiosamente fino al termine del secolo passato, quando le rivoluzioni politiche la fecero sparire, insieme con tanti altri ricordi di pietà, di cui abbon­dava l’Europa.

Nella Storia del Padre Stanislao Cho­scoa, domenicano polacco, si legge che un giorno, mentre pregava per i defunti, vide un’anima tutta divorata dalle fiam­me, come un carbone nel mezzo di una fornace ardente. Il pio religioso la inter­rogò, se quel fuoco era più penetrante del terreno.

– Ahimè! – rispose gemendo la mi­sera – tutto il fuoco della terra, parago­nato a quello del purgatorio, è come un soffio d’aria freschissima.

– E come mai è possibile? – soggiun­se Stanislao -. Bramerei pur farne la prova, a condizione che ciò giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire nel purgatorio.

– Nessun mortale – replicò allora quell’anima – potrebbe sopportarne la minima parte, senza morirne all’istante, se Dio non lo sostiene. Se vuoi convincer­tene stendi la mano.

Stanislao, lungi dallo sgomentarsi, por­se la mano; ed il defunto vi lasciò cadere sopra una goccia del suo sudore. All’istan­te stramazzò al suolo, emettendo grida acute. Quella stilla gli aveva passata la carne, lasciandovi una piaga profonda.

Accorsero i confratelli atterriti e con pronte cure lo fecero ritornare in sé. Al­lora raccontò, pieno di spavento l’accaduto: e concluse dicendo: « Ah! fratelli miei, se ognun di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai. Facciamo penitenza in questa vita per non doverla, poi fare nell’altra, perchè terribili sono quelle pene; com­battiamo i nostri difetti e specialmente le colpe veniali avvertite. La Maestà di­vina è cosa santa, che non può soffrire la minima macchia nei suoi eletti ». Dopo di che si pose a letto e vi stette un anno, sempre tormentato da orribili spasimi, prodotti dalla piaga della mano.

Alla fine dell’anno, dopo di aver nuo­vamente esortato i suoi confratelli a te­mere i rigori della giustizia divina ed a fuggire qualunque peccato, benché leg­gero, spirò nel bacio del Signore. Lo sto­rico aggiunge che questo fatto rianimò il fervore in tutti i monasteri e che i reli­giosi s’eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, al fine di essere salvi da sì atroci supplizi.

Il venerabile Bernardino da Busto; non men dotto che santo religioso, racconta che un suo fratellino, di nome Bartolo­meo, morto ancor puro ed innocente nel­l’età di otto anni, fu condannato al pur­gatorio, perchè talora aveva recitato di­stratto le preghiere del mattino e della sera.

Nella storia dell’ordine Cistercense si legge di una monaca di molta virtù, che andò al purgatorio, perchè disse, senza necessità, qualche parolina sottovoce in coro al tempo dell’ufficio divino; e di un altro religioso per non aver chinato la testa al Gloria Patri, come prescriveva la regola. Essi comparvero cinti di fiamme ad implorare aiuto e ad ammonire il con­vento dei rigori della Giustizia divina.

Nella vita di S. Martino si legge che morì una vergine chiamata Vitalina. Era in tal concetto di santità, che non solo la città ma tutta la diocesi di Tours an­dò alle sue esequie, non già per suffra­gare l’anima, ma per impetrare grazie dalla sua intercessione, persuasi tutti che fosse in cielo. Lo stesso S. Martino non disse requiem o de profundis; e solo si congratulava con lei della sua sorte bea­ta e ringraziava Dio dei favori fattile. Al­lora la defunta gli si fece vedere in abito bruno, l’occhio mesto, il volto bianco co­me un cencio, e con voce lamentevole: « Non mi è ancora concesso, disse, di ve­dere il volto del mio Signore ». – Oh! Dio, e perchè mai? – « Perchè un giorno di venerdì violai la regola, che ordina di non acconciare i capelli in segno di lutto per la morte del Divin Redentore ».

Un Domenicano di gran pietà fu puni­to atrocemente solo per soverchio affetto che aveva ai suoi scritti; ed un Cappuc­cino di santa vita comparve in veste di fuoco, solo perchè, essendo cuoco del con­vento, consumò un poco di legna più del bisogno, contro il voto di povertà.

Gli stessi Santi canonizzati poi dalla Chiesa non sempre andarono esenti da quelle terribili fiamme espiatrici… Si leg­ge nelle opere di S. Pietro Damiani che San Severino, Arcivescovo di Colonia, quantunque fosse stato in vita pieno di zelo apostolico e adorno di straordinarie virtù, dovette tuttavia rimanere per qualche tempo in quel luogo di espiazione, per avere senza bisogno anticipate le ore canoniche.

S. Gregorio Magno riferisce nei suoi dialoghi, (Libro IV, capo 40) che il santo diacono Pascasio fu condannato ad una lunga espiazione, come il defunto stesso rivelò a S. Germano di Capua. Eppure la sua dalmatica, stesa sul feretro, aveva operato portentosi miracoli.

S. Pellegrino e S. Valerio, vescovi di Augusta, passarono pure per quel fuoco. Quest’ultimo essendo vecchio cadente, cercò di lasciare l’arcivescovado ad un suo nipote, ecclesiastico meritevole per la scienza e per la virtù di cui era adorno. Ma siccome oltre al merito, guardò an­che alla persona del nipote, così ebbe, per quell’affetto carnale, due terribili casti­ghi. Dio gli tolse subito il nipote con mor­te prematura, e condannò lui ad un se­vero purgatorio, dove fu udito gridare pietà e misericordia, mentre il popolo lo invocava come santo.

Al leggere questi esempi viene sponta­nea sul labbro la preghiera del santo pro­feta: Confige timore tuo carnes meas, a ludiciis enim tuis timui: Inchioda col tuo timore le mie carni, perchè ho temuto i tuoi giudizi (Ps. CXVIII, 120).

Capo VIII

DURATA DEL PURGATORIO

E’ tanto grande la nostra cecità, che spesso diciamo: « Che importa che siana atroci quelle pene? Un giorno poi fini­ranno».

L’obiezione fu già fatta da Sant’Ago­stino. – Sed dicat aliquis: non pertinet ad me, quamdiu moras habeam, si tamen, ad vitam aeternam pervenero. E rispon­de « Per amor di Dio, non dite così! Ne­mo hoc dicat, fratres carissimi, nemo hoc dicat». Quelle pene, così atroci, hanno due durate cosi dolorose che mettono compassione solo a pensarvi.

La prima durata è secondo la stima che ne fanno le anime; e noi vediamo dalle rivelazioni, che un’ora sola di pur­gatorio sembra spesso più lunga di un secolo a quelle anime infelici, tanta è la loro impazienza di veder Dio ed eccessivo il rigore dei loro supplizi. Anche su que­sta terra una notte insonne, soprattutto se siamo infermi, ci pare un’eternità.

Negli annali dei padri Cappuccini si legge una storia assai curiosa (Torno III, anno 1618).

Il padre Ippolito da Scalvo, eletto Guar­diano e Maestro dei novizi in un conven­to di Fiandra, si sforzava di eccitare nei suoi figli spirituali le virtù proprie del lo­ro stato sublime. Ora accadde che uno dei novizi, che aveva fatto grandi pro­gressi nella via della perfezione spirò dolcemente nel Signore, mentre il guar­diano era assente. Avvisato della sven­tura ritornò la sera stessa; e dopo mat­tutino si fermò in coro per attingere con­forto nella preghiera. Ad un tratto vede il povero defunto comparirgli di tutto avvolto in fiamme, che così gli par­la: « Mio buon Padre! Impartitemi, vi prego, la vostra benedizione. Per una leggera mancanza da me commessa contro la regola, mi trovo ora in purgatorio per soddisfare alla divina Giustizia. Il buon Gesù mi ha concesso di rivolgermi a voi, affinché m’imponiate quella punizione che credete conveniente; dopo la quale volerò all’amplesso eterno di Dio ». At­territo a quella vista e a quelle parole, il pio Guardiano si affrettò a dargli la be­nedizione, con tutta l’effusione del cuore; e per penitenza gli disse che rimarrebbe in purgatorio fino all’ora di Prima, cioè fin verso le otto del mattino. Udito ciò il novizio, si mise a correre come un dispe­rato per la chiesa urlando: « Padre cru­dele! Cuore durissimo e senza pietà! Co­me mai volete punire tanto severamente un fallo, che in vita avreste appena giu­dicato degno di una leggera disciplina? Voi dunque ignorate la atrocità dei miei tormenti?».

