Medio Oriente, perché i cristiani non scompaiano
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Il più grande servizio che si possa rendere agli arabi è di comprendere e aiutarli a comprendere sé stessi. Oggi è in gioco il destino di tutta una civiltà: una civiltà che si cerca, che cerca di adattarsi a un 21mo secolo che la invade da ogni parte, dal punto di vista politico, economico, ma soprattutto culturale, e che essa deve accettare in modo selettivo proteggendo la sua preziosa fede in Dio, che costituisce la sua identità, di fronte a un Occidente che ha costruito la sua personalità contemporanea sulla razionalità umana, la non pertinenza di Dio negli affari pubblici, ossia “la morte di Dio”.
Perdendo il califfato all’indomani della Prima guerra mondiale, con il crollo dell’impero ottomano, l’islam arabo ha perso le basi storiche della sua speranza escatologica. È normale che esso avrebbe cercato di ritrovarle. Ma questa ricerca multiforme rimarrà incompiuta fino a che non si sviluppi un approccio critico delle basi storiche di questa speranza, consolidata e approvata da una parte sufficientemente larga della Umma [la comunità islamica]. A questo tendono diverse fondazioni e istituzioni arabo-islamiche come al Azhar, il centro Re Abdallah per il dialogo interculturale e religioso, la Fondazione del pensiero arabo, ecc.
Essere un valido e accettabile interlocutore dell’islam in Medio oriente significa affrontare l’islam nelle sue due dimensioni, materiale e spirituale. Occorre che il musulmano arabo percepisca l’empatia che i responsabili di Chiesa hanno per lui e la sua civiltà. Portargli il Cristo in una scatola di cartone che contiene riso e zucchero, su cui è scritto “Caritas, è insufficiente. Ciò che accredita il cristiano presso un musulmano, è ciò che interpella la parte più nobile, la più alta in lui: questa sete di abbandono a Dio che lo abita e davanti a cui si sono inchinati grandi cercatori di Dio come Louis Massignon, Charles de Foucauld, Jacques Berque o Youakim Moubarak.
Sono queste alcune delle considerazioni sollevate dal Consiglio delle Chiese del Medio oriente (Cemo), riunito sul tema “Uniti nella missione e nella visione”, dopo l’apertura dell’assemblea annuale, del tutto insolita, l’8 maggio scorso, al convento Notre-Dame du Puits, a Bqennaya. Insolita perché essa si tiene al termine di un penoso vuoto di una diecina d’anni, che il Cemo ha attraversato, e che esso cerca con coraggio di superare, alla ricerca di un nuovo slancio.
Prendendo la parola all’inizio, Souraya Bechealany, segretaria generale del Ceno e membro della famiglia cattolica del Consiglio, che ne comprende quattro (ortodossa, evangelica, cattolica e ortodossa orientale), ricorda ai presenti una ingiunzione dell’assemblea dei patriarchi d’Oriente degli inizi degli anni ’90: “In Oriente, noi saremo uniti, o non saremo”. In una eco all’intuizione di p. Jean Corbon sulla Chiesa degli Arabi, la Bechealany ricorda ai membri dell’assemblea l’importanza primordiale dell’ecumenismo e dell’unità per una piena e intera efficacia del dialogo interreligioso e della testimonianza cristiana.
Alla presentazione sono seguite tre esposizioni di George Sabra, presidente della Near East School of Theology (evangelica), del p. Gaby Hachem, professore alla facoltà di teologia dell’Usek e direttore della rivista “Proche-Oriente chrètien”, e dell’ex ministro della Cultura, Tarek Mitri, direttore dell’istituto Issam Farès dell’AUB [American University of Beirut], tutte sul tema “Riflessioni sulla situazione attuale dei cristiani in Medio oriente”. I tre intervenuti tentano di delimitare, ciascuno nel suo campo, le frontiere ecclesiali, sociopolitiche e geopolitiche all’interno delle quali dovrebbe svolgersi un’azione significativa del Cemo.
