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L’Umiltà

22 Aprile 2017 | Filed under: Senza categoria
     

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lumilta

Riporto alcune riflessioni sull’umiltà fatte da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Angelo Comastri.

Di Giovanni Paolo II ho scelto un brano tratto dal suo libro “Il progetto di Dio. Decalogo per il terzo millennio” (Piemme, 1994, pp. 84, 85). Qui il papa pone l’accento sulla “piccolezza” quale condizione fondamentale per poter entrare nel Regno dei Cieli, tracciando il valore simbolico del “fanciullo” evocato nella frase di Gesù: “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli”.

Tra gli spunti offerti da Benedetto XVI, ho scelto un estratto dal suo libro “L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore” (Cantagalli, 2009, pp. 124-126) in cui il papa parla della cosiddetta “nuova evangelizzazione” e della tentazione che qui si nasconde: “la tentazione dell’impazienza, di cercare subito il grande successo, i grandi numeri” che “non è il metodo di Dio”. “Le realtà grandi cominciano in umiltà” osserva Benedetto XVI, ricordando le parole di Gesù sul “grano di senape”.

Di Comastri ho preso un passo dal libro “La firma di Dio” (San Paolo, 2002, pp. 132, 133), in cui pone l’accento sull’“umiltà di Dio”, del Quale l’uomo può conoscere i disegni se accetta di abbandonarsi all’umiltà della fede.

Lorenza Perfori 

L’infanzia spirituale, segreto della salvezza

Narra l’evangelista Matteo: “Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt. 18,2-4).

È questa la sconvolgente risposta di Gesù: per entrare nel regno dei cieli la condizione indispensabile è di farsi piccoli e umili come bambini!

È chiaro che Gesù non vuole obbligare il cristiano a rimanere in una situazione di perpetuo infantilismo, di ignoranza soddisfatta, di insensibilità alle problematiche dei tempi. Tutt’altro! Però egli porta il bambino come modello per entrare nel regno dei cieli per il valore simbolico che il fanciullo racchiude in sé:

  • Prima di tutto il bambino è innocente, e per entrare nel regno dei cieli il primo requisito è la vita di grazia, e cioè l’innocenza, mantenuta o riacquistata, l’esclusione del peccato, che è sempre un atto di orgoglio e di egoismo;
  • In secondo luogo, il bambino vive di fede, e di fiducia nei suoi genitori e si abbandona con totale disposizione a coloro che lo guidano e lo amano. Così il cristiano deve essere umile e abbandonarsi con totale fiducia a Cristo e alla Chiesa. Il gran pericolo, il gran nemico è sempre l’orgoglio, e Gesù insiste sulla virtù dell’umiltà, perché davanti all’infinito non si può essere che umili; l’umiltà è verità ed è anche segno di intelligenza e fonte di serenità;
  • Infine, il bambino si accontenta delle piccole cose, che bastano a renderlo felice; una piccola riuscita, un bel voto meritato, una lode ricevuta lo fanno esultare di gioia.

Per entrare nel regno dei cieli bisogna avere sentimenti grandi, immensi, universali; ma bisogna sapersi accontentare delle piccole cose, degli impegni comandati dall’obbedienza, della volontà di Dio come si esprime nell’attimo che fugge, delle gioie quotidiane offerte dalla Provvidenza; bisogna fare di ogni lavoro, per quanto nascosto e modesto, un capolavoro di amore e di perfezione.

Bisogna convertirsi alla piccolezza per entrare nel regno dei cieli! Ricordiamo la geniale intuizione di santa Teresa di Lisieux, quando meditò il versetto della sacra Scrittura: “Se qualcuno è veramente piccolo, venga a me” (Pr 9,4). Scoprì che il senso della “piccolezza” era come un ascensore che più in fretta e più facilmente l’avrebbe portata alla vetta della santità: “Le tue braccia, o Gesù, sono l’ascensore che mi deve innalzare fino al cielo! Per questo io non ho affatto bisogno di diventare grande; bisogna anzi che rimanga piccola, che lo diventi sempre più”.