E ciò dicendo sparì. Il povero Guardia­no che aveva creduto di essere molto in­dulgente nell’imporre quella penitenza, si sentì drizzare i capelli per lo spavento e il dispiacere, ed avrebbe voluto rime­diare a tanto errore a costo della sua vi­ta. Ma non essendo in suo potere il farlo, suonò la campana, riunì i frati in coro, narrò loro piangendo l’accaduto; ed or­dinò che s’incominciasse immediatamen­te la recita di Prima. Forse questo con­tribuì ad abbreviare le pene del defunto; ma il povero Guardiano portò nel cuore per tutta la vita il ricordo di quella sce­na orribile, e confessava spesso che fino allora aveva avuto una idea molto imper­fetta delle pene del purgatorio.

Il Rossignoli nel suo libro « Meraviglie del Purgatorio » che scrisse per invito del Beato Sebastiano Valfré, narra che un santo religioso ebbe rivelazione dal­l’angelo custode, che tra breve doveva morire e restare in purgatorio, finché fos­se detta una messa in suo suffragio. Esul­tò egli a quell’annunzio; e si affrettò ad ottenere formale promessa da un confratello che alla sua morte avrebbe subito applicato per lui il santo sacrifizio.

Poco dopo morì; ed essendo di matti­na, il prete corse subito ad indossare i sa­cri paramenti e celebrò con grande fer­vore e commozione di spirito. Appena eb­be finito, mentre in sacrestia si spogliava,, gli apparve l’amico, raggiante di gloria. e gli rimproverò di aver dimenticato la promessa, lasciandolo più di un anno in purgatorio.

– T’inganni, rispose l’altro meraviglia­to. Appena tu sei spirato, corsi in chiesa. a celebrare ed ho finito or ora. Il tuo ca­davere è ancora caldo sul letto di morte»..

Allora il defunto esclamò: « Ohimè! co­me sono spaventevoli le pene del purga­torio. Un’ora sola di pena mi è parsa più lunga di un anno! Benedetto sia Dio che così ha abbreviato la mia prova e grazie mille volte a te, o fratello Carissimo, del­la premura e carità che mi hai usato. Io, salgo ora al cielo e pregherò Dio che ci unisca lassù come fummo uniti sulla terra ».

La durata reale del purgatorio varia da ore a secoli. Dalle rivelazioni risulta che alcune anime vi stettero qualche ora o qualche giorno, mentre altre vi stet­tero anni e secoli e molte dovranno stare fino al giorno del giudizio.

Innocenzo III fu uno dei più grandi Pontefici che cinsero la somma tiara. Eb­be uno zelo ardentissimo per la gloria di Dio e la salute delle anime e compì opere meravigliose. Riunì il concilio Latera­nense, si adoperò per la riforma della Chiesa, fece fronte ai disordini dei prin­cipi dell’Europa con la fermezza del Bat­tista, rivolgendo al tempo stesso le sue cure all’Oriente.

Dopo la morte apparve a santa Lut­garda, tutto avvolto nelle fiamme, e le disse che era condannato al purgatorio, fino al giorno del giudizio per alcune col­pe commesse.

Il cardinale Bellarmino diceva di rab­brividire ogni volta che pensava a questo fatto; e ne deduceva salutari conse­guenze. « Se un Pontefice, diceva, così de­gno di encomio e che passa per santo agli cechi degli uomini, si trova sottoposto ai più orribili tormenti del purgatorio sino alla fine del mondo, che cosa mai sarà riserbato agli altri ecclesiastici, religiosi e fedeli? Chi non tremerà da capo a pie­di e non andrà a scrutare gli intimi pe­netrali del suo cuore, per scacciarne gli attacchi più lievi ed i difetti anche più insignificanti? ».

Negli atti di santa Perpetua, scritti in gran parte dalla Santa mentre era in pri­gione e che sono una splendida testimo­nianza della credenza del Purgatorio nel terzo secolo della Chiesa, si legge che vi­de il suo fratellino Dinocrate, morto al­l’età di sette anni, per un cancro orribile che gli corrose tutto il volto, penare in quel carcere tenebroso. E vi stette lungo tempo perchè Perpetua si dimenticò di pregare per lui. Consideriamo il fatto. E’ un fanciullo appena settenne, allevato santamente, che fece lunga penitenza in vita con quel cancro che lo rendeva og­getto di orrore a quanti lo avvicinavano; eppure è condannato nel Purgatorio, fin­ché la sorella non prega per lui. E sof­friva atrocemente, poichè le apparve in luogo tenebroso, arso dalla sete, e colla faccia tuttora corrosa dall’ulcere di cui perì. Vicino aveva una vasca d’acqua fre­schissima, con l’orlo più alto della. sua persona. Tentava l’infelice di arrivarvi, per saziare la sete che lo struggeva, ma non vi riusciva mai per la bassezza del­la statura.

S. Agostino, vent’anni dopo la morte della santa madre Monica, scrivendo le Confessioni, scongiura i lettori di prega­re per lei; ed egli stesso rivolge a Dio una prece commoventissima che strappa le lacrime. Adunque dopo quattro lu­stri il grande Dottore temeva ancora che la, sua santa genitrice fosse in Purgato­rio. Qual lezione per noi che dimentichia­mo così presto i nostri trapassati e sen­tiamo così poco i rigori della giustizia divina!

La pia contessa Matilde era così pene­trata da tali sentimenti che, alla morte di suo marito, ordinò un milione di Mes­se, oltre alle sue preghiere e mortificazio­ni ed alle generose elemosine elargite ai poverelli ed ai monasteri.

Nella vita del beato Ugone si legge che un monaco fu condannato al Purgatorio per cinquant’anni: vi stette quaranta e poi Dio gli permise di apparire per do­mandar suffragi. Presso il Maggiolo (Par. I Dierum canicularium, colloq. 2) si leg­ge che un’anima passeggiava e metteva gran rumore dentro un castello, gridan­do ad alta voce che le erano toccati mil­le anni di Purgatorio orribíle.

Nelle lettere annue della Compagnia di Gesù del 1597 si trova che un giovane, modello di virtù, di nome Celso Finetti, che in morte fu onorato da una visita di Maria SS. e predisse a sè e ad un altro l’ora del trapasso, venne condannato a quatto anni di Purgatorio. Un altro pu­re di santa vita, ne ebbe quattordici. Ep­pure nella Compagnia, come in generale tutti gli Ordini, si usano fare infiniti suf­fragi, Messe, Comunioni, rosari, uffizi e penitenze.

Narra il Padre Rossignoli nelle Mera­viglie sul Purgatorio, che un pittore in tempo di sua gioventù si lasciò trascina­re dal cattivo esempio; e pressato viva­mente da un signore, dipinse un quadro in cui vi era qualche nudità.

Più tardi si pentì di quell’opera che po­teva essere di scandalo alle anime e si pose a riparare al mal fatto col dipingere unicamente immagini sacre, proprie ad accendere la devozione. L’ultimo suo la­voro fu un grande quadro, che donò gra­tuitamente alla chiesa dei Carmelitani, affinchè i frati celebrassero messe in suf­fragio dell’anima sua, quando Dio lo aves­se chiamato agli eterni riposi.

