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Matrimonio – Matrimonio e vita coniugale

22 Luglio 2011 | Filed under: Biblioteca
     

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Matrimonio e vita coniugale

Antonio Corti

CAPITOLO PRIMO

IL MATRIMONIO: VOCAZIONE DI DIO

Secondo una concezione troppo diffusa, il Ma­trimonio sarebbe nient’altro che una sistemazione imposta da circostanze o convenienze sociali.

Ad una certa età, quando non si può sempre vivere in casa con genitori e fratelli e bisogna ac­quistare la propria indipendenza, si cerca una si­stemazione: l’uomo non può normalmente, nelle contingenze ordinarie, vivere senza la donna, né la donna senza l’uomo: e allora ci si sposa. Appa­re così come un passo che si deve fare; e si deve avere almeno quella sopportazione rassegnata che si richiede nelle situazioni inevitabili.

Altri vanno al Matrimonio con un animo ben diversamente disposto. Vi sono trasportati dal­l’entusiasmo, dall’amore, cercano e vedono nel Matrimonio uno stato di sicura e completa felici­tà, col pericolo poi di restarne delusi. Pretendono troppo, sognano troppo, vogliono più di quel che danno. Certe amare delusioni portano poi a delle tragiche rotture oppure ad un rassegnato adatta­mento alla monotona mediocrità.

Se si vogliono evitare i due estremi che conside­rano il Matrimonio o come una necessaria sistemazione o come un porto di felicità assicurata, lo si deve considerare come una vocazione da parte di Dio, una missione, una responsabilità, un punto di partenza non di arrivo definitivo. Più chiara­mente: il Matrimonio va considerato non tanto in se stesso, quanto nel piano generale di Dio, co­me parte di questo piano……..




…….Dio Creatore, questo Essere assolutamente Su­premo, Infinito, Eterno, Onnipotente, ha creato il mondo: il mondo materiale e il mondo spiritua­le. L’uomo è creatura di Dio: creatura nobilissi­ma perché dotata di anima spirituale e perciò di intelligenza e volontà libera.

Essendo Dio un Essere infinitamente Sapiente, ha fissato uno scopo a tutte le creature, le dirige, le guida, provvede loro: si parla perciò di Prov­videnza divina.

Se vogliamo concretizzare i concetti con imma­gini, possiamo chiamare Dio il Grande Architetto dell’universo: secondo un preciso disegno ha fis­sato il fine e la struttura di tutto l’universo e del­le singole parti: secondo tale disegno ha costruito e conserva l’universo e vigila a questo grande edi­ficio: ogni pietra ha il suo posto, ogni elemento ha la sua funzione.

E se veniamo più vicini all’uomo, Dio è il Gran­de Regista di questo immenso dramma umano: immenso nello spazio e nei secoli. Egli assegna a ciascuno la propria parte da recitare: la perfezione dell’insieme deriva dalla perfezione con cui vengo­no recitate e attuate le singole parti, anche le mi­nime.

Tutto l’universo, tutte le forze di natura sono state da Dio create e messe a disposizione dell’uo­mo, il « re del creato »: e l’uomo se ne deve ser­vire per rendere gloria a Dio Creatore.

L’uomo riassume tutte le voci del creato, le lodi inconsapevoli delle creature materiali e le fa pro­prie, indirizzandole a Dio. Perché ciò potesse avve­nire in modo più degno, ecco che Dio ha riunito tutti gli uomini in un Uomo che è anche Dio, cioè in Gesù Cristo.

Gesù Cristo è uomo come noi ed è Figlio di Dio; è il Verbo di Dio, la seconda Persona della SS. Trinità, che ha assunto natura umana; è il pun­to d’incontro tra umanità e divinità; è il ponte di passaggio attraverso il quale l’umanità arriva a Dio; è il centro dell’universo perché in Gesù Cristo si incontra l’universo creato con l’universo increato cioè con Dio.

S. Paolo descrive questa grande piramide ascen­dente con le seguenti parole: « Tutte le cose crea­te sono per voi uomini, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Corinti, 3, 22): l’universo materiale arriva a Cristo attraverso l’uomo, arriva a Dio at­traverso Cristo.

Tutti gli uomini riuniti in Gesù Cristo costitui­scono la Chiesa. Ecco che cos’è la Chiesa: tutta l’umanità riunita in Gesù Cristo come Capo. È il misterioso Corpo di Cristo: misterioso (mistico) ma reale.

E come in un edificio ben riuscito ogni elemen­to ha la sua funzione; come in un dramma ogni parte ha la sua importanza, così in un corpo sano ogni membro, ogni organismo ha la sua funzione da compiere e la struttura adatta alla funzione; dal retto funzionamento dei singoli organismi dipende la sanità di tutto il corpo.

Ogni uomo ha la sua parte da compiere nel dramma umano, la sua strada da percorrere: e tut­to ciò in preparazione alla vita eterna, giacché que­sta vita terrena è solo provvisoria: tutti lo vediamo e lo sentiamo. La nostra vita sulla terra è passaggio e preparazione alla vita eterna. Anche Gesù de­scrive la vita umana come un dramma in due at­ti: il primo atto, quello terreno, è provvisorio e preparatorio; il secondo, quello dell’al di là, è de­finitivo ed eterno. Si ricordi la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro.

Dopo questi brevi accenni si può capire meglio che cosa sia il Matrimonio per un uomo e più an­cora per un cristiano: è uno stato di vita che entra nel piano divino, è un organismo vivente nel Corpo Mistico di Cristo ed ha un fine da attuare, una funzione da compiere.

Il Matrimonio non è quindi né una forzata si­stemazione né una sorgente di felicità completa: è una missione, un impegno, una responsabilità. Quando funziona bene, riserva certo le sue gioie: però, anche per il Matrimonio, valgono le parole del Manzoni: « bisogna vivere per far bene, non per star bene, e si finirà con lo star meglio ».

Due cristiani si sposano per compiere, nella Chiesa, la parte e il compito loro fissato da Dio in questa vita, come mezzo per meritarsi il Paradiso.

Scriveva il Card. Montini (poi Paolo VI) quan­do era Arcivescovo di Milano, che il Matrimonio deve essere presentato « come una vocazione, co­me una missione, come un grande dovere, che dà alla vita un altissimo scopo, e la riempie dei suoi doni e delle sue virtù.

« Né questa presentazione deforma o esagera la realtà delle cose. Il Matrimonio non è un epi­sodio capriccioso, non è un’avventura momenta­nea; è una scelta cosciente e definitiva dello stato di vita ritenuto migliore per chi vi si avvia, dello stato che l’uomo e la donna si creano l’un l’altro, non solo per completarsi fisicamente, ma per in­terpretare un disegno provvidenziale, che deter­mina il loro destino umano e sovrumano ». (Per la famiglia cristiana, 1960).

CAPITOLO SECONDO

IL MATRIMONIO CRISTIANO

In un libretto della Sacra Scrittura, il libro di Tobia che tutti gli sposi cristiani dovrebbero leg­gere, si trova questa preghiera del giovane Tobia: «Benedetto sei Tu, o Dio dei nostri padri. E be­nedetto il tuo nome, santo e glorioso nei secoli. Ti benedicano i cieli e tutte le tue creature. Tu hai fatto Adamo e gli hai dato in aiuto Eva, gli hai dato in sostegno sua moglie: da loro è nato il ge­nere umano»(Tobia, 8, 5 s.).

È una chiara dichiarazione che il matrimonio de­riva da Dio. E se è così, come dimostreremo, è evidente che le leggi essenziali del matrimonio, fis­sate da Dio nell’ístituirlo, non possono essere cam­biate dagli uomini, neppure dallo Stato.

Sarebbe utile parlare subito del matrimonio co­me Sacramento e ciò per due motivi:

a) anzitutto perché il vero matrimonio nei di­segni di Dio è il Matrimonio Sacramento. Il ma­trimonio come istituto naturale, nei fini di Dio, è solo una preparazione e un’analogia del Matrimo­nio Sacramento;

b) in secondo luogo perché per i cristiani non c’è altro matrimonio valido che il Matrimonio Sa­cramento.

Chi è cristiano, cioè battezzato, diventa irrevo­cabilmente membro della Chiesa (che è il Corpo Mistico di Cristo); si trova ad essere membro di una società soprannaturale, il Popolo di Dio. Co­me c’è una legislazione o un diritto italiano, fran­cese, ecc., così c’è un diritto naturale, un diritto soprannaturale. In Italia, cittadini italiani non possono vivere secondo leggi straniere e la vali­dità dei loro atti giuridici dipende dall’osservanza delle prescrizioni del diritto italiano. Così si po­trebbe dire che chi è inserito nell’ordine sopran­naturale e fa parte del Corpo Mistico di Cristo de­ve vivere secondo il diritto della Chiesa o Corpo Mistico di Cristo. E siccome nel Corpo Mistico di Cristo il Matrimonio è Sacramento, chi è cri­stiano ed è cioè irrevocabilmente inserito nella Chiesa, può validamente contrarre solo il Matri­monio Sacramento.

Istituzione divina

Una delle solite difficoltà che si sentono contro il matrimonio è questa: « Il matrimonio è un con­tratto consensuale. E allora, come la libera volontà dei contraenti basta per contrarlo, la stessa loro libera volontà dovrebbe bastare per scioglierlo o per variarne le leggi ».

La risposta a questa difficoltà è piuttosto sem­plice e facile. Quando due si sposano, entrano

liberamente in uno stato di vita già precostituito, le cui leggi sono già fissate dalla natura cioè da Dio. Il matrimonio è un contratto consensuale cioè un contratto per il quale basta il consenso delle parti contraenti; ma non è un contratto volontari­stico cioè un contratto che crei liberamente il pro­prio oggetto e le proprie leggi.

Ciascuno è libero di sposarsi o di non sposarsi, è libero di sposare quella persona o un’altra; ma, una volta fatta la scelta e contratto il matrimonio, gli sposi si impegnano in una istituzione preesisten­te, i cui fini e le cui leggi sono già fissati dalla na­tura e quindi da Dio, Creatore della natura.

Il Concilio Vaticano II ha richiamato con molta decisione questo insegnamento; nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,Gaudium et spes, si legge: « L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal Creatore e struttu­rata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniu­gale, cioè dall’irrevocabile consenso personale. E così, è dall’atto umano col quale i coniugi mutua­mente si danno e si accettano, che nasce, anche davanti alla società, un istituto che ha stabilità per ordinamento divino; questo vincolo sacro in vista del bene sia dei coniugi e della prole che della so­cietà, non dipende dall’arbitrio dell’uomo. Perché è Dio stesso l’autore del matrimonio, che è dotato di molteplici valori e fini; tutto ciò è di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e il destino eterno di ciascu­no dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa fami­glia e di tutta la società umana » (n. 48).

E’ dunque assai importante dimostrare che il ma­trimonio è stato istituito da Dio e non dagli uo­mini.

1. Il matrimonio, cioè l’unione stabile ed esclu­siva dell’uomo e della donna, è necessario al bene della natura umana ed è la stessa natura umana che spontaneamente induce all’unione dell’uomo e della donna. Il matrimonio, dunque, come istituto, non è frutto di libera creazione umana o di libera convenzione ma è frutto della natura stessa: è di diritto naturale.

E’ infatti la stessa natura che spinge l’uomo e la donna ad unirsi: l’attrazione dei sessi è frutto di istinto naturale. I due sessi si attraggono perché sono diversi e complementari tra loro, tendono a completarsi unendosi; si attraggono poi per l’i­stinto di conservazione della specie, conservazione che avviene attraverso l’unione dei sessi per la procreazione.

La natura spinge l’uomo e la donna all’unione stabile (o matrimonio), perché il completamento e l’aiuto reciproco si ottiene da una unione stabile, con lo scambio totale e definitivo, direi col pos­sesso comune, delle qualità complementari (fisiche e spirituali). D’altra parte l’istinto naturale verso la conservazione della specie porta anche ad alle­vare, a curare e ad educare i figli. E ciò esige na­turalmente una unione stabile.

La indissolubilità del matrimonio è fondata sul­le esigenze dell’amore e sulla natura della procrea­zione umana. La procreazione umana, mettendo al mondo figli composti di corpo e di anima, deve avvenire in una situazione che renda possibile l’a­zione stabile dei genitori che hanno procreato il figlio, azione stabile richiesta per l’allevamento e, soprattutto, per l’istruzione e l’educazione del fi­glio. Solo gli esseri inferiori, senz’anima spirituale, non educabili, possono nascere da un accoppiamen­io casuale.

E inoltre il matrimonio, come patto d’amore tra due persone, esige l’indissolubilità proprio perché si tratta di un legame tra due persone. Il contratto di compravendita di cose, oggetti, case, animali, si può anche sciogliere; ma un libero reciproco patto che ha per oggetto due persone esige che rimanga indissolubile proprio per la dignità della persona umana. Una persona non si può prendere e lasciare come una cosa, non la si può cambiare come un ve­stito o un mobile.

Se la natura stessa induce i due sessi umani ad una unione stabile, cioè al matrimonio, vuol dire che Dio ha istituito il matrimonio poiché Dio è l’Autore della natura e delle sue leggi.

2. Dio ha voluto poi dare una promulgazione di questa legge divina naturale. Non si è acconten­tato di istituire il matrimonio inserendolo nella co­stituzione naturale dell’uomo; Egli ha compiuto anche una positiva istituzione del matrimonio rendendo esplicite ed aperte le leggi, i fini, la struttu­ra del matrimonio, mediante la rivelazione della Sacra Scrittura.

I primi due capitoli del libro della Genesi, con parlare semplice e metaforico adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono… una narra­zione popolare dell’origine del genere umano (Pio XII. Encicl. Humani generis).

La narrazione della creazione dei progenitori è duplice. Ebbene questa duplice narrazione è pro­prio scritta in prospettiva matrimoniale, quasicché all’Autore sacro importasse mettere in evidenza so­prattutto l’istituzione del matrimonio e gli insegna­menti inerenti ad esso.

Ecco la prima narrazione: « Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra », (Genesi 1, 27 s.).

Nella seconda narrazione si dice che Dio, dopo aver creato l’uomo, non trova bene che rimanga solo: crea dunque gli animali « ma per l’uomo non trovò un aiuto che fosse simile a lui » e allora creò la donna e la presentò ad Adamo il quale dis­se: « Questa volta è ossa delle mie ossa e carne della mia carne! Costei si chiamerà donna perché dall’uomo fu tratta costei »’. E l’Autore sacro commenta: « PERCIÒ l’uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne » (Genesi 2, 18-24). Gesù attribui­sce queste ultime parole al Creatore stesso (Mat­teo, 19, 5).

Da questi due testi appare chiaro che l’uomo è creato da Dio in duplice sesso (maschio e femmi­na); da Dio deriva il comando alla unione pro­creativa e ciò è accompagnato da una benedizione che dà un valore religioso e sacro a questo coman­do: « la procreazione è il compimento di un di­segno provvidenziale di Dio » (Galbiati E.).

Appare inoltre che l’uomo e la donna sono complementari, fatti l’uno per l’altra e che l’esse­re completo, uomo-donna, si ottiene definitivamen­te nel matrimonio in cui i due diventano un essere solo. Dal secondo racconto biblico sembra quasi che l’Autore voglia dire: « Siccome la donna è stata staccata dall’uomo e ne sono così risultati due esseri incompleti, perciò l’uomo abbandona il pa­dre e la madre e si unisce alla sua donna con ma­trimonio monogamico (i due diventano una sola carne) e indissolubile (legame più forte di quello tra figli e genitori “abbandona il padre e la ma­dre…”) ».

La poligamia (un uomo con più mogli) e il di­vorzio, che si trovano presso il popolo ebraico nel­l’Antico Testamento, sono solamente tollerati da Dio, non approvati. Il popolo ebraico, pure eletto da Dio, visse quasi sempre a contatto con popoli pagani (Egitto, Canaan, Babilonia…) e ne subì le forti tentazioni (es. idolatria); la debolezza, por­tata dal peccato originale e aggravata dalle attra­zioni verso le abitudini dei popoli pagani, non era ancora sanata dalla grazia del Redentore. Ecco il perché della tolleranza di Dio.

Nonostante ciò, l’Antico Testamento, per bocca dei Profeti tiene così alto il concetto di matrimo­nio e di amore coniugale da elevarli a simbolo e immagine dell’amore di Dio per il suo popolo elet­to (cfr. Osea, specialmente 2, 18, 21-22; Geremia 2, 2 e il Cantico dei cantici).

Gesù Redentore redime anche l’amore e il ma­trimonio: restituisce al matrimonio la dignità ini­ziale e, in più, lo eleva a Sacramento.

Il fine del matrimonio

E’ noto che il matrimonio nella sua essenza è un patto di reciproca, definitiva e completa dona­zione, di corpo e di spirito, da parte dei coniugi.

Il Concilio Vaticano II ha messo in evidenza il valore personalistico del matrimonio « mutua do­nazione di due persone » e dell’amore coniugale « atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà » (Gaudium et spes, nn. 48 e 49).

Se si domanda a degli sposi: « Perché vi siete sposati? » rispondono: « Perché ci amavamo, e ci siamo sposati per poterci amare ». Anche sposi falliti risponderebbero: « Ci siamo sposati perché credevamo di volerci bene, ci credevamo fatti l’uno per l’altro ». Come fine del matrimonio appare l’amore reciproco, il desiderio di aiuto reciproco.

Il matrimonio, appunto perché unione stabile di due persone, ha per fine le persone giacché una persona umana non può essere « strumentalizzata » ad altro fine che non sia Dio: i coniugi non sono dunque « strumenti » della procreazione.

Questo fine è ricordato anche dalla narrazione, già citata, di Genesi 2, 24: amore, aiuto, comple­tamento e perfezionamento reciproco degli sposi; un vero arricchimento personale reciproco.

È utile, a questo proposito, ricordare che il se­gno sensibile del matrimonio come sacramento (se­gno sacramentale) è proprio il vincolo d’amore fra gli sposi che simboleggia efficacemente il legame d’amore tra Cristo e la Chiesa.

Già Pio XI nella Casti Connubii scriveva: « Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, questo assiduo studio di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo, come insegna il Catechismo Romano, si può dire anche primaria cagione e motivo del matrimonio, purché s’intenda per matrimonio non già, nel senso più ristretto, l’istituzione ordinata alla retta procreazione ed educazione della prole, ma, in senso più largo, la comunanza, l’uso e la società di tutta quanta la vita ».

Il Concilio, a questo proposito, pone in eviden­za il valore dell’amore coniugale in se stesso, anche prescindendo dalla procreazione, e la completezza di tale amore: amore di spirito e di corpo. Leggiamo infatti nella Gaudium et spes: « Il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma il carattere stesso di patto indis­solubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giu­ste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole molto spesso tanto vi­vamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdu­ra come rapporto e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità » (n. 50).

E ancora: « Proprio perché atto eminentemen­te umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quel­l’amore abbraccia il bene di tutta la persona, e per­ciò ha la possibilità di arricchire di particolare di­gnità i sentimenti dell’animo e le loro manifesta­zioni fisiche e di nobilitarli come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale » (n. 49).

Essendo l’uomo indebolito dal peccato origina­le si può anche aggiungere un’altra osservazione. L’istinto sessuale che dopo il peccato originale è diventato spesso disordinato (i progenitori, solo dopo il peccato, sentirono il turbamento per la loro nudità: Genesi 3, 7), trova possibilità di le­gittima attuazione e soddisfazione solo nel matri­monio. S. Paolo giunge a scrivere: « Se non sanno serbarsi continenti, si sposino; poiché è meglio sposarsi che bruciare » (1 Corinti 7, 9).

È certo che va posto in evidenza il diritto-dovere che gli sposi hanno di procreare e il grande valore dei figli. Ciò è ricordato nel racconto della Crea­zione in Genesi 1, 28 s.

Fine del matrimonio è l’amore che può o deve diventare fecondo.

È questo un insegnamento che troviamo più volte ripetuto nel Concilio. Si legge nella Gaudium et spes: « Per natura sua l’istituto stesso del ma­trimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento » (n. 48); e ancora: « Il vero culto dell’amore coniugale e tutta la struttura familiare che ne nasce, senza trascura­re gli altri fini del matrimonio, tendono a rendere i coniugi disponibili per cooperare coraggiosamen­te con l’amore del Creatore e del Salvatore, che per loro mezzo continuamente ingrandisce e arricchi­sce la sua famiglia.

« I coniugi sappiano di essere cooperatori del­l’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel dovere di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come una missione loro propria » (n. 50).

Il dovere della procreazione non può affatto es­sere disgiunto dalla educazione dei figli. Si tratta di procreazione di esseri umani i quali, composti di anima e di corpo, devono essere non solo alle­vati ma anche educati, cioè guidati ed aiutati a svilupparsi anche nello spirito. E l’educazione è im­portante e indispensabile a tal punto che una pro­creazione indiscriminata, la quale rendesse impos­sibile l’educazione, sarebbe una procreazione inop­portuna.

Un cristiano non deve poi dimenticare l’aspetto soprannaturale di questo dovere. Con la procrea­zione si generano i figli destinati a diventare figli di Dio mediante il Battesimo, membri del Corpo Mistico di Cristo, cittadini del Paradiso: si pone la condizione necessaria per edificare ed accrescere il Corpo Mistico di Cristo. Con l’educazione cri­stiana si tende a formare Cristo nei figli secondo la bella espressione di S. Paolo che potrebbe es­sere la definizione dell’educazione cristiana: « Fi­glioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo non sia formato in voi » (Ga­lati 4, 19).

A modo di sintesi si possono qui ricordare le parole del Santo Padre Paolo VI: « Dio ha voluto rendere partecipi gli uomini del suo amore: del­l’amore personale che egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vi­cendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale de­sidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna » (al XIII Congresso del CIF – 12 febbraio 1966).

Le osservazioni sopra descritte e quelle che fa­remo riguardo al matrimonio-sacramento presentano il matrimonio ideale cui deve tendere l’umanità e specialmente il cristiano. Non si deve però di­menticare che « la durezza del cuore » che Gesù riconosce agli Ebrei non è del tutto scomparsa.

« Il sublime ideale del matrimonio cristiano pre­sentato dal Nuovo Testamento deve essere sempre additato come una meta da raggiungere. Quando però si consideri la realtà della vita umana nel suo vero contesto esistenziale, e si vogliano rispettare le grandi diversità culturali che vi si riscontrano, è difficile illudersi che tutti i cristiani sposati, nel­le varie situazioni storico-culturali in cui si tro­vano, attuino questo sublime ideale normativo »; … il popolo di Dio è un « popolo formato di ogni nazione, pellegrino sulla terra e che può bensì rag­giungere la meta, ma avanzando lentamente nel corso delle generazioni » (Eugenio Hillmann).

Considerazioni di questo tipo non vogliono af­fatto indurre alla mediocrità né far credere irrea­lizzabile l’ideale cristiano: tendono invece ad in­coraggiare i molti (e sono legione!) che, non riu­scendo ad arrivare subito e bene all’ideale propo­sto, abbandonerebbero ogni sforzo ed ogni tensio­ne se non si dimostrasse loro che il cammino è lungo e richiede pazienza e che l’ideale si raggiun­ge solo progressivamente nella vita singola e nelle generazioni.

C’è molto da temere da una presentazione trop­po luminosa dell’ideale coniugale come facilmente accessibile da « tutti i generosi ».

La struttura

Un architetto fissa la struttura di una costruzio­ne e ne delinea il disegno solo in rapporto al fine della costruzione stessa. Così il Signore ha fissato la struttura del matrimonio proprio secondo il fine del matrimonio. E così il matrimonio è voluto da Dio come monogamico (uno solo con una sola) e indissolubile proprio perché esso possa attuare l’a­more tra gli sposi e l’educazione dei figli.

Come sarebbe possibile l’educazione dei figli in una famiglia in cui ci fosse un marito e più mogli? oppure in una famiglia in cui fosse ammessa la pos­sibilità di sciogliere il matrimonio, abbandonando ad altri i figli e passando a nuove nozze, dove pos­sono nascere altri figli che potrebbero di nuovo essere abbandonati?

Come si può parlare di amore coniugale totale se non c’è l’unità o monogamia per cui uno si dona totalmente (anima e corpo) solo ad un’altra? Come si può parlare di amore vero e totale se si ammette anche solo la possibilità di sciogliere il matrimonio e di passare ad un altro amore?

Bisogna insistere sul concetto che queste leggi più che leggi imposte dall’esterno sono intime esi­genze dell’amore. È l’amore tra gli sposi, è l’amo­re verso i figli che esige sia l’unità sia l’indissolu­bilità del matrimonio: senza questa struttura non c’è amore.

a) L’unità (o monogamia) è ormai così accettata e capita tra le nazioni civili che non mette conto di insistervi. Basti ricordare le parole della Genesi (2, 24: richiamate da Gesù, Matteo 19, 5): « Perciò l’uomo… si unisce alla sua donna e i due diventano una sola carne ».

b) L’indissolubilità del matrimonio esige una maggiore insistenza proprio per le tendenze divor­zistiche tanto sbandierate in campo non cattolico e però spesso accettate, per motivi sentimentali o per innegabili casi dolorosi, anche da cattolici o da sedicenti cattolici.

Sul problema del divorzio basti solo qualche ac­cenno. Se non si ammette alcuna eccezione alla in­dissolubilità è perché l’eccezione sarebbe poi tra­sformata in una regola; da un pertugio ci passereb­bero tutti: si passerebbe così dal matrimonio al… libero amore (un divorzio dopo l’altro, come spes­so avviene), e crollerebbe così il fondamento della famiglia che Dio, invece, vuole conservare.

Il divorzio può quindi essere un attentato contro la stabilità della famiglia (bene comune che lo Sta­to deve difendere) e non portare alcun rimedio ai mali cui vorrebbe opporsi.

Tra cattolici, non del tutto istruiti in materia, possono sorgere due atteggiamenti errati e cioè:

– anche la Chiesa cattolica potrebbe cambiare il suo insegnamento tradizionale dal punto di vi­sta dei principii;

– un’introduzione del divorzio da parte dello Stato potrebbe valere anche in coscienza. Sono errori che contrastano direttamente con l’insegnamento che troviamo nel Nuovo Testamen­to. Ecco perché è utile rileggere i testi scritturistici. S. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (7, 10 s.) scrive: « Quanto alle persone sposate ordi­no, non io ma il Signore, che la moglie non si se­pari dal marito. Che se già si è separata, non ri­prenda marito ovvero si riconcilii col suo sposo. E che il marito non ripudi la moglie ».

E ai Romani (7, 2 s.) egli scrive ancora: « La donna sposata è legata per legge al marito finché egli vive; ma, se il marito muore, è sciolta dalla legge del marito. Di conseguenza essa si avrà il nome di adultera se, vivente suo marito, diventa la donna di un altro uomo; all’opposto, morto il marito, è esente da quella legge e non è adultera se diventa la moglie di un altro uomo ».

Gesù aveva dato un insegnamento chiarissimo al riguardo. Eccolo: « E’ stato anche detto: chi vorrà rimandare la sua donna, le dia un atto di divorzio. Io, pero, vi dico: chiunque rimanda la sua donna, eccettuato il caso di concubinato, ne fa un’adultera, e chiunque sposa una ripudiata com­mette adulterio » (Matteo 5, 31 s.).

Ancora più chiaro e diffuso è l’insegnamento di Gesù in una discussione coi Farisei (Matteo 19, 3-10): « Gli si avvicinarono dei Farisei per metter­lo alla prova e gli dissero: è lecito ripudiare la propria moglie per un motivo qualsiasi? Egli ri­spose: non avete letto che il Creatore, da princi­pio, li fece maschio e femmina e disse: per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie, e i due formeranno una carne sola? Per questo, non sono più due ma una carne sola. Non separi, dunque, l’uomo quello che Dio ha uni­to. Gli dicono: ma allora perché Mosè ordinò di consegnare un atto di divorzio e di ripudiarla? Dice loro: Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli a causa della vostra durezza di cuore, ma al principio non fu così. Ma io vi dico: chiun­que rimanda la propria donna, se non è concubi­nato, e ne sposa un’altra, commette adulterio; e chi sposa una ripudiata commette adulterio. Gli dicono i discepoli: se questa è la condizione degli uomini, non conviene sposarsi ». (L’identico insegnamento in: Marco 10, 2 s.; Luca 16, 18).