 Giovanni Paolo II

Struttura e metodo nella nuova evangelizzazione

La Chiesa evangelizza sempre e non ha mai interrotto il cammino dell’evangelizzazione. Celebra ogni giorno il mistero eucaristico, amministra i sacramenti, annuncia la parola della vita, la parola di Dio, s’impegna per la giustizia e la carità. E questa evangelizzazione porta frutto: dà luce e gioia, dà il cammino della vita a tante persone […]. Tuttavia osserviamo un processo progressivo di scristianizzazione e di perdita dei valori umani essenziali che è preoccupante. Gran parte dell’umanità di oggi non trova nell’evangelizzazione permanente della Chiesa il Vangelo, cioè la risposta convincente alla domanda: come vivere? Perciò cerchiamo, oltre l’evangelizzazione permanente, mai interrotta, mai da interrompere, una nuova evangelizzazione, capace di farsi sentire da quel mondo, che non trova accesso all’evangelizzazione “classica”. Tutti hanno bisogno del Vangelo; il Vangelo è destinato a tutti e non solo a un cerchio determinato e perciò siamo obbligati a cercare nuove vie per portare il Vangelo a tutti.

Però qui si nasconde anche una tentazione, la tentazione dell’impazienza, di cercare subito il grande successo, i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio e così per l’evangelizzazione, strumento e veicolo del regno di Dio, vale sempre la parabola del grano di senape (cfr. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Nuova evangelizzazione non può voler dire attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. No, non è questa la promessa della nuova evangelizzazione. Nuova evangelizzazione vuol dire non accontentarsi del fatto che dal grano di senape è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, non pensare che basti il fatto che nei suoi rami diversissimi uccelli possono trovare posto, ma osare di nuovo con l’umiltà del piccolo granello lasciando a Dio quando e come crescerà (cfr. Mc 4,26-29). Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri. […] Le realtà grandi cominciano in umiltà. […] “Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario, sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo…”, dice Dio al popolo di Israele nell’Antico Testamento ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza: Dio non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell’agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia – successi del tipo offerto da Satana al Signore: “Tutto questo, tutti i regni del mondo, ti do” (cfr. Mt 4,9). Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l’impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri secolari. In realtà furono il germe che penetra dall’interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo (cfr. Mt 13,33). Un vecchio proverbio dice: “Successo non è un nome di Dio”. La nuova evangelizzazione deve sottomettersi al mistero del grano di senape e non pretendere di produrre subito il grande albero. Noi, o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale; dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano. Nella storia della salvezza è sempre contemporaneamente Venerdì Santo e Domenica di Pasqua…

+ Benedetto XVI

 Alla ricerca di Dio

Un mito del nostro tempo è l’affermazione che la religione sia superata: l’uomo scientifico – si dice senza seri argomenti – è ormai libero e, pertanto, non deve adorare nessun dio. E, invece, quanti dèi adorano coloro che rifiutano di adorare il vero Dio!

Ci vedeva bene sant’Ambrogio quando disse: “Coloro che rifiutano di adorare il Dio vivente, si inginocchiano poi davanti al “dio niente”!…

Ma perché è così difficile l’incontro con il Signore? Credo che a nessuno sfugga che il passo di Dio nella storia è un passo estremamente delicato, discreto, rispettoso, quasi timido. Dio, cioè, non è evidente: non è uno spaccone, non è un urlatore da baraccone, non è un cercatore di palcoscenici.

Perché? Ecco la grande, meravigliosa e terribile ragione: perché Dio è umile!

L’uomo grida: “Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27,9) e invoca: “Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?” (Sal 13,2), ma Dio ci risponde con le stesse parole con cui rispose a Mosè: “Non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere [nel momento in cui si vede Dio, finisce la storia]. Ecco un luogo vicino a me: ti terrai sulla roccia. Quando passerà la mia gloria, ti metterò nella fenditura della roccia e ti coprirò con la mia palma fino a quando sarò passato; poi ritirerò la mia palma e mi vedrai di spalla; ma il mio volto non si vedrà” (Es 33,20-23).

L’uomo, finché è nella storia, può vedere soltanto le “spalle di Dio”: cioè può vedere la presenza di Dio avvolta nell’umiltà! Gesù, del resto, ha detto: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29)… e stava parlando di Dio! Per questo motivo soltanto gli umili e i puri di cuore hanno un campo visivo capace di includere le tracce di Dio presenti nella storia.

È scritto infatti: “Mi compiaccio con te, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai saggi e le hai rivelate ai semplici” (Mt 11,25); e ancora: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8).

Anche davanti a Gesù, che è il Figlio unigenito venuto a tradurci l’invisibile, l’incontro avviene soltanto attraverso la fede: cioè, attraverso l’umiltà che spacca la lente affumicata dell’orgoglio e dà all’occhio umano la capacità di cogliere le tracce del mistero.

+ Angelo Comastri


     

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