Infatti poco dopo si addormentò pla­cidamente nel bacio del Crocifisso, pieno di fiducia in quella misericordia che vo­lentieri perdona e fu sepolto nella chiesa dei medesimi Carmelitani. Tutti avevano una dolce fiducia che fosse salito presto alla gloria eterna, perchè la sua vita ne­gli ultimi anni era stata veramente edi­ficante. Ma quanto non sono diversi i giu­dizi di Dio! Qualche giorno dopo che era stata chiusa la sua tomba, un religioso rimasto in coro dopo il mattutino se lo vide comparire innanzi, tutto avvolto nelle fiamme. Spaventato il Carmelitano gli domandò se egli era il buon pittore morto poc’anzi, e come mai si trovasse tra quelle pene.

Allora l’infelice, traendo un gran so­spiro, disse che al tribunale di Dio molte anime scandalizzate da quel quadro di­pinto in sua gioventù, avevano deposto contro di lui e che Dio l’aveva condan­nato ad ardere nel Purgatorio tra tor­menti indicibili, finchè quella pittura non fosse distrutta. Lo supplicava quindi di recarsi dal proprietario ed indurlo a get­tare sul fuoco il quadro, annunciandogli al tempo stesso, che in pena di averlo sol­lecitato a dipingere quella figura, Dio gli avrebbe tolto con morte prematura i suoi due figli.

Si affrettò il religioso ad obbedire. Il signore bruciò all’istante la tela; ma ciò, nonostante si vide, nel breve giro di un mese, morire i suoi cari figli. Allora si po­se a far penitenza del fallo commesso nel­l’ordinare e conservare il dipinto, finchè ebbe vita.

Capo IX

IL PURGATORIO DEI RELIGIOSI

Tutti i cristiani debbono vegliare at­tentamente per fuggire i peccati veniali, sia perchè offendono il nostro caro Signo­re, sia perchè saranno puniti con severità nell’altra vita.

Ma questa vigilanza dev’essere assai maggiore nelle persone consacrate a Dio per mezzo dei santi voti. Esse fanno spe­ciale professione di tendere alla santità e ricevono più grazie; e più severo sarà il conto che avranno da rendere. Le col­pe veniali dispiacciono più a Dio in un religioso, che non in un secolare, che vi­ve in mezzo agli scandali ed alle lusinghe del mondo Le infrazioni della regola, le piccole mormorazioni contro i confratelli e supe­riori, le violazioni anche leggere dei voti, soprattutto di povertà, le mancanze di carità sono laggiù punite con rigore.

Diceva un’anima del Purgatorio ad una pia religiosa del Belgio: Figliuola mia, vivi da santa, perchè il Purgatorio riservato alle religiose è terribile.

Santa Margherita Maria Alacoque, mentre pregava per tre persone morte da poco tempo, due delle quali religiose e la terza secolare, le apparve nostro Signore e le domandò familiarmente: « Quale del­le tre vuoi tu che io lasci libera? » – Si­gnore, rispose la Santa, degnatevi Voi fa­re questa scelta, secondo ciò che torna maggiormente a vostra gloria. – Allora nostro Signore liberò il defunto secolare, dicendo che a Lui inspiravano ben poca compassione i religiosi, ai quali egli dona tanti mezzi di meritare il Paradiso e di espiare i loro peccati in questa vita, con la perfetta osservanza delle loro regole. Alla stessa vergine apparve una reli­giosa, della Visitazione ad implorare suf­fragi; e deplorava la facilità con cui si era fatta dispensare dall’osservanza di certe regole ed esercizi comuni.

S. Luigi Bertrando, trattenutosi una notte dopo il mattutino in coro a prega­re, vide comparirsi avanti un religioso, circondato di fiamme, che, gettandosi ai suoi piedi lo supplicò di perdonargli una parola pungente, che vivendo aveva det­to contro di lui molti anni innanzi. Per quella sola parola era stato condannato al Purgatorio: implorava quindi da lui una Messa, la quale gli doveva aprire le porte del cielo.

Il Santo si affrettò a soddisfare il de­siderio dell’estinto; e nella notte seguen­te lo vide raggiante e glorioso salire al cielo. Questo fatto ci richiama alla men­te le parole del Vangelo: « Chi dirà al suo fratello stolto, sarà condannato al fuoco, reus erit gehenna ignis ».

Suor Francesca di Pamplona vide in Purgatorio un povero prete, le cui dita erano rose da schifosissime ulcere, per­chè aveva fatto il segno di croce con dis­sipazione e senza la necessaria gravità.

Il Padre Nieremberg della Compagnia. di Gesù, divotissimo delle anime purgan­ti, mentre una notte pregava in loro suf­fragio nel coro del collegio di Madrid, si vide comparire davanti un confratello, morto di recente e che per molti anni aveva colà insegnato teologia, tormenta­to da atroci pene, perchè aveva qualche volta parlato del prossimo con poca ca­rità. La sua lingua era di continuo bruciata dal fuoco, in pena dell’averla male adoperata. La gran divozione alla Santis­sima Vergine gli aveva meritato la gra­zia di comparire al Padre Nieremberg per impetrare suffragi.

Un religioso, per nome Germano, abate di un monastero di Benedettini, aveva avuto nel corso della sua santa vita l’u­nico difetto di essere poco amabile col prossimo.

Il suo zelo austero avrebbe voluto di ciascuno dei suoi religiosi fare un santo; e quindi avveniva che la sua severità ec­cessiva allontanasse le anime deboli dal­la perfezione, anzichè avvicinarle. Mori in giovane età, e fu condannato ad un lungo ed acerbo Purgatorio per cagione del suo zelo. Buon per lui che Santa Lut­garda, sua penitente, si pose a pregare, a disciplinarsi ed a fare infine altre mor­tificazioni per liberarlo! Per molto tem­po non potè trarlo da quelle fiamme; ma avendo poi l’eroica Santa offerta se stes­sa, vittima di espiazione, il Divin Reden­tore ne fu commosso e spezzò le catene all’infelice abate. Allora apparve raggian­te di luce a Lutgarda e la ringraziò di­cendo che, senza le sue orazioni, avrebbe dovuto gemere in Purgatorio ancora per undici anni.

Al leggere questo fatto, vengono in mente le parole di quel Santo: E’ meglio dover render conto di troppa indulgenza verso il prossimo, che non di troppa se­verità. E per vero, se si leggono le vite dei Santi, si troverà che furono sempre rigi­dissimi verso se stessi e pieni di miseri­cordia e di bontà verso gli altri.

Il Beato Stefano, religioso francesca­no, essendo solito passare ogni notte al­cune ore davanti al SS. Sacramento, vi­de seduto in uno degli stalli del coro un religioso col volto nascosto nel cappuc­cio. Stupito per tal novità, gli si avvicinò, domandandogli che cosa mai facesse lì a quell’ora, mentre gli altri frati ripo­savano. Al che quegli con voce lugubre rispose: « Io sono un religioso, morto in questo monastero, e condannato dalla divina Giustizia a far qui il mio Purga­torio, per le imperfezioni commesse nel­la recita del divino ufficio ».

Allora il Beato recitò in suffragio va­rie preghiere; e parve che quell’anima ne ricevesse molto sollievo. Per molte altre notti seguitò ad apparire, finché una vol­ta, dopo che Stefano ebbe detto il De-pro­fundis, abbandonò lo stallo con un gran sospiro di soddisfazione, in segno che la sua prova era finita (Cron. dei Frat. Min. lib. IV, cap. 30).