George Sabra, nella sua presentazione, mostra che della ingiunzione profetica citata dalla Bechealany all’inizio, soprattutto la seconda parte – “o non saremo” – sembra essersi realizzata: l’Iraq si è spopolato dei tre quarti dei cristiani; la Siria è sulla buona strada perché avvenga altrettanto, e le condizioni economiche faranno il resto. “Vi è ancora posto per i cristiani in Medio Oriente?”, s’interroga il teologo in una di quelle domande retoriche che contengono già la risposta. Domanda pertinente, perché in un secolo i cristiani che rappresentavano il 25% della popolazione del Medio oriente, ora non sono più del 4%.
Nel suo discorso, Sabra ricorda l’avvertimento crepuscolare dell’opera di Jean-Pierre Valognes : Vie et mort des chrétiens d’Orient (Vita e morte dei cristiani d’Oriente). Mons. Georges Saliba, vescovo siro-ortodosso di Beirut è in sala – con altri vescovi maroniti e ortodossi – per confermarlo in modo indiretto.
Andando nel senso dell’opera citata, mons. Saliba crede in effetti che i cristiani d’Oriente, compresi quelli in Libano, ne hanno ancora per uno o due decenni prima di perdere la massa critica che permetterebbe loro di pesare sulle decisioni politiche. Ma non intimidito per nulla da questi pronostici, il prof. Sabra conclude la sua presentazione affermando che la missione cristiana non riposa sulle cifre, ma sulla testimonianza reale che le Chiese possono offrire.
In un’arringa forte e appassionata, il p. Hachem dirà tutta la speranza che egli investe nel Cemo, incarnazione del principio di sinodalità, santuario ecclesiale ed ecumenico del dialogo con l’islam in questa parte del mondo. Questo professore di ecclesiologia deplora “la superficialità e l’incoscienza” che – in modo transitorio – hanno impedito in questi ultimi anni di ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” e di rispondervi; e che l’hanno trasformato lentamente in una ong… ciò che non lo è, né dovrebbe essere.
Il Cemo deve dotarsi di una “visione d’insieme”, insiste p. Hachem, che rischia un inciampo: “Ciò va molto più in là della data della Pasqua comune…”. Certo, certo, ma perché i capi religiosi della nostra epoca non hanno ancora accordato al popolo di Dio in Oriente la data comune della Pasqua, che esso reclama da decenni? Non sarebbe questa la decisione ecumenica più elementare, aspettando i grandi accordi teologici sul primato, che alimentano tante suscettibilità umane?
Nella sua esposizione, Tarek Mitri, al di là della indispensabile messa a punto del contesto storico sulla “transizione democratica” mancata della primavera araba, invita le Chiese alla sobrietà di visione, indispensabile per adattare i loro discorsi e le loro azioni alle differenti situazioni che incrociano.
Affianco ai Fratelli Musulmani, tesi nella loro sete di potere, affianco al quietismo salafita ipnotizzato da una morale della violenza religiosa ancorata nel 7mo secolo dell’era cristiana, vi è – mostra Mitri – l’immensa massa di musulmani coscienti che la violenza emersa dalla matrice islamista non li rappresenta; l’immensa comunità dei credenti che una lunga familiarità col cristianesimo ha aperto all’accettazione pacifica dell’altro nella sua differenza.
L’ex ministro invita perciò le Chiese del Cemo a tener conto di queste differenze, resistendo alla tentazione dell’amalgama e continuando a giocare il ruolo di trasmettitore di cultura e civiltà che è stata la loro fin dagli inizi dell’islam; mettendo l’avvenire del mondo arabo nelle mani dei musulmani stessi, affidandolo alla loro capacità di costruire uno Stato moderno basato sulla cittadinanza e l’inclusione.
Mitri domanda ai cristiani anche di resistere al riflesso della paura che alcuni provocano, per far loro credere che i regimi dittatoriali sono la sola alternativa all’islamismo. Se talvolta si incontra il disappunto, la delusione – spiega in pratica – è perché non si può fare [calcolare] l’economia del tempo necessario alla trasformazione delle mentalità e all’educazione, mentre la tendenza allo sbriciolamento e al regresso, o alla chiusura identitaria religiosa, sembra prosperare.
Fady Noun – asianews
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