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Lo scandalo della debolezza

5 Agosto 2015 | Filed under: Insegnamenti
     

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Beato chi non si scandalizzerà di me)

Riceviamo e pubblichiamo

Un giorno disse: “…e beato chiunque non sarà scandalizzato di me!” (Lc. 7,23): le ultime parole di Gesù sul biglietto di presentazione, quello che i discepoli avrebbero recato a Giovanni il Battista. Li aveva mandati a Gesù con una domanda precisa: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”.

Non so se interpreto correttamente, ma mi sembra di capire che, agli occhi di Giovanni, il Rabbì di Nazaret aveva tutta l’aria di essere un Messia debole. Per il suo modo di vedere, troppo debole. Gesù manda a dire: “I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella”.

 Ci sono i segni. Ma subito aggiunge: “…e beato chiunque non sarà scandalizzato di me”. Come a dire: non lasciatevi prendere troppo dall’immagine di un Messia potente, perché poi rimarreste delusi, turbati, scandalizzati davanti a un Messia che non restituisce la vista a tutti i ciechi, che non fa camminare tutti gli zoppi di Palestina, che non risana ogni lebbroso… beato te, Giovanni, se non rimarrai scandalizzato di un Messia che non apre le porte del tuo carcere. Beati, con te, tutti quelli che non saranno scandalizzati di un Messia debole, svuotato di ogni potenza, che muore su una croce.

 Di un Dio debole ci si può scandalizzare. Di un Dio forte no. È ovvio, è secondo le aspettative di tutti che Dio sia forte, potente. Ma il Dio della Bibbia non è e non sarà mai un Dio ovvio: quando la domenica, nelle chiese, leggiamo pagine delle Scritture, la sensazione più frequente è quella di trovarci di fronte a immagini e messaggi tutt’altro che ovvi e spesso patiamo lo scandalo. Anche per la debolezza di Dio.

 Così come patiamo lo scandalo delle sua debolezza, quasi quotidianamente, nella vita, quando vediamo la menzogna e l’arroganza vincenti, il povero senza voce, una giovane vita stroncata, l’amica che vive il dramma di essere sieropositiva… e il miracolo? Il miracolo che non accade. “…e beato chiunque non sarà scandalizzato di me”.

 Non sarà -mi chiedo- da leggere come un segno d’amore questo indebolimento di Dio, quasi un ritrarsi per far spazio ad altri? Dovremo ancora a lungo dar credito ai giullari che hanno la spudoratezza di cantare come amore l’occupazione? Ti occupo per amore, ti invado per amore. Nonostante il persistere di simili giullarate ci è difficile crederlo. Ci è più facile credere in un Dio che si è “ritratto” per amore.

 Rimane comunque lo scandalo della debolezza di Dio. Oggi qualcuno va sussurrando che la debolezza di Dio è l’ultima trovata di un uomo debole, che si costruisce un Dio a sua immagine e somiglianza, un Dio debole a copertura e giustificazione delle proprie debolezze, un Dio dopotutto comodo.

 Posso sbagliarmi, ma mi sembra tutt’altro che accomodante l’immagine di un Dio che, per amore, si ritrae e dà spazio e dice: “fate questo in memoria di me”. Molto meno esigente, più accomodante l’immagine di un Dio che, spinto dalla sua onnipotenza, invade, occupa spazio e dice: “fate questo in memoria di me, occupate e invadete. Occupa, invadi il mistero, la vita, occupa e invadi l’altro, occupa e invadi la terra”.

 Mi affascina, ma insieme mi provoca l’immagine di un Dio che si intenerisce e si ferma davanti a un volto, davanti alla fragilità di un volto. E dunque non scandalizzarti della tua debolezza. E non scandalizzarti della debolezza altrui. Dio si è fatto debole forse anche per questo: perché nel cuore di ogni debolezza là dove un giorno saresti arrivato, tu trovassi il suo nome e il suo mistero.

 C’è nell’aria, purtroppo anche ai nostri giorni, un’immagine di potenza che uccide: o sei al massimo livello o sei pietra di scarto. Una società, anche la nostra, che avanza pretese sulla vita. E tu devi stare al passo. Alla pari con i sogni dei tuoi genitori o dei tuoi figli, con i sogni dei maestri e dei preti, con i sogni dei tuoi amici e colleghi. E non con quel sogno, a tua misura, debole misura, che Dio ha chiuso dentro di te.

 Dal modesto osservatorio di una vita come la mia ho visto purtroppo ragazzi andarsene e scomparire nel vuoto, perché la corsa era impari a pareggiare i sogni che gli altri avevano costruito su di loro, era impresa titanica, umanamente impossibile. Impossibile, o quasi, vivere in una società che non accetta, non accoglie e non ama la tua debolezza.

 Se non è la fuga -la fuga della vita- è o potrebbe essere la mascherata. Imperversa silenziosa la grande mascherata con cui tenacemente nascondiamo in faccia agli altri la nostra debolezza: non bisogna tradire -ne andrebbe della propria immagine- la benché minima debolezza. E così ci parliamo da maschera a maschera. Non da volto a volto. Il volto è fragile, è indifeso, è debole il volto.

 E se amassi il volto, la debolezza del volto? È il sentirci amati -amati nella nostra debolezza- che mette fine alla grande mascherata: proprio perché tu mi ami così come sono e non come dovrei essere, proprio perché mi ami con la mia debolezza, posso dirmi, così come sono, a te. Accettare l’altro nella sua debolezza è dunque preludio tenero al suo svelamento, a rapporti che non siano nella menzogna, ma nella verità.

 Mentre l’idea di onnipotenza fa strage dentro di noi e fuori di noi, il chinarsi sulle cose umilmente dà fiato alla speranza. “Non aspirate a cose troppo alte” -scrive l’apostolo Paolo ai Romani- “piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi” (Rom. 12,16). Abbiamo costruito, forse senza avvedercene, modelli prepotenti, spesso impraticabili e li abbiamo caricati incautamente sulle spalle della gente, fino a far sentire fallito chiunque non avesse resistito a portarli.

 Così i nostri modelli culturali e ecclesiali finiscono per essere spietati e ci fanno spietati. Non tengono conto della povera tenera misura altrui, giudicano dall’alto di una gelida verità. Se un figlio, un povero figlio, vola da una finestra, ci sentiamo in diritto, in forza del nostro modello di famiglia o di educazione, di giudicare genitori, famiglia e case. La prepotenza del modello ha la meglio sulla tenerezza del volto.

 Non per niente viviamo in una società che grida, che urla sulle piazze, che esibisce l’onnipotenza dei progetti. È un inseguirsi sconcertante di maschere. Del Messia è scritto: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta” (Is. 42, 2-3). La debolezza, la povera misura di ognuno di noi, la povera misura delle nostre giornate, ha bisogno di silenzi e di accoglienza. 

“Se vuoi correggere il tuo amico” -dice un proverbio africano- “prima cammina sette giorni con le sue scarpe”. La carità -ci ricordava il filosofo Gianni Vattimo in un incontro che ha lasciato lunga eco nei nostri cuori- è l’amore per l’altro “così com’è” e non “come dovrebbe essere”. Se amiamo gli altri non come sono, ma come dovrebbero essere, tocchiamo la maschera ma non il volto. Gesù toccava i volti.

don Angelo Casati

 sullasoglia.it


     

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