Sono parole così chiare che non lasciano dubbio circa l’insegnamento di Gesù, il quale insegnamen­to (lo si noti bene!) si richiama alla volontà di Dio Creatore (« al principio non fu così… »): e le parole degli Apostoli fanno capire quanta decisa e irrevocabile sia stata la parola di Gesù.

È dunque chiaro per il cristiano che il matrimo­nio-sacramento è indissolubile: siccome riproduce il vincolo indissolubile esistente tra Cristo e la Chiesa (come diremo in seguito) il matrimonio-­sacramento gode della stessa indissolubilità.

Uno scioglimento di tale matrimonio, prodotto dallo Stato col divorzio, non ha nessun valore in coscienza.

Per il cristiano l’indissolubilità del matrimonio costituisce un atto di fede, un abbandono a Dio « un atto di abbandono – scrive il teologo Schille­beeckx – per il quale, a dispetto di tutte le tenta­zioni che l’avvenire potrà suscitare, io mi affido al Dio assoluto, fondamento ultimo di ogni valore as­soluto. Questa firma senza condizioni data in bian­co – è la vita stessa che, a poco a poco, scriverà la pagina – dà valore a questo atto di fiducia che è l’impegno coniugale.

« Si tratta di impegnarsi verso un avvenire sco­nosciuto, di far credito in anticipo al Dio vivente, nella convinzione certa che Cristo in questa occa­sione mi affida una missione di salvezza ».

Giova qui ricordare che l’amore non è solo una attrazione fisica e neppure solo un rapporto affet­tivo, è anche, e specialmente, una volontà di amo­re. Nei casi in cui « vien meno l’amore » si deve pensare che esiste un tipo di amore più completo in cui il voler amare è vissuto come un dovere che impone anche la ricerca della ricostruzione del rapporto affettivo.

La Chiesa non potrà mai rinunciare al principio della indissolubilità, anche se può riconoscere co­me parte del suo « potere di legare e di scioglie­re » il potere di praticare qualche eccezione fermo restando il principio stesso. La legge civile può applicare il principio di tolleranza e ammettere eccezioni in vista del « male minore ».

– Privilegio paolino

Si possono ricordare due eccezioni al principio dell’indissolubilità del matrimonio, eccezioni am­messe ed attuate dalla Chiesa Cattolica: il privi­legio paolino e il matrimonio rato e non consu­mato.

Il privilegio paolino si può esporre così: due infedeli, cioè non-battezzati contraggono matrimo­nio valido tra loro; se uno dei due si converte al cristianesimo e riceve il Battesimo possono conti­nuare a vivere insieme e il loro matrimonio con­tinua a valere; ma se il coniuge rimasto infedele non intende continuare a vivere col coniuge con­vertito e se ne va, possono risposarsi ambedue con altri e il loro precedente matrimonio è sciolto.

Si chiama privilegio « paolino » perché è stato annunciato da S. Paolo.

Ecco il testo di S. Paolo: « Se un cristiano ha in moglie una pagana, e costei consente di abitare con lui, non la ripudi. E se una cristiana ha per marito un pagano, e questi consente di abitare con lei, non abbandoni il marito.

« Poiché il marito non credente si trova santi­ficato dalla moglie credente e la moglie non creden­te si trova santificata dal marito credente; altrimen­ti i vostri figli sarebbero impuri, mentre ora sono santi. Ma se il non credente vuol separarsi, si se­pari pure: il cristiano o la cristiana non sono le­gati come schiavi in tali circostanze: Iddio ci ha chiamati ad essere nella pace. Infatti, che ne sai tu, o donna, se salverai tuo marito? Ovvero che ne sai tu, o uomo, se salverai tua moglie? » (I Co­rinti 7, 12-16).

Si può osservare, come semplice accenno, che se il marito non credente è santificato dalla moglie e la moglie non credente è santificata dal marito, quanto più si deve dire questo di un marito cri­stiano e di una moglie cristiana, per i quali ogni segno d’amore reciproco è un’espressione della vo­lontà di comunicare la vita di Cristo all’altro e, in forza del matrimonio-sacramento, una reale co­municazione di tale vita.

– Matrimonio rato e non consumato

Un matrimonio contratto validamente (rato = ratificato) e quindi vero sacramento può essere sciolto quando non è ancora avvenuta la copula coniugale (non consumato): viene sciolto ipso iure quando uno dei due coniugi emette voto solenne in un ordine religioso; viene sciolto per dispensa papale quando almeno uno dei coniugi lo domandi adducendo una « giusta causa ». Non si oppone a tale privilegio la copula avuta prima del matri­monio.

E’ un problema sorto nel secolo XII quando si discuteva circa l’elemento costitutivo essenziale del matrimonio: « è la copula » diceva Graziano nel Decretum (1140) riassumendo la voce dei canoni­sti della scuola di Bologna; « è il consenso » dice­va Pietro Lombardo nelleSententiae (1152) rias­sumendo la voce dei teologi della scuola di Parigi.

Alla discussione tra canonisti e teologi diede fine il papa Alessandro III (1159-1181), seguito poi da Innocenzo III (1198-1216) e da Gregorio IX (1227-1241): il papa distinse la indissolubilità di diritto che si ottiene col consenso (m. rato) e la indissolubilità di fatto che si ottiene con la copula (m. consumato).

Alessandro III insegnava cioè che il matrimonio costituisce un sacramento vero e valido unicamen­te e formalmente in virtù del consenso, ma finché il matrimonio non è stato consumato con l’unione coniugale rimane ancora dissolubile per atto di giurisdizione ecclesiastica e ciò perché l’unione di Cristo e della Chiesa è simboleggiata dalla una caro di cui parla la Bibbia (« i due diventano una sola carne », Genesi 2, 25).

Sorgono qui opportune due osservazioni. Anzi­tutto appare il valore positivo anzi « sacramenta­le » dell’unione dei corpi nel matrimonio se in essa troviamo il sigillo definitivo dell’indissolubilità.

Inoltre appare che la Chiesa si riconosce il « po­tere di legare e di sciogliere » anche nel campo di un matrimonio-sacramento vero e valido.

Se mai c’è da porre il problema se la « consuma­zione » del matrimonio consista solo nel primo am­plesso completo (atto fisico-biologico) oppure con­sista non in un unico atto ma in più atti successivi che conducono a una vicendevole e completa dona­zione sponsale. Pare proprio di dover propendere per la seconda ipotesi (consumazione = sviluppo di intesa completa tra i coniugi): e allora si allar­gherebbe molto il potere della Chiesa sul matrimo­nio rato e non consumato. Resta però sempre la difficoltà di poter dimostrare con certezza di fronte alla società quando avvenga realmente « questa » consumazione veramente umana e non solo fisica. C’è da sperare che si possa arrivarci.

c) La fedeltà. E’ evidente che l’amore coniu­gale, totale e definitivo, esige fedeltà piena e ugua­le sia da parte del marito che della moglie. Non si può ammettere la « doppia morale » (cioè maschile e femminile) che è tanto in uso. Dal punto di vista morale l’obbligo della fedeltà è grave anche per gli uomini allo stesso modo che per le donne. E Gesù parlava proprio agli uomini quando comandava una fedeltà totale (di corpo, di cuore, di mente).

Dice Gesù: « Avete udito che è stato detto: non commetterai adulterio. Io, però, vi dico: chiunque guarda una donna desiderandola, ha già commesso in cuor suo adulterio con essa » (Matteo 5, 27).

Ed è un richiamo preciso al IX comandamento. L’insegnamento di Gesù e della Chiesa è riba­dito dal Concilio: « Questa intima unione, in quanto mutua dona­zione di due persone, come anche il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità » (Gaudium et spes, n. 48): si noti l’insistenza sul valore della persona umana come motivo di indissolubilità!

Dice ancora il Concilio: « Questo amore, rati­ficato da un mutuo impegno e più di tutto sancito da un sacramento di Cristo, è indissolubilmente fedele nella prospera e nella cattiva sorte sul pia­no del corpo e dello spirito, e di conseguenza esclude ogni adulterio e divorzio. L’unità del ma­trimonio confermata dal Signore appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale sia dell’uomo che della donna, che deve essere ricono­sciuta nel mutuo e pieno amore » (Gaudium et spes, n. 49).

Mi pare utile far osservare che è erroneo par­lare di « annullamento » di matrimonio da parte della Sacra Romana Rota. Questo supremo tribu­nale ecclesiastico (ed anche i tribunali ecclesiastici diocesani o regionali per cause matrimoniali) non annulla nessun matrimonio ma solo analizza i ma­trimoni denunciati come nulli dagli interessati, ne esamina la validità o invalidità, e, in caso di inva­lidità dimostrata, emana una dichiarazione di nul­lità per i matrimoni già nulli.

Conclusione

La casa che resiste è solo quella fondata sulla roccia; crolla invece quella costruita sulla sabbia (Matteo 7, 24-27). Il grande Architetto Divino ha voluto perciò costruire la famiglia sulla roccia gra­nitica del matrimonio uno e indissolubile. Tutti quelli che tentano di minare questa roccia di base tendono a far crollare tutto l’istituto familiare.

CAPITOLO TERZO

LA TRASMISSIONE DELLA VITA

Dovere importantissimo dei coniugi è quello del­la procreazione ed educazione dei figli. Nella realtà concreta non si deve mai disgiungere procreazione da educazione: è procreazione di esseri umani, edu­cabili.

Per necessità di chiarezza è però utile trattare qui, separatamente, del dovere della procreazione, tralasciando quello dell’educazione.

Ecco perché affrontiamo subito il problema del­la trasmissione della vita.

Premesse

a) Nella grande opera della creazione Dio ha stabilito un perfetto ordine. Tutto quanto è stato creato da Dio ubbidisce ad una legge di retto fun­zionamento. Come in una fabbrica tutto funziona bene quando funzionano bene le singole macchine e le singole parti di ogni macchina, così nel grande mondo creato tutto funziona bene se le singole parti funzionano secondo la loro natura e la loro struttura; questo vale anche per il piccolo ma me­raviglioso mondo del nostro corpo.

b) La differenza tra il corpo umano e gli altri esseri inferiori (viventi o non viventi) sta nel fatto che gli esseri inferiori sono regolati da leggi fisse, necessitanti (legge fisica, legge d’istinto) invece il corpo umano, essendo animato da un’anima spiri­tuale, ha leggi che possono essere consapevolmente osservate o violate. Troppo spesso l’attività sessua­le, a differenza delle altre attività umane, viene con­siderata a torto come « spontanea » nel senso di « impulsiva ed istintiva », quasi senza freno.

Ed invece anche l’attività sessuale nell’essere umano deve essere umana cioè razionale e libera e, quindi, soggetta ad educazione, a dominio, a disciplina.

Si deve intendere qui 1’« attività sessuale » co­me attività umana cioè cosciente e libera, sotto­messa quindi alla legge morale: si deve allora con­siderare non solo l’aspetto fisico ma anche tutto il campo psicologico e sentimentale dell’attività ses­suale.

c) Non va però dimenticata la realtà del peccato originale che lascia per conseguenza nell’uomo de­gli squilibri e delle difficoltà nell’usare bene della propria libertà e nel dirigere bene i propri istinti. S. Paolo raccomanda: « Il peccato, dunque, non re­gni più nel vostro corpo mortale sì da piegarvi alle sue voglie, né vogliate offrire le vostre membra quali armi d’ingiustizia al servizio del peccato » (Romani 6, 12 s.).

Con questa triplice premessa (perfetto ordine del creato, libertà umana, peccato originale) affrontiamo il problema della trasmissione della vita cioè dell’attività sessuale.

Il comando di Dio

Nel capo I del Genesi (vv. 27-28) così viene descritta la creazione dell’uomo: « Dio creò l’uo­mo a Sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra ».

Sembra quasi che questa descrizione della crea­zione dell’uomo sia fatta specialmente per mettere in evidenza il potere e il comando di trasmettere la vita e di popolare il mondo.

Appare chiaro che la differenza dei sessi è opera di Dio e deve corrispondere al piano e allo scopo provvidenziale fissato dal Creatore.

Questa differenza dei sessi che appare nel corpo e che ha riflessi profondi e caratteristici anche nel­lo spirito, suppone quindi una specifica attività sessuale. Come ogni attività del corpo umano ha un preciso scopo e un preciso significato (es. l’oc­chio per vedere, polmoni per respirare, ecc. ), così avviene anche per l’attività sessuale.

Scopo dell’attività sessuale

Come sempre, nelle teorie umane, sono sorte al riguardo, posizioni diverse ed opposte.

C’è chi dà un’importanza e una libertà eccessive e morbose alle realtà sessuali fisiche, quasicché tut­to fosse spiegabile nell’uomo e nella vita umana mediante il sesso e quasicché ogni inclinazione ses­suale dovesse considerarsi buona, escludendo af­fatto ogni nozione di peccato originale: una spe­cie di divinizzazione del sesso.

E c’è invece chi ritiene sempre male, ignobile, pericoloso tutto quanto riguarda il sesso quasic­ché realtà sessuale e peccato, realtà sessuale e de­monio fossero la stessa cosa: una specie di osses­sione sessuale.

La posizione cristiana di fronte a questo proble­ma è una posizione di equilibrio: la differenza dei sessi è creata da Dio; l’attività sessuale è voluta da Dio e quindi è un bene; è voluta da Dio per uno scopo preciso e l’uomo deve rispettare questo sco­po superando quelle fragilità che sono conseguenza del peccato originale.

Sessualità e corpo

a) Dio ha creato l’uomo e la donna come esseri complementari anche, e direi specialmente, in que­sto campo. L’attività sessuale è dunque di natura sua anzitutto un’attività di relazione tra uomo e donna che possono così completarsi: non dunque attività individuale isolata ma comune e reciproca tra uomo e donna. Ogni atto sessuale solitario è contrario al carat­tere di reciprocità proprio della attività sessuale stessa: è un ripiegamento su di sé, è egoismo.

b) L’attività sessuale negli animali porta di per sé alla fecondazione; di natura sua, cioè, porta alla generazione; nell’essere umano invece essa porta sia all’amore totale e al completamento tra uomo e donna, sia alla procreazione attraverso l’amore. Tutto quanto accompagna questa attività (esem­pio: attrazione fisica, riflessi nervosi, piacere, ecc.) serve come incitamento o aiuto per raggiungere lo scopo di detta attività: è quindi un mezzo e non il fine. Il piacere sessuale ha un valore positivo quando non è ricercato come unico fine nell’espe­rienza sessuale.

c) Questa funzione biologica non corrisponde ad una necessità continua e regolare dell’organismo individuale (come per esempio invece la funzione della respirazione): e non è affatto un’esigenza in­dispensabile dell’organismo.

L’istinto sessuale non è ordinato alla conserva­zione dell’individuo ma a quello della specie: per­ciò la funzione sessuale non presenta il carattere di necessità e di regolarità obbligatoria, proprie di altre funzioni; e il fatto di sospenderne, anche per un certo tempo, l’esercizio, non compromette af­fatto la vita e la salute di ogni uomo normale.

d) Non si può certo dimenticare che mentre per gli animali il funzionamento di questa attività è regolato solo dall’istinto, nell’uomo invece è rego­lato in ultima analisi dalla volontà. L’uomo deve cioè trovare un equilibrio tra le forze istintive e le realtà affettive spirituali: e questa è la parte della volontà.

«Per essere veramente umana la sessualità esige sempre un intervento delle facoltà spirituali che garantiscono la disciplina indispensabile all’amore autentico tra uomo e donna» (Anciaux).

Sessualità e spirito

Da un punto di vista psicologico l’attività ses­suale avviene liberamente tra due persone sessual­mente complementari; è dunque una attività di relazione personale.

a) La vita sessuale umana non può dirsi diretta­mente ordinata al bene dell’individuo. Tutto vi è ordinato al bene dell’altra persona e anche alla procreazione.

È quindi un’attività non di conquista o di pos­sesso ma di donazione: un essere umano, nell’atti­vità sessuale, non deve ricercare se stesso come fine, ma l’altro (sia l’altra persona con cui attua questa funzione sessuale, sia il frutto che ne può nascere).

Una persona non può essere usata come mezzo, come strumento: non si può ricercare il proprio bene usando come strumento un’altra persona.

b) Il dono in cui consiste l’attività sessuale umana, dono libero e volontario, è un dono vicen­devole basato su una stretta reciprocità, è un do­narsi e ricevere il dono: in questo senso l’attività sessuale diventa un bene per ambedue.

c) Questa reciprocità vale tanto per la gioia fi­sica quanto, e specialmente, per la gioia spirituale che non dovrebbe mai mancare in una retta attività sessuale umana: anche nell’amore globale di due coniugi ci possono essere momenti di prevalenza, fisica (es. unione dei corpi) o di prevalenza spiri­tuale (es. dialogo).

Abbiamo già detto che l’attività sessuale umana deve essere equilibrio tra desiderio istintivo e scel­ta amorosa (corpo e spirito).

Ecco il significato dell’attività sessuale: è com­pletamento e amore totale reciproco e trasmissione della vita mediante la reciproca libera donazione di due persone, uomo e donna. La necessità della specie umana viene così soddisfatta attraverso la libertà delle persone. Dio, Creatore dell’universo, provvede al bene e alla vita della specie umana mediante gli impulsi istintivi della sessualità; ma rispetta pienamente la libertà umana lasciando alle persone il diritto e la libertà di rispondere o non rispondere a questo appello istintivo.

Il pericolo più grave e più comune è quello in­vece di considerare l’attività sessuale non come mezzo ma come fine a se stessa: sarebbe questo un’abdicazione della volontà libera e ragionevole di fronte alle esigenze dell’istinto: il pericolo è l’egoismo.

La lotta iniziata col peccato originale è il contra­sto tra egoismo e vero amore.

La castità

E’ in questa lotta che si pone, come moderatrice, la virtù della castità.

Definizione – La castità è la virtù morale che regola il retto uso dell’attività sessuale secondo i retti principi della ragione e della fede.

a) Parlando noi di virtù morale « cristiana » cioè soprannaturale (è una parte della temperanza) si deve tener conto del duplice aspetto: è virtù infusa da Dio come facoltà operativa soprannaturale ed è virtù che esige la conveniente corrispondenza umana come cooperazione necessaria ad una mag­gior facilità di attuazione.

b) Siccome nell’attività sessuale c’è una finalità oggettiva da raggiungere che è il completamento reciproco o manifestazione d’amore e la procreazio­ne e c’è un piacere che fa desiderare ed accompa­gna questa attività, la castità dovendo conservare l’ordine nell’attività sessuale, la deve indirizzare al­le finalità suddette e deve mantenere il piacere al grado di mezzo e non di fine. Essendo poi il piacere sessuale molto attraente, ecco che spesso la castità deve mettere in campo la sua funzione moderatrice perché il piacere non pre­valga sul dovere cui è connesso, né il corpo preval­ga sullo spirito: aiuta cioè a superare l’egoismo nel campo sessuale. Tutto ciò non significa diffidenza verso il pia­cere sessuale, come «forza oscura e ambigua» che deve essere « tenuta a freno ». Questo modo di pensare il sesso, in termini puritani, non è bibli­co ma è tipicamente greco. La mentalità greca, la quale voleva razionalizzare tutto, vedeva che que­sto piacere sessuale poco corrisponde al bisogno della ragione: donde la diffidenza. Abbiamo già detto che la vera posizione cristiana non è di dif­fidenza ma di equilibrio.

Divisione – La procreazione umana e l’amore totale dei coniugi sono convenienti e leciti solo nello stato matrimoniale (e ne vedremo il perché in altro capitolo).

a) È evidente allora che diversa è la funzione della castità secondo che si tratti di persone sposate o non sposate.

C’è una castità coniugale che è una virtù di retto uso dell’attività sessuale.

C’è una castità extra-coniugale che è una virtù di astinenza dall’attività sessuale.

b) Questa castità extra-coniugale può presentare atteggiamenti psicologici diversi secondo che si tratti di persone che non hanno affatto rinunciato al matrimonio (per esempio: i fidanzati ai quali, come a persone non sposate, non è lecita una at­tività sessuale completa; essi però sono in affettuo­sa attesa e preparazione del matrimonio) e coloro che hanno rinunciato al matrimonio, per i quali la castità è virtù di totale rinuncia (es. la castità verginale di coloro che rinunciano definitivamente al matrimonio « per il regno dei cieli » Matteo 19, 12, e la cui castità però non è né frigidità né in­capacità ma volontaria rinuncia).

c) Dal punto di vista della difficoltà di attuazio­ne non è inutile osservare la differenza di tempera­mento maschile e femminile nel senso che nel pri­mo si può trovare prevalenza fisico-sessuale, nel secondo prevalenza affettivo-sentimentale. Ciò può suggerire necessaria prudenza agli uni e doveroso riserbo alle altre.

d) Una distinzione che è bene ricordare è quella tra genitalità e sessualità. La genitalità riguarda l’attività degli organi genitali. La sessualità riguar­da quella caratteristica che si trova, si può dire, in ogni « fibra » dell’essere umano, uomo o donna, fino a creare diversità, maschile o femminile, in ogni manifestazione fisica, affettiva, spirituale (mo­do di pensare, di amare); ci può perfino essere una religiosità maschile o femminile. Di solito, però, si parla di sessualità e di attività sessuale anche comprendendo la genitalità e l’attività genitale.

Il comando di Dio

a) Nell’Antico Testamento il Decalogo (Esodo 20, 14.17; Deuteronomio 5, 18.21) proibisce l’a­dulterio e il desiderio della donna altrui (VI e IX comandamento).

L’attività sessuale fuori del matrimonio era con­siderata un peccato che provoca l’ira di Dio. Si legge nell’Ecclesiastico (23, 17): « Anima ardente come fuoco acceso che non si estingue finché non divora, l’uomo, libidinoso verso il proprio corpo, non la smette finché il fuoco non bruci » (è posto tra coloro che « abbondano nei peccati! », ivi). È la condanna della masturbazione.

Il diluvio universale (Genesi 6, 3 « …perché l’uomo non è che carne ») e la fine di Sodoma e Go­morra (Genesi 19) dovevano essere un perpetuo monito per gli Israeliti.

b) Nel Nuovo Testamento si parla spesso di peccati impuri con parole di decisa condanna. San Paolo nella lettera I ai Corinti (6, 13-20) racco­manda la castità per un triplice motivo: perché il corpo è del Signore e deve dar gloria a Dio; per­ché il corpo del cristiano è membro di Cristo; per­ché il corpo è tempio dello Spirito Santo.

Scrive infatti: « E il corpo non è per la impudi­cizia (impurità) ma è per il Signore e il Signore per il corpo. Dio come ha risuscitato il Signore, farà risorgere anche noi con la Sua potenza.

« Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Oserò prendere, allora, le membra di Cri­sto, per farne le membra di una prostituta? Non sia mai! Non sapete infatti che chi si unisce ad una prostituta è con essa un sol corpo? Dice infatti la Scrittura: saranno quei due una carne sola. Al con­trario chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. Fuggite l’impudicizia. Ogni altro pec­cato che possa commettere un uomo è fuori dal suo corpo. Il dissoluto invece pecca contro il pro­prio corpo.

« E non sapete che il vostro corpo è tempio del­lo Spirito Santo, che è in voi per averlo ricevuto da Dio, e che non appartenete più a voi stessi? Foste infatti ricomprati a un alto prezzo! Glorificate dun­que Dio nel vostro corpo ».

c) Come appare dal IX Comandamento, anche pensieri e desideri impuri devono essere evitati. Gesù disse: « Chiunque guarda una donna, desiderandola, ha già commesso in cuor suo adulterio con essa » (Matteo 5, 28).

Pensieri e desideri sono infatti la profonda ori­gine di ogni male. Gesù disse: « Dal cuore infatti escono pensieri cattivi, omicidi, adulterii, fornica­zioni… Queste sono le cose che contaminano l’uo­mo » (Matteo 15, 19 s.).

Ogni attività umana per essere veramente « u­mana » deve essere guidata dalla ragione e dalla libera volontà. Anche quando l’essere umano com­pie un atto che sembra solo materiale, come quel­lo di prendere cibo, non deve lasciarsi guidare dal solo impulso istintivo: il prendere cibo è diverso nell’uomo e nell’animale. Anche l’attività sessuale nell’uomo è e deve essere un’attività veramente e pienamente umana, regolata cioè dalla ragione e dalla volontà, attività quindi razionale e libera anche senza rinnegare la gioia fisica.

La stessa struttura umana, composta di spirito e materia (quasi fuoco e acqua) può portare disor­dine anche nell’attività sessuale umana, assogget­tandola ad impulsi ed attrazioni che sono talora così forti da sembrare irresistibili e non regolabili. Ed invece un uomo normale ha in sé (o può acqui­stare) la capacità di controllo anche in questo cam­po; l’aiuto poi della grazia divina dà forza per superare le innegabili difficoltà.

Nel modo comune di pensare e di parlare, si confonde spesso la spontaneità con la impulsività istin­tiva; e se in tutte le altre attività umane comune­mente non si ritiene giusto agire irrazionalmente e solo istintivamente, ciò viene invece ammesso o, addirittura, ritenuto inevitabile nell’attività ses­suale.

I coniugi cristiani non possono assolutamente di­menticare questa esigenza di razionalità e di vera spontaneità cioè libertà nell’attività sessuale; tale esigenza, lungi dall’affievolire il loro amore, lo rende più « umano », più profondo e più dura­turo.

Dunque l’attività sessuale per essere veramente umana esige controllo e dominio di sé e cioè l’in­tervento delle facoltà spirituali per garantire quella disciplina, che è indispensabile nel vero amore tra uomo e donna. Questo autocontrollo e questa di­sciplina si realizzano progressivamente mediante la castità coniugale, sono cioè frutto di una progres­siva educazione.

La castità coniugale non è virtù che reprime ma che regola e potenzia l’attività sessuale rendendola, progressivamente, sempre più permeata di affettuo­sità e di spiritualità, cosicché la gioia dei coniugi sia sempre più completa: non solo gioia di corpo, ma anche di cuore e di spirito. «E’ evidente che gli sposi non possono lasciarsi dominare dal desiderio del piacere. In questo caso ci sarebbe egoistica ri­cerca di soddisfazione individuale, abuso del coniu­ge, ridotto a un semplice strumento di piacere;… è dolorosamente evidente che, in molti casi, l’unione sessuale tra sposi non è molto più che una soddi­sfazione solitaria dei due coniugi! » (Anciaux, Le Sacrament du mariage, pag. 192).

I coniugi devono progressivamente adattarsi l’u­no all’altra, devono progressivamente educarsi e diventare padroni e non servi dell’impulso sessua­le: solo così la loro sessualità è umana, cioè razio­nale e libera, illuminata dalla fede.

Conclusione

Una mentalità edonistica piuttosto diffusa parla di castità come di virtù impossibile.

La castità diventa veramente impossibile se non si fuggono le occasioni pericolose e se non si ri­corre ai mezzi soprannaturali (preghiera e Sacra­menti), ma con la buona volontà e con l’aiuto di Dio la castità diventa attuabile.

« Ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio » (Luca 18, 27).

CAPITOLO QUARTO

IL DOVERE DELL’ATTO CONIUGALE

Introduzione

Nell’epistola agli Ebrei, mentre si raccomandano varie virtù cristiane, si trova anche questa esorta­zione: « Sia in onore il matrimonio presso di tutti e il talamo incontaminato; giacché impudichi e adúlteri giudicherà Iddio » (13, 4).

C’è anche qui quell’insistenza che abbiamo tro­vata altrove; il matrimonio ha una sua legge che deve essere attuata, una sua castità e, in genere, una sua santità che devono essere praticate e vissute. Ora la legge propria del matrimonio è legge di amore e di fecondità, o più precisamente di amore fecondo. La felicità degli sposi, nella misura in cui è possibile in questa vita, è legata all’attuazione di questa legge.