Santa Margherita Alacoque narra la seguente apparizione. « Una volta vidi in sogno una religiosa morta da un pezzo, la quale disse che soffriva moltissimo nel Purgatorio; ma che Dio le aveva dato da un po’ di tempo una pena incomparabi­le; ed era la vista di una sua parente, pre­cipitata nell’inferno. Dopo queste parole mi svegliai, ma cosi afflitta e con tali pe­ne, da parermi che quell’anima mi aves­se impresse le sue; e il corpo lo sentivo così rotto che potevo appena muovermi. Ma siccome non bisogna credere ai sogni, ne faceva poco conto, finché quell’anima mi sforzò a pensarvi, pressandomi così fortemente che non mi dava proprio ri­poso e dicendomi di continuo: « Pregate il Signore per me, offritegli i vostri pati­menti, uniti a quelli di Gesù Cristo, per sollevare i miei. Datemi il merito di tut­to quello che farete fino al primo vener­dì di maggio, in cui vi comunicherete per me ». Ed io così feci col permesso della mia Superiora. Ma la mia pena s’aumen­tò tanto fortemente, che mi opprimeva senza lasciarmi trovar alcun sollievo. La Superiora perciò mi fece andare a letto a prendere un po’ di riposo; ed appena vi fui, vidi l’infelice accanto a me che mi diceva: « Eccoti nel tuo letto ben comoda: guarda me invece coricata in un let­to di fiamme, ove soffro mali intollerabi­li ». E mi dava a vedere quell’orribile let­to, che mi fa fremere ogni volta che ci penso. La parte disopra era formata di punte acute, tutte infuocate, che le en­travano nelle carni; e mi diceva che ciò, era per cagione della sua pigrizia e ne­gligenza nell’osservanza delle regole e per le sue infedeltà a Dio… « Mi straziano il cuore con pettini di ferro ardenti; questo – è il mio più crudele dolore, in pena dei pensieri di mormorazione e di disappro­vazione, in cui mi sono trattenuta contro i miei superiori. La mia lingua è divorata dai vermi, per punire le mie parole con­tro la carità e per i mancamenti nell’os­servanza del silenzio: ecco, vedi la mia bocca interamente ulcerata da piaghe. Ah! vorrei bene che tutte le anime con­sacrate a Dio mi vedessero in questi ter­ribili tormenti. Se potessi far loro sentire la grandezza delle mie pene e quelle che son preparate a tutti coloro che vivono negligentemente nella loro vocazione, senza dubbio esse camminerebbero con un ardore ben diverso nell’esatta osser­vanza delle loro regole, e si guarderebbe­ro bene di cadere nei difetti che qui mi fanno tanto soffrire ». Tutto ciò mi ec­citava al pianto e le monache, credendo che io avessi male, mi volevano dare dei rimedi, ma quell’anima mi disse: « Si pensa a sollevare i tuoi mali, nessuno pe­rò pensa ad alleggerire i miei. Ohimè! eppure un giorno di silenzio esatto di tut­ta la Comunità, guarirebbe la mia bocca ulcerata. Un altro giorno passato nelle pratiche della carità, senza commettere alcun fallo, medicherebbe la mia lingua piagata. Un terzo giorno, passato senza fare la minima mormorazione né critica contro il prossimo, guarirebbe il mio cuo­re straziato ». Dopo aver ricevuta la San­ta Comunione che essa mi aveva chiesta, -mi disse che i suoi orribili tormenti era­no ben diminuiti, perchè era stata anche applicata una messa in onore della Pas­sione, ma che doveva però rimanere an­cor lungamente nel Purgatorio a patirvi le pene dovute alle anime negligenti nel servizio di Dio ».

Questa narrazione ci fa certo spaven­to. Che orribili strazi non soffrì quell’a­nima religiosa per difetti veniali! E le preghiere e le mortificazioni e le comu­nioni serafiche di una innocente, accetta. a Dio, come era S. Maria Alacoque, non valsero a liberarla; e dovette restare an­cora a lungo in Purgatorio! Che sarà di noi che siamo così imperfetti, così tie­pidi, così attaccati alla terra?

Il padre spirituale della medesima S. Maria Alacoque, il Santo Padre de la Co­lombière, fu trattenuto in Purgatorio fi­no alla sepoltura del suo cadavere per al­cune negligenze nell’esercizio dell’amor divino. Tutti sanno quanto grande fosse il fervore delle prime compagne di santa Teresa, di quelle anime elette, che ella sì era associate per la riforma del Carmelo. Eppure malgrado la loro santità, mal­grado le loro eroiche penitenze, quasi tut­te dovettero provare le pene del Purga­torio. Anzi nelle moltissime visioni che la Santa ebbe sulla sorte futura delle ani­me, appena tre ne vide volare subito in Paradiso. « Osserverò solo, scrisse, che di tante anime elette da me conosciute in vita, ne ho viste tre sole volare diretta­mente in cielo, senza passare pel Purga­torio: quella del religioso di cui ho par­lato nel .decorso di questo libro, quella del padre Pietro d’Alcantara e quella del padre domenicano di cui ho detto più so­pra (il D. Pietro Jbanez suo confessore) ». Ed al tempo di santa Teresa vivevano molte persone illustri per santità, come si può vedere nella sua vita stessa e nel commento eccellente che ne fece il padre Camillo Mella della Compagnia di Ge­sù.

Le mancanze commesse contro il voto di povertà saranno gravemente punite in Purgatorio. Già citammo l’esempio di quel frate che andò laggiù per aver spre­cata un po’ di legna nell’ufficio di cuoco. Santa Geltrude vide il demonio raccoglie­re con somma celerità e gioia i fiocchi di lana che nel filare lasciava cadere; e ca­pì che sarebbero stati presentati al tri­bunale di Dio, come difetti contro la po­vertà da espiare nel fuoco del Purgatorio.

Riferisce sant’Alfonso che un religioso aveva costume di lasciar perdere le mol­liche di pane, avanzate alla mensa, con­tro il divieto della regola. Venuto a mo­rire, vide il brutto ceffo dello spirito ma­ligno, che -aveva raccolto tutte quelle bri­ciole in un sacco e gliele mostrava sghi­gnazzando come per dirgli: « Ci rivedre­mo tra breve dinanzi a Dio; queste mol­liche si convertiranno in altrettanti tiz­zoni per bruciarti in Purgatorio ». Questo fatto mise nel convento una santa avidi­tà di osservare scrupolosamente il voto di povertà. I monaci rovistarono tutti i canti della loro cella, per cercare se ave­vano qualche cosa di superfluo e portarla al superiore.

Non deve far meraviglia il rigore che Dio usa coi religiosi. Ha concesso loro più grazie che ai secolari ed ha il diritto di domandare di più. Bisogna ricordare la parabola dei talenti, nei quali sono figu­rati i doni e gli aiuti che il Signore dona ad ogni anima per operare la sua salute eterna. Le anime stesse, benché giudica­te con severità, ripetono sempre tra quel­le fiamme: iustus es, Domine, et rectum iudicium tuum,giusto sei tu, o Signore, e retti sono i tuoi giudizi (Ps. CXVIII, 137).

Ed i secolari che leggono queste pagi­ne non concepiscano la minima diffiden­za della bontà e misericordia divina. Pen­sino che da un lato il peccato, benchè ve­niale, è sempre l’offesa di una maestà infinita e d’altra parte che questi castighi, sebbene rigorosi, sono temporanei e non eterni e che la gloria del Paradiso è un bene così grande che non si soffre mai abbastanza per guadagnarlo.

Dio è sempre quel padre che accoglie il figliuol prodigo, che accetta il penti­mento della Maddalena e del buon ladro­ne e concede loro tale abbondanza di gra­zie da elevarli alle più alte cime della santità. Ho letto nel Santo Sacramento del Faber, che San Giovanni Crisostomo pensa che Caino abbia fatto penitenza e si sia salvato. Tale opinione, che rende omaggio alla misericordia di Dio, mi ha recato molto piacere, perchè è un nuovo eccitamento per i peccatori, anche più malvagi, a ritornare sulla retta via. Ma­rìa Egiziaca, Taide, Pelagia, Agostino, Margherita da Cortona e tanti altri era­rio schiavi di ogni vizio; eppure ricevet­tero dal buon Dio Il perdono ed aiuti straordinari per farsi gran santi. Gesù Cristo è sempre quel buon Pastore, che va in traccia per monti, per valli e per burroni delle pecorelle smarrite per ri­condurle all’ovile. Maria SS. è sempre la madre pietosa dei peccatori, la salute de­gli infermi nello spirito o nel corpo, il rifiuto dei tribolati e dei tentati.

