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Lumen Fidei

13 Luglio 2013 | Filed under: Fede
     

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 LETTERA ENCICLICA

LUMEN FIDEI

DEL SOMMO PONTEFICE

FRANCESCO

_____

CAPITOLO PRIMO

Abbiamo creduto all’Amore

La fede di Israele

12.La storia del popolo d’Israele, nel libro dell’Esodo, prosegue sulla scia della fede di Abra­mo. La fede nasce di nuovo da un dono origi­nario: Israele si apre all’azione di Dio che vuole liberarlo dalla sua miseria. La fede è chiamata a un lungo cammino per poter adorare il Signore sul Sinai ed ereditare una terra promessa. L’amo­re divino possiede i tratti del padre che porta suo figlio lungo il cammino (cfr Dt 1,31). La confes­sione di fede di Israele si sviluppa come racconto dei benefici di Dio, del suo agire per liberare e guidare il popolo (cfr Dt 26,5-11), racconto che il popolo trasmette di generazione in generazio­ne.


La luce di Dio brilla per Israele attraverso la memoria dei fatti operati dal Signore, ricordati e confessati nel culto, trasmessi dai genitori ai figli. Impariamo così che la luce portata dalla fede è legata al racconto concreto della vita, al ricordo grato dei benefici di Dio e al compiersi progres­sivo delle sue promesse. L’architettura gotica l’ha espresso molto bene: nelle grandi Cattedrali la luce arriva dal cielo attraverso le vetrate dove si raffigura la storia sacra. La luce di Dio ci viene attraverso il racconto della sua rivelazione, e così è capace di illuminare il nostro cammino nel tem­po, ricordando i benefici divini, mostrando come si compiono le sue promesse.


13. La storia di Israele ci mostra ancora la ten­tazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria. Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al pos­sesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno.

Martin Buber citava questa definizio­ne dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria « quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto ».10 Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli « hanno bocca e non parlano » (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro del­la realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani.

L’uomo, perso l’orientamento fondamen­tale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’i­dolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. L’idolatria non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto. Chi non vuole affidarsi a Dio deve ascoltare le voci dei tanti idoli che gli gridano: “Affidati a me!”.

La fede in quanto le­gata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vi­vente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capa­cità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi tra­sformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomet­tono gli idoli.

—————

10 M. Buber, Die Erzählungen der Chassidim, Zürich 1949, 793.


     

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