Dai precedenti capitoli appare chiaro che l’atti­vità sessuale è strutturata in modo tale da tendere, per natura sua, all’amore fecondo. Orbene la pro­creazione umana dà vita ad un uomo il quale è composto di anima e di corpo. Il bambino ha un corpo che, per essere allevato e cresciuto, ha bi­sogno, per lunghi e molti anni, della cura dei geni­tori (o di altri che sostituiscono: ma sono sempre dei sostituti). Il bambino ha un’anima spirituale e perciò può e deve essere istruito ed educato: e ciò esige l’opera, ancora più lunga, dei genitori. Ecco perché Dio ha voluto una istituzione stabile, la fa­miglia, in cui sia possibile allevare ed educare i bambini. Gli esseri inferiori (pulcini, gattini, ecc.) che in poche settimane si rendono indipendenti dai loro genitori, possono benissimo nascere da un ac­coppiamento casuale. L’uomo, appunto perché a lungo dipende dai genitori sia per il corpo sia, e maggiormente, per lo spirito, per volontà di Dio, deve nascere solo in una istituzione stabile qual è la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile. Anche per questo motivo l’attività sessuale è lecita solo nel matrimonio.

Pio XI, nella sua lettera enciclica, la Casti con­nubii, scrive: « Né si deve tacere che essendo di tanta dignità e tanta importanza l’uno e l’altro uf­ficio (cioè: procreazione ed educazione) affidato ai genitori per il bene della prole, qualsiasi onesto uso della facoltà data da Dio per la generazione di una nuova vita, secondo l’ordine del Creatore e della stessa legge di natura, è diritto e prerogativa del solo matrimonio e deve essere assolutamente con­tenuto dentro i limiti sacri del matrimonio ».

L’amore coniugale

L’amore coniugale è l’anima del matrimonio: un matrimonio senza amore sarebbe un corpo senza vita. Quando due contraggono matrimonio sentono come massima esigenza quella di amarsi: è il fine del matrimonio.

Questo amore coniugale è il più totale che possa esistere tra esseri umani (anche se non è sempre, fra gli amori umani, il più intenso): si tratta infatti di un amore di corpi, di cuori, di anime, di grazia; vi si trovano cioè come componenti l’elemento cor­porale, quello affettivo, quello spirituale e quello soprannaturale.

Sono solamente i coniugi che possono esprimersi il loro amore in quella donazione reciproca che è « l’unione coniugale », unione che deve compren­dere tutti i quattro elementi suddetti, unione che viene ad attuare lecitamente l’attività sessuale com­pleta.

a) Questo amore coniugale, espresso in modo completo, viene talora non abbastanza apprezzato per quell’elemento corporale (o unione di corpi) che a torto viene considerato come qualcosa di meno nobile o di troppo materiale.

Si deve invece ricordare che anche questo atto è voluto e comandato da Dio Creatore e ciò che Dio vuole è sempre bene.

Si deve notare inoltre che si tratta di un atto di amore: non va dunque considerato come atto sem­plicemente di corpo e quindi solo materiale.

« È impossibile spogliare l’amore coniugale di uno specifico simbolo carnale, che serve ad espri­merlo e nutrirlo » (Heylen).

Lo spirito umano si esprime, di solito, attraverso il corpo: la gioia, il dolore, la paura, la mera­viglia, ecc., traspaiono attraverso il corpo (per esempio: il sorriso, le lagrime, il pallore, il tremi­to, ecc.). Questo atto di amore coniugale, attraver­so l’unione dei corpi, esprime l’unione dei cuori e delle anime; e serve, oltre che ad esprimere, anche ad accrescere ed approfondire l’amore. E’ quindi anche un atto spirituale, di libera donazione.

Il Concilio Vaticano II dice: « Questo amore è espresso e sviluppato in maniera particolare dal­l’esercizio degli atti che sono propri del matrimo­nio; ne consegue perciò che gli atti coi quali i co­niugi si uniscono in casta intimità, sono onesti e degni, e, compiuti in modo veramente umano, si­gnificano e favoriscono il dono reciproco, mediante il quale gli sposi si arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine » (Gaudium et spes, n. 49).

Può e deve anche essere un atto meritorio dal punto di vista soprannaturale; basta che sia un « atto buono », compiuto cioè nella linea della vo­lontà di Dio e sia compiuto da un cristiano in gra­zia di Dio.

Si aggiunga, infine, che il matrimonio « rato e non consumato », come abbiamo già spiegato, per i cristiani, può ancora essere sciolto per dispensa papale. Ciò significa che l’unione coniugale, la con­sumazione del matrimonio, è il sigillo che comple­ta il segno sacramentale e rende definitivamente indissolubile il matrimonio cristiano: ha perciò in certo qual modo un valore sacramentale.

b) L’atto di amore coniugale, concretato nella unione dei corpi, costituisce l’oggetto del patto ma­trimoniale: gli sposi, contraendo matrimonio, si conferiscono reciprocamente e accettano il diritto, perpetuo ed esclusivo, a questo atto di amore pro­creatore. (Codice Diritto Canonico can. 1081, 2). Anche S. Paolo scrive: « Il marito renda alla mo­glie il debito coniugale, e la moglie faccia altrettan­to col marito. La moglie non può liberamente di­sporre del proprio corpo, ma il marito; e parimen­ti, neanche il marito può disporre del proprio cor­po, ma la moglie » (1 Corinti 7, 3 s.).

È dunque un debito reciproco, c’è quindi un do­vere di giustizia al riguardo: non è quindi lecito rifiutare il proprio debito al coniuge che ragione­volmente lo domanda, mentre è lecito opporsi di fronte ad una richiesta che sia veramente irragione­vole o inopportuna. Tale irragionevolezza, qualun­que essa sia, sarebbe veramente contraria all’es­senza di questo atto che deve essere un atto di amore.

L’atto coniugale e il duplice bene

Si è già detto che dovere importantissimo del matrimonio è la procreazione ed educazione dei figli, da attuarsi in un atto di amore vero e com­pleto.

1. È asserzione ormai notissima che non si deve mai separare la fecondità dall’amore: solo negli esseri inferiori c’è procreazione e non amore.

Giova quindi fissare alcuni punti:

a) Il Matrimonio ottiene la sua pienezza nella fecondità. Dice il Concilio: « I figli sono il pre­ziosissimo dono del Matrimonio e contribuiscono pure al bene dei genitori » (Gaudium et spes, n. 50).

I coniugi perciò, proprio attuando la loro vita sessuale, nel senso di amore totale e completo, de­vono corrispondere all’invito di Dio « crescete e moltiplicatevi » con generosità e fiducia nella Prov­videnza divina.

Solo l’insufficienza umana o gli scarsi limiti del­le possibilità umane possono porre limiti anche a questa generosità. Ma non deve mai essere l’egoi­smo a ostacolare la generosità.

b) L’attività sessuale dei coniugi è un’attività umana e quindi personale. Non può assolutamente essere considerata e trattata solo come un feno­meno biologico, uguale a quello delle specie infe­riori. Ne deriva che la norma morale dell’attività sessuale umana non può essere elaborata in base a determinazioni puramente biologiche.

Il Concilio dice: « La sessualità dell’uomo e la facoltà di generare sono meravigliosamente supe­riori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita; perciò gli atti specifici della vita coniugale, or­dinati secondo la vera dignità umana, devono es­sere rispettati con grande stima » (Gaudium et spes, n. 51).

Se la fecondità in genere è legata ad una modalità fissata dalla biologia, il Concilio insiste perché gli atti della vita coniugale umana siano condotti secondo dignità: sono atti di due persone e la « persona » conferisce significato « personale » al­la sessualità.

c) Il Santo Padre Giovanni XXIII scriveva nella lettera enciclica Mater et Magistra: « Dobbiamo proclamare solennemente che la vita umana va tra­smessa attraverso la famiglia, fondata sul matrimo­nio uno e indissolubile, elevato, per i cristiani, alla dignità di Sacramento.

« La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle sapientissime leggi di Dio: leggi inviolabili e immutabili che vanno riconosciute e osservate. Perciò non si possono usare mezzi e se­guire metodi che possono esser leciti alla trasmis­sione della vita delle piante e degli animali ».

– Fecondazione artificiale

L’atto che tende alla procreazione è, per volontà di Dio, un atto di amore tra due legittimi coniugi. Solo partendo da questo concetto basilare si può risolvere il problema della fecondazione artificiale (è una pratica che in qualche nazione di oltre ocea­no è diffusa: si parla addirittura di « figli della si­ringa »). Ne ha trattato chiaramente anche il Papa Pio XII. Per noi bastino pochi accenni. Se si tiene presente che la « legge naturale e la legge divina positiva stabiliscono che la procreazione di una nuova vita può essere il frutto solo del matrimo­nio » si comprende come « la fecondazione artifi­ciale fuori del matrimonio deve condannarsi… co­me immorale » (Pio XII al IV Congresso Interna­zionale Medici Cattolici: 30 settembre 1949).

Siccome poi « solo gli sposi hanno un diritto reciproco sul loro corpo per generare una nuova vita, diritto esclusivo, non cedibile, inalienabile » si deduce che « la fecondazione artificiale nel ma­trimonio, ma prodotta mercé l’elemento attivo (sperma) di un terzo, è immorale e va condannata senza appello » (ibidem).

Quanto alla fecondazione artificiale nel matri­monio, tra i due sposi, si ricordi che « l’atto coniu­gale nella sua struttura naturale, è un’azione per­sonale, una cooperazione simultanea e immediata dei coniugi la quale… è l’espressione del dono re­ciproco che, secondo la parola della Scrittura, ef­fettua la unione in una carne sola… L’atto coniu­gale ordinato e voluto dalla natura, è una coope­razione personale, alla quale gli sposi, nel contrarre matrimonio, si scambiano il diritto » (Pio XII al Congresso Unione Italiana Cattolica Ostetriche: 29-X-1951): un atto di amore e non una semplice funzione organica o un atto da laboratorio biolo­gico.

In conclusione la fecondazione artificiale pro­priamente detta « bisogna assolutamente escluder­la »; non si intende però di proibire « l’uso di ta­luni mezzi artificiali destinati unicamente sia a fa­cilitare l’atto naturale sia a procurare il raggiungimento del proprio fine all’atto naturale normalmen­te compiuto » (Pio XII, discorso citato ai Medici).

2) a) Siccome il reciproco amore e completa­mento sono il fine del matrimonio, l’atto coniuga­le può lecitamente essere compiuto, anche quando la procreazione non può essere raggiunta per osta­coli posti dalla stessa natura (per esempio: sterili­tà perpetua o temporanea, stato di gravidanza). Nella Casti connubii si legge: « Né si può dire che operino contro l’ordine di natura quei coniugi che usano del loro diritto nel modo debito e naturale, anche se per cause naturali, sia di tempo, sia di altre difettose circostanze, non ne possa nascere una nuova vita ».

b) Trattandosi di un atto di amore e di dona­zione reciproca, vi si deve ricercare, più che il pro­prio bene e la propria soddisfazione, sia pure le­gittima, il bene vero e completo del coniuge. Ci deve quindi essere quella carità che rifugge da ogni forma di egoismo e di ricerca di sé, ed aiutare piut­tosto a favorire e soddisfare l’altro; quella carità che può consigliare talora di astenersi, anche con sacrificio, oppure di accettare, con generosità sem­pre in vista del bene dell’altro più che del proprio.

« Mirando all’unione coniugale, il giovane do­vrebbe poter a poco a poco considerarla molto più come l’occasione di dare gioia alla sua consorte che ricercarvi il proprio piacere… La frigidità femmini­le non è mai, o quasi mai, conseguenza d’una deviazione fisiologica. Essa è, tre quarti delle volte, l’ef­fetto di una incomprensione d’ordine psicologico da parte di un marito insufficientemente pratico delle reazioni dell’anima femminile » (Lestapis).

Ciò va detto specialmente per l’inizio della vita coniugale. Se il marito non tien conto che, nella donna, l’esigenza maggiore è quella delle manife­stazioni di affettuosità e di tenerezza, se il marito si mostra troppo possessivo o materiale o frettolo­so o incurante della sposa, cosicché l’unione coniu­gale può sembrare più una violenta conquista che una donazione, allora può provocare nella donna, proprio agli inizi, un « trauma psichico », un senso di disgusto che potrebbe durare anche per anni.

Da parte sua, la donna deve corrispondere ge­nerosamente al desiderio del marito superando ri­trosie o inibizioni: non ci deve essere accettazio­ne rassegnata ma partecipazione gioiosa: anche la donna deve essere attiva e non passiva.

L’affettuosità e la tenerezza sono un elemento importante di tutta la vita coniugale. I coniugi devono dirsi e manifestarsi il loro amore e devono anzi mantenere desto e accrescere il loro amore con segni di affetto: e ciò non solo nei primi anni di matrimonio, ma sempre. È importante saper vincere quel nemico dell’a­more che è l’abitudine.

Molto spesso l’assenza di queste manifestazioni affettuose può raffreddare l’amore.

Possiamo anche dire che quando i coniugi, per motivi giusti di cui parleremo, intendono evitare la procreazione, non devono negarsi « le tenerezze intime anche senza l’unione completa »; non de­vono negarsele anche « se c’è pericolo d’orgasmo » (cfr. Haring B., Il matrimonio nelle prospettive del Vaticano II, pag. 48. Edizioni Favero, Vicenza).

c) La carità induce alla moderazione e al rispetto reciproco. Non è certo con la sfrenatezza degli istinti che si procura il vero bene reciproco: gli sposi non devono dimenticare che la loro unione è unione di persone umane e di cristiani e non di esseri inferiori. Se tutta la gioia e la felicità del matrimonio consistesse (come purtroppo si ammet­te spesso ai nostri giorni!) nella gioia sfrenata dei sensi, invecchiato o stancato o ammalato il corpo crollerebbe tutto nel matrimonio. Ecco perché, tan­to sapientemente, Pio XII insegna: « I coniugi nel cercare e nel godere questo piacere non fanno nul­la di male. Essi accettano quello che il Creatore ha loro destinato. Nondimeno anche qui i coniugi debbono sapersi mantenere nei limiti di una giu­sta moderazione. Come nel gusto dei cibi e delle bevande, così in quello sessuale, essi non debbono abbandonarsi senza freno all’impulso dei sensi ».

E ancora: « Si vorrebbe da alcuni addurre che la felicità nel matrimonio è in ragione diretta del reciproco godimento nei rapporti coniugali. No: la felicità del matrimonio è invece in ragione di­retta del vicendevole rispetto tra i coniugi, anche nelle loro intime relazioni; non già quasi che essi giudichino immorale e rifiutino quel che la natura offre e il Creatore ha donato, ma perché questo rispetto, e la mutua stima che esso ingenera, è uno dei più validi elementi di un amore puro, e perciò stesso tanto più tenero » (Discorso alle Ostetriche, già citato).

Conclusione

Dopo quanto si è detto, appare chiaramente sia la nobiltà di questo atto di amore voluto dal Si­gnore tra marito e moglie, sia anche la innegabile difficoltà, data la fragilità umana, di rimanere sem­pre nei limiti di castità e di carità voluti da Dio. È perciò utile terminare con alcune conclusioni pratiche.

a) Scrive S. Francesco di Sales nel suo libro La Filotea (parte 2, cap. 20): « L’obbligo di questo debito (coniugale) non deve privare alcuno della Comunione, quando la sua pietà gliene fa sentire il bisogno. E’ certo che nella Chiesa primitiva i cri­stiani si comunicavano ogni giorno, benché fossero coniugati e benedetti con la generazione dei figlioli. Ecco perché ho detto che la Comunione frequente non reca alcun incomodo né ai padri, né alle mogli, né ai mariti quando la persona che si comunica è prudente e discreta ».

Sono parole sagge che possono anche oggi ser­vire contro qualche residuo di mentalità rigorista.

b) Se da un punto di vista oggettivo può esse­re anche facile giudicare circa la castità e la retti­tudine, o meno, del comportamento dei coniugi, è molto difficile giudicare tutto questo da un punto di vista soggettivo. Un comportamento oggettiva­mente colpevole tra due coniugi può anche non essere tale soggettivamente.

La legge morale coniugale conserva tutto il suo valore, ma bisogna essere cauti e non molto sem­plicisti nel giudicare la responsabilità soggettiva dei coniugati. Si deve tener conto della vita di intima convivenza, della attrazione sessuale che è certa­mente una delle più forti e delle eccitazioni ses­suali di cui è pieno il mondo moderno. Anche S. Paolo ammette il pericolo, quando raccomanda agli sposi: « Non rifiutatevi l’uno all’altra se non di comune accordo, per un certo tempo, allo scopo di darvi alla preghiera. Poi riprendete come prima, affinché Satana non vi tenti per via della vostra in­continenza » (1 Corinti 7, 5).

La distinzione tra valore morale oggettivo di un atto e responsabilità soggettiva è una distinzione necessaria ed essenziale.

Nel giudicare questa responsabilità soggettiva bisogna tener conto non solo dell’atto in se stesso, ma anche delle circostanze concrete della vita co­niugale, delle disposizioni interiori degli sposi e dell’orientamento generale della loro vita.

Per cui si può dire che, dal punto di vista sog­gettivo, i veri giudici del comportamento morale in questo campo sono i coniugi stessi: è la coscienza personale che giudica definitivamente di fronte a Dio; la legge è giudicata e applicata ai casi singoli dalla coscienza personale.

c) Bisogna ricordare che solo l’aiuto di Dio, ot­tenuto mediante la preghiera e la frequenza ai Sa­cramenti, rende possibile la castità coniugale retta­mente intesa. Se non c’è preghiera, se non c’è l’uso frequente della S. Confessione e della S. Comunio­ne, gli sposi non riescono ad essere casti. Ora i co­niugi, specialmente i mariti, pregano troppo poco e si accostano troppo raramente alla S. Eucaristia.

C’è ancora da dire che, quando i coniugi ritenes­sero opportuno rinunciare all’unione dei corpi, de­vono cercare un compenso in una maggiore unione spirituale (maggior affetto, maggior scambio di idee, parlare di più insieme, pregare insieme, ecc.).

L’umiltà e la fiducia in caso di cadute, la genero­sità e la perseveranza nello sforzo di conservare la castità, preghiera e Sacramenti su cui non si insi­sterà mai abbastanza, rendono possibile ciò che la fragilità umana ritiene impossibile.

CAPITOLO QUINTO

IL DOVERE DELLO STATO CONIUGALE

Introduzione

Nella Sacra Scrittura molto spesso i figli vengo­no presentati come un dono, una benedizione di Dio. Dio disse ad Abramo, parlando di Sara, la moglie di lui: « Io la benedirò e ti concederò da lei anche un figlio » (Genesi 17, 16).

La madre di Samuele chiede a Dio un figlio; Dio le concede la grazia ed essa lo chiama appunto Samuele « Perché – disse – l’ho chiesto a Jah­ve » (1 Samuele 1, 20).

Scrive il Salmista: « Ecco: i figli sono eredità di Jahvé, il frutto del seno è mercede » (Salmo 127, 3).

L’angelo Gabriele dice al Sacerdote Zaccaria: « Non temere, Zaccaria, perché la tua supplica è stata esaudita; tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio » (Luca 1, 13).

È con questo spirito di fede che dobbiamo trat­tare il problema della fecondità. Si è parlato di « castità coniugale » cioè di retto uso della attivi­tà sessuale, lecita solo nella legittima famiglia, se­condo la volontà di Dio, in modo conforme al fine dell’attività stessa.

Sorgono però diversi problemi: per i coniugi è un dovere procreare i figli? in che misura? non siamo forse già troppi al mondo? non sono troppo gravose le esigenze moderne? ecc.

E’ su questi problemi che dovremo dire una pa­rola senza pretendere di essere completi.

Dovere di fecondità

La procreazione umana è lecita solo nella legit­tima famiglia. Dio ha dato il comando: « Siate fe­condi e moltiplicatevi ». È però un comando gene­rale a tutta la specie umana che lascia piena libertà agli individui di sposarsi o no: quindi tutti posso­no avere diritto al matrimonio ma nessuno è ob­bligato a sposarsi.

Il problema del dovere della fecondità lo trat­tiamo perciò solo per i coniugi.

a) Chi è coniugato è obbligato a far in modo di avere figli?

È come domandare se chi è sposato è obbligato a compiere l’atto procreatore. Si deve rispondere di no.

Il matrimonio dà il diritto a compiere gli atti procreativi ma non ne dà l’obbligo. Se di comune accordo gli sposi rinunciano a compiere tali atti, non commettono nessuna ingiustizia, nessun pec­cato. Chi ha un diritto può anche rinunciare a usare o a far valere questo diritto. Siccome qui il diritto è di ambedue i coniugi, la rinuncia ad usare di questo diritto (per un tempo determinato o an­che per sempre) deve essere il risultato di accordo comune di ambedue. Così si spiega il voto di ca­stità, anche perpetua, di alcuni sposi (es. la Ma­donna e S. Giuseppe; S. Enrico imperatore e S. Cunegonda).

Può anche darsi che si rinunci a questo diritto non per motivi nobili ma per motivi egoistici: allo­ra l’errore, o anche il peccato, starà nella cattiva in­tenzione ma non nel fatto di rinunciare agli atti procreativi e quindi alla procreazione.

b) Dopo la scoperta dei « tempi sterili » e « tem­pi fecondi » nella donna (Ogino-Knaus) e, perciò, della possibilità di usare del diritto coniugale in modo integro e completo e insieme senza fecondità (atto completo ma infecondo), ecco una nuova domanda: i coniugi che fanno uso del loro diritto coniugale sono obbligati a fare in modo di avere figli? È come domandare se c’è un dovere di fe­condità per chi non rinuncia ma usa dei propri diritti coniugali.

Si può rispondere di no per qualche singolo atto coniugale; ma si deve rispondere di sì se si tratta di un uso abituale dei diritti coniugali. È lecito cioè compiere qualche atto coniugale completo, quando è certo che sarà infecondo; ma usare abitualmente questo diritto solo in tempi sterili, sicché si eviti la procreazione, di per sé non è lecito (di per sé, cioè se non ci sono veri motivi scusanti come si dirà in seguito). Anche qui il vero nemico è l’egoismo.

Pio XII ha insegnato chiaramente: « Il contratto matrimoniale che conferisce agli sposi il diritto di soddisfare l’inclinazione della natura, li costituisce in uno stato di vita, lo stato matrimoniale. Ora ai coniugi, che ne fanno uso con l’atto specifico del loro stato, la natura e il Creatore impongono la funzione di provvedere alla conservazione del ge­nere umano… Quindi abbracciare lo stato matri­moniale, usare continuamente la facoltà ad esso propria e in esso solo lecita e, d’altra parte, sot­trarsi sempre deliberatamente, senza un grave mo­tivo, al suo primario dovere, sarebbe un peccare contro il senso stesso della vita coniugale » (Di­scorso all’Unione Cattolica Italiana Ostetriche).

c) Questo dovere di fecondità nell’uso dei diritti coniugali (crescete e moltiplicatevi) è un dovere positivo e non negativo.

Ora un dovere positivo, che comanda cioè di fare qualche cosa (esempio: pregate, fate elemosi­na, andate a Messa alla domenica) obbliga nei li­miti della possibilità. Il dovere esiste, ma l’attua­zione pratica può essere impedita da ragioni gravi (esempio: chi è ammalato non è tenuto alla Messa festiva).

Così il dovere positivo della fecondità può essere impedito da motivi che ne rendono praticamente impossibile o inopportuno l’adempimento; e ci può quindi essere l’uso, anche abituale, dei diritti coniugali solo nei tempi sterili e perciò senza pro­babile fecondità (come si dirà in seguito).

Dice Pio XII: « … il matrimonio obbliga ad uno stato di vita, il quale, come conferisce certi diritti, così impone anche il compimento di un’opera po­sitiva, riguardante lo stato stesso. In tal caso si può applicare il principio generale che una prestazione positiva può essere omessa, se gravi motivi, indi­pendenti dalla buona volontà di coloro che ne sono obbligati, mostrano che quella prestazione è inop­portuna, o provano che non si può dal richiedente – in questo caso il genere umano – equamente pretendere » (Discorso alle Ostetriche).

Mi pare utile mettere qui in evidenza come l’in­segnamento di Pio XII su questo punto sia vera­mente rivoluzionario: non ha cioè avuto timore di rompere con la tradizione.

Mentre l’insegnamento tradizionale non ammet­te unione coniugale o manifestazione fisica dell’a­more senza l’intenzione di procreare (« è almeno peccato veniale » aveva scritto S. Agostino) Pio XII parla di possibilità di unione coniugale pur evi­tando volontariamente l’impegno della procrea­zione.

Il super-popolamento

E’ facile sentir dire che « siamo in troppi », « se l’umanità cresce con questo ritmo si arriverà a morire di fame », « bisogna dunque limitare le na­scite », ecc.

Il problema può essere valutato da un punto di vista generale cioè mondiale e da un punto di vista familiare. Prima di accennare a questi due punti di vista giova premettere che: se l’allarme è esagerato tenendo conto delle risorse attuali o ancora sfrut­tabili di tutto il mondo, è un allarme vero per al­cune aree « depresse e sottosviluppate e insieme sovrappopolate »; qualunque sia il rimedio che si voglia portare, non si può mai andare contro la legge di Dio chiaramente conosciuta.

a) Considerando il problema dal punto di vista generale ci si può utilmente limitare all’insegna­mento del papa Giovanni XXIII nella enciclica Mater et Magistra (15-V-1961).

Scrive il Papa: « Su piano mondiale alcuni os­servano che, secondo calcoli statistici ritenuti suf­ficientemente attendibili, la famiglia umana in po­chi decenni attingerà cifre assai elevate, mentre lo sviluppo economico procederà con ritmo meno accelerato. Ne deducono che, qualora non si prov­veda in tempo a limitare il flusso demografico, lo squilibrio tra popolazioni e mezzi di sussistenza, in un futuro non lontano, si farà sentire acutamen­te… …Per cui, ad evitare che si finisca in situazioni di estremo disagio, vi è chi ritiene indispensabile far ricorso a drastiche misure elusive o repressive della natalità ».

E il S. Padre commenta: « A dire il vero, consi­derato su piano mondiale, il rapporto tra incremen­to demografico da una parte e sviluppo economico e disponibilità di mezzi di sussistenza dall’altra, non sembra, almeno per ora e in un avvenire prossimo, creare gravi difficoltà: in ogni caso troppo incerti ed oscillanti sono gli elementi di cui si dispone per poterne trarre conclusioni sicure… Per cui la solu­zione di fondo del problema non va ricercata in espedienti che offendono l’ordine morale stabilito da Dio e intaccano le stesse sorgenti della vita uma­na, ma in un rinnovato impegno scientifico-tecnico da parte dell’uomo ad approfondire ed estendere il suo dominio sulla natura. I progressi già realiz­zati dalle scienze e dalle tecniche aprono su questa via orizzonti sconfinati ».

E venendo a parlare delle aree depresse dice: « Sappiamo però che in aree determinate e nell’am­bito di Comunità politiche in fase di sviluppo eco­nomico possono presentarsi e si presentano real­mente gravi problemi e difficoltà, che si devono al fatto di una deficiente organizzazione economico­sociale che non offre perciò mezzi di vita propor­zionati al saggio di incremento demografico; come pure al fatto che la solidarietà tra i popoli non è operante in grado sufficiente ».

E il Santo Padre conclude: « Con tristezza rile­viamo che una delle contraddizioni più sconcertanti da cui è tormentata e in cui si logora la nostra epo­ca è che, mentre da una parte si mettono in accen­tuato rilievo le situazioni di disagio e si fa balenare lo spettro della miseria e della fame, dall’altra si utilizzano, e spesso largamente, le scoperte della scienza, le realizzazioni della tecnica e le risorse economiche per creare terribili strumenti di rovina e di morte ».

Dunque anche per le aree depresse il problema è specialmente di organizzazione sociale, politica ed economica. Il basso livello di vita in quelle popola­zioni non è dovuto solo all’alta natalità ma anche alla bassa produzione. Si tratta quindi sia di dimi­nuire le nascite in modo responsabile, sia di aumen­tare la produzione e il benessere mediante una giu­sta organizzazione sociale ed una politica economi­ca adeguata ai bisogni, sia di diminuire le spese per gli armamenti.

È certo più facile, specialmente per certe classi dirigenti, attribuire la causa della miseria all’incre­mento demografico e non invece all’inefficienza del­lo Stato o all’egoismo delle classi dirigenti stesse.