Si lasci adunque a parte la diffidenza; si concepisca invece orrore al peccato e siamo sicuri che il Signore tratterà tutti con immensa bontà, compatendo la de­bolezza e fragilità della natura. Quando un’anima si decide veramente di amarlo e di evitare le sue offese, ne ruba il Cuore e gli strappa tutti i favori che desidera.

Capo X

PECCATI VENIALI PIU’ FREQUENTI

Uno dei peccati veniali, in cui si cade ordinariamente più spesso, è la bugia. Per evitare un rimprovero, per apparire innocenti, per salvare la nostra reputa­zione, per appagare l’amor proprio, ne­ghiamo la verità o la esageriamo o la di­minuiamo. Eppure non è mai lecito men­tire per nessuna cosa al mondo, si trat­tasse anche di salvare la propria vita, o di fare bene al prossimo od allontanargli una disgrazia. La parola ci fu data per esprimere il pensiero ed il sentir-lento dell’anima e non per celarlo. Sant’Ago­stino scrisse appositamente un trattato per allontanare i cristiani dalla bugia.

Dio, che è la verità stessa, odia questo difetto e lo punisce severamente. Os bi­lingue detestor (Prov. XIII, 13) ; Io odio la lingua doppia, Egli ha detto. E ci consiglia: Ante omnia opera verbum ve­rax praecedat te: Avanti ad ogni cosa ti preceda la parola di verità.

Tra le sette cose che Dio abbomina vi è linguam mendacem, la lingua menzo­gnera. Gesù Cristo ci ha dato la regola del parlare: Sit autem sermo voster: est, est; non, .non. Il vostro favellare sia: sì, sì; no, no, cioè sia veritiero, semplice, senza simulazione, ipocrisie od amplifi­cazioni.

Sant’Andrea Avellino esercitava nel mondo la professione di avvocato; ed una volta, trattando una causa, gli sfuggì una bugia. Rientrato in se stesso, ne con­cepì tal dolore, che abbandonò il foro e si consacrò a Dio, divenendo un gran Santo favorito di molti doni sopranna­turali. Lo stesso dolore dovremmo conce­pirlo noi; e detestare questo difetto che commettiamo con tanta facilità. Facciamo nostro il santo proponimento di Giob­be: Donec superest hàlitus in me…, lin­gua mea non meditabitur mendacium; Fino a tanto che avrò fiato, la mia lingua non inventerà menzogne.

Parlando alle anime pie, che aborrono le bugie aperte, vorrei far loro notare una maniera di peccare contro la verità; è quella di esagerare le cose nel raccontar­le, affinché destino ammirazione. La ve­rità è una ed indivisibile e non ammette aumento o diminuzione; quindi tutto ciò che aggiungiamo è falsità.

In Purgatorio le bugie saranno punite molto severamente. Quante anime com­parvero colla lingua orribilmente brucia­ta per aver mentito! Quando ero fanciul­lo udii spesso ripetere: « Non dir bugie, perchè per ognuna di esse si devono far sette anni di Purgatorio ». Nessuno sa il castigo che Dio infligge, perchè varia se­condo la gravità della colpa e la malva­gità di chi la commette; ma possiamo affermare che l’Eterna Verità la odia e la farà scontare. Quindi molti Santi preferirono la morte ad una menzogna. anche piccola. Anche in questa vita Dio spesso punì la bugia. Il servo di Eliseo, Gezi, si ebbe la lebbra, quando negò di aver rice­vuto doni da Naman Siro. Anania e Saf­fira caddero morti all’istante per una menzogna detta al Principe degli Apostoli.

Un altro difetto in cui si cade spesso è la mormorazione contro i superiori o con­tro il prossimo. Non parlo della maldicen­za grave, che ruba la fama altrui e ne distrugge l’onore, più prezioso delle ric­chezze; ma di quelle piccole disapprova­zioni, di quelle parole di biasimo, di quel­le espressioni che non tornano in onore degli assenti. Chi vuole camminare nella vita della perfezione, deve guardarsi assolutamente da qualsiasi parola che of­fenda anche lievemente la carità verso i nostri fratelli. E non stiamo a dire che le cose che diciamo sono vere, perchè ap­punto la maldicenza o mormorazione con­siste nel palesare cose vere, realmente av­venute; se le cose fossero false, allora non sarebbe più maldicenza, ma calunnia.

Del prossimo bisogna parlar bene o tace­re. Non giudicate, dice Gesù Cristo nel Santo Vangelo, e non sarete neppur voi giudicati. A Dio solo tocca pronunciar giudizio, a Dio che penetra nel cuore e vi scorge le segrete intenzioni; e non all’uo­mo che non vede che l’azione esterna. I Santi sono soliti fuggire come la peste ogni offesa della fama altrui, ed ascol­tando maldicenze, si alzano risoluti a di­fendere il prossimo.

Sant’Agostino teneva scritti nella sala, da pranzo i seguenti versi: Quisquis amat, dictis absentium rodere vitam, hane mensam indignam noverit esse sibi.

Chiunque ama sparlare degli assenti, sappia che non può sedere a questa men­sa. E poichè una volta un commensale si pose a mormorare, il santo Vescovo gli additò lo scritto e gli chiuse subito la bocca.

Il Purgatorio dei mormoratori è lungo e terribile, secondo che appare dalle rive­lazioni. Sei sono le cose, dice il Savio, che il Signore ha in odio; e la settima è all’a­nima di Lui in esecrazione. E qual è que­sta settima che odia più di tutte? Colai che tra fratelli semina discordie. Per­ciò li punisce severamente in questa vi­ta, come Maria sorella di Mosè divenuta lebbrosa per una maldicenza contro il fra­tello, oppure li attende al Purgatorio o all’Inferno secondo la gravità. Le anime religiose dovrebbero quindi essere delica­te nella carità verso il prossimo, come nella castità; e guardarsi bene dall’offenderla menomamente, perché è uno specchio che si appanna al più piccolo soffio, è un’acqua limpida che subito s’intorbida.

Vi è poi uno stato abituale di peccato veniale, uno stato in cui le colpe si succedono, ed è lo stato di tiepidezza. Un’a­nima tiepida nel servizio divino commet­te forse difetti più numerosi degli istanti della sua vita. Distrazioni volontarie nel­la preghiera, freddezza negli esercizi di. pietà, lagnanze contro i superiori, mal­dicenze contro il prossimo, languore nel­l’adempimento dei suoi doveri, golosità, impazienze, sono colpe di ogni ora. E’ un’anima colpita da etisia che la consu­ma; e presto la condurrà alla tomba del peccato mortale. Tale condotta muove a nausea. Dio dice a questa anima infelice: Scio opera tua; quia neque fgidus et neque calicius. Utinam frlgidus esses aut calidusi Sed quia tepidus es, incipiam te euomere ex ore meo (Apoc. 111, 16). Mi sono note le tue opere; tu non sei né fred­do né caldo. Oh, fossi tu freddo o caldo! Via perchè sei tiepido, io comincerò a vo­mitarti dalla mia bocca.

Da qui i santi padri deducono il peri­colo di dannarsi eternamente per un’a­nima tiepida, e cercano con tutti i mezzi di scuoterla e di farla uscire dal letto del­le sue colpe abituali, in cui si è adagiata tranquillamente.

Se mai fossimo in questo stato mise­rabile, procuriamo di uscire al più presto, se ci è cara la salute dell’anima nostra, prima che Dio ci punisca.

Capo XI

PECCATI VENIALI DELIBERATI

Dobbiamo ora rispondere ad una do­manda: Può l’uomo evitare tutte le colpe­ veniali?

Distinguiamo due sorta di colpe: i pec­cati veniali deliberati, commessi ad oc­chi aperti, con volontà e cognizione della malizia: e le imperfezioni o fragilità o di­fetti inerenti alla natura umana.

I primi si possono fuggire colla grazia del Signore; e molte anime fanno anche voto, d’accordo col loro padre spirituale, di non commettere peccato veniale pie­namente volontario; oppure di non com­mettere peccato veniale deliberato in par­ticolare, cui sono inclinati, come ad esem­pio contro la carità o contro la tempe­ranza, ecc. S. Teresa fece voto di operare sempre l’ottimo, il più perfetto; ed in que­sto voto è incluso evidentemente la fuga delle colpe veniali.

