Ma chi sono i laici? II parte
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È evidente che un solco profondo separa i due tipi di scene appena immaginate. Un solco profondo tra la religione e la vita. È il solco» largato e approfondito dalla crisi della fede, la quale come è capace di generare nuova religione col capace di generare novità in ogni altro ambito della vita. Perché stupirsi si di questa situazione? Se vescovi e preti hanno trasformato gli spazi ecclesiali in luoghi in cui parlano solo loro, come si può pensare che i laici sappiano parlare la fede laddove si tratta di temi e decisioni che il clero non può e, anche se volesse, non sa affrontare con la competenza richiesta dalla contingenza e dalla complessità delle dinamiche secolari?
È come se tutti (clero e laici) avessero accettato il dogma della laicità, quello che garantisce ai professionisti della religione un monopolio in questo ambito e che garantisce ai laici un’assoluta e altrettanto improduttiva libertà in tutti gli altri ambiti. Quando la religione si clericalizza, i laici si laicizzano. Le due scene -quella religiosa e quella mondana -sono separate da un solco profondo che non si colma neppure se i laici elevano il regime dei loro consumi religiosi.
Da laico, posso infatti essere un grande consumatore di beni religiosi, un “super devoto”, un bulimico di religioserìe. ma non per questo sono in grado di comprendere quale valore e quale significato il cristianesimo vorrebbe continuare ad avere in ogni altro momento della mia vita.
Eppure il Concilio era stato chiaro (.cf ad esempio, Lumen gentium 31). I cristiani vivono nel secolo e lì sono chiamati a una lotta, tanto interiore quanto sociale, nella quale continuamente si tratta di gestire le realtà temporali e di provare a orientarle secondo il piano di Dio. Tra questi (i “laici”), alcuni (i “religiosi”) hanno ricevuto doni speciali seguendo i quali con la loro vita testimoniano già nel presente la vittoria conseguita dal Signore sulle potenze di questo mondo e sulla morte.
Ai vescovi (e ai loro preti), ai pastori, sarebbe chiesto di prendere un po’ di sobria e paziente distanza dal gorgo del secolo e di servire questo popolo al fine che ciascuno dei fedeli possa seguire il Signore liberamente e ordinatamente (cf LG 18). Ciò non esclude che i laici possano prendere parte all’apostolato dei pastori (“pastorale”), anzi, tutt’altro. Semplicemente si chiede che i laici collaborino alla pastorale rimanendo laici, ovvero non rinunciando al loro impegno secolare ma portandosi dietro l’esperienza e la maturità di fede che in quell’impegno quotidianamente maturano. A differenza dei pastori, i laici non sono chiamati a divenire professionisti della pastorale, e del resto non potrebbero farlo se non contraddicendosi.
In quanto insegnato dalle costituzioni conciliari, il solco tra religione e resto della vita non è tolto – pensarlo sarebbe un’illusione -, ma solo reso un po’ meno profondo e un po’ meno largo. Certo, se i pastori non sanno mettere ordine nel modo di esercitare il loro indispensabile ministero e se tutta la comunità ecclesiale non torna a interrogarsi sui prezzi che stiamo pagando per le sofferenze inflitte all’Azione cattolica e per la disattenzione che riserviamo allo stato del monachesimo e della vita religiosa, sarà davvero difficile contrastare il processo che approfondisce e allarga l’abisso tra religione e vita. (Continua)
Luca Diotallevi
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