Un passo avanti però è stato fatto nell’insegna­mento della Chiesa a questo proposito: il Concilio infatti, pur riservando ai coniugi la responsabilità della decisione, ammette che le popolazioni debba­no essere opportunamente istruite anche riguardo alla regolazione delle nascite.

Dice il Concilio: « Infatti in virtù del diritto inalienabile dell’uomo al matrimonio e alla gene­razione della prole, la decisione circa il numero dei figli da mettere al mondo dipende dal retto giudi­zio dei genitori e non può in alcun modo essere la­sciata alla direzione dell’autorità pubblica. Ma poi­ché questo giudizio dei genitori suppone una co­scienza ben formata, è di grande importanza dare a tutti il modo di educarsi a una retta responsabi­lità, quale veramente conviene a uomini, nel ri­spetto della legge divina e tenendo conto delle circostanze. Tutto ciò esige un po’ dappertutto un miglioramento dei mezzi educativi e delle condi­zioni sociali, e soprattutto una formazione religio­sa o almeno una solida formazione morale.

Le popolazioni poi siano giudiziosamente informa­te sui progressi della scienza nella ricerca di quei metodi, che potranno aiutare i coniugi in materia di regolazione delle nascite, una volta che sia ben stabilito il valore di questi metodi e accertato il loro accordo con la legge morale » (Gaudium et spes, n. 87).

E in modo nuovo e più esplicito Paolo VI rico­nosce allo Stato il diritto di intervenire: « È certo che i poteri pubblici, nell’ambito della loro com­petenza, possono intervenire, mediante la diffusio­ne di una appropriata informazione e l’adozione di misure opportune » purché non opposte alla legge morale e alla giusta libertà dei coniugi (enciclica Populorum progressio del 26 marzo 1967, n. 37).

Anche in una politica demografica, la scelta del numero dei figli è di sola spettanza degli sposi. So­lo gli sposi, tenendo di mira il bene anche della comunità nazionale, possono lasciarsi illuminare da una onesta scienza demografica e decidere in me­rito secondo coscienza ed onestà (cfr. Goffi, Morale familiare, pag. 142).

Il numero dei figli

b) Trattiamo ora il problema dal punto di vista familiare.

È diventato un vezzo l’affermare che la Chiesa (e, si capisce, parliamo di Chiesa Cattolica) insegna una « natalità ad oltranza ». Niente di più falso!

La Chiesa non fa questione di « numero » di fi­gli per se stesso: sa benissimo che i figli possono essere numerosi per generosità dei genitori (e que­sto è lodevole!) ma anche, purtroppo, per inco­sciente impulsività ed istintività dei genitori (e questo non è affatto lodevole!): peggio ancora se si hanno per isbaglio.

La Chiesa insiste sulla stima dei bambini.

I figli vengono spesso considerati come un peso economico, una limitazione della libertà o dei co­modi dei genitori, oppure come un necessario com­pletamento dei coniugi stessi i quali, senza figli, si sentirebbero troppo soli.

A ben pensarci sono, ambedue, atteggiamenti non esatti dal punto di vista cristiano, anzi egoi­stici: l’egoismo rifiuta i figli come pesi, l’egoismo li desidera come complemento necessario per la famiglia.

Il modo cristiano di concepire i figli è totalmen­te diverso. Lo stato coniugale impone ai coniugi l’impegno reciproco e la missione di trasmettere la vita. Dio poteva creare direttamente gli uomini: ha voluto aver bisogno della collaborazione uma­na. I coniugi sono anzitutto collaboratori di Dio Creatore procreando i figli e collaborano con la Divina Provvidenza allevandoli ed educandoli. Nell’attuale piano di Dio i figli sono destinati a diventare membri del Corpo Mistico di Cristo; de­vono inoltre essere aiutati, mediante l’educazione cristiana, a vivere sempre più intensamente e con­sapevolmente il loro Battesimo, la loro vita cri­stiana, a diventare copie sempre più fedeli del mo­dello Gesù Cristo.

Il fine ultimo della vita umana, la gloria di Dio, raggiunge il suo termine perfetto nella beatitudine del Paradiso. Siccome per poter raggiungere il Pa­radiso bisogna anzitutto nascere a questa vita ter­rena ed è inoltre di somma necessità l’educazione che indirizzi a Dio, ecco che dalla famiglia dipende non solo la Chiesa ma addirittura il Paradiso.

I figli dunque sono un deposito affidato da Dio alla libera accettazione dei coniugi: non un peso ma un dono, non un complemento o un gingillo ma un impegno. La missione dei coniugi è questa: amare Dio (ecco la carità!) fino al punto da dargli nuovi figli e da indirizzarli e condurli a Lui; amar­si tra loro e completarsi così che, se Dio concede dei frutti al loro amore, sia sempre più completa la educazione dei figli.

L’amore reciproco dei genitori, anche manifesta­to con tenerezza esterna, è un mezzo insostituibile di educazione dei figli, un vero buon esempio (ed anche, sia detto di sfuggita ma meriterebbe più profonda attenzione, un elemento importante per la loro educazione sessuale).

Con piena ragione diceva il Papa Pio XII: « Pur­troppo non sono rari i casi, in cui il parlare, anche soltanto con un cauto accenno, dei figlioli come di una “benedizione”, basta per provocare contraddi­zione o forse anche derisione. Molto più spesso domina l’idea e la parola del grave “peso” dei fi­gli. Come questa mentalità è opposta al pensiero di Dio e al linguaggio della Sacra Scrittura, e an­che alla sana ragione e al sentimento della natu­ra! » (Discorso alle Ostetriche).

Appare chiaro che non si può disgiungere la pro­creazione dalla educazione dei figli (e noi intendia­mo educazione cristiana); perciò una procreazione indiscriminata, che rende impossibile o troppo dif­ficile l’educazione, sarebbe una procreazione inop­portuna.

E non si può neppure disgiungere la procreazio­ne dall’amore verso il coniuge, dalla considerazione delle sue condizioni fisiche e spirituali e neppure dalla situazione concreta della famiglia.

D’altra parte i coniugi devono sentire e vivere la loro missione di collaboratori di Dio Creatore: sono essi che con la procreazione pongono la pre­messa per estendere il Corpo Mistico di Cristo e per popolare il Paradiso.

Il Concilio dice: « Sia chiaro a tutti che la vita umana e il compito di trasmetterla non sono limi­tati a questo tempo, e non si possono commisurare e capire in questo mondo soltanto, ma riguardano il destino eterno degli uomini » (Gaudium et spes, n. 51).

È perciò un dovere degli sposi cristiani quello della generosità in questo campo, fondata sulla ca­rità verso Dio e sulla fiducia nell’aiuto di Dio. Essi non possono fondarsi su una fiducia miracolistica; devono tenere debito conto di tutto ciò che, secon­do cristiana prudenza, potrebbe rendere controin­dicata una nuova procreazione (quanto è utile il dono del consiglio ottenuto dallo Spirito Santo!); devono pure ricordare l’utilità di una giusta distan­za fra le nascite; dovranno però anche seriamente riflettere per conoscere sempre meglio la volontà di Dio e le loro responsabilità di fronte a Lui.

Ogni famiglia è un caso a sé ed ha una fisiono­mia ed una vocazione particolare, ma tutte devono avere il desiderio, come pure lo sforzo, di fare la volontà di Dio.

In un tempo in cui esagerati allarmi pubblici e, più ancora, egoistici ed immorali calcoli privati por­tano ad una ingiustificata campagna contro la nata­lità, i coniugi cristiani devono sentirsi l’impegno della generosità nel compiere questo loro dovere. Ed anche quando motivi seri suggeriscono una giu­sta e talora doverosa limitazione delle nascite, non devono mai mancare il desiderio, il votum prolis, quasi la nostalgia della vita.

Alla domanda: « Quanti figli? » i teologi mo­derni rispondono: « Quanti se ne possono cristia­namente allevare ed educare nelle condizioni concrete di vita, le quali possono variare nel tempo e nello spazio ».

Dunque si può e si deve parlare di procreazione consapevole. La procreazione è un fatto così impor­tante, così pieno di responsabilità, che non può essere abbandonata al semplice istinto. I coniugi devono assumersi la grave responsabilità di avere figli in modo consapevole e libero, responsabile.

Deve essere frutto di scelta ragionata e libera sia il volere sia il non volere figli: i figli devono es­sere liberamente voluti e liberamente (anche se con dispiacere) non voluti dai coniugi e ciò, evidente­mente, in modo conforme alla volontà di Dio.

L’espressione procreazione consapevole o re­sponsabile non deve servire perciò, come di solito avviene, ad indicare solo la limitazione delle na­scite: ha pure il valore positivo di cosciente ricerca e accettazione della procreazione al momento op­portuno.

Il Santo Padre Pio XII nel discorso al Congresso del Fronte della Famiglia (28 Novembre 1951) in­vece dell’espressione ambigua e unilaterale «limi­tazione delle nascite» usa quella più completa di «regolazione delle nascite»: le nascite devono es­sere «regolate» non quindi lasciate alla mercé dell’istinto, ma favorite o limitate secondo le nor­me della ragione illuminata dalla fede.

Ancora una volta è utile ripetere che non c’è ve­ra regolazione delle nascite senza intervento della libertà umana nell’attività sessuale.

La regolazione delle nascite

Alla domanda se è lecita una regolazione delle nascite, si può rispondere affermativamente ma a due condizioni e cioè:

a) ci devono essere motivi sufficienti e seri; b) si devono usare mezzi onesti e leciti.

a) Siccome il dovere di procreare è un dovere positivo, come già si è detto, ci possono essere motivi che esimono dal compiere questo dovere. Nel discorso, tanto spesso citato, alle Ostetriche Pio XII insegna: « Da quella prestazione positiva obbligatoria possono esimere, anche per lungo tempo, anzi per l’intera durata del matrimonio, se­ri motivi, come quelli che si hanno non di rado nella cosiddetta “indicazione” medica, eugenica, economica e sociale ».

I motivi addotti dal Papa come cause scusanti sono: malattia della mamma che rende difficile o controindicata una nuova maternità; trasmissibili­tà di tare ereditarie nei figli; motivi economici (sa­lario insufficiente, povertà, casa insufficiente, ecc.); esigenze relative all’assistenza e all’educazione dei figli già nati, le quali richiedono una ragionevole distanza fra le nascite.

Sono motivi portati dal Papa solo come esem­pio: ce ne possono essere molti altri.

E’ evidente che vanno valutati caso per caso, famiglia per fa­miglia.

Il Concilio Vaticano II riprende questo argomento e allarga di molto la visione dei motivi scu­santi: ricorda non solo le esigenze dei figli nati ma anche di eventuali nascituri, non solo le esigenze familiari ma anche le esigenze della società tempo­rale e della stessa Chiesa: il giudizio definitivo cir­ca la validità di tali motivi è riservato ai coniugi. La decisione deve dunque essere presa da ambe­due insieme.

Naturalmente i coniugi devono essere aiutati e illuminati nel formulare giudizi così importanti: perciò non sarà mai raccomandata abbastanza la diffusione di una istruzione e di un’informazione adeguate in argomenti di tale importanza.

Ecco le parole del Concilio: « E perciò (i coniu­gi) adempiano il loro compito con umana e cristia­na responsabilità e, con docile reverenza verso Dio, con riflessione e impegno comune, si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceran­no, valutando le condizioni di vita sia materiali che spirituali del proprio tempo e della loro situazione; e, infine, tenendo conto del bene della comunità fa­miliare, della società temporale e della stessa Chie­sa. Questo giudizio in ultima analisi lo devono for­mulare, davanti a Dio, gli sposi stessi. Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano con­sapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere sorretti da una coscien­za che deve essere conforme alla legge divina stes­sa, docile al magistero della Chiesa, che in modo

autentico interpreta quella legge alla luce del Van­gelo » (Gaudium et spes, n. 50).

Quando questi motivi ci sono, non si devono sottovalutare. Ancora Pio XII dice alle Ostetriche: «Se, a vostro sicuro e sperimentato giudizio, le condizioni richiedono assolutamente un no, cioè l’esclusione della maternità, sarebbe un errore e un torto d’imporre o di consigliare un sì».

C’è però un pericolo da evitare: il pericolo del­l’egoismo, che, specialmente nella valutazione di motivi economici, può rovinare il retto giudizio. E’ troppo facile chiamare esigenza ciò che è superfluo, credere serio motivo economico quello che invece è comodo proprio.

Bisogna cioè saper trovare un giusto equilibrio tra la generosa fiducia nella Provvidenza divina e la ragionevole prudenza umana. Né miracolismo né egoismo.

Sarebbe sbagliato il pretendere che Dio debba sempre fare miracoli; è sbagliato pensare: « Met­tiamo al mondo figli; poi… Dio ci penserà ». Ci vuole fiducia nella Provvidenza ma senza avventu­re, senza sconsideratezza. Dio vuole che si usi an­che la nostra testa. E’ importante insistere anche su questo punto per non far dire alla Chiesa quello che non ha mai detto.

E’ però anche sbagliato (ed è il pericolo più reale ai nostri giorni) fare tutti i propri calcoli solo in base all’egoismo, ai comodi, alla fuga da ogni sacri­ficio, senza tener nessun conto del dovere proprio dello stato matrimoniale, escludendo Dio e la Provvidenza divina dai propri calcoli, dalle proprie pre­visioni e decisioni. I figli sono, anzitutto, deside­rio e gloria di Dio; e questa gloria di Dio va cerca­ta anche con sacrifici.

Insegna il Concilio: « Così i coniugi cristiani, adempiendo alla loro funzione di procreare con generosa, umana e cristiana responsabilità, fidando nella divina Provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio, glorificano il Creatore e tendono, in Cri­sto, alla perfezione » (Gaudium et spes, n. 50).

Ripeto: né miracolismo né egoismo. E si noti che i motivi che possono esimere dal dovere di fecondità nell’uso del diritto coniugale valgono fin­ché durano e si deve aspettare che sorgano per far­li valere. Ecco perché non è affatto cristiano fissa­re, già in partenza, il numero dei figli (« tanti e non di più »).

b) È stato detto, in luogo e da persone autore­voli, che « il dovere della fecondità riguarda più la condizione del matrimonio che ogni atto coniu­gale. È lo stato matrimoniale che deve essere fecon­do e non necessariamente ogni atto per se stesso ».

Questa affermazione verissima, sta ad indicare il valore dell’amore coniugale per se stesso e della unione coniugale anche solo a scopo di manifesta­zione d’amore, prescindendo dalla fecondità. Non può certo significare che si possa positivamente e­scludere la fecondità dell’unione coniugale con mezzi illeciti.

Il mezzo lecito, finora riconosciuto tale, per la limitazione delle nascite è quello dell’astinenza o continenza periodica: astinenza nei giorni fecondi e uso nei giorni sterili (fissati secondo il metodo Ogino-Knaus o, più sicuramente, con la misurazio­ne della temperatura basale o col metodo Billings).

Anche durante il periodo di « astinenza perio­dica » è lecito agli sposi manifestarsi il loro amore con atti di affettuosità e di tenerezza come già si è detto sopra.

In queste lecite manifestazioni d’affetto gli spo­si non devono preoccuparsi per il sopraggiungere dell’orgasmo a motivo di una intimità ricercata co­me semplice gesto di affettuosità. Un fatto fisiolo­gico va giudicato, dal punto di vista morale, solo in base alle intenzioni, alle circostanze che lo ac­compagnano e all’orientamento generale della vita.

Si deve però richiamare quanto si è già detto sopra e lo facciamo con le parole di Pio XII nel citato discorso: « Se però non vi sono, secondo un giudizio ragionevole ed equo, simili gravi ragioni personali o derivanti dalle circostanze esteriori, la volontà di evitare abitualmente la fecondità della loro unione, pur continuando a soddisfare piena­mente la loro sensualità, non può derivare che da un falso apprezzamento della vita e da motivi estra­nei alle rette norme etiche » (Discorso alle Oste­triche).

E si noti anche che può diventare riprovevole perfino un’astinenza assoluta, quando fosse sugge­rita da motivi egoistici.

« Faccio qui allusione a quegli sposi, già lontani dalla luna di miele, i quali in queste rinunce ve­dono un comodo espediente per assicurarsi la loro tranquillità personale, senza preoccuparsi affatto dei diritti e dei bisogni del loro coniuge; e anche a tutti quelli che vedono in questa rinuncia un mez­zo facile e apparentemente casto per evitare di avere figli quando niente impedisce loro di aver­ne » (D. Planque, La chasteté coniugale, pag. 125).

Nuove questioni

Prima però di arrivare al termine di questo ca­pitolo, pare doveroso fare qualche precisazione. Non abbiamo certo lesinate parole e citazioni per dimostrare il dovere dei coniugi di una pro­creazione cristianamente generosa.

Sarebbe però ingiusto negare che molti sposi si trovano nella vera necessità di limitare le nascite e, d’altra parte, non è né giusto né consigliabile, per tali coniugi, limitare troppo le manifestazioni, an­che fisiche, del loro amore, anzi ciò sarebbe peri­coloso per la loro stessa fedeltà, per la loro armo­nia e, di riflesso, per l’educazione dei figli.

Il problema è posto in modo inequivocabile dal Concilio stesso. Nella Gaudium et spes leggiamo: « Il Concilio sa che spesso i coniugi, nel dare un ordine armonico alla vita coniugale, sono ostaco­lati da alcune condizioni della vita di oggi, e pos­sono trovarsi in circostanze nelle quali non è pos­sibile accrescere, per un certo tempo, il numero dei figli, e non senza difficoltà si può conservare la fedeltà dell’amore e la piena comunità di vita. Là dove, infatti, è interrotta l’intimità della vita co­niugale non è raro che la fedeltà corra rischi e pos­sa venir compromesso il bene dei figli: allora, so­no in pericolo anche l’educazione dei figli e il co­raggio di accettarne altri » (n. 51).

Sono però sorte « nuove questioni » le quali possono essere così riassunte.

Il metodo Ogino-Knaus non si presenta sempre come metodo di efficacia sicura né di applicazione facile; a molti appare anzi come poco accettabile psicologicamente in quanto limiterebbe di molto la spontaneità delle manifestazioni d’amore; ad alcu­ni poi sembra che, dal punto di vista morale, non sia un metodo molto diverso da altri metodi finora non ammessi: anche qui c’è una voluta ed inten­zionale separazione tra manifestazioni d’amore co­niugale e fecondità; anche qui il singolo atto co­niugale rimane volutamente infecondo: sembra perciò salvata più la fisiologia dell’atto coniugale che la sua moralità.

La scoperta dei progestativi (le famose « pillo­le » che bloccando l’ovulazione impediscono evi­dentemente la fecondazione) ha posto il problema: è lecito intervenire a regolare così direttamente la funzione sessuale?

I teologi prima dell’intervento del Papa Paolo VI, in gran parte risposero affermativamente. Essi dicevano: siccome l’unione coniugale umana porta non solo alla procreazione (come invece è per gli animali) ma anche alla manifestazione d’amore tra i coniugi; siccome sono altrettanto ammessi sia il diritto e talora il dovere di limitare le nascite per giusti motivi sia il diritto e l’esigenza di manife­starsi l’amore, ne consegue che si deve ammettere una unione coniugale che non sia feconda (come del resto avviene nel metodo Ogino-Knaus). E se l’uomo è amministratore del proprio corpo, per­ché non potrebbe intervenire direttamente nel cam­po sessuale, come interviene in tutti gli altri cam­pi del suo corpo?

Altri problemi poi sorsero ad opera di altri teo­logi, i quali ritenevano lecito alterare la struttura fisiologica dell’unione coniugale distinguendo tra modalità procreatrice (fissata dalla fisiologia) e mo­dalità non procreatrice delle manifestazioni d’amo­re tra coniugi che, per seri motivi, non intendono procreare (modalità che verrebbe lasciata alla scelta dei coniugi salvi però l’amore e la dignità).

A proposito di queste « nuove questioni », ri­chiamate qui per completezza, si deve osservare che sono questioni che riguardano solo i casi in cui è necessario limitare le nascite. Quando i teologi affrontano questi problemi, non lo fanno certo per favorire la sfrenatezza dei costumi o per diminuire il dovere di generosità cristiana dei coniugi; lo fanno per risolvere casi indubbiamente seri o per favorire l’accordo tra doverosa responsabilità nella procreazione ed esigenza di manifestazione d’amo­re, tanto più se risulta inefficace o insufficiente il metodo Ogino-Knaus.

La giusta moderazione, tanto utile per acquista­re un sano dominio sui propri istinti, è attuata ne­cessariamente col metodo Ogino-Knaus, ma può essere attuata liberamente anche con altri metodi.

La « Humanae vitae »

A tutti questi problemi ha dato una risposta, evidentemente assai autorevole, il Papa Paolo VI con la lettera enciclica Humanae vitae del 25 Giu­gno 1968.

Il contenuto essenziale di questa enciclica può essere così riassunto: è una valorizzazione del vero e totale amore coniugale, come anima del matri­monio; è un chiaro insegnamento circa la procrea­zione generosa e, insieme, consapevole e respon­sabile; è un richiamo al senso soprannaturale del matrimonio cristiano, come sacramento; è un in­vito a scoprire e a praticare la spiritualità coniu­gale. Il torto che si è fatto a questa enciclica è di averla considerata solo come condanna dei con­traccettivi.

Per quanto poi riguarda i metodi da usarsi per la limitazione delle nascite (« pillola » o altri me­todi anticoncezionali) l’insegnamento della Huma­nae vitae (ai nn. 14-16) è piuttosto deciso: viene decisamente dichiarata illecita ogni forma di aborto diretto anche se « terapeutico »; viene dichiarata illecita ogni sterilizzazione diretta, perpetua o tem­poranea, dell’uomo o della donna; vengono di­chiarati illeciti tutti i mezzi contraccettivi o anti­concezionali (meccanici, chimici come la « pillo­la », ecc.); vengono dichiarati leciti alcuni mezzi terapeutici usati direttamente per curare malattie o anomalie fisiche, anche se ne risultasse un impe­dimento, pur previsto, alla procreazione; viene di­chiarato lecito il metodo della continenza periodi­ca (Ogino-Knaus) che tien conto dei giorni sterili nella donna.

Questo insegnamento è sembrato ad alcuni piut­tosto duro e difficilmente conciliabile con la pos­sibilità di una spontanea manifestazione d’amore tra due coniugi che abbiano la necessità di evitare la procreazione.

In pratica, tale insegnamento del Papa viene presentato come un ideale a cui tendere, una meta da raggiungere, sia pur attraverso fasi progressi­ve. Gli episcopati di tutto il mondo hanno cercato di interpretare l’insegnamento del Papa per insiste­re sul dovere di accettare tale insegnamento, pur riconoscendo una gradualità di applicazione e pur riconoscendo che una norma, anche valida, può suscitare un conflitto di valori e deve quindi es­sere applicata al caso concreto secondo il giudizio della coscienza rettamente formata.

È utile perciò leggere alcune interpretazioni au­torevoli dei Vescovi; premettendo che il vero pec­cato contro cui tutti devono combattere è l’egoismo, e precisamente l’egoismo di quei coniugi che vogliono evitare la procreazione senza motivi plau­sibili.

L’episcopato italiano, in un suo commento (10 settembre 1968) alla enciclica, raccomanda ai sa­cerdoti pazienza e bontà verso i coniugi: « Questa evangelica benignità si manifesti specialmente nei confronti di quei coniugi le cui mancanze non de­rivano da un rifiuto egoistico della fecondità, ben­sì piuttosto dalla difficoltà a volte molto seria in cui si trovano, di conciliare le esigenze della pa­ternità responsabile con quelle del loro amore re­ciproco, che è amore pienamente umano, vale a di­re, nello stesso tempo sensibile e spirituale. In tal caso infatti il loro comportamento, pur non essen­do conforme alla norma cristiana, non è certo va­lutabile nella sua gravità come quando provenisse unicamente da motivi viziati dall’egoismo e dal­l’edonismo » (n. 5). E così incoraggia i coniugi: « Non si avviliscano a causa dei loro possibili in­successi: la Chiesa, il cui compito è di dichiarare il bene totale e perfetto, non ignora che vi sono delle leggi di crescita nel bene, e che talora si passa per dei gradi ancora imperfetti, ma con il fine di superarli lealmente in una tensione costante all’ideale » (n. 6). « Gradi imperfetti » significa colpa?

Gli episcopati francese e canadese scrivono, nei loro commenti all’enciclica, che qualora sorga un conflitto di doveri (tra l’ubbidienza alla legge data dal Papa e la necessità di alimentare l’amore co­niugale) i coniugi devono scegliere quello che ri­tengono il bene maggiore.

« La contraccezione non può mai essere un be­ne. È sempre un disordine, ma questo disordine non è sempre colpevole. Capita infatti che degli sposi si considerino di fronte a veri conflitti di doveri. Nessuno ignora le angosce spirituali in cui si dibattono gli sposi sinceri, soprattutto quando l’osservanza dei ritmi naturali non riesce a dar loro una base sufficientemente sicura ad una rego­lazione delle nascite. Da una parte essi sono co­scienti del dovere di rispettare l’apertura di ogni atto coniugale alla vita; ritengono ugualmente in coscienza di dover evitare o dilazionare una nuova nascita, e sono privi della risorsa di affidarsi al ritmo biologico. D’altra parte non vedono, per ciò che li riguarda, come rinunciare attualmente all’e­spressione fisica del loro amore senza con ciò mi­nacciare la stabilità della loro unione. A tale ri­guardo, richiamiamo semplicemente l’insegnamen­to costante della morale: data l’alternativa di do­veri in cui, qualunque sia la decisione presa, non si può evitare un male, la saggezza tradizionale pre­vede di ricercare davanti a Dio quale dovere sia, nel caso, maggiore. Gli sposi si determineranno in base a una riflessione comune, condotta con tutta l’attenzione che la grandezza della loro vocazione coniugale richiede » (n. 16. Episcopato francese. 8 novembre 1968).

« Alcuni consiglieri possono incontrare persone che, pur accettando l’insegnamento del santo Pa­dre, ritengono, a motivo di particolari circostanze, di trovarsi di fronte a quello che loro sembra un « conflitto di doveri »; ad esempio: conciliare le esigenze dell’amore coniugale con quelle della pa­ternità responsabile, dell’educazione dei figli già nati oppure della salute della madre. Secondo i principi della teologia morale, nella misura in cui queste persone abbiano compiuto uno sforzo since­ro per conformarsi alle direttive, senza tuttavia riu­scirci, potranno avere la certezza di non essere se­parate dall’amore di Dio quando scelgano onesta­mente la via che loro sembri migliore » (n. 26. Episcopato canadese. 27 settembre 1968).

Il commento di altri episcopati alle norme date dall’enciclica mette molto in evidenza l’azione in­sostituibile della coscienza: la legge deve essere accettata, ma l’applicazione della legge ai casi sin­goli deve avvenire seguendo la propria coscienza.

« È chiaro che l’uomo, in qualunque circostanza, non deve mai agire contro la sua coscienza. E’ pos­sibile che la sua coscienza sia erronea, o che abbia bisogno di studiare una questione più a fondo, ma non è mai permesso agire contro la propria co­scienza. Anche quando si è fatto tutto il possibile per scoprire le giuste norme, la loro applicazione tuttavia dipende in ogni modo dalla responsabilità personale. Nessuno, neppure la Chiesa, può di­spensare dal dovere di seguire la propria coscienza e di prendere le proprie responsabilità » (n. 4. Episcopato scandinavo. Ottobre 1968).

« Non si può negare che l’enciclica ha creato un conflitto nelle menti di molti cattolici. In parte a motivo delle discussioni sulla limitazione delle na­scite, fin dal tempo del Concilio, essi si domanda­no come possano accettare con sincerità la deci­sione del Papa. Bisogna ribadire che non è in que­stione il primato della coscienza. Il Papa, i vesco­vi, il clero e i fedeli tutti devono essere fedeli alla coscienza. Ma siamo obbligati a fare tutto quanto è in nostro potere per essere sicuri che la nostra coscienza sia rettamente informata. Né l’enciclica né altro documento della Chiesa ci privano del diritto e del dovere di seguire la nostra coscien­za. Ma se noi non teniamo in debito conto l’inse­gnamento della Chiesa, facilmente la moralità può scivolare in un puro soggettivismo » (n. 8. Episco­pato inglese, 24 settembre ’68).