Osserviamo però che prima di emet­tere tali promesse, si deve sempre consul­tare il confessore che ci conosce a fondo, perchè è troppo facile lasciarsi traspor­tare cha un fervore momentaneo e sba­gliare. Le fragilità proprie della debolez­za umana sono inevitabili, senza una grazia specialissima del Signore, la quale fu concessa all’incomparablie Regina degli Angeli Maria SS. Tota pulchra es, amica mea, et macula non est in te. Tutta bel­la, sei tu, o mia diletta, e macchia non è in te. Anche i Santi più insigni della Chiesa, non ne andarono esenti. In que­sta sorta di colpe, dice S. Bernardo, sic­come è colpevole la trascuranza, così an­cora è riprensibile il timore smoderato. In huiusmodi quasi inevitabilibus (cul­pis) et negligentia culpabilis est et timor immoderatus. Dobbiamo pertanto dete­stare simili difetti, ma non perderci d’animo, poichè il Signore facilmente le perdona, quando l’anima le aborrisce. Sep-­ties cadet iustus et resurget (Prov.YXIV,.. 16). Sette volte cadrà il giusto e risorge­rà. Dice S. Francesco di Sales che i difet­ti quotidiani, come si commettono inde­liberatamente, cosa pure indeliberatamen­te si tolgono col segno di croce, cogli eser­cizi di pietà, cogli atti di amor di Dio,. coll’uso dei sacramenti della Chiesa.

Sono celebri alcune parole di S. Tere­sa: « piacesse a Dio, che avessimo timore non del demonio ma d’ogni peccato ve­niale, che può farci più danno che tutti i demoni dell’inferno! ». E ripeteva con­tinuamente alle sue carissime figlie spi­rituali: « Da peccato avvertito, per pic­colo che sia, Dio ci liberi ».

Il santo Curato d’Ars, entrando all’o­scuro in camera, nell’accendere il lume adoperò per isbaglio un grosso biglietto di banca, che gli era stato donato da un signore per i poverelli. Avendo narrato il fatto ad un sacerdote, suo collaboratore nelle fatiche del sacro ministero, costui esclamò afflitto: «Che gran disgrazia!

– Oh! rispose tranquillamente il Santo, è una disgrazia inferiore ad un peccato veniale.

Lo stesso dovremmo dir noi quando ci accade qualche disgrazia temporale. Ci tocca un’umiliazione od un rovescio di fortuna? – E’ un male minore di un pec­cato veniale. Siamo visitati da qualche malattia o dalla perdita di qualche pa­rente od amico? – E’ una disgrazia infe­riore ad un peccato veniale. Se avessi pec­cato venialmente, dovrei piangere assai più, perchè ho offeso l’eterna maestà di Dio.

Abituandoci così a confrontare i fisici e le disgrazie temporali col male morale, cioè col peccato, verremo a con­cepire un giusto orrore per quest’ultimo che è il vero, l’unico ed il sommo male che esista al mondo. Al contrario la gra­zia di Dio è il più gran bene che l’uomo possa avere, bene superiore alla fama, al­le ricchezze ed alla vita stessa.

Perciò le due aspirazioni più nobili del­l’uomo devono essere: fuggire il peccato e crescere ogni giorno nella grazia di Dio, come il sole che sale al meriggio: Justo­rum semita, quasi lux splendens, crescit et procedit usque ad perfectum diem. 

APPENDICE

Raccolgo qui in appendice i testi della Sacra Scrittura ed i detti dei Santi Padri, che riguardano il peccato veniale, affin­ché si possano facilmente trovare per far­ne soggetto di pia meditazione per sé o di istruzione per gli altri.

1. Qui spernit modica, paulatim décidet (Eccli. XIX, 1). Chi disprezza le piccole cose, a poco a poco andrà in rovina.

2. Muscae morientes perdunt suavita­tem unguenti (Eccle. X, 1). Le mosche morte nell’unguento ne guastano la soa­vità.

3. Capite vulpes parvulas quae demo­liuntur vineas (Cant. II, 15). Pigliate le piccole volpi che danno il guasto alle vigne.

4. Quia tepidus es et nee f rigidus nee calidus, incipiam te evomere ex ore meo (Apoc. III, 16). Poichè sei, tiepido e né freddo né caldo, comincerò a vomitarti dalla mia bocca.

5. Qui parce seminat, parce et metet (2 Cor. IX, 6). Chi semina con parsimo­nia, mieterà parcamente.

6. Cum sancto sanctus eris et cum viro innocente innocens eris et cum electo electus eris et cum perverso pervertéris (Ps. XVII, 5-26). Col santo tu sarai san­to; con l’uomo innocente sarai innocen­te; con l’eletto sarai eletto e col perverso impervertirai.

7. Non leve est Deum in exiguo contem­nere (S. Gerolamo). Non è cosa da poco offendere Dio anche leggermente.

8. Quod peccatum peccator audebit li­cere parvum? Deum enim exhonorare quando est parvum? (S. Anselmo). Qual peccato oserà il peccatore chiamare pic­colo? Quando mai si dirà cosa da poco il disonorare Dio?

9. Non ignores rugam tibi unam turpio­rem esse quam maxima vulnera its qui in mundo vivunt (S. Greg. Naz.). Tu ben sai che una sola macchia in te è più schi­fosa che non una larghissima piaga in coloro che vivono nel mondo.

10. Noli illa contemnere quia minora sunt, sed time quia plura sunt: timenda est ruina multitudinis etsi non magnitu­dinis (S. Agostino). Non disprezzare i tuoi difetti perchè sono piccoli, temi per­chè sono molti; poichè il numero delle tue colpe potrà recarti quella rovina, che ora non ti cagiona il loro peso.

11. Deus negligentes deserere consuevit (S. Agostino). Il Signore suole abbando­nare i negligenti.

12. Sunt (venialia) velut scabies et no­strum decus ita exterminant ut a sponsi amplexibus separent (S. Agostino). I pec­cati veniali sono come la lebbra e detur­pano la nostra bellezza in modo da allon­tanarci dallo Sposo divino.

13. Diabolus non pugnat cito contra aliquem per grandia vitia, sed per parva, ut possit quomodocumque intrare et do­minari homini, ut postea in maiora vitia eum impellat (S. Gerolamo). Il demonio non eccita subito alcuno a commettere peccati gravi, ma leggeri, perchè possa in qualunque modo entrar nell’anima e cominciar a dominarla per indurla noi a peccati. maggiori.

14. Nemo repente fit turpissimus: a mi­nimis incipiunt qui in maxima proruunt (S. Bernardo). Nessuno d’un tratto di­venta scellerato: quei che precipitano in abissi di iniquità cominciano dal poco.

15. Nemo dicat in corde suo: levia sunt ista, non curo corrigere, non est magnum, si in his maneam venialibus, minimisque peccatis: haec est enim, dilettissimi, im­poenitentia, haec est blasphemia in Spi­ritum Sanctum (S. Bernardo). Nessuno dica in cuor suo: queste sono cose da po­co, non mi curo di correggerle, non è poi gran male se dormo in tali colpe veniali ed in tali peccati minuscoli. Nessuno di­ca così per carità, perchè questa è impe­nitenza, o dilettissimi, questa è una be­stemmia contro lo Spirito Santo.

16. Si Christum vere amaremus, judi­caremus utique amati oensam gehenna esse graviorem (S. G. Crisostomo). Se amassimo davvero G. C., stimeremmo certamente una sua offesa più grave del­l’inferno.

17. Pustulae (venialia) sunt, quae qui­dem animam non occidunt, sed eam ta­men, quasi horrenda lepra repletam, sum­mopere deformant (S. Cesario). I peccati veniali sono pustole che in vero non uc­cidono l’anima, ma la rendono deforme in modo orrendo, quasi fosse percossa da schifosa lebbra.