Le conclusioni pratiche possono essere queste:

a) la decisione definitiva, circa il problema del­la procreazione, spetta ai coniugi i quali devono superare ogni forma di egoismo e sforzarsi di com­portarsi secondo gli insegnamenti proposti dal Papa come ideale;

b) qualora essi trovassero tale insegnamento non attuabile nella situazione concreta si regoleranno, di comune accordo, secondo la loro coscienza e sceglieranno quel mezzo di manifestazione d’amo­re che riterranno più conforme alla loro dignità, più innocuo ed efficace, gradito ad ambedue. Il do­vere di salvare l’amore reciproco anche sensibile e la fecondità responsabile è, per i coniugi, superio­re a quello di rispettare la struttura fisico-bíologi­ca dell’atto coniugale: in caso di contrasto deve prevalere quel dovere su questo.

c) La coscienza è quel giudizio pratico della ra­gione che giudica la moralità di ogni singolo atto, applica la legge ad ogni singolo atto nella misura del possibile; è l’intermediaria tra la legge e la sin­gola azione umana, è il vero ultimo punto di in­contro tra Dio e l’uomo. La coscienza cristiana de­ve essere formata anzitutto dall’insegnamento del­la Chiesa: può però, nel suo giudizio, essere in­fluenzata da circostanze concrete e urgenti che possono indurla a seguire, anche senza colpa, so­luzioni pratiche diverse da quelle proposte dalla chiesa.

Insegnamento, chiaro e autorevole, in proposi­to lo troviamo nel Concilio Vaticano II: Gaudium et spes, n. 16 e n. 87.

«Per questo anche i pastori d’anime esplicando il loro servizio, specialmente amministrando i sa­cramenti, rispetteranno le decisioni di coscienza dei fedeli prese con senso di responsabilità» (n. 16. Episcopato tedesco, lettera pastorale. 30 ago­sto ’68) ‘.

Aborto

Non è certo lecito, in nessun caso, ricorrere al­l’aborto per evitare una nuova maternità, anche se giustamente indesiderata.

L’enciclica Humanae vitae insegna: «Dobbia­mo ancora una volta dichiarare che è assolutamen­te da escludere, come via lecita per la regolazione delle nascite, l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto di­rettamente voluto e procurato, anche se per ragio­ni terapeutiche» (n. 14).

Pio XII diceva: « La vita di un innocente è in­tangibile, e qualunque diretto attentato o aggres­sione contro di essa è violazione di una delle leggi fondamentali, senza le quali non è possibile una sicura convivenza umana » (Discorso alle Ostetri­che). Base di una convivenza sicura tra gli uomini è il rispetto reciproco dei diritti fondamentali del­l’uomo: ora, quale diritto è più fondamentale per l’uomo se non il diritto alla vita, su cui sono fon­dati tutti gli altri diritti? Ecco perché non è lecito uccidere. Né si può far distinzione tra uomo adulto e uomo bambino e uomo ancora nel seno materno. E se ci si trovasse nel tragico caso in cui « per salvare la madre » bisogna procurare direttamen­te l’aborto? (aborto « terapeutico »). Proprio in questo caso va ricordato che la legge e la volontà divina sono superiori ad ogni volontà umana: e la volontà divina comanda di non uccidere.

Non è possibile trattare come « ingiusto aggres­sore » una creaturina che è venuta alla vita e ora si trova nel seno materno per volontà non sua ma altrui.

Non è giusto presentare il problema come se si trattasse di una scelta o di un dilemma: la madre o il bambino. Dice Pio XII: « Mai in nessun caso la Chiesa ha insegnato che la vita di un bambino deve essere preferita a quella della madre. È er­rore impostare la questione con questa alternativa: o la vita del bambino o quella della madre. No, né la vita della madre né quella del bambino pos­sono essere sottoposte a un atto di diretta sop­pressione. Per l’una parte e per l’altra l’esigenza non può essere che una sola: fare ogni sforzo per salvare la vita di ambedue, della madre e del bam­bino » (Discorso al Fronte della Famiglia).

Si tratta dunque di formarsi la convinzione che il feto nel seno materno è già « uomo ». Certe con­vinzioni si fanno strada a poco a poco. Ci sono voluti dei secoli per comprendere che anche lo schiavo era un « uomo ». Quando si è convinti che è vero uomo anche il germe umano chiuso nel se­no materno, si comprende quale barbarie sia procurare direttamente l’aborto, anche se per salvare la madre; come già si è compreso quale barbarie sarebbe l’uccidere uno schiavo o un dipendente per salvare la vita del padrone. E mentre si ri­tiene « crudele » la dottrina cattolica in proposi­to, si dovrebbe ritenere ben più crudele l’uccidere un innocente proprio nel seno materno che la natura ha disposto come riparo sicuro e recondito per una vita fragile e incapace di difendersi.

La vera domanda è questa: « Che diritto ha un uomo di sopprimere la vita di un altro essere uma­no innocente? ».

E quando si sopprime, con l’aborto, un feto per­ché si teme, anche con fondamento, che nasca un bambino anormale, lo si sopprime per il bene del bambino (che non viene certo interrogato) o non piuttosto per l’egoismo dei genitori o della socie­tà, che non vogliono assumersi pesi e « fastidi » sgraditi? È solo una domanda, non un giudizio.

La Chiesa difende la vita: e se la difende fin dal primo concepimento, è perché i biologi inse­gnano che c’è vita umana, sia pure in germe, fin dal primo concepimento.

Se è sempre illecito l’aborto diretto sia crimino­so (per salvare l’onore, per evitare una nascita in­desiderata) sia terapeutico (per salvare la madre ammalata incapace di portare a termine la gravi­danza: caso, del resto, oggi rarissimo), ben diver­so è l’insegnamento della Chiesa circa l’aborto in­diretto.

È aborto indiretto quello non voluto e non pro­curato direttamente ma solo derivante da un in­tervento chirurgico lecito e necessario o da una medicina lecita e necessaria: in tal caso l’aborto sarebbe non voluto né direttamente procurato ma solo previsto. Per esempio, è lecito intervenire su una donna gravida, colpita da appendicite o da peritonite, anche se si prevede che da quell’inter­vento chirurgico deriverà l’aborto, o asportare un utero gravido canceroso.

E’ chiaro che tutto questo discorso riguarda il problema morale: sotto questo aspetto l’aborto di­retto è sempre da condannare.

Da questo problema va distinto l’altro, cioè il problema dell’atteggiamento che la legge civile de­ve assumere di fronte al male morale. Basti l’ac­cenno a questa distinzione, altrimenti si andrebbe troppo lontano se si volesse affrontare il discorso della tolleranza del male o della sua permissione per evitare mali maggiori o per ottenere beni so­ciali maggiori.

A questo proposito i Vescovi italiani hanno di­chiarato: « Ora, pur riconoscendo la validità teo­rica di tale principio (della tolleranza civile), ne­ghiamo che di fatto le autentiche esigenze del be­ne comune ne giustifichino – sia pure come male minore – l’applicazione nel caso dell’aborto ». « …riaffermiamo che, quand’anche e comunque fos­se liberato, in certi casi, dalle sanzioni della legge civile, l’aborto non perderebbe mai il suo carattere di crimine morale ». (Documento C.E.I. 11 Gen­naio 1972, nn. 5, 7).

Conclusione

Nel Salmo 128 si trovano questi auguri per la nuova famiglia: « Beato chiunque teme Jahve, chi cammina nelle sue vie… La tua donna è come vite feconda nei penetrali della tua casa. I tuoi figli come rampolli di ulivi intorno alla tua mensa. Ec­co, così è benedetto l’uomo che teme Jahve! » (Salmo 128, 1.3-4).

Questa è la caratteristica di una famiglia cristia­na: il senso della stima soprannaturale dei figli i quali sono la gloria e la corona di Dio e dei ge­nitori: e tutto ciò anche in una procreazione re­sponsabile fatta di fede e di ragionevolezza.

CAPITOLO SESTO

IL MATRIMONIO È UN SACRAMENTO

Introduzione

Dopo avere trattato del matrimonio prevalente­mente dal punto di vista naturale, nella sua istitu­zione divina, nella sua struttura e nel suo retto funzionamento, bisogna mettere in evidenza che, per un cristiano, cioè per un battezzato, il matri­monio è un Sacramento, un mezzo di grazia, un patto elevato da Gesù Cristo allo stato sopranna­turale. Per un cristiano quindi non c’è altro ma­trimonio che il Matrimonio-Sacramento.

Nel libro di Tobia si legge che il giovane Tobia, subito dopo aver sposato Sara, prima di attuare con lei il matrimonio, indirizzò a Dio una preghie­ra veramente piena di sapore spirituale; diceva in­fatti Tobia: « Noi siamo figli di santi e non pos­siamo congiungerci alla maniera dei pagani che non conoscono Dio ».

Ecco la preghiera: « Signore, Dio dei Padri no­stri, Ti benedicano i cieli e la terra, il mare, i mon­ti, i fiumi e tutte le Tue creature che in essa sono. Tu dal fango della terra facesti Adamo e gli desti Eva per aiuto. Ed ora, Signore, Tu sai che io pren­do in moglie questa mia sorella, non per lussuria ma solo per desiderio di una posterità, nella quale il Nome Tuo sia benedetto nei secoli dei secoli » (Tobia c. 8; ed. Volgata).

È una visione veramente sublime del matrimonio che già prelude al concetto grandioso di Matrimo­nio-Sacramento quale troviamo nel cristianesimo.

Ed è necessario insistere su questa grandiosa vi­sione perché può benissimo succedere che i cristia­ni considerino il matrimonio, celebrato in Chiesa, come una semplice cerimonia religiosa, una bene­dizione che solo si aggiunge a un contratto natu­rale; oppure lo considerino come un sacramento che si costituisce in Chiesa davanti al Sacerdote ma che si riduce e finisce tutto nella « cerimonia reli­giosa ».

L’autorevole insegnamento dell’Arcivescovo di Milano (poi Paolo VI) avvertiva: «E’ questo un punto della nostra dottrina che si dovrà mettere particolarmente in luce; ed è proprio uno degli sviluppi della vita cattolica del nostro secolo dare ai fedeli piena conoscenza del carattere sacramen­tale del matrimonio. Bisogna spiegare che l’istituto naturale, per il solo fatto che si celebra tra due es­seri segnati dal carattere cristiano, diventa sacra­mento, si divinizza, si accende interiormente di Carità Divina, è fonte perenne di grazia e di santi­ficazione ». (G. B. Card. Montini. Per la Famiglia Cristiana, Milano Quaresima 1960).

Una premessa

È importante ripetere ancora che per un cristiano non c’è altro matrimonio valido se non il Matri­monio-Sacramento.

Chi è cristiano, cioè battezzato, è elevato allo stato soprannaturale e diventa irrevocabilmente membro del Corpo Mistico di Cristo (la Chiesa): diventa cioè membro di una società soprannatura­le, si trova ad essere non più sul piano naturale ma sul « piano soprannaturale ». Chi è cristiano deve dunque vivere secondo il « diritto sopranna­turale », secondo la « legge soprannaturale »; e siccome nel Corpo Mistico di Cristo il matrimonio è sacramento, il cristiano può validamente contrar­re solo il Matrimonio-Sacramento; per un cristiano o c’è Matrimonio-Sacramento o non c’è affatto ma­trimonio.

Lo insegna chiaramente Papa Pio XI: « E poi­ché Cristo ancora stabilì che lo stesso valido con­senso matrimoniale tra fedeli fosse il segno della Grazia, quindi è che la ragione di Sacramento va col coniugio cristiano così strettamente connessa, che tra battezzati non può darsi matrimonio che non sia con ciò stesso anche sacramento » (Casti Connubii ).

Il matrimonio cristiano non è, perciò, un com­plesso di leggi che vengono impiantate nella no­stra natura umana; è una nuova realtà che viene comunicata a noi; è la grazia di Dio che trasforma e sublima una realtà umana.

Ci siamo dilungati, in questo libro, su un insieme di norme proposte per il retto funzionamen­to della vita coniugale. Ci si deve però convincere che tutto dipende dal concetto che si ha del ma­trimonio cristiano; non è possibile vivere cristia­namente il matrimonio senza sapere che cosa esso sia, senza vivere l’esperienza di fede, l’esperienza della grazia, senza vivere in comunione con Dio. Senza tutto ciò, la morale matrimoniale cristiana è incomprensibile ed impraticabile.

Il Sacramento

Gli elementi che costituiscono il Sacramento so­no tre: il segno esterno che ha il valore di simbolo; la realtà soprannaturale simboleggiata dal segno; la efficacia o capacità del segno di produrre la realtà soprannaturale in forza del volere di Cristo. Stia­mo cioè alla ben nota definizione: « segni sensibili efficaci della grazia istituiti da Gesù Cristo per sal­varci ».

Dire che il matrimonio cristiano è un sacramen­to è come dire che il matrimonio cristiano è costi­tuito dai tre elementi ricordati.

a) Nel sacramento del Matrimonio il segno sen­sibile (o simbolo) è il vincolo, il « patto » d’amore coniugale degli sposi. Si potrebbe dire che segno sensibile (cioè, quindi, segno sacramentale) è l’amo­re divenuto impegno definitivo ed esclusivo tra due battezzati, uomo e donna, con tutte le sue legitti­me manifestazioni.

b) La realtà soprannaturale, simboleggiata dal vincolo d’amore coniugale tra due cristiani, è quel vincolo di amore sponsale che lega Gesù Cristo alla Sua Chiesa e, quindi, a ciascun membro di essa.

Bisogna ricordare che Gesù Cristo è lo Sposo del­la Chiesa, lo Sposo delle anime (Matteo c. 25 pa­rabola delle vergini); Marco 2, 18-20 …« Poiché i discepoli di Giovanni e i Farisei digiunavano, vennero da Lui a domandargli: Perché i discepoli di Giovanni e dei Farisei osservano il digiuno ed i tuoi no? Gesù rispose loro: Come possono di­giunare i compagni dello sposo, mentre lo sposo sta in loro compagnia? fino a che lo sposo rimane con essi non possono digiunare. Ma verranno i giorni che sarà loro tolto lo sposo ed allora digiu­neranno »; Apocalisse 19, 7: « Rallegriamoci, e­sultiamo! Diamogli gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello: e la Sua Sposa s’è già prepa­rata… ».

Come sposo, Gesù ama la Sua Chiesa ed ama le singole anime della Sua Chiesa (membri, di fatto o di diritto, della Chiesa). Questo amore di Gesù per ciascun’anima della Chiesa, questa dedizione gene­rosa, questo legame indissolubile tra Cristo e il cristiano, legame costituito dal Battesimo, è la realtà soprannaturale simboleggiata dal vincolo co­niugale di due cristiani fra loro.

c) Non si tratta però solo di un simbolo, di un segno simbolico. Per volontà o istituzione di Cri­sto, il vincolo coniugale tra due cristiani (segno) non solo simboleggia il vincolo d’amore tra Cristo e la Chiesa (realtà soprannaturale) ma ha la grazia di riprodurre e realizzare questo amore di Cristo per la Chiesa, ne è una « immagine reale » (segno efficace).

S. Paolo nel celebre testo agli Efesini (c. 5), che riporteremo appresso, fa appunto un parallelo tra l’amore dello sposo per la sposa e l’amore di Cristo per la Chiesa.

Possiamo dunque concludere: il matrimonio cri­stiano è quel sacramento nel quale il vincolo defi­nitivo d’amore tra due battezzati (uomo e donna) simboleggia e riproduce l’amore sponsale di Cristo per la Chiesa e per ciascun membro della Chiesa (quindi per ciascuno dei due sposi).

La grande storia

Ma quando Gesù Cristo ha elevato il Matrimo­nio a Sacramento? Forse non si può dire un « quan­do »: è tutta la storia soprannaturale della umani­tà che vi è impegnata; e l’istituzione del matrimo­nio ha avuto fasi diverse secondo una linea pro­gressiva.

La Bibbia parla dell’istituzione del matrimonio da parte di Dio all’inizio dell’umanità, prima del peccato (Genesi 1, 27 s.; 2, 18-24), e descrive poi il disegno di Dio in termini di matrimonio.

a) Nell’Antico Testamento

La storia del popolo ebraico è preparazione alla vera storia dell’umanità intera. Ebbene Dio considera il popolo ebraico come una sposa. L’alleanza tra Dio e il suo popolo, iniziata con Abramo e san­zionata con Mosè, si fonda sull’eterno amore di Dio ed è un « matrimonio » tra Dio e il suo popo­lo. Se all’inizio della storia ebraica il matrimonio risente di tutte le aberrazioni, conseguenze del peccato originale (es. poligamia, adulterio, ripudio della moglie da parte del marito), in seguito il con­cetto di matrimonio si elevò sempre di più, così da diventare, presso i Profeti (secoli VIII-IV), un « segno » di un fatto divino, cioè segno del patto d’amore o « alleanza » tra Jahve e il suo popolo eletto. La storia della salvezza è così riprodotta, nelle sue dimensioni di alleanza d’amore, nella vita familiare.

I profeti insistono su questa immagine di allean­za-matrimonio. Ecco alcuni testi. Il profeta Osea, dopo aver parlato della nazione ebraica come di una sposa infedele verso Jahve, parla della conversione e del ritorno a Dio: e il Signore l’accoglie con que­ste parole: « E verrà in quel giorno – oracolo di Jahve -: mi cercherai ‘mio marito’ e non mi chiamerai più: Baal mio…’ allora ti farò mia sposa per sempre: ti farò sposa nella giustizia e nel giudizio, nell’a­more e nella compassione, ti farò mia sposa fedele e tu riconoscerai Jahve » (Osea c. 2, vv. 18, 21, 22)’.

Nei capitoli 2 e 3 di Geremia, che possono con­siderarsi una rievocazione poetica della storia reli­giosa di Israele, si parla di apostasia e di peccato come di infedeltà coniugali.

Ecco qualche versetto: « Così disse Jahve: « Mi ricordo di te, dell’affezione della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto » (2, 2). « Come una donna è infedele al suo sposo, così voi, casa di Israele, mi siete diventati infedeli » (3,20).

Come Geremia anche Ezechiele nel descrivere la storia di Israele, (capo XVI) parla dell’idolatria e dell’abbandono di Dio come di « prostituzione, fornicazione, adulterio ».

Il profeta Isaia presenta l’esilio come momen­taneo ripudio: « Non temere… perché tuo sposo è il tuo Creatore… Si, come una donna abbandona­ta e afflitta ti ha chiamata Jahve. E come la moglie ripudiata dalla gioventù, dice il tuo Dio, per un breve istante ti ho abbandonato ma ti riprenderò con immenso amore » (54, 5-7).

Ricordiamo il Salmo 44 in cui si celebrano le nozze del re. Sia gli ebrei che i cristiani (Lettera agli Ebrei, 1, 8-9) lo hanno interpretato come Sal­mo messianico: sono le nozze del Messia con la comunità israelitica.

Quanto poi al libretto « Il cantico dei cantici » era opinione diffusissima nel mondo ebraico (e con solido fondamento nell’insegnamento profetico) che esso celebrasse l’unione tra Jahve e il suo po­polo. I cristiani poi hanno dato a questo libretto « un’interpretazione ascetico-mistica, vedendo in esso la celebrazione delle nozze di Cristo e della Chiesa, fino all’applicazione personale delle rela­zioni che passano tra Cristo e ogni anima cristia­na » (G. Nolli).

Il profeta Malachia, dopo l’esilio, manifesta la sua preoccupazione perché il popolo di Israele ri­torni alla purezza richiesta dal suo privilegio di popolo eletto, dalla sua missione di popolo di Dio. In questa prospettiva viene presentato il matri­monio come indice di ritorno a Dio! Vengono così condannati i matrimoni misti che sono pericolo di idolatria, viene affermato il carattere religioso del­le nozze e, col richiamo a Genesi 2, 24, si proibi­sce il divorzio e l’adulterio. Siamo qui arrivati ad una presentazione del matrimonio davvero perfet­ta: eppure qui e in tutto l’Antico Testamento si sente o si intuisce una tensione verso un ideale ben più alto. Ecco le parole del profeta Malachia: « Non abbiamo forse un unico Padre noi tutti? Non ci ha creato un unico Dio? Perché allora sia­mo perfidi l’un verso l’altro, profanando l’allean­za dei nostri padri? « Giuda si è comportato infedelmente: abomini sono stati compiuti in Israele e in Gerusalemme.

Giuda ha infatti profanato il santuario caro a Jahve, sposando la figlia di un dio straniero.

« Jahve recida l’uomo che fa questo, chiunque egli sia, dalle tende di Giacobbe e da coloro che offrono oblazioni a Jahve degli eserciti!

« Ecco: una seconda cosa voi fate: voi coprite di lacrime l’altare di Jahve, con pianti e gemiti, perché Egli non si volge più all’oblazione, né la gradisce dalle vostre mani.

« Voi dite: Per quale motivo?

« Perché Jahve è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, verso di cui ti comporti con infedeltà, sebbene ella sia la tua compagna e la donna della tua alleanza.

« Non ha Egli forse fatto un solo essere, carne e spirito di vita? Che cosa cerca questo unico esse­re? Una posterità, dono di Dio! Rispettate quindi la vostra vita e verso la donna della tua giovinezza non essere infedele!.

« Poiché io odio il ripudio, dice Jahve Dio di Israele, e che uno copra di ingiustizia la propria veste, dice Jahve degli eserciti. Rispettate dunque la vostra vita e non siate perfidi » (c. 2, vv. 10-16).

Dunque l’amore tra Jahve e il suo popolo è simboleggiato nell’Antico Testamento dall’amore nuziale.

b) Nel Nuovo Testamento

Questo disegno di amore divino viene attuato nel Nuovo Testamento; l’immagine del matrimonio tra Dio e il Suo popolo viene trasformata in realtà mediante l’Incarnazione del Verbo cioè mediante il « Matrimonio » tra il Figlio di Dio e la natura umana.

Gesù Cristo, con la Sua morte e resurrezione, conclude la « nuova alleanza », costituisce una nuova Sposa, la Chiesa, formata da tutti coloro che col Battesimo si inseriscono nell’umanità di Cristo (o hanno diritto di inserirsi).

Così il Matrimonio tra Dio e gli uomini prepa­rato nell’Antico Testamento, realizzato nell’Incar­nazione, continua nel matrimonio tra Cristo e la Chiesa.

Non si tratta quindi di cercare un testo del Nuo­vo Testamento che indichi, in modo frammenta­rio, il « momento » in cui il matrimonio fu elevato a Sacramento: è tutta la Sacra Scrittura che mette in evidenza il piano divino in termini nuziali: dalla Genesi, che racconta il primo matrimonio, fino al­l’Apocalisse, la quale termina con l’invocazione del­la Sposa per il ritorno dello Sposo: « E lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!… Dice colui che testimo­nia queste cose: Sì, vengo presto. Amen; vieni, Signore Gesù » (Apocalisse c. 22, vv. 17, 20).

L’immagine diventa reale

Se si vogliono citare dei testi specifici del Nuovo Testamento in cui si parla del matrimonio, si po­trebbe ricordare, tra gli altri, il notissimo dialogo fra Gesù e i Farisei, in cui Gesù riporta il matri­monio alla dignità originaria (Matteo 19, 3-11);

agli Apostoli che trovano severa questa dottrina, Gesù risponde: « Non tutti comprendono questa parola, ma soltanto coloro ai quali è dato ». Non tutti cioè comprendono le profonde esigenze della vita del matrimonio, ci vuole un aiuto particolare di Dio. E’ forse qui insinuata l’esigenza di una gra­zia particolare? È forse qui insinuata l’esigenza del matrimonio strumento di grazia? (La frase ripor­tata « non si riferisce alla verginità, come alcuni pensano, ma conclude il discorso precedente sul matrimonio » Schillebeeckx).

In San Paolo troviamo accenni almeno impliciti. Il matrimonio di due battezzati è diverso dagli altri matrimoni, perché anche il corpo del battezzato (e non solo l’anima) è membro di Cristo; infatti se la fornicazione tra due battezzati assume caratteri di particolare gravità (I Corinti 6, 15-20) la legitti­ma unione di due battezzati assume, per lo stesso motivo (cioè perché unione di due membri di Cri­sto), un carattere di particolare santità.

Per questo, ancora, l’unione di un battezzato con un pagano ha capacità di santificare anche il coniu­ge pagano; la Grazia di Dio si comunica, in certo modo, al coniuge non battezzato attraverso il co­niuge battezzato (I Corinti 7, 12-14: è il testo del privilegio paolino).

San Paolo poi scrivendo ai cittadini di Efeso (5, 21-33), considerando come realtà acquisita e paci­fica la grandezza e la « sacramentalità » del matri­monio cristiano, espone agli sposati un ideale di vita coniugale che riproduca l’amore di Cristo per la Sua Chiesa.

Ecco il testo di S. Paolo.

« Siate soggetti gli uni agli altri nel timore di Cristo. Le mogli siano sottomesse ai propri mariti come al Signore, poiché il marito è capo della mo­glie come il Cristo è capo della Chiesa: lui, il sal­vatore del corpo. Ora, come la Chiesa è sottomes­sa a Cristo, così anche le mogli debbono sottomet­tersi in ogni cosa ai propri mariti. Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la sua Chiesa: Egli ha dato se stesso per lei, per santificarla, puri­ficandola col lavacro dell’acqua unito alla parola volendo presentarla a se stesso, questa Chiesa, tut­ta splendente, che non avesse macchia o ruga o altra cosa del genere, ma fosse santa e senza alcun difetto. Così debbono anche i mariti amare le pro­prie mogli come i loro stessi corpi. Chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, certo, odiò mai la propria carne; al contrario ognuno la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la sua Chiesa; giacché noi siamo membra del suo corpo. Per que­sto l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà al­la propria moglie e saranno i due una carne sola. Questo mistero è grande: io lo dico in rapporto a Cristo e alla Chiesa ».

In questo testo ci sono come due significati: un significato più esterno e descrittivo, legato alla mentalità romana, per cui si mette in evidenza la gerarchia nella famiglia e l’autorità del marito insistendo sul rapporto Cristo-capo (= marito) e Chiesa-corpo (= moglie).

Però il significato più profondo e sostanziale è questo: « il matrimonio è una reciproca donazione in cui ciascuno dei due coniugi fa il dono di sé e riceve il dono dell’altro, ciascuno dei due è sog­getto e termine del dono e, nel sacramento, come soggetto è segno di Cristo, come termine è segno della Chiesa: c’è dunque perfetta parità tra mari­to e moglie perché ciascuno dei due coniugi è se­gno del Cristo che ama, e insieme della Chiesa che riceve questo dono d’amore » (A. Corti, Famiglia e spiritualità. Opera Regalità, Milano, pag. 52).

Il vero matrimonio

Le parole di S. Paolo ci richiamano alla Genesi (2, 18-24).

San Tommaso scrive che una ragione per cui la donna fu « estratta » dall’uomo è « una ragione sacramentale. Ciò infatti sta a figurare che la Chie­sa ha il suo principio da Cristo, per ciò l’apostolo dice: questo sacramento è grande; io lo dico in rapporto a Cristo e alla Chiesa » (Somma Teolo­gica parte I; quest. 92, art. 2).

E scrive ancora che la donna fu formata dalla costola dell’uomo « a causa del sacramento; poi­ché dal costato di Cristo dormiente sulla Croce fluirono i sacramenti, cioè sangue ed acqua, me­diante i quali fu istituita la Chiesa » (ivi, art. 3).

« La prima istituzione del matrimonio fu attuata dal Creatore quando ricavò Eva dalla costa di Ada­mo e questi riconobbe che erano fatti l’uno per l’altra. Ora questo avvenimento è figurativo. Il primo Adamo è figura del secondo. Eva è figura della Chiesa. Il sonno di Adamo e il suo costato aperto prefigurano la morte di Cristo e il suo cuore ferito donde fluiscono l’acqua e il sangue dei Sa­cramenti principali. Il famoso testo, agli Efesini 5, non si può conprendere se non messo in rapporto con Genesi 2 » (Roguet).

Non c’è dunque soluzione di continuità. L’In­carnazione e la Redenzione di Cristo hanno dato un nuovo stato a un « segno » già esistente. Il ma­trimonio, segno dell’unione di Cristo con la Chie­sa, è passato dallo stato naturale allo stato sopran­naturale, dallo stato di segno solo simbolico allo stato di segno anche efficace. L’umanità redenta è passata dal matrimonio naturale al matrimonio so­prannaturale, senza nuova istituzione esplicita (an­che se ciò conosciamo solo dalla rivelazione del Nuovo Testamento); proprio come il matrimonio naturale di due pagani, validamente sposati, diven­ta matrimonio soprannaturale (se essi si converto­no) per ciò stesso che essi ricevono il battesimo, senza necessità di nuova celebrazione del matri­monio.

Nel piano di Dio, il vero matrimonio tra persone umane, è il matrimonio sacramento cioè quello che « riproduce » l’unione tra Cristo e la Chiesa, men­tre il matrimonio naturale è un’immagine incompleta della realtà, è una preparazione secondo la pedagogia progressiva di Dio.

Ma anche il Matrimonio-Sacramento è solo un segno (sia pure efficace) di una realtà ancora più grande, un segno di un matrimonio che è il vero Matrimonio.

San Paolo agli inizi della sua lettera a quei di Efeso scrive: « (Dio) ci ha manifestato il mistero della volontà sua, quel piano stabilito e predispo­sto in lui per l’economia della pienezza dei tempi, di ricondurre a un unico capo (ricapitolare), Cri­sto, tutte le cose: quelle che sono in cielo e quelle che sono sulla terra » (1, 9-10).

Ecco il vero grande Matrimonio: l’unione spon­sale tra Cristo e la Chiesa iniziatasi con l’Incarna­zione, sancita con la Morte e Risurrezione, simbo­leggiata dal matrimonio naturale in fase prepara­toria, simboleggiata e insieme e riprodotta » dal Matrimonio-Sacramento in fase definitiva.

Questa dottrina del Matrimonio-Sacramento vie­ne così presentata in sintesi dal Concilio Vaticano II: « Cristo Signore ha effuso l’abbondanza delle sue benedizioni su questo amore molteplice, sgor­gato dalla fonte della divina carità, e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa. Infatti, come un tempo Dio venne incontro al suo popo­lo con un patto di amore e fedeltà, così ora il Sal­vatore degli uomini e sposo della Chiesa viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il Sacra­mento del Matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per lei, così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua de­dizione. L’autentico amore coniugale è assunto nel­l’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla potenza redentrice del Cristo e dall’azione salvi­fica della Chiesa, perché i coniugi, in maniera ef­ficace, siano condotti a Dio e siano aiutati e raffor­zati nello svolgimento della sublime missione di padre e madre. Per questo motivo i coniugi cristia­ni sono corroborati e come consacrati da uno spe­ciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato. Ed essi, compiendo in forza di tale sacra­mento il loro dovere coniugale e familiare, pieni dello spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria per­fezione e la mutua santificazione, e congiuntamen­te rendono gloria a Dio » (Gaudium et spes, n. 48).

Il mistero nuziale

Il mistero della Chiesa è un mistero nuziale; perciò ogni stato nella Chiesa è una riproduzione di questo mistero nuziale: la verginità « per il regno di Dio » ne è la riproduzione più interiore e più immediata (l’anima direttamente sposa di Cristo); il Matrimonio-Sacramento ne è la riproduzione più sensibile ed esternamente evidente (l’anima sposa di Cristo ma attraverso il coniuge).

Proprio perché il vero grande Matrimonio è quello di Cristo e della Chiesa, quelle parole che la Genesi riferisce al matrimonio tra uomo e don­na (Genesi 2, 24), S. Paolo le ritiene completa­mente vere solo se riferite all’unione di Cristo e della Chiesa (Efesini 5, 33):

« Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla propria moglie. Sacramentum hoc ma­gnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia – questa affermazione misteriosa è davvero gran­de, io quindi dico (riferita) a Cristo e alla Chie­sa » (cfr. La Scuola Cattolica, 1958, fasc. 5, pag. 321 ss.).

CAPITOLO SETTIMO

IL SEGNO SACRAMENTALE E LA LITURGIA DEL MATRIMONIO

Introduzione

Il più antico rito di matrimonio ci è descritto nel libro di Tobia (c. 7); nella edizione Volgata si legge: « (Raguele) presa la destra della figliola la mise in quella di Tobia e disse “Il Dio d’Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe sia con voi; egli vi congiunga ed adempia in voi la sua benedi­zione”. Presa poi una carta fecero la scritta del ma­trimonio » (vv. 15-16).

Anche a costo di riprendere verità già conosciu­te, è utile fare distinzione tra il segno e il rito del sacramento: il segno è l’elemento sensibile fissato da Gesù come simbolo efficace di una realtà sopran­naturale (es.: l’azione di una lavanda specificata da determinate parole, per il Battesimo); il rito è il modo con cui tale segno viene attuato o applicato (es.: immersione nell’acqua o infusione di acqua sulla testa, per il Battesimo).

Ebbene: il segno proprio di ciascun sacramento (o segno sacramentale) è immutabile, neppure la Chiesa può cambiarlo. Mentre invece la Chiesa, depositaria dei sacramenti, può determinare e an­che mutare il rito con cui si esprime il segno.

Sappiamo già che il segno sacramentale del ma­trimonio è il vincolo di amore contratto tra gli sposi, cioè il « patto matrimoniale » giuridicamen­te valido nella situazione storica in cui viene con­cluso: un matrimonio tra cristiani è sacramento se è un « patto giuridicamente valido ». La Chiesa può accettare o stabilire o mutare la forma e le condizioni di questo contratto.

La storia del segno

Non è certo possibile essere completi e ci si deve accontentare di una linea sommaria.

È però importante distinguere la forma del pat­to-sacramento e il rito liturgico che lo accompagna (benedizione o celebrazione liturgica).

Occupiamoci qui della forma del patto-sacra­mento.

S. Paolo scrive: « Se suo marito muore, (la mo­glie) è libera di contrarre matrimonio con chi vuo­le, ma nel Signore solamente » (I Cor. 7, 39).

Questa frase (tantum in Domino), che significa « solo con un cristiano », è passata poi nell’anti­chità ad indicare il matrimonio-sacramento.

1. Nei primi secoli del cristianesimo molti paga­ni che si convertivano erano già sposati e non rin­novavano certo il loro matrimonio dopo il Bat­tesimo: il sacramento del matrimonio era già in­cluso nel Battesimo: passavano, col Battesimo, ad uno stato soprannaturale anche per quel che ri­guardava la loro situazione coniugale.

Quando poi, col passare del tempo, persone già cristiane contraevano matrimonio, ciò avveniva me­diante il solo « contratto civile » in uso a quell’e­poca: non c’era una celebrazione « religiosa » ap­posita. Il sacramento era già incluso nel « contrat­to coniugale » tra due cristiani: per i battezzati questo « contratto » era concluso nel Signore. La Chiesa esigeva solo che i battezzati si astenessero da festività o riti pagani che accompagnavano la cerimonia del contratto « civile ».

Anche se già fin dai primi tempi si usavano pre­ghiere e benedizioni da parte della Chiesa, essa non interveniva nel concludere il matrimonio: il mutuo consenso di due battezzati, validamente ma­nifestato presso l’autorità civile, era dalla Chiesa considerato come vero matrimonio nel Signore: le preghiere erano una aggiunta.

Quando però l’autorità civile ritenne valido ogni matrimonio, col solo mutuo consenso degli sposi alla presenza di amici come testimoni, senza alcuna formalità ufficiale (secolo IV; Codice di Teodosio), col pericolo (e anche col fatto) di matrimoni « clan­destini », allora la Chiesa intervenne a dare norme circa il « contratto ». Lo spazio lasciato libero dallo Stato venne occupato dalla Chiesa.

Il papa Ormisda (inizio del secolo VI) comandò che nessun battezzato si sposasse in segreto ma « deve sposarsi pubblicamente nel Signore, dopo aver ricevuta la benedizione del sacerdote ». Si passava dal matrimonio « civile » al matrimonio « ecclesiastico », l’uno e l’altro sempre in Domino.

2. Solo nei secoli XI e XII la Chiesa riconobbe esplicitamente il valore di Sacramento al mutuo consenso matrimoniale di due battezzati. E ci furono ancora tendenze a sottovalutare le forma­lità (basta l’assenso per il contratto!) e la stessa pubblicità dell’atto; ma la Chiesa dispose che la manifestazione del consenso, per essere lecita, fos­se fatta alla presenza di un sacerdote (come indi­cano i rituali dei secoli XI e XIV). Il matrimonio dei battezzati diventò di dominio ecclesiastico.

È utile osservare che, se i matrimoni « clande­stini » erano stati severamente proibiti ai battez­zati, non erano però stati dichiarati invalidi.

3. Il Concilio di Trento (sess. XXIV c. 1, Ta­metsi, anno 1563) fissò come unica forma valida di contratto matrimoniale per i battezzati (e quin­di del matrimonio-sacramento) quella del mutuo consenso espresso dagli sposi davanti al Parroco o all’Ordinario (cioè il Vescovo della diocesi) oppu­re davanti ad un Sacerdote delegato dal Parroco o dall’Ordinario e inoltre davanti ad almeno due testimoni.

4. La forma attualmente richiesta dalla Chiesa per la validità del matrimonio dei cattolici è quella fissata dal decreto Ne temere di Pio X (5 agosto 1907 in vigore da Pasqua del 1908) e dal Codice di Diritto Canonico (Can. 1094-1103): il matri­monio per essere valido, deve essere contratto di fronte al Parroco del luogo o all’Ordinario del luo­go i quali hanno giurisdizione in tutto il loro ter­ritorio (oppure di fronte a un sacerdote che abbia ricevuto da loro una delega determinata); essi de­vono assistere liberamente (non… come Don Ab­bondio in quella notte! ) e devono essere inoltre presenti almeno due testimoni.

La Chiesa dunque ha fissato la forma richiesta per la validità del contratto coniugale, e il matri­monio è sacramento solo se è un contratto valido.

L’identità tra contratto e sacramento rende difficile applicare al matrimonio la terminologia clas­sica di materia e forma.

L’opinione più comune ritiene come materia del sacramento del matrimonio il contratto in quanto donazione reciproca degli sposi (ciascuno dona se stesso all’altro); forma sarebbe ancora il contratto in quanto accettazione reciproca degli sposi (cia­scuno accetta la donazione dell’altro che si dona) (Benedetto XIV, Paucis, 19 mart. 1758).

I ministri del sacramento

In un sacramento, ministro è chi pone il « segno sacramentale ». Ora il segno sacramentale del ma­trimonio è il vincolo d’amore (contratto) che lega gli sposi e che simboleggia l’unione di Cristo con la Chiesa. Ebbene, data l’identità tra contratto e sa­cramento, gli sposi che pongono il contratto (segno sacramentale) sono i ministri del sacramento del matrimonio. « I coniugi sono a vicenda ministri della grazia » (Pio XII, Mystici Corporis).

Il Parroco (o delegato) è solo un testimonio uf­ficiale della Chiesa (potremmo dire: un notaio del­la Chiesa) richiesto per la validità del contratto.

E, a proposito dei ministri, si possono proporre due questioni.

a) il matrimonio tra un battezzato e un non ­battezzato (contratto evidentemente con dispensa di disparità di culto) è sacramento? Conferisce la grazia? Dato che il potere di essere soggetti del sacramento deriva agli sposi dal loro battesimo, co­me potrebbero gli sposi, in questo caso, ammini­strarsi reciprocamente il sacramento?

Benché non si possa dare una risposta definiti­va, la risposta più ovvia pare sia quella di ammet­tere che si tratti di un vero sacramento.

Anche un non battezzato può essere ministro del battesimo, purché agisca in nome e secondo le in­tenzioni della Chiesa. Così il coniuge non battez­zato, il quale si sottomette alla legislazione della Chiesa e ne accetta le condizioni per ottenere la dispensa di disparità di culto, si potrebbe dire che agisca secondo le intenzioni e in nome della Chie­sa e possa quindi essere ministro e conferire il sa­cramento. Evidentemente sarebbe sacramento solo per il coniuge battezzato.

b) Si può dire inoltre che i coniugi cristiani so­no reciprocamente ministri di grazia non solo al momento in cui si conferiscono il sacramento del matrimonio, costituendo il contratto nuziale, ma anche in seguito, per tutto il tempo della loro vita coniugale.

Pio XI nella Casti connubii scrive: « Si ricordi­no assiduamente (gli sposi) che sono stati santifi­cati… per mezzo di uno speciale sacramento, la cui efficace virtù, sebbene non imprime il carattere, è tuttavia permanente… Il sacramento del matrimo­nio si può guardare in due modi: il primo mentre si celebra; il secondo mentre perdura dopo che è stato celebrato…: perché, fin quando vivono i coniugi, la loro unione è sempre il sacramento di Cristo e della Chiesa ».

Ogni qualvolta gli sposi, in grazia di Dio, con atti d’amore e con buona intenzione, rinnovano, in certo qual modo, il loro « vincolo d’amore » che ha costituito il sacramento, diventano per ciò stes­so reciprocamente ministri di grazia.

« Il segno sacramentale del matrimonio si può ripetere. Per questo anche gli atti successivi, tutti gli atti successivi che esprimono e sviluppano l’a­more coniugale, essendo il segno dell’amore di Cristo per la Chiesa, hanno un valore sacramenta­le; comunicano la grazia che significano; ottengo­no cioè una nuova comunicazione o un aumento della grazia sacramentale propria del matrimonio, cioè della carità coniugale » (Carlo Colombo, De Matrimonio).

La storia del rito

Limitandoci, anche qui, al alcuni cenni storici, si può dire che, fin dai primissimi secoli, al matri­monio dei battezzati contratto presso l’autorità ci­vile, si aggiunsero preghiere, benedizioni, cerimo­nie liturgiche. I riti cristiani del matrimonio si col­legano, all’inizio, con usi pagani.

1. Se tralasciamo la dextrarum iunctio (lo strin­gersi della mano destra, in uso presso i romani e, all’inizio, usata anche nel rito cristiano) le cerimo­nie religiose più comuni che accompagnavano il matrimonio dei battezzati nell’antichità cristiana erano:

– la celebrazione dell’Eucaristia (celebrazione domestica da principio) durante la quale gli sposi facevano l’offerta e si comunicavano;

– la velatio capitis: il sacerdote durante la Messa poneva sulla testa della sposa (altri pensa di ambedue gli sposi) un velo recitando preghiere (già presso i romani c’era la obnubilatio capitis della sposa. Cfr. il verbo pubere);

– la solenne benedizione della sposa durante la S. Messa.

2. Nel Medio Evo a questo nucleo di celebra­zioni primitive si aggiunsero altri elementi che va­riavano da regione a regione. Specialmente dopo il sec. IX, ai preesistenti elementi romani, si aggiun­sero, nella liturgia del matrimonio, usi ereditati dal diritto germanico.

Il rito era diviso in due parti:

a) anzitutto il matrimonio in facie Ecclesiae (o ante fores Ecclesiae). Gli sposi, alla porta della Chiesa, esprimevano il loro consenso davanti al sa­cerdote, veniva poi benedetto l’anello (l’uso del­l’anello nel rito del matrimonio fu solo germanico; i romani lo usavano solo per il fidanzamento): lo sposo lo poneva nella destra della sposa, e veniva­no benedette, insieme all’anello, delle monete di oro (o argento) che lo sposo dava alla sposa in se­gno di dote. Il sacerdote benediceva gli sposi.

b) Il sacerdote introduceva poi gli sposi in Chie­sa al canto del Salmo 127 (Beati omnes qui timent Dominum ). Durante la celebrazione della Santa Messa, all’offertorio, gli sposi facevano l’offerta; dopo il Sanctus venivano ambedue coperti da un velo (velatio) e c’era la benedizione nuziale. Per qualche tempo si usò anche il bacio di pace (lo spo­so riceveva il bacio dal sacerdote e lo dava alla sposa). Non è sempre attestato che gli sposi si comunicassero.

3. A togliere l’eccessiva diversità di riti, il Con­cilio di Trento aveva ordinato la pubblicazione dei libri liturgici. L’imposizione del Concilio, quanto alla edizione del Rituale, veniva definitivamente attuata nel 1614 dal Papa Paolo V.

Mentre prima il rito era spezzettato in due (una parte alla porta della Chiesa e una parte all’interno) ora tutta la cerimonia avviene in Chiesa.

4. La Costituzione sulla Sacra Liturgia emanata dal Concilio Ecumenico Vaticano II stabilisce, cir­ca il Matrimonio: « Il matrimonio in via ordinaria si celebri nella Messa, dopo la lettura del Vangelo e l’omelia, prima della orazione dei fedeli. La be­nedizione della sposa, opportunamente ritoccata, così da inculcare ad entrambi gli sposi lo stesso dovere della fedeltà vicendevole, può essere detta in lingua volgare.

« Se il Sacramento del Matrimonio viene cele­brato senza la Messa, si leggano all’inizio del rito l’Epistola e il Vangelo della Messa per gli sposi e si dia sempre la benedizione agli sposi » (Sacrosan­ctum Concilium, n. 78).

Il nuovo rito

La celebrazione del matrimonio avviene ora, in via ordinaria, eccetto casi particolari, durante la Santa Messa.

Prima della Messa si può compiere (ma non è ob­bligatorio!) un gesto di cordialità da parte del Sa­cerdote: accogliere gli sposi con parole augurali al­la porta della Chiesa o presso l’altare.

Inizia la S. Messa nel modo consueto e dopo le letture bibliche (due o tre), le quali possono essere precedentemente scelte dagli stessi fidanzati tra una lunga lista di testi proposti e dopo l’omelia o pre­dica del sacerdote, si compie il rito del matrimonio:

– l’esortazione del sacerdote: significato del ri­to sacramentale: il matrimonio è la consacrazione e la elevazione dell’amore umano a mezzo di gra­zia;

– l’interrogazione degli sposi, fatta dal sacerdo­te, sulla libertà del loro consenso, sulla disponibi­lità ad amarsi per tutta la vita e ad accogliere ed educare cristianamente i figli.

– il consenso: è la parte essenziale e costitutiva del matrimonio: può avvenire mediante la recita di una formula da parte dello sposo e della sposa (« io prendo te… ») oppure mediante l’interrogazione fatta dal sacerdote a cui ognuno risponderà « sì »; durante la manifestazione della formula di consenso gli sposi si stringono la mano destra (ec­co ancora la dextrarum iunctio) a conferma del­l’impegno assunto;

– la benedizione degli anelli fatta dal sacerdo­te che ne mette in evidenza il segno di vincolo di amore; gli sposi poi se lo infilano reciprocamente al dito anulare della mano sinistra dicendo, ciascu­no, « ricevi questo anello segno del mio amore e della mia fedeltà ».

Continua poi la S. Messa con la preghiera dei fedeli: si esprimono qui le intenzioni degli sposi e questa preghiera potrebbe anche essere preparata dai fidanzati stessi.

Per l’offertorio, gli sposi, se credono, possono portare all’altare i doni del pane e del vino. Dopo il Padre nostro viene recitata dal sacer­dote la solenne benedizione nuziale: dopo un invi­to a tutti i presenti perché si uniscano nell’invoca­re dal Signore la benedizione sugli sposi, c’è una lode a Dio che ha creato il mondo e che ha voluto l’unione stabile dell’uomo e della donna nel ma­trimonio, elevato da Cristo a sacramento; si ricor­da che Dio non ha mai ritirato la sua benedizione sugli sposi, neppure dopo il peccato originale; si domanda poi la benedizione sulla sposa: « Sia in lei abbondanza di amore e di pace e sappia imitare l’esempio delle spose sante di cui la Sacra Scrittura tesse l’elogio. Suo marito riponga in lei piena fiducia… la onori con il dovuto rispetto e la ami sem­pre con amore simile a quello con cui Cristo ama la sua Chiesa »; si conclude con una invocazione sui due sposi perché « si mantengano saldi nella fe­de e nella pratica della vita cristiana e, fedeli a un solo amore, siano di esempio per integrità di vi­ta » e fedeli testimoni di Cristo vivano a lungo in felicità e serenità. È questa una preghiera antichissima e molto ricca di contenuto.

Al rito della pace gli sposi possono esprimersi reciprocamente, con qualche gesto opportuno, se­condo gli usi del luogo, la pace e l’amore; agli spo­si la Comunione può essere data anche al calice.

Al termine della Messa il Sacerdote dà una be­nedizione particolare agli sposi e a tutti i presenti. Se il matrimonio viene celebrato senza la Mes­sa, allora si inizia con una preghiera del sacerdote seguita da due o tre letture bibliche e dall’omelia; c’è poi il rito del matrimonio già sopra descritto; in seguito si recita la preghiera dei fedeli e la be­nedizione nuziale; si termina col Padre Nostro e con la benedizione finale.

In Italia, nel matrimonio concordatario si leg­gono agli sposi gli articoli del codice civile.

Per la dignità del sacramento è utile richiama­re l’opportunità di allontanare dalla celebrazione del matrimonio ogni lusso esagerato, ogni forma di snobismo, ogni manifestazione folcloristica o tea­trale: né si dimentichi, in tale occasione, un’of­ferta per i poveri.

La famiglia eterna

Il Sacramento del Matrimonio, come tutti gli altri sacramenti, esplica e termina la sua funzione in questa vita terrena. L’augurio finale della Chie­sa, nella liturgia del matrimonio (et postea vitam aeternam habeatis sine fine), rivolto ad ambedue i coniugi insieme, sta ad indicare qualche cosa che continua anche al di là di questa vita. Il sacramen­to termina quaggiù, ma c’è un legame familiare che dura « nella famiglia eterna »: è il legame d’amore.

Agli sposi novelli Pio XII diceva: « Se però l’a­more coniugale in questo suo particolare carattere termina col cessare dello scopo a cui era destinato sulla terra; tuttavia in quanto esso ha agito nelle anime dei coniugi e le ha strette l’una all’altra in quel più grande vincolo di amore, che unisce i cuori con Dio e tra di loro, tale amore rimane nel­l’altra vita, come rimangono le anime stesse, nel­le quali aveva avuto dimora quaggiù » (29 aprile 1942).

CAPITOLO OTTAVO

IL SOGGETTO DEL MATRIMONIO: GLI SPOSI

Una delle idee più false e più dannose, riguardo al matrimonio, è che basti la natura e il buon senso per arrivarci bene; e c’è perfino chi, stoltamente o per snobismo, dice che il mezzo migliore di prepa­rarsi al matrimonio è quello di non prepararsi af­fatto.

Di fronte alla grande ignoranza che domina in questo campo è doveroso che i cristiani conoscano anche le norme disciplinari, oltre che la natura, del matrimonio, norme che si trovano nel Codice di Diritto Canonico, il quale però sta per essere rive­duto e aggiornato.

Condizioni richieste

Il matrimonio cristiano è un patto o contratto elevato da Gesù Cristo allo stato soprannaturale di Sacramento: ecco perché ministri del sacramen­to sono gli sposi contraenti, i quali devono quindi essere « capaci » (idonei) di fare un contratto (li­bertà) e « capaci » di amministrare un sacramen­to (intenzione, almeno virtuale, di fare ciò che fa la Chiesa).

Gli sposi però, oltre che ministri, sono i sogget­ti del matrimonio-sacramento: devono quindi es­sere « capaci » di riceverlo.

È necessario richiamare quali sono le condizioni che rendono capaci di ricevere il sacramento del matrimonio: verranno così ricordate insieme an­che alcune condizioni necessarie per essere mini­stri del sacramento, dato che ogni coniuge è in­sieme ministro e soggetto.

È evidente che le condizioni riguardano il ma­trimonio sia come contratto sia come sacramento, tenendo presente che, nel matrimonio cristiano, la distinzione tra contratto e sacramento non è reale ma solo logica o di ragione: nella realtà non c’è distinzione; il contratto matrimoniale di due bat­tezzati è sacramento.

Ci sono delle condizioni che sono richieste, nel soggetto, per la validità del matrimonio e ci sono condizioni richieste solo per la liceità: senza le pri­me un matrimonio è invalido, non è affatto matri­monio; senza le seconde il matrimonio è valido ma viene contratto illecitamente. Ecco le condizioni:

a) Per la validità del matrimonio gli sposi con­traenti devono essere battezzati, essere capaci di libero consenso, avere intenzione almeno abituale di ricevere il Sacramento, essere esenti da impedi­menti dirimenti.

b) Per la liceità del matrimonio gli sposi con­traenti devono essere in stato di grazia, essere e­senti da impedimenti impedienti, essere preparati convenientemente.

Gli impedimenti

Prima di esaminare le diverse condizioni è utile premettere qualche breve nozione circa gli impedi­menti matrimoniali.

Il matrimonio dei battezzati, essendo sacramen­to, è sottoposto all’autorità della Chiesa. Il Conci­lio di Trento (sess. XXIV; anno 1563), dopo aver definito che il matrimonio è un sacramento, frutto della Passione di Cristo, come ha sempre ritenuto la Tradizione della Chiesa, difende la disciplina e l’autorità della Chiesa circa il matrimonio dei bat­tezzati.

Il Pontefice Pio VI (il 2 febbraio 1782) scrive: « Non c’è dubbio che la Chiesa ha il diritto di sta­bilire degli impedimenti al matrimonio poiché il Concilio di Trento ha definito: “Se qualcuno dirà che la Chiesa non ha potuto stabilire degli impedi­menti dirimenti il matrimonio o che essa, stabilen­doli, ha errato: sia anatema” (sess. XXIV can: 4) >a (lett. Post factum tibi).

Il diritto della Chiesa, a questo proposito, è sta­to anche più diffusamente dichiarato da Leone XIII nella sua Enciclica sul matrimonio (Arcanum del 10 febbraio 1880).

Per impedimento matrimoniale si intende qual­siasi circostanza esterna, sia di diritto divino pro­posto nella legge ecclesiastica, sia anche solo di di­ritto ecclesiastico, che impedisce a delle persone di contrarre il matrimonio.

Gli impedimenti possono quindi essere:

a) di diritto divino oppure di diritto umano (ec­clesiastico);

b) assoluti se impediscono il matrimonio con qualsiasi persona, relativi se lo impediscono solo con qualche determinata persona;

c) impedienti se proibiscono gravemente di con­trarre matrimonio e lo rendono illecito, dirimenti se, oltre a proibirlo gravemente, anche lo rendono invalido.

Siccome poi il matrimonio è un contratto bilate­rale, un impedimento rende illecito o invalido il matrimonio anche se si trova in uno solo dei con­traenti.

La Chiesa ha il potere di dispensare da tutti gli impedimenti di diritto ecclesiastico.

Per un matrimonio valido

Per essere un soggetto di matrimonio valido (parliamo sempre di matrimonio-sacramento) ogni contraente deve:

A) anzitutto essere battezzato. Chi non è bat­tezzato non può ricevere altri sacramenti. Chi non è battezzato, probabilmente (come si è già detto parlando dei ministri del matrimonio) può essere ministro del matrimonio-sacramento, ma certamen­te non può ricevere (essere soggetto) il sacramento.

B) essere capace di libero consenso. Il consenso deve essere: interno cioè vero e non simulato; libero e quindi non un consenso forzato da violenza o timore gravi, ingiustamente prodotti dall’esterno, dai quali i contraenti vengono obbligati a contrar­re matrimonio; manifestato esternamente, dai con­traenti stessi o da procuratore, per mezzo di parole se possono parlare; simultaneo (C.J.C. can. 1081­1093)1.

C) avere intenzione, almeno abituale, di rice­vere il sacramento. Intenzione abituale è quella che, una volta emessa, continua a durare anche se non ci si pensa attualmente, finché non viene ri­trattata.

D) essere esente da impedimenti dirimenti (C.J.C. can. 1067-1080).

Intendiamo qui richiamare solo alcuni impedi­menti dirimenti più importanti.

1) Non possono contrarre validamente matri­monio i contraenti di età inferiore ai 16 anni com­piuti (per l’uomo) e ai 14 anni compiuti (per la donna). Non si tratta qui di diritto naturale ma di diritto ecclesiastico.