18. Minuta plura peccata, si negligan­tur, occidunt (S. Agostino). I peccati Ve­niali replicati, se si trascurano, uccidono l’anima.

19. Maledictus qui facit opus Domini fraudolenter (Ger. XLVIII, 10). Maledet­to colui che fa l’opera del Signore con mala fede.

20. In pigritiis humiliabcur contigna­tio; et infirmitate manuum perstillabit domus (Eccle. X, 18). Per la pigrizia ed infingardaggine delle mani (del padro­ne), il palco della casa darà giù e vi pio­verà dentro.

21. Mirabile quidem et inauditum di­cere audeo. Solet mihi nonnunquam non tari,to studio magna videri esse peccata vita iuta, quam et vilia; illa enim, ut aversemur peccato; ipso’ natura of ficit; haee autem, hoc ipso re quia parva sunt, desi­des reddunt, et, dum contemnentur, non potest ad expulsionem eorum animus ge­nerose insurgere: unde cito ex parvís maxima fiunt negligentia nostra (S. Giov. Cris.) . Una cosa mirabile ardisco dire, la quale parrà nuova, né mai più udita ed è che alle volte bisogna che siamo più di­ligenti ed accurati in evitare i peccati piccoli che i grandi, perchè questi di lor propria natura recano seco un certo or­rore che induce ad odiarli ed a fuggirli; ma gli altri, per l’istessa ragione di esser piccoli, ci tengono rimessi e negligenti, e siccome li stimiamo poco, non finiamo mai di uscirne e così ci vengono a fare gran danno.

22. Quid interest ad naufragium, uno grandi fluctu navis operiatur et obru.atur; an paulatim subrépens aqua in sentinam et per negligentiam derelitta aíque contempta, implet navem atque su%mergat? (S. Agostino). Che importa che l’acqua sia entrata nella nave per un piccolo o per un gran buco, se alla fine la sommerge?

23. Ex minimis guttis multiplicatis inundationes aquarum fiunt, quae etiam magna aliquando moenia subruunt; per modicam rimam aqua latenter in navem influit, donec submergatur, (S. Agostino). Piccolissime sono le gocce d’acqua; ma riunite formano le inondazioni che di­struggono grandi città ed entrate per poca fessura nella nave, la sommergono.

24. Praecavisti magna; de minutis quid agis? An non times minuta? Proiecistii moleum,’ vide ne arena obruaris (S. Ago­stino). Eviti i grossi peccati e non temi piccoli: guarda che, mentre fuggi una grande ruina, non venga sepolto dall’a­rena.

25. Qui timet Deum nihil negligit (Ec­cle. VII, 19). Chi teme Dio non trascura cosa veruna.

26. In via Domini non progredi, regredí est (Assiom ascetico). Nella via del Si­gnore il non camminar avanti è tornar indietro.

27. Principiis obsta sero medicina paratur, cum mala per longas convaluére moras (Ovidio). Cura i primi sintomi, perché la medicina è inutile, quando il male per lunga trascuraggine ha già po­sto fermo piede.

28. Gutta cavat lapidem (Proverbio). Una goccia continua scava anche una pietra.

29. Poca favilla gran fiamma seconda (Dante, Paradiso).

30. Malo insilire in rogum ardentem, quam peccatum ullum sciens admittere in Deum meum (S. Edmondo). Preferi­sco gettarmi in una fornace ardente, an­ziché commettere avvertitamente qual­siasi peccato contro il mio Dio.

31. Prima soffrire, o Signore, tutto le pene dell’inferno che commettere un sol peccato veniale (S. Alfonso Rodriguez).

32. A fuggire un peccato anche lieve, io mi getterei se fosse necessario in abis­so di fiamme e vi resterei per tutta l’eter­nità, piuttostoché commetterlo per uscir­ne (S. Caterina da G.)

33. Qui fidelis est in minimo et in maio­ri fidelis est, et qui in modico iniquus est et in maiori iniquus est (Luc. XVI, 10). Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto; e chi è ingiusto nel poco è anche ingiusto nel molto.

34. Si vis magnus esse, a minimo incipe (S. Agostino). Se vuoi diventar grande presso Dio, comincia dalle cose più pic­cole.

35. Vae qui spernis, nonne et ipse sper­neris? (Is. XXXIII, 1). Guai a te che di­sprezzi! Non sarai tu pur disprezzato?

36. Euge, serve borse et fidelis, quia su­per panca fuisti fidelis, super multa te constituam, intra in gaudrium Domini tui (Matth. XXV, 21). Orsù, servo buono e fedele, perchè nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto: entra nel gaudio del tuo Signore.

37. Videte oculis vestris quia modicum laboravi et inversi mihi multam, requiem (Eccli. LI, 35). Mirate cogli occhi vostri com’io faticai per un poco ed ho trovato molta pace.

A. M. D. G.

PREGHIERA PER CONSERVARE LA FEDE

Signore, io credo; io voglio credere in Te.

O Signore, fa’ che la mia fede sia pie­na, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane.

O Signore, fa’ che la mia fede sia libe­ra; cioè abbia il concorso personale del­la mia adesione, accetti le rinunce e î doveri ch’essa comporta e che esprima l’apice decisivo della mia personalità: Credo in Te, o Signore.

O Signore, fa’ che la mia fede sia cer­ta; certa d’una esteriore congruenza di prove e di una interiore testimonianza dello Spirito Santo, certa d’una sua luce rassicurante, d’una sua conclusione pa­cificante, di una sua assimilazione ripo­sante.

O Signore, fa’ che la mia fede sia for­te, non tema le contrarietà dei problemi, onde è piena l’eperienza della nostra vi­ta avida di luce, non tema le avversità di chi la discute, la impugna, la rifiuta, la nega, ma si rinsaldi nell’intima prova della Tua verità, resista alla fatica della critica, si corrobori nella affermazione continua sormontante le difficoltà dia­lettiche e spirituali, in cui si svolge la nostra temporale esistenza.

O Signore, fa’ che la mia fede sia gioiosa e dia pace e letizia al nostro spi­rito e lo abiliti all’orazione con Dio e alla conversazione con gli uomini, così che irradi nel colloquio sacro e profano l’in­teriore beatitudine del suo fortunato possesso.

O Signore, fa’ che la mia fede sia ope­rosa e dia alla carità le ragioni della tua espansione morale, così che sia vera ami­cizia con Te e sia di Te nelle opere, nelle sofferenze, nell’attesa della rivelazione finale, una continua ricerca, una conti­nua testimonianza, un alimento conti­nuo di speranza.

O Signore, fa’ che la mia fede sia umi­le e non presuma fondarsi sull’esperienza del mio pensiero e del mio sentimento; ma si arrenda alla testimonianza dello Spirito Santo e non abbici altra migliore garanzia che nella docilità alla Tradizio­ne e all’autorità del magistero della san­ta Chiesa. Amen. (S. S. Paolo VI)

INCONTRO CON IL RE D’AMORE

Il più gran dono che Gesù abbia fatto all’umanità, dopo la sua Incarnazione, è stato quello dell’Eucaristia. Pur essendo in Cielo nello stato glorioso, Anima e Corpo, ha voluto restare, in modo miste­rioso ma reale, vivo e vero, Anima e Cor­po, nella S.S. Eucaristia. A Dio tutto è possibile.

Sia benedetta in eterno quell’ora, in cui il Figlio di Dio fece l’ultima Cena, con i suoi discepoli!

Acceso d’amore, sino all’estremo limi­te, disse: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi pri­ma di patire ».

L’ardente desiderio di Gesù era l’isti­tuzione dell’Eucaristia. Infatti, finita la Cena, consacrò il pane ed il vino, mutan­done la sostanza nel suo Corpo e nel suo Sangue, e diede il potere di rinnovare la Consacrazione agli Apostoli ed ai loro successori.

Da quell’ultima Cena sino ad oggi e si­no alla consumazione dei secoli, Gesù è nei Tabernacoli, per ricevere le adorazio­ni e gli omaggi dei suoi redenti e per es­sere il loro cibo e sostegno nel pellegri­naggio della vita.