E’ veramente auspicabile (e pare proprio che si stia provvedendo) che il limite minimo di età ri­chiesto per il matrimonio venga innalzato, perché a 16 o 14 anni i due sposi possono essere capaci di procreare, ma non di educare, né possono assumer­si un vincolo indissolubile. Vedi in Appendice il « nuovo diritto familiare » nel diritto civile.

2) Non ha capacità di contrarre validamente il matrimonio chi non ha capacità di compiere gli atti di per sé idonei alla procreazione (unione coniu­gale o còpula). Non si tratta qui di sterilità ma di impotenza (impotentia coeundi).

Siccome il contratto matrimoniale ha per ogget­to il conferimento reciproco del diritto a compiere gli atti idonei alla procreazione (ius in corpus), se manca questa capacità di compiere detti atti man­ca l’oggetto stesso del contratto (sarebbe come con­trattare la cessione di un bene inesistente). Perciò l’impotenza antecedente (e non sorta dopo il ma­trimonio), certa, perpetua cioè incurabile, sia as­soluta sia relativa (solo con quella tal persona), an­che se si trova in uno solo dei contraenti, rende invalido il matrimonio e ciò, evidentemente, per diritto naturale.

La sterilità, invece, non impedisce affatto il ma­trimonio.

3) E’ invalido il matrimonio contratto da una persona battezzata nella Chiesa Cattolica con una persona non battezzata.

Da questo impedimento, detto di disparità di culto, la Chiesa può dispensare a determinate con­dizioni (che esporremo) e solo per motivi giusti.

4) E’ invalido il matrimonio se chi tenta di con­trarlo è un ecclesiastico già costituito in ordini sa­cri (diacono, sacerdote), oppure un religioso o religiosa già professi di voti solenni (o di voti semplici in casi ben determinati dalla Chiesa).

È questo, evidentemente, un impedimento di di­ritto ecclesiastico.

5) È invalido un matrimonio tra un uomo e una donna che egli abbia rapita per sposarla o che egli trattenga con forza in qualche luogo per spo­sarla.

Questo rapimento o questa dimora forzata ren­dono invalido, perché non libero, il consenso della donna; l’impedimento cessa quando la donna ra­pita viene liberata e posta in un luogo libero e si­curo: allora può liberamente, e quindi validamen­te, voler sposare il suo ex rapitore.

6) La parentela o consanguineità costituisce im­pedimento entro certi limiti, anche per diritto na­turale (es. tra padre e figlia, fratello e sorella, ecc.).

La Chiesa fissa come impedimento dirimente la consanguineità tra ascendenti e discendenti (linea retta) in ogni grado di parentela; e, in linea colla­terale, solo per i primi tre gradi di parentela (es. fratelli; primi cugini o zio e nipote; secondi cu­gini).

La Chiesa dispensa dall’impedimento di consan­guineità di 3° grado e meno facilmente anche di 2° grado in linea collaterale.

7) Non pare necessario insistere sugli altri im­pedimenti dirimenti per i quali basta solo un cen­no: ligamen o matrimonio valido che evidentemen­te rende invalido un altro matrimonio; affinitas o vincolo tra il marito e i consaguinei della moglie, tra la moglie e i consaguinei del marito (invalida il matrimonio in ciascun grado della linea retta e fino al secondo grado incluso della linea laterale); publica honestas è chiamato quell’impedimento (fissato dalla Chiesa) per cui, quando un uomo e una donna si sono uniti in matrimonio invalido, in pubblico e notorio concubinato, risulta poi in­valido il matrimonio tra quell’uomo e le consan­guinee, di 1° e 2° grado in linea retta, di quella donna e viceversa; cognatio spiritualis tra battez­zato da una parte e battezzante o padrini dall’al­tra; cognatio legalis derivante dalla adozione, è impedimento dirimente nella misura in cui la leg­ge civile rende inabili al matrimonio; crimen o im­pedimento per cui non possono sposarsi due che, essendo già sposati, ciascuno col suo coniuge, ab­biano commesso delitto di adulterio tra loro o di coniugicidio, in vista di un futuro matrimonio tra loro.

Per un matrimonio lecito

Per ricevere, oltre che validamente, anche leci­tamente il matrimonio-sacramento i contraenti de­vono:

A) essere in grazia santificante. Lo stato di gra­zia è richiesto dal fatto che il matrimonio è un « sacramento dei vivi » ed ogni sacramento dei vi­vi si riceve lecitamente ed efficacemente (con au­mento di grazia santificante e con grazia sacramen­tale) solo se si è « soprannaturalmente vivi ». E’ utile ricordare, che, siccome il matrimonio è un « vincolo permanente » che dà diritto alla grazia e quindi un sacramento « la cui efficace virtù è per­manente » (Pio XI), anche chi si sposasse in pec­cato grave riacquisterebbe il diritto alla grazia del matrimonio una volta riacquistata la grazia santi­ficante.

E si ricordi inoltre che, benché sia assai oppor­tuno insistere perché chi si deve sposare si accosti prima alla confessione, non se ne può fissare un vero tassativo precetto. Per il matrimonio, per sé, può bastare l’atto di contrizione; la confessione pri­ma del matrimonio è imposta solo per i pubblici peccatori (canone 1066).

B) essere esenti da impedimenti impedienti (C.J.C. can. 1058-1064).

Sono impedimenti impedienti:

1) il voto semplice di verginità, di castità per­fetta, di non sposarsi, di ricevere gli ordini sacri, di abbracciare lo stato religioso.

Un voto semplice non rende mai invalido il ma­trimonio, eccetto che la Chiesa non abbia stabilita l’invalidità, come avviene per qualche determinato voto semplice.

2) la parentela legale, derivante dall’adozione, è impedimento impediente dove la legge civile lo ritiene tale.

3) la Chiesa vivamente sconsiglia, in qualsiasi modo, il matrimonio tra due persone battezzate di cui una sia cattolica e l’altra non cattolica (per es. protestante od ortodossa); se poi ci fosse pericolo di perversione del coniuge cattolico o dei figli, al­lora la proibizione è anche di diritto divino.

Questo impedimento è detto di mista religione. A proposito dei cosiddetti matrimoni misti (tra due persone di cui una battezzata cattolica e l’altra non battezzata oppure tra due persone battezzate una cattolica e l’altra protestante od ortodossa) il Papa Paolo VI ha emanato un documento (30 apri­le 1970) in cui pone alcune condizioni per otte­nere la dispensa. Esse sono: « Per ottenere dal­l’Ordinario del luogo (Vescovo della Diocesi) la dispensa dall’impedimento, la parte cattolica deve dichiararsi disposta ad allontanare da sé il peri­colo di perdere la fede. Essa inoltre ha l’obbligo grave di formulare la promessa sincera che farà tutto quanto sarà in suo potere, perché tutta la prole sia battezzata ed educata nella chiesa catto­lica.

« Di tali promesse, a cui è tenuta la parte cat­tolica, dovrà essere tempestivamente informata la parte non cattolica, in modo tale che risulti chiaro che questa è consapevole della promessa e dell’ob­bligo della parte cattolica…

« I matrimoni misti devono essere celebrati se­condo la forma canonica… E’ proibita la celebra­zione del matrimonio dinnanzi al sacerdote o al dia­cono cattolico e al ministro acattolico, che celebrino simultaneamente il rito rispettivo. E’ pari­menti esclusa, sia prima che dopo la celebrazione cattolica, un’altra celebrazione religiosa del matri­monio, per la formulazione o per il rinnovamento del consenso matrimoniale » (documento Matrimo­nia mixta).

È certo però che il matrimonio misto è sempre un pericolo di indifferenza religiosa quando c’è debolezza e poca pratica religiosa; che se ambedue i coniugi sono praticanti, ciascuno nella propria fede religiosa, c’è il vero pericolo di dissensi o di distacco spirituale. All’inizio tutto sembra supe­rabile, ma poi…?

C) essersi preparati convenientemente..

E’ questo un dovere che la Chiesa ha sempre in­culcato e che diventa sempre più urgente, perché troppi sono gli attentati teorici e pratici contro il matrimonio, troppi sono gli errori e i pregiudizi e troppa l’ignoranza in questa materia, anche se invece se ne conoscono e se ne divulgano tutte le aberrazioni.

I Papi ed i Vescovi hanno sempre insistito sulla necessità di una tale preparazione. Il Santo Padre Giovanni XXIII diceva: « In particolare è neces­sario, anzi urgente, che questa catechesi (sul ma­trimonio) arrivi principalmente ai giovani che si appressano al matrimonio, ne scuota le coscienze e li renda pensosi del gravissimo dovere della istru­zione religiosa in questa materia tanto delicata » (disc. alla S. Romana Rota, dicembre 1960).

E il Pontefice Paolo VI scriveva quand’era Ar­civescovo di Milano: « Vogliamo piuttosto osservare come la causa fondamentale della sua debolezza e della sua deca­denza (della famiglia) sia la mancanza di prepara­zione spirituale alla fondazione della famiglia stes­sa.

« Si ritiene ordinariamente che la natura sia maestra per tale preparazione; ma è maestra che può fallire la sua funzione, se non è essa stessa istruita, disciplinata, illuminata.

« Per noi cristiani poi, che sappiamo essere il matrimonio elevato alla dignità di sacramento, una preparazione adeguata si dimostra indispensabile, tanto più che l’educazione domestica, già scuola sapiente di vita, di virtù, di costume, non ha più l’autorità, né la capacità di un tempo per predi­sporre convenientemente i figli e le figlie al grande atto, che determina il loro stato ed il loro avveni­re, quale appunto è il matrimonio.

« Bisogna pensare ad una moderna e specifica preparazione al matrimonio, con la quale la natu­ra, gli impegni, il valore morale e religioso di esso siano opportunamente ricordati ai futuri sposi, in modo che possano fondare la loro nuova famiglia con illuminata coscienza e con pienezza di spirito.

« Il fidanzamento acquista grande importanza educativa. Ogni cosa importante, bella e delicata esige una proporzionata preparazione; la grande e, in certo senso, suprema cosa ch’è il matrimonio, la esige ormai perfezionata di nuove cure familiari e sociali, e, per quanto ci riguarda, pastorali.

« Un campo di delicato e magnifico lavoro si apre allo zelo dei nostri educatori e dei nostri pa­stori » (Per la famiglia cristiana. Milano 1960).

Le gravi conseguenze di una deficiente prepara­zione al matrimonio ci fanno domandare fino a che punto è bene darsi da fare per portare al ma­trimonio-sacramento persone non abbastanza pre­parate.

« Fino a ieri si è potuto pensare che sempre il meglio era arrivare alla celebrazione religiosa del matrimonio: si presupponeva che, presto o tardi, l’ambiente sociale cristiano avrebbe risvegliato nel­l’animo le condizioni spirituali mancanti. Ora, in una società sempre più scristianizzata, è giunto il tempo di domandarci che cosa giovi maggiormente all’educazione religiosa e alla speranza di salvezza: un sacramento di meno con una inquietudine di più nell’anima, oppure un sacramento di più con una inquietudine di meno nell’anima? » (Card. Giovanni Colombo, Arcív. di Milano).

1) La preparazione conveniente consiste anzi­tutto in una buona scelta.

Scrive Pio XI nella Casti Connubii (la divisione in punti è nostra): « Rispetto poi alla preparazione prossima di un buon matrimonio è di somma im­portanza la diligenza nella scelta del coniuge; da essa infatti dipende molto la felicità e infelicità del matrimonio, potendo l’un coniuge essere all’altro di grande aiuto a menare, nello stato coniugale, una vita cristiana, oppure di grande pericolo e im­pedimento.

a) Affinché dunque non abbia per tutta la vita da pagare la pena di una scelta inconsiderata, chi desidera sposarsi sottoponga ad una matura deli­berazione la scelta della persona con la quale do­vrà poi sempre vivere, ed in siffatte deliberazioni abbia anzitutto riguardo a Dio ed alla vera reli­gione di Cristo, indi a sé medesimo, al coniuge, al­la futura prole, come pure alla umana e civile società…

b) Implori con fervore il divino aiuto, perché possa eleggere, secondo la cristiana prudenza e non già spinto dal cieco e indomito impeto della pas­sione, o dal mero desiderio di lucro, o da altro men nobile impulso, bensì da vero e ordinato amore, da sincero affetto verso il futuro coniuge, cercando nel matrimonio quel fine appunto per il quale esso fu da Dio istituito.

c) Non tralasci infine di richiedere il prudente consiglio dei genitori sulla scelta da fare ».

Per una buona scelta del coniuge non basta fi­darsi solo dell’attrazione reciproca (elemento pur tanto importante) ma bisogna tener conto anche della salute fisica, del fattore economico, del ca­rattere, della cultura (non parlo di diplomi), delle idee e delle pratiche religiose e morali.

Se si pensa quanto sia importante la salute fisica per il buon esito del matrimonio, si comprende pu­re l’importanza della visita prematrimoniale.

Tutti i fidanzati dovrebbero sentire il dovere di conoscere le condizioni di salute con le quali af­frontano il matrimonio; spesso poi molti disturbi o inconvenienti possono essere opportunamente cu­rati prima del matrimonio. Naturalmente il risul­tato della visita deve essere mantenuto segreto dal medico: saranno gli stessi fidanzati che, a loro giu­dizio e secondo la loro coscienza, si riveleranno a vicenda questo risultato.

I genitori possono consigliare, ma non obbliga­re; i figli devono essere rispettati nella loro libertà di scelta. Il Concilio Vaticano II insegna: « È com­pito dei genitori e dei tutori guidare i più giovani nella formazione di una nuova famiglia con pruden­te consiglio, offerto in modo che questi lo ascoltino volentieri, guardandosi però dall’esercitare una pressione diretta o indiretta per spingerli al ma­trimonio o alla scelta del coniuge » (Gaudium et spes, n. 52).

2) La preparazione consiste inoltre in una retta e completa istruzione. La realtà del matrimonio è davvero complessa e importa problemi fisici, mo­rali, psicologici, dogmatici, ascetici.

Chi si avvia al matrimonio deve sentire la re­sponsabilità e, diciamo pure, il rischio del passo che sta per compiere e deve procurarsi una piena conoscenza delle realtà che sta per affrontare. Nes­suno affronterebbe un lavoro o uria professione senza preparazione: a maggior ragione ciò vale per il matrimonio.

Ecco perché vengono raccomandati (e per for­tuna vanno diffondendosi) i « corsi di preparazio­ne al matrimonio », corsi che possono essere par­rocchiali o interparrocchiali. Come non è possibile ammettere alla prima Santa Comunione e alla San­ta Cresima senza adeguata preparazione, così nes­suna Parrocchia può trascurare di tenere corsi re­golari e periodici per giovani e signorine che si preparano al matrimonio. Dico corsi « periodici » perché non ci si può accontentare di corsi isolati o saltuari; possono avere modalità diverse.

Non mancano inoltre ottimi libri che, scelti be­ne, possono essere un valido aiuto. E vanno rac­comandati gli Esercizi Spirituali e i giorni di Ritiro spirituale per fidanzati e fidanzate.

3) È assai importante por la preparazione di ca­stità e di preghiera. La castità coniugale (che non è certo più facile della castità prematrimoniale) e la fedeltà coniugale non si improvvisano: hanno bisogno di una preparazione di castità, di una ac­quisita capacità di autodominio: la vera castità è 1’antiegoismo.

Pio XI scrive nella Casti connubii: « Ben è a temersi che coloro che nel tempo precedente le nozze dappertutto non cercavano che se stessi e le proprie comodità e solevano accondiscendere ai propri desideri, anche se turpi, giunti poi al matri­monio siano poi tali e quali erano prima: e che abbiano a ritrovare tra le mura domestiche tri­stezza, pianto, disprezzo scambievole, litigi, av­versione di animo, noia della vita coniugale e, ciò che è peggio, abbiano a trovare se stessi con le loro sfrenate passioni ».

Il Concilio ammonisce: « I giovani siano ade­guatamente e tempestivamente istruiti, molto me­glio se in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell’amore coniugale, sulla sua funzione e il suo esercizio; così che, formati nella stima della casti­tà, possano ad età conveniente passare da un one­sto fidanzamento alle nozze » (Gaudium et spes, n. 49).

È evidente che una preparazione alla realtà to­tale del matrimonio non può essere solo di tipo spirituale. Si deve escludere la « donazione totale » (rapporti prematrimoniali) perché il fidanzamento è solo uno stato provvisorio, non ancora definiti­vo; la vita dei fidanzati non è ancora vita in comu­ne, non è ancora avvenuto il patto di totale reci­proca donazione, non c’è ancora il sacramento del matrimonio, non c’è ancora l’accettazione o con­valida data dalla comunità (ecclesiale o civile o fa­miliare secondo gli usi) alla decisione dei fidanzati.

Sono però consoni col fidanzamento quelle af­fettuosità e quei gesti spontanei d’amore che rifug­gono da ogni egoismo e ricerca di sé sfruttando l’altro, e che vogliono invece essere una manifestazione di amore, anche sensibile, verso l’altro: qui la casistica o la preoccupazione per le « loca­lizzazioni » dei gesti d’amore sono davvero inutili e inopportune.

Non si insisterà mai abbastanza sul concetto che il fidanzamento è una preparazione, una tensione ad un sacramento: c’è quindi anche per questo stato di attesa un aiuto, una grazia particolare. I fidanzati devono avere la consapevolezza di grazia propria del loro stato, la devono chiedere e poten­ziare mediante la preghiera e la frequenza ai sacra­menti della Confessione e della Eucaristia.

I fidanzati pregano troppo poco, si accostano troppo poco ai Sacramenti, non sentono abbastan­za questo urgente bisogno di Dio.

– Che matrimonio possono aspettarsi quei fidan­zati che non pregano o non fanno nessun conto dell’aiuto di Dio? Ci sono case fondate sulla roc­cia e case fondate sulla sabbia.

Conclusione

« Chi di voi, volendo costruire una torre non si siede prima a calcolare la spesa, se ha tanto da portarla a compimento? Affinché, poste le fonda­menta e non potendo finire, tutti quelli che guar­dano non si mettano a farsi beffa di lui… » (Luca 14, 28 e seguenti).

Con un po’ di riflessione, preparazione e pre­ghiera il matrimonio darebbe certo quei frutti che sono conformi ai disegni di Dio.

CAPITOLO NONO

EFFETTI DEL MATRIMONIO E SANTITA’

Falsità di un pregiudizio

È assai diffusa l’idea che la vita di matrimonio sia una vita di mediocrítà, in cui è già gran cosa evitare il peccato mortale. Degli insegnamenti del­la Chiesa sono più noti quelli che tendono a di­fendere la morale (es. contro il divorzio, contro l’infedeltà, contro l’onanismo, contro l’aborto, ed altri ancora); sono meno noti quelli che mettono in evidenza la santità nella vita di matrimonio e le linee maestre di una spiritualità coniugale.

Il S. Padre Pio XI, nella Casti connubii, accen­nando all’amore tra gli sposi, che deve essere non di sola inclinazione sensibile né di sole parole af­fettuose ma anche di azione esterna, aggiunge: « Questa azione poi nella società domestica non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve e­stendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo: che i coniugi si aiutino tra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore; sicché nella loro vicendevole unione di vita crescano sem­pre più nelle virtù, massimamente nella sincera carità verso Dio e verso il prossimo… Possono in­somma e debbono tutti, di qualunque condizione siano e qualunque onesta maniera di vita abbiano eletto, imitare l’esemplare perfettissimo di ogni santità, proposto da Dio agli uomini, che è N. S. Gesù Cristo, e con l’aiuto di Dio giungere anche all’altezza somma della perfezione cristiana, come esempi di molti santi ci dimostrano ».

E’ importante, in questo argomento, richiamare continuamente l’insegnamento della Chiesa, sia per evitare teorie o atteggiamenti di pseudo-mistica derivati da un astratto idealismo o anche da mor­bosità, sia per mettere in evidenza quanto la Chiesa insista su questo punto e quanto invece molti lo ignorino.

Perfezionamento del vincolo coniugale

La possibilità di una vita santa nel matrimonio deriva specialmente dal Matrimonio-sacramento. Mirabili infatti sono i frutti, gli effetti di questo sacramento.

Il Concilio di Trento attribuisce al matrimonio cristiano due effetti principali: perfezionamento del vincolo coniugale e grazia che santifica.

Il matrimonio anche solo come « contratto na­turale » è un vincolo tra uomo e donna che ha le proprietà di unità e indissolubilità. Si è già tratta­to di queste proprietà nel capitolo « Il matrimonio cristiano ».

È però utile insistere sul fatto che il Matrimonio­-sacramento è immagine reale dell’unione tra Cristo e la Chiesa.

Perciò l’unità e l’indissolubilità che si trovano già come proprietà fondamentali nel matrimonio naturale (Genesi 2, 18-24; Matteo 19, 3-11), sono confermate e rafforzate nel matrimonio cristiano dal fatto che l’unione tra Cristo e la Chiesa è unica, esclusiva, indissolubile.

È proprio ciò che asserisce il Papa Pio XI quan­do vuol dare l’intima e più vera ragione del co­mando di Dio circa l’indissolubilità: « Se voglia­mo investigare con riverenza l’intima ragione di questa volontà divina, facilmente la troveremo in questa mistica significazione del matrimonio cri­stiano, che si verifica con piena perfezione nel ma­trimonio consumato tra fedeli. Il matrimonio dei cristiani, infatti, secondo la testimonianza del­l’Apostolo nella sua lettera agli Efesini, rappre­senta quella unione perfettissima che corre tra Cristo e la Chiesa… la quale unione per nessuna separazione non potrà mai disciogliersi finché vi­vrà Cristo e la Chiesa per Lui » (Casti connubii).

La grazia e le grazie

Il sacramento del matrimonio, come ogni altro sacramento, conferisce ex opere operato, la grazia ai coniugi che non pongono ostacolo. Per chi po­nesse l’ostacolo del peccato mortale, la grazia verrà infusa quando sarà cancellato il peccato con la con­trizione o con la confessione.

Di quale grazia si deve parlare? È « una grazia che santifica i coniugi » dice il Concilio di Trento. Si tratta, evidentemente, dell’aumento della gra­zia santificante (il matrimonio è un « sacramento dei vivi »!) e di altre grazie necessarie ed utili per la santificazione dei coniugi.

Il Papa Pio XI nella Casti connubii così specifi­ca (le distinzioni sono nostre): « Questo sacramen­to, in coloro che non vi oppongono positivo osta­colo,

a) non solo accresce il principio di vita sopran­naturale, cioè la grazia santificante,

b) ma vi aggiunge ancora altri doni speciali, di­sposizioni e germi di grazia, come novello vigore e perfezione alla forza della natura, affinché i coniugi possano non solo bene intendere, ma intima­mente sentire, con ferma convinzione e risoluta volontà estimare e adempiere quanto appartiene al­lo stato coniugale e ai suoi fini e doveri,

c) ed a tale effetto, da ultimo, conferisce il di­ritto all’aiuto attuale della grazia, ogni qualvolta ne abbisognano per adempiere agli obblighi di questo stato ».

Oltre alla grazia santificante viene qui dunque ricordata la grazia propria del matrimonio (grazia sacramentale: disposizioni e germi di grazia) ed anche il diritto all’aiuto attuale della grazia (grazia attuale) che aiuta appunto a sviluppare quei « ger­mi di grazia ».

Qual è l’aiuto che i genitori daranno ai figli? È difficile definirlo; si può però dire che, ogniqual­volta i figli avranno bisogno, otterranno aiuto dai propri genitori nel modo migliore possibile. Così è difficile dire in che cosa consista la grazia sacra­mentale del matrimonio: ma è certo che, in qualunque necessità si troveranno i coniugi, potranno ottenere, in forza del loro matrimonio, un aiuto particolare, adatto ed efficace, da parte di Dio.

Ciò insegna Pio XI nella Casti connubii: « Con ciò stesso adunque che i fedeli danno con animo sincero un tale consenso, aprono a sé il tesoro della grazia sacramentale, ove attingere le forze sopran­naturali occorrenti ad adempiere le proprie parti ed i propri doveri fedelmente, santamente, con perseveranza fino alla morte ».

E dice Pio XII: « (Dal Matrimonio-sacramen­to) fluisce quasi un diritto costante ad impetrare tutte quelle grazie, tutti quegli aiuti divini che sono necessari ed opportuni a santificare la vita matrimoniale, a compiere i doveri dello stato co­niugale, a superarne le difficoltà, a mantenere i propositi, a raggiungere i più alti ideali.

« Da parte sua Dio se ne è reso mallevadore, elevando il matrimonio cristiano a simbolo perma­nente dell’unione indissolubile di Cristo e della Chiesa » (Ai novelli sposi; il 12 luglio 1939).

La grazia sacramentale propria del matrimonio è una grazia di carità: l’aiuto cioè dato agli sposi per trasformare il loro amore naturale in amore soprannaturale, per amarsi tra loro come Cristo li ama.

La corrispondenza umana

Agli sposi cristiani non mancano dunque le gra­zie necessarie per santificarsi. Hanno anzi a loro disposizione un sacramento tutto loro particolare, come mezzo di grazia e di aiuti per il loro stato di vita. Ma troppo spesso questo mezzo di grazia ri­mane inefficace per la trascuratezza dei coniugi stessi.

Da molti l’intima realtà soprannaturale del ma­trimonio è ignorata o dimenticata: il tesoro rimane veramente nascosto e quindi non usato. Quanta ignoranza a questo proposito! Quanti credono che il matrimonio consista solo nel « contratto »; o se anche pensano al « sacramento » lo credono chiu­so e finito nel duplice sì pronunciato ai piedi del­l’altare! Quanti non pensano al vincolo coniugale che permane come diritto continuo alla grazia, co­me « consacrazione permanente », come « quasi­carattere »!

Da molti anche la realtà sacramentale del matri­monio, conosciuta e studiata, non è però sfruttata. Bisogna che i coniugi corrispondano alla grazia del matrimonio ricordando e meditando spesso (e spe­cialmente ambedue i coniugi insieme) queste veri­tà soprannaturali. Il comando agnosce dignitatem tuam (conosci la tua grandezza) va rivolto anche ai coniugi. Bisogna corrispondere col domandare al Signore queste grazie nei momenti di maggior ne­cessità e col frequentare i sacramenti della Con­fessione e della Comunione.

Ecco cosa scrive, a proposito della corrispondenza alla grazia, il S. Padre Pio XI nella Casti con­nubii: « Siccome è legge di Provvidenza Divina nell’ordine soprannaturale, che dai Sacramenti ri­cevuti dopo l’uso di ragione l’uomo non tragga tutto intero il frutto loro quando non cooperi alla grazia, così anche la grazia propria del matrimonio rimarrebbe in gran parte come talento inutile se­polto sotterra, qualora i coniugi non adoperasse­ro le forze soprannaturali, trascurando di coltivare e far fruttificare i preziosi semi della grazia. Che se all’incontro, si studiano, quant’è in loro, di bene cooperare, potranno dello stato loro proprio sop­portare i pesi, adempiere i doveri, e dalla potenza di sì gran sacramento si sentiranno ravvalorati, santificati e consacrati ».

E ancora: « Ma perché la grazia di questo sa­cramento eserciti tutta la sua efficacia, si richiede altresì… il concorso dei coniugi: e questo consi­ste in ciò che, con l’opera ed industria propria, si sforzino seriamente di compiere quanto dipende da loro nell’adempimento dei doveri ».

Matrimonio e santità

I pericoli.

A) Quando S. Paolo, scrivendo ai Corinti, in un confronto tra matrimonio e verginità, esprime decisamente il suo consiglio e la sua preferenza per la verginità, dice che coloro i quali si sposano tri­bulationem carnis habebunt, avranno cioè le preoc­cupazioni della vita (I, Cor. 7, 28).

È certo che lo stato di matrimonio presenta mol­to spesso delle preoccupazioni tali da occupare tut­to lo spirito e da renderlo meno libero per Dio.

È ancora evidente che la vita di matrimonio esi­ge l’uso e il possesso di beni terreni: esige beni economici per la vita di famiglia, per i figli; esige ordinariamente l’uso del corpo (il diritto e debito coniugale; oggetto del matrimonio: ius in corpus); esige l’uso di autorità e libertà per reggere la fa­miglia, guidare i figli. E tutto ciò comporta il pe­ricolo di essere troppo legati a questi beni, troppo desiderosi e preoccupati, e, perciò, troppo poco di­sponibili per Dio e per il prossimo.

In una famiglia ben riuscita domina l’amore tra gli sposi, l’amore tra genitori e figli; e questo è un bene, ma anche un pericolo. Questo amore recipro­co tra i membri della famiglia, quanto più è inten­so tanto più può legare e chiudere i membri della famiglia tra loro, come se tutto dovesse chiudersi in loro. C’è il pericolo cioè che questo intenso a­more reciproco faccia dimenticare Dio (amore sen­za carità), faccia dimenticare, di amare Dio e di cu­rare gli interessi,.di. Dio nel coniuge en neri.

E se poi il coniuge tanto amato, o pi figli o i ge­nitori tanto amati, invece di essere di buon esem­pio, fossero di cattivo esempio, allontanassero da Dio, allora il pericolo sarebbe anche più grave.

Gli aiuti.

B) Nonostante però tale difficoltà della vita matrimoníale, è possibile tendere alla santità anche in questo stato.

La santità è l’unione con Dio mediante la carità; ora a questa carità si può arrivare per vie diverse. – Anche il matrimonio è una via di santità e offre aiuti per arrivarci.

Ci sono anzitutto gli aiuti inerenti al matrimo­nio come sacramento: sono cioè le grazie del sa­cramento.

Se per ogni cristiano c’è la possibilità della ca­rità verso Dio e verso il prossimo, a maggiore ra­gione c’è questa possibilità di carità verso il coniu­ge, verso i genitori, verso i figli. Ed è come dire: se ognuno può vedere Dio nel prossimo anche se antipatico, anche se nemico, a maggiore ragione può (ed è in ciò aiutato dallo stesso amore natu­rale) vedere e amare Dio nel coniuge e nei figli.

Siccome nell’ordine attuale di Provvidenza si ama Dio amando Gesù Cristo, ecco che, per esem­pio, un marito può e deve dire: « Io amo la mo­glie perché Cristo è in lei, perché Cristo è in me. E’ in lei, perciò devo amare lei come amo Cristo; è in me, perciò devo amare lei come Cristo la ama; cioè Cristo si serve di me per amarla ».

E così la moglie verso i marito, i genitori verso i figli.

Si deve anche aggiungere che, nel matrimonio, gli sposi, se sono buoni, e se vogliono diventare santi (e tutti lo devono volere!) possono aiutarsi a vicenda, consigliarsi, correggersi reciprocamente, pregare insieme e l’uno per l’altra, darsi buon esempio reciproco. Lo stesso si può dire tra genitori e figli.

Se dunque lo stato di matrimonio presenta delle difficoltà, offre però anche degli aiuti per arrivare ad amare intensamente Dio, cioè aiuti verso la perfezione.

La corrispondenza umana alla grazia divina è di­versa secondo le diverse circostanze, lo stato, la vocazione in cui ciascuno si trova: ci sono diverse strade che portano alla perfezione. La perfezione è uguale per tutti: una intima unione a Dio me­diante la carità cioè mediante l’amore a Dio, con­siderato come il Sommo Bene in se stesso. Questo amore a Dio si concreta nella piena adesione alla Volontà di Dio, unione di volontà umana e Volon­tà divina.

Le diverse strade, o diverse spiritualità, sono anch’esse fissate dalla Volontà di Dio per ciascun essere umano.

Le caratteristiche della spiritualità coniugale

C) Gli sposi hanno a disposizione un sacramen­to loro particolare come mezzo permanente di grazia.

1) Le persone sposate, vivendo insieme, legate in Domino dal Sacramento del Matrimonio, devo­no camminare insieme verso la perfezione, devono aiutarsi a vicenda a santificarsi.

Da ciò deriva il dovere della reciproca correzione dei difetti, che esige tanta carità in chi la compie, tanta umiltà in chi la riceve. Si tratterà di trovare il momento opportuno che, di solito, non è mai quello in cui il difetto si manifesta; forse sarà più utile parlarne in un incontro settimanale, « a tu per tu », in un momento di sosta, che dovrebbe di­ventare abituale per rivedere e « revisionare » la propria vita a due o per qualche buona lettura fat­ta e commentata insieme.

È veramente importante per gli sposi prendere l’abitudine di sedersi insieme periodicamente a dia­logare a due.

Ne deriva inoltre l’obbligo della preghiera co­niugale (o familiare se ci sono i figli) la quale, pur non potendo sostituire la preghiera personale, la deve però completare: la Chiesa prega, la famiglia prega. Non dovrebbe mai mancare, in nessun gior­no, un minimo di preghiera fatta insieme dai co­niugi: preferibilmente di sera quando il lavoro, il chiasso, le preoccupazioni della giornata sono fi­niti.

Ottima era l’abitudine della recita del S. Rosario in famiglia: oggi è un’abitudine purtroppo trascu­rata. Sarebbe tanto utile l’assistere insieme alla S. Messa festiva, specialmente se preparata al sa­bato sera con la lettura comune della Messa sul messalino: ciò potrebbe servire anche come lega­me spirituale, quando non fosse possibile assistere insieme.

E la S. Comunione, ricevuta insieme, quanto serve a legare sempre più intimamente i coniugi tra loro e con Dio! Le varie ricorrenze religiose (anniversario del Battesimo, del Matrimonio, del Bat­tesimo dei figli ed altre ancora) servono esse pure a mantenere viva la fiamma della fede e dell’amore di Dio nella famiglia.

E possiamo veramente considerare un « segno dei tempi » la possibilità che hanno i coniugi di partecipare a giornate di ritiro ed anche a corsi di Esercizi spirituali chiusi, ambedue i coniugi insie­me, portandosi anche i bambini che trovano op­portuna assistenza.

Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dog­matica sulla Chiesa, espone una splendida sintesi del valore santificante che ha il matrimonio: que­sto sacramento riproduce tra i coniugi il legame d’amore che esiste tra Cristo e la Chiesa, dà ai co­niugi la capacità di santificarsi a vicenda sfruttando i beni stessi della vita coniugale e li rende capaci di educare santamente i figli.

Ecco le parole del Concilio: « I coniugi cristiani, in virtù del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre fra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef. 5, 32), si aiutano a vicenda per raggiunge­re la santità nella vita coniugale e nell’accettazione ed educazione della prole, ed hanno così, nel loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al Popolo di Dio. Da questo connubio, in­fatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo, diventano col battesi­mo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo Popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere, per i loro figli, i primi maestri della fede, e secondare la vocazione propria di ognuno, e quella sacra in mo­do speciale » (Lumen gentium, n. 11).

2) La spiritualità delle persone sposate è una spiritualità di uso: non potrà attuarsi in una ri­nuncia totale e definitiva ai beni naturali di cui la famiglia abbisogna o di cui non potrebbe fare a meno, se non in caso di vocazione specialissima. Giova però ricordare che i beni terreni devono es­sere considerati come strumenti e non come fine a se stessi; il vero unico fine è Dio, al quale ci si unisce tanto più speditamente e intimamente quan­to più ci si rende indipendenti da questi beni, ai quali invece il peccato originale ci ha resi tanto inclinati.

Se le persone non sposate e consacrate tendono a Dio più direttamente, perché hanno rinunciato ai beni terreni (voto di povertà, castità, ubbidien­za), le persone sposate, pur nel retto e necessario uso di questi beni, possono rendersi più disponi­bili per il Signore con qualche volontaria rinuncia, compatibile con la situazione concreta della loro particolare famiglia. E’ evidente che tali rinunce devono essere decise con accordo comune e libero.

a) Ogni famiglia, secondo le situazioni particola­ri, può generosamente rinunciare a qualche cosa di superfluo, affrontare volontariamente qualche disagio o qualche privazione, abituare i bambini a visitare i poveri, a pensare ai bambini poveri, aiu­tare in modo diverso, secondo le proprie possibi­lità, i poveri, avendone grande stima (e perché non anche un po’ di santa invidia?), ricordando la po­vertà di Gesù: il presepio, Nazareth, « il figliol dell’uomo non ha ove posare il capo », la Croce: avere cioè lo spirito di povertà.

b) I coniugi, pur nel legittimo e completo uso dei loro beni di corpo, devono tendere a permeare il loro amore di affettività, di spiritualità, di stima reciproca, di intenzioni soprannaturali (la castità, la volontà di Dio, la gloria di Dio).

Si abitueranno così (senza minimamente rinun­ciare alle gioie dell’amore) a soprannaturalizzare sempre più il loro amore. A ciò potranno anche ser­vire le rinunce volontarie, utili per acquistare ca­pacità di dominio e controllo sui propri istinti, o anche volute per motivi di devozione (tridui, no­vene), sempre ricordando le concrete e sagge limi­tazioni poste da S. Paolo (accordo comune, tempo breve, motivo soprannaturale. 1 Corinti 7, 5).

Credo utile riportare qui quanto ho già scritto altrove:

« E arriviamo così a quello che sembra essere il vero senso della castità coniugale, la quale significa uso dei diritti coniugali nel contesto dell’amore e di una vita di amore reciproco.

« Si parla spesso, e giustamente, della prevalen­za dello spirito sulla materia; ma in questo campo specifico, alla domanda: spirito o corpo? si do­vrebbe rispondere: spirito e corpo. Non si tratta cioè di rinunciare al corpo per lo spirito, con una visione manichea della realtà; ma si tratta di valo­rizzare e nobilitare il corpo mediante lo spirito: non un progressivo distacco dal corpo ma un uso del corpo progressivamente permeato di spirito.

« Una unione coniugale che fosse solo unione di corpi, anche se completa e feconda, non sarebbe una unione casta. La castità coniugale si attua me­diante una unione di corpi che non sia staccata dal resto della vita quotidiana, ma che sia invece come il vertice di una vita di amore quotidianamente vis­suto e praticato; la castità si attua qui mediante l’unione coniugale, permeata di spirito cioè di al­letto, di rispetto della dignità dell’altro, di affet­tuosa delicatezza, di ricerca della gioia completa (anche fisica) dell’altro più che di egoistica ricerca di sé.

« E quando la castità suggerisce anche la mode­razione, lo deve fare non quasi che i coniugi deb­bano moderarsi o astenersi da qualche cosa di me­no buono, ma solo in vista della carità; per rispet­tare cioè un bene, un desiderio dell’altro, per at­tendere un momento più opportuno. Se l’amore coniugale è amore completo, di anima e di corpo, così voluto da Dio, non c’è motivo che i coniugi debbano trascurare l’amore di corpo per andare a Dio: devono invece santificarsi usando tutti i beni coniugali anche quelli di corpo.

« Si tratta insomma di arrivare, mediante una reciproca educazione, necessariamente progressiva, a rendere sempre più completamente umana que­sta esterna manifestazione d’amore, ad attuarla se­condo la volontà di Dio, cioè secondo ragione illu­minata dalla fede. Non è dunque rinuncia ma uso, sempre più completo, sempre più totale (di corpo, “. di affetto, di stima, di carità); il che può avvenire anche escludendo, per giusti motivi, la fecondità: – E` quando sarà l’età a smorzare le esigenze del cor­po, o un’altra circostanza ad esigere il loro silenzio, continuerà lo spirito da solo a mantener vivo e fervente l’amore »’.

c) E non è, inoltre, possibile ai coniugi il voto di ubbidienza, data la parità di natura e di diritti che esiste tra uomo e donna. E’ però possibile e doveroso il senso di accondíscendenza reciproca, la virtù della compiacenza, per cui niente d’impor­tante viene deciso dall’uno senza il consenso del­l’altra, niente viene nascosto, tutto è in comune, abituale diventa il chiedersi consiglio a vicenda, abituale il rispetto dell’opinione del coniuge e la facilità a cedere al suo parere. E tutto ciò non per pusillanimità ma per amore.

È certo che tutta questa « ascesi coniugale » non si improvvisa: esige anni di paziente lavoro, esige costanza e fiducia, esige anche l’uso di mezzi straor­dinari (come giornate di ritiro, corsi di esercizi spi­rituali di cui si è detto sopra) i quali diventano non

solo utilissimi ma direi quasi necessari, se non ci si vuole adattare alla mediocrità: esige la pratica di tutte le virtù cristiane.

L’insegnamento della Chiesa.

D) Che la santità coniugale o familiare sia qual­cosa di veramente possibile e quindi doverosa è insegnamento chiarissimo, anche se spesso dimen­ticato, della Chiesa.

Scrive Pio XI nella Casti connubi: « Gli stessi coniugi poi, dall’aureo vincolo del Sacramento non incatenati ma adorni, non impacciati ma rinvigo­riti, si adopereranno con tutte le forze a fare che il loro connubio non solamente per la proprietà e il significato del Sacramento, ma anche per lo spi­rito loro e la condotta della loro vita sia sempre e rimanga immagine viva di quella unione fecon­dissima di Cristo con la sua Chiesa, che è certa­mente mistero venerando di perfettissimo amore ».

A nome di Pio XII, nel 1954, alla XXIV Setti­mana sociale di Pisa, Mons. G. B. Montini scrive­va: « La rinascita della famiglia dovrà essere ope­rata soprattutto sul piano religioso, perché è ap­punto dall’affievolimento del sentimento religioso stesso che derivano, come da fonte precipua, tutti i mali di cui soffre la famiglia moderna. Nata da un contratto « essenzialmente sacro » che il Reden­tore ha elevato a dignità di sacramento simboleg­giante la sua unione con la Chiesa, la famiglia, pro­prio nelle finalità assegnate dalla Nuova Legge, trova la sua più alta perfezione e la salvaguardia più sicura della sua unità, dignità e stabilità. In questa luce, la vita dei coniugi, che si svolge intorno al focolare cristiano, non è solo scambio di diritti umani e adempimento di funzioni naturali; è par- tecipazione di realtà celesti, è strumento di eleva­zione spirituale e di santificazione, perché il sacra­mento ha posto una tale sorgente di energie divine, che i coniugi potranno farvi ricorso in tutto lo svolgimento della vita matrimoniale, per ricevere aiuto e conforto nel compimento dei loro doveri. Ciò fa vedere la funzione preminente che spetta alla famiglia nella vasta realtà del Corpo Mistico, e insieme apre orizzonti sconfinati di perfezione all’organismo familiare qualora esso venga inserito sempre più nella vita della Chiesa ».

E Giovanni XXIII (nel discorso alle « Equipes Nótre-Dame » 3-5-1959) diceva: « Continuate con confidenza e umiltà il vostro sforzo per tendere alla perfezione cristiana nel qua­dro della vita coniugale. Se è vero che lo stato di verginità è, per sua natura, superiore allo stato del matrimonio, questa affermazione non si oppone af­fatto, voi lo sapete bene, all’invito indirizzato a tutti i fedeli di essere « perfetti come è perfetto il Padre Celeste »… Quale ricchezza e quale speranza per la Chiesa è il moltiplicarsi di famiglie cristiane in cui gli sposi vogliono – secondo il vostro pro­gramma di vita – che il loro reciproco amore san­tificato dalla Grazia, purificato dal sacrificio, sia una lode a Dio, una testimonianza, resa di fronte agli uomini, alla santità del matrimonio e una ri­parazione dei peccati che si commettono contro di esso! ».

La storia della Chiesa ci dimostra che la santità si è manifestata, di secolo in secolo, sotto forme di­verse le quali corrispondono alla vita profonda della Chiesa e alle sue esigenze vitali.

I nostri tempi dimostrano l’esigenza della san­tità mediante il matrimonio.

Sempre è esistita la santità nel matrimonio; sem­pre sono esistiti sposi santi, però molto spesso si è trattato di una santità raggiunta nel Matrimonio, con metodi non coniugali (voto di castità, soppor­tazione di persecuzioni da parte del coniuge, ab­bandono della famiglia per il monastero, ecc.).

Il modello rimaneva sempre l’ascetica monastica o « religiosa ».

Ai nostri tempi è sorta una « spiritualità laica­le », una « spiritualità professionale » e così an­che una « spiritualità coniugale ».

Oggi questa esigenza si va diffondendo: si è capito che lo stato coniugale, specialmente attra­verso il sacramento del matrimonio, offre di per se stesso aiuti, mezzi e grazie agli sposi per santi­ficarsi usando tutti i beni, naturali e soprannatura­li, propri della vita coniugale: gli sposi si santifi­cano, nel matrimonio, mediante i beni e le grazie proprie dello stato coniugale.

E ciò è possibile per tutta la durata del matri­monio ossia per tutta la vita degli sposi.

Lo Spirito Santo guida la Chiesa; e tocca ai fedeli, in unione ai pastori d’anime, accettare, segui­re e praticare questa guida divina.

Il Concilio Vaticano II ha messo in evidenza questa possibilità e questo dovere di santificazione mediante la vita di matrimonio; e noi abbiamo già riportati brani delle costituzioni Gaudium et spes e Lumen gentium. In quest’ultima poi il Concilio quasi discende ai particolari.

Parla, per esempio, della vita quotidiana di ope­re buone e di fatiche le quali diventano gran me­rito, specialmente se offerte a Dio in unione al sa­crificio eucaristico di Cristo.

Scrive il Concilio: « Tutte infatti le opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniu­gale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiuti néllo Spi­rito, e persino le molestie della vita se sono sop­portate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1 Pt. 2, 5), i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissi­mamente offerti al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore » (Lumen, gentium, n. 34).

E finalmente il Concilio assegna agli sposi il compito di edificare « il fraterno consorzio della carità », sia in famiglia sia fuori della famiglia, e il compito di riprodurre la fecondità della Chiesa donando figli a Dio con la procreazione, col Bat­tesimo, con l’educazione cristiana: « I coniugi e i genitori cristiani, seguendo la lo­ro propria via, devono con amore costante soste­nersi a vicenda nella grazia per tutta la vita, e istruire nella dottrina cristiana e nelle virtù evangeliche la prole, che hanno amorosamente accettata da Dio. Così infatti offrono a tutti l’esempio di un amore instancabile e generoso, edificano il frater­no consorzio della carità, e diventano testimoni e cooperatori della fecondità della madre Chiesa, in segno e partecipazione di quell’amore col quale Cristo ha amato la sua Sposa e si è dato per lei » (Lumen gentium, n. 41).

Appare qui opportuno l’accenno alla famiglia aperta. Essere partecipi di quell’amore col quale Cristo ama la Chiesa vuol dire essere disponibili per gli altri. Il pericolo delle famiglie, anche ben riuscite, è quello di chiudersi a « gustare il tepore del focolare », di vivere il proprio amore nell’inti­mità della famiglia. L’amore di Cristo è universale e sacrificato. La famiglia cristiana deve essere aper­ta verso il prossimo; deve ricordare le parole di Gesù: « c’è maggior beatitudine nel dare che nel ricevere » (Atti degli Apostoli 25, 30).

E giova qui ricordare l’insegnamento del Con- ` cilio Vaticano II, il quale propone esempi pratici. Dice il Concilio nel decreto sull’apostolato dei lai­ci: « Fra le varie opere dell’apostolato familiare, ci sia concesso di enumerare le seguenti: adottare come figli i bambini abbandonati, accogliere con benevolenza i forestieri (come vengono accolti gli immigrati? nota dell’autore), dare il proprio con­tributo nella direzione delle scuole, assistere gli adolescenti con il consiglio e con mezzi economici, aiutare i fidanzati affinché si preparino meglio al matrimonio, collaborare alla catechesi, sostenere i coniugi e le famiglie materialmente o moralmen­te in pericolo, provvedere ai vecchi non solo il ne­cessario, ma anche renderli partecipi equamente dei frutti del progresso economico (Apostolicam actuositatem, n. 11). Sono così proposti alla gene­rosità delle famiglie diversi campi: caritativo, apo­stolico, culturale, politico, sociale.

Uno dei mezzi che vanno diffondendosi, per approfondire insieme le realtà soprannaturali del matrimonio cristiano e per mettere in comune di­verse esperienze, è quello dei gruppi di spirituali­tà familiare in cui un certo numero di coppie di sposi si radunano periodicamente a trattare e di­scutere insieme argomenti che riguardano la vita della famiglia cristiana.

Matrimonio e verginità

Abbiamo già detto che il mistero della Chiesa è un mistero nuziale e che ogni stato nella Chiesa riproduce questo mistero.

1. Il matrimonio è il segno dell’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa; lo stato matrimoniale ha il compito di testimoniare e rendere visibile l’amore che unisce Cristo alla Chiesa; cosicché si debba po­ter dire: « Ecco come Cristo ama la Chiesa; ecco come Cristo ama ciascun membro della Chiesa: pro­prio come un coniuge ama l’altro coniuge ». Gesù diventa quindi l’esempio, il modello dell’amore coniugale; e l’amore coniugale soprannaturale di­venta la dimostrazione visibile pratica dell’amore di GeA (amore sponsale per la Chiesa).

E tutto ciò gli sposi possono testimoniare at­tuando il fine del matrimonio: fecondità e intimi­tà. È lo stesso fine del matrimonio Cristo-Chiesa: fecondità e intimità, attuato in modo particolare ed eminente (anche se non unico) dal Battesimo e dal­l’Eucaristia.

Il legame spirituale tra gli sposi continuerà an­che in Paradiso.

2. a) Nonostante tutto ciò esiste nella Chiesa uno stato più direttamente e immediatamente si­gnificativo: lo stato di verginità consacrata, di chi rinunciando al matrimonio e unendosi direttamen­te a Cristo si attacca a questa stessa realtà (unione Cristo-Chiesa, Cristo-anima) di cui il matrimonio e « segno ».

Una persona che sceglie lo stato di verginità consacrata si lega, si consacra a Dio in Cristo im­mediatamente e non mediante un essere umano (il coniuge), come avviene nel matrimonio.

Appunto per l’immediata consacrazione a Dio, essa rinuncia a quei beni terreni che sarebbero in­dispensabili nella vita del matrimonio. Si trova così più libera, più disponibile per Dio (e quindi per il prossimo in ordine a Dio), in stato più facile e più favorevole per la perfezione. Ecco perché lo stato di verginità consacrata è detto uno stato su­periore a quello del matrimonio, cioè uno stato

di maggior facilità e di maggior favore in rapporto alla perfezione cristiana.

Giova però osservare:

– anzitutto si parla di superiorità dello stato di verginità consacrata e non di superiorità delle persone consacrate. La perfezione personale dipen­de dalla corrispondenza generosa alle grazie del proprio stato: perciò un marito può benissimo essere più santo di un religioso, una mamma può essere più santa di una suora;

– e inoltre la superiorità dello stato di vergi­nità non significa né assoluta garanzia di perfezio­ne, né unico stato di perfezione: già si è detto che la perfezione cristiana è possibile anche nel matri­monio.

b) Tutta la tradizione cristiana ha ammesso la superiorità dello stato di verginità consacrata. Gesù, dopo aver parlato del matrimonio come indissolubile (cosa veramente strana per gli Ebrei di allora; basti pensare alla reazione degli Aposto­li), parla di qualche cosa ancora più inconcepibile per la mentalità di quel tempo: parla cioè di chi rinuncia al matrimonio « per il regno di Dio. Chi può capire, capisca » (Matteo 19, 10-12).

S. Paolo parla della verginità che rende più li­beri e disponibili per amare il Signore. Scrive in­fatti: « Chi non è sposato si dà pensiero per le cose del Signore, come cioè egli possa piacere al Signo­re. Al contrario, chi è sposato si dà pensiero per le cose del mondo, come cioè possa piacere alla moglie, e si trova diviso. Allo stesso modo, la donna non sposata e la vergine è sollecita delle cose del Signore, per essere santa di corpo e di spirito. Ma colei che è sposata, è premurosa delle cose del mon­do: cerca il modo di piacere al marito » (I Corinti 7, 32-34).

Il Concilio di Trento (sess. XXIV, can. 10) inse­gna la superiorità dello stato di verginità e di celi­bato sullo stato di matrimonio.

Su questo argomento abbiamo poi un’intera enciclica scritta da Pio XII il 25 Marzo 1954: l’en­ciclica Sacra virginitas.

Si tende però ora ad osservare che questo inse­gnamento, circa la superiorità dello stato di vergi­nità in confronto allo stato coniugale, non è poi tanto sicuro. Tra le conclusioni di un acuto e in­teressante studio’ si possono citare queste consi­derazioni: « Trattandosi di doni di grazia, appar­tenenti a due ordini diversi, si dovevano conside­rare in qualche modo supremi nel proprio ordine. Veniva così esclusa, in una determinata linea, an­che una vera e propria confrontabilità, su identica base, dei due stati. …”Grazia più grande” dovreb­be infatti significare, in definitiva, “carità più gran­de”: ma deve essere escluso che per principio la “carità coniugale” sia meno grande o meno inten­sa o meno totalitaria della “carità verginale”. La carità divina comunicata alla Chiesa è infatti on­tologicamente una ».

Le singole creature umane elette in Cristo Gesù hanno diverse funzioni nel piano di Dio, « ma o­gnuna di esse è termine di una totalità di amore di Dio in Cristo; e ognuna di esse deve realizzarsi in totalità di carità ».

« …Non si può dire che i vergini hanno più gra­zia e sono i prediletti di Dio, perché sono pochi rispetto ai coniugati. Si deve piuttosto dire che l’amore di Dio in Cristo li ama in maniera totale perché siano vergini e vivano totalmente la carità nella vita verginale; e l’amore di Dio in Cristo ama in maniera totale i coniugi perché siano co­niugi, e vivano totalmente la carità nello stato coniugale.

« Così, a questo punto, noi poniamo radical­mente in discussione la reale confrontabilità sul piano quantitativo del matrimonio e della vergi­nità cristiani, quando si considerino nella loro struttura profonda che è soprannaturale, in fun­zione della carità ».

Si tratta; in conclusione, più delle persone che dello stato, e della loro generosità di corrisponden­za alla grazia di Dio.

E siccome si potrebbe pensare che, poiché Cri­sto visse verginalmente, perciò la vita verginale è una più stretta imitazione della vita di Cristo, è utile riportare qui la osservazione finale del citato articolo (nell’ultima nota): « Qui diciamo soltanto che nella misura in cui la Verginità del Verbo Incarnato è in funzione del suo rapporto « sponsa­le » con la Chiesa, essa trascende realmente matri­monio e verginità dei cristiani, perché rappresenta il fondamento oggettivo di entrambi, nei quali si esprime senza esaurirsi. Diremo, secondo la termi­nologia di timbro patristico già utilizzata, che la « verginità » di Cristo fonda la « verginità » della Chiesa, nella quale si radica la « verginità » dei vergini e quella dei coniugi cristiani ».

Neque nubent neque nubentur

Non si deve dunque parlare di due stati opposti tra loro; e S. Paolo raccomanda a ciascuno di re­stare nel proprio stato di vita e di seguire la pro­pria vocazione indicata dal Signore (I Corinti 7, 21-24).

Il matrimonio è un sacramento cioè un « se­gno »; la verginità non è un sacramento perché essa vive in anticipo la vita celeste; ora i sacra­menti servono solo per questa vita terrena. Tut­tavia sia le persone vergini consacrate, sia le per­sone sposate devono realizzare in questa vita, cia­scuna a proprio modo e nel proprio stato, l’unione di Cristo e della Chiesa, e devono prepararsi a quella vita eterna nella quale, pur rimanendo il vincolo spirituale d’amore tra gli sposati, neque nubent neque nubentur sed erunt sicut angeli Dei (Matteo 22, 30): non si uniranno alla moglie o al marito ma saranno come Angeli di Dio.

Il Pontificale Romano nel rito della consacrazione delle vergini (velatio virginum) dice nel Pre­fazio: « Benché nessuna proibizione diminuisca l’onore del matrimonio e benché la benedizione nu­ziale non abbia mai cessato di santificare questo legame, esistono tuttavia anime più nobili le quali, nella copula tra marito e moglie ripudiano l’unio­ne, desiderano ardentemente la realtà divina rap­presentata e, trascurando ciò che vi si compie, si attaccano a ciò che vi è simboleggiato ».

Viene così meravigliosamente affermata la du­plice relazione (sia pure in modo diverso), matri­monio e verginità, col mistero delle nozze di Cri­sto e della Chiesa.


     

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