Alle anime amanti di Gesù Eucaristico si lancia un appello, invitandole ad un incontro con il Re d’Amore alle ore 20 di ogni giovedì.

E’ questa l’ora dell’appuntamento con Gesù, ora memoranda del Mistero Euca­ristico; è l’ora che si propone:

1° Fare partecipare le anime più fer­venti a quella Mistica, Mensa, dalla qua­le scaturì dal Cuore di’ un Dio fatto uomo tutto il suo ardente amore nel do­narsi alle anime.

2° Riparare le offese, le ingratitudini, la dimenticanza e tutti i sacrilegi che si commettono al contatto dell’ Eucaritico Cibo Divino.

PRATICA: 1° Essere puntuali all’ora­rio, affinché Gesù veda contemporanea­mente vicino a Sé una grande schiera di cuori riconoscenti e riparatori.

2° Coloro che possono, facciano l’Ora Santa, in famiglia o altrove, da soli o meglio in compagnia. Chi non potesse de­dicare un’ora o neppure un quarto d’ora, si raccolga almeno per un po’ di minuti, andando con il pensiero ai mille Taber­nacoli sparsi nel mondo, ove Gesù è soli­tario ed abbandonato. Si ripeta con amo­re la seguente invocazione, intonata al ringraziamento ed alla riparazione:

« Grazie, Gesù Sacramentato, del gran­de dono che ci hai dato! ».

«Per il tuo Sacramento d’Amore, mi­sericordia, mio Signorei ».

3° L’ora dell’incontro con Gesù si tra­

scorra in un raccoglimento particolare, ma relativo, secondo le proprie necessità. Anche il canto di Lodi Eucaristiche dà gloria al Re- d’Amore: ‘anima amante faccia delle brevi Comunioni spirituali, dicendo: Gesù, Tu sei mio, io sono tua!

4° Diffondere a voce e per iscritto que­sta preziosa crociata.

Prima e dopo le preghiere private abi­tuarsi a dire; « Sia lodato e ringraziato ogni momento – Il Santissimo e Divinis­simo Sacramento ». Ciò servirà a ripa­rare la poca fede eucaristica e le irrive­renze che si commettono davanti ai Ta­bernacoli.

LA SETTIMANA DELLA CARITA’

DOMENICA – Mira sempre nel prossimo l’immagine di Gesù; gli accidenti sono umani, ma la realtà è divina.

LUNEDI’ – Tratta il prossimo come tratteresti Gesù: la tua carità deve essere continua, come il respiro che dà ossigeno ai polmoni, e senza del quale la vita muore.

MARTEDI’ – Nei tuoi rapporti col prossimo trasfor­ma tutto in carità e gentilezza, cercando di fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Sii largo, delicato, comprensivo.

MERCOLEDI’ – Se vieni offeso, fa’ scaturire dalla ferita del tuo cuore un raggio di bontà calda e se­rena: taci, perdona, dimentica.

GIOVEDI’ – Ricorda che la misura che userai cogli altri, sarà da Dio usata con te; non condannare e non sarai condannato.

VENERDI’ – Mai un giudizio sfavorevole, una mor­morazione, una critica: la tua carità deve essere come la pupilla dell’occhio, che non ammette il mi­nimo pulviscolo.

SABATO – Avvolgi il prossimo nel tiepido mantello della benevolenza. La tua carità deve poggiare su tre parole: Con tutti, sempre, a qualunque costo. Ogni mattina fa’ un patto con Gesù: prometti a Lui di serbare intatto il flore della carità e pregalo di aprir­ti, in morte, le porte del Cielo. Beato te, se sarai fedele!

BATTAGLIA E…SCONFITTA

Una persona è sola nella sua cameretta. D’un trat­to, ecco farsi avanti il demonio, in modo invisibile ma reale. Egli presenta alla fantasia delle scene di pec­cato; ma esse sono subito respinte. Fallito il primo colpo, il demonio tenta il secondo e più forte. Ripre­senta le stesse immagini, ma a colori più vivi ed at­traenti. L’anima dovrebbe subito ricorrere a Dio con umiltà, senza fermarsi a discutere con il maligno; ma disgraziatamente presume di se stessa e si ferma volontariamente a contemplare la tentazione.

Ottenuto ciò, il demonio va avanti e dice: Perché o anima, non metti in pratica, quanto pensi? – Non posso: Dio me lo proibisce! – Ma che male fai dei resto? Non sei forse libera della tua volontà? Ac­consenti dunque! – Temo che Iddio mi castighi! – E tu non sai che Dio è buono e compatisce l’umana miseria? – E’ vero, ma so anche che Egli è giusto e terribile punitore della colpa! – Va bene: però di rado punisce la colpa! Del resto te ne confesserai! – E se mi mancasse il tempo? – Non sei certo sul letto di morte! –

Durante questa lotta, la mente si è offuscata e la volontà, resa debole, cede infine alla tentazione. La misera anima pensa d’aver trovata la felicità; dopo pochi istanti sente tutta l’amarezza del pecca­to; sa di essere sola nella stanza; eppure guarda at­torno temendo di vedere qualcuno; ha paura di pre­sentarsi ad altri, quasi il peccato le si potesse leggere nella mente; il rimorso le fa sentire la sua terribile vo­ce. Adamo, Adamo, che cosa hai fatto? – disse Dio al primo uomo dopo la colpa. Ed ora lo stesso rimprovero si ripete a te, o anima infelice, che sei caduta in peccato!

SUGGERIMENTO DI GESU’

Nel libro « Cum clamore valido » si legge un inse­gnamento di Gesù ad un’anima privilegiata:

« A me piacciono le delicatezze, perchè l’amore si alimenta con piccoli atti delicati.

– Procura di evitare le piccole infedeltà; se ne commetti qualcuna, ripara subito lo strappo fatto al mio amore.

– Sei caduta in un’impazienza? Ripara con due atti di mansuetudine.

– Hai ceduto all’orgoglio? Ripara con due atti di umiltà.

– Hai mancato di carità? Compi due atti di carità.

– Ciò che si toglie alla glo­ria di Dio, si deve dare raddoppiato, possibilmente centuplicato…

SOFFRITE ED OFFRITE

Utilizzare tutte le sofferenze, anche le piccole, spe­cialmente se di ordine spirituale, offrendole all’Eterno Padre in unione con le sofferenze di Gesù e della Ver­gine: per le Persone Consacrate, per i peccatori più ostinati, per i moribondi della giornata e per le Ani­me del Purgatorio.

 Per richiedere i libri scrivere a:

OPERA CARITATIVA SALESIANA DON GIUSEPPE TOMASELLI – Viale Regina Margherita 27 – 98121 MESSINA  – offerta libera – CCP. n. 12047981


     

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Padre del cielo,
Tu ci hai dato un modello di vita
nella famiglia di Nazareth,
aiutaci, o Padre buono,
a fare della nostra famiglia
un'altra Nazareth, dove regnano
l'amore, la pace e la gioia.
Fa' che la nostra vita,
sia profondamente contemplativa,
intensamente eucaristica
e vibrante di gioia.
Aiutaci a rimanere insieme
nella gioia e nella sofferenza
attraverso la preghiera familiare.
Insegnaci a vedere Gesù
nei membri della nostra famiglia
specialmente nelle loro difficoltà.
Possa il Cuore Eucaristico di Gesù
rendere i nostri cuori miti ed umili
come il suo e possa aiutarci
a compiere i nostri doveri familiari
in modo santo.
Possiamo amarci
come Dio ama ognuno di noi,
ogni giorno sempre più,
e possiamo perdonarci le offese
come Dio perdona le nostre.
Aiutaci, o Padre buono,
a prendere ciò che ci dai
e a darti tutto ciò che ci chiedi
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O Immacolato Cuore di Maria,
causa della nostra gioia,
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rimani sempre con noi,
guidaci e proteggici.
AMEN

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