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L’Epifania raccontata dalla mistica Maria Valtorta

5 Gennaio 2014 | Filed under: Senza categoria
     

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Epifania 2

Dal Poema dell’Uomo Dio

di Maria Valtorta

 

Adorazione dei tre Magi

 Vedo Betlemme piccola e bianca, raccolta come una chioc­ciata sotto al lume delle stelle. Due2 vie principali la tagliano a croce, l’una venendo da oltre il paese, ed è la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l’altra andando da un’estremità all’altra dello stesso, ma non oltre. Altre viuzze lo segmentano, questo pic­colo paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che è a dislivellì ed alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro costruttore. Volte quali a destra e quali a manca, chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano questa ad essere come un nastro che si sgomitola sinuosamente e non un rettilineo che va da qua a là senza deviare. Ogni tanto una piaz­zetta: sia per un mercato, sia per una fontana, sia perché, co­struito qui e là senza regola, è rimasto uno scampolo di suolo sghimbescio su cui non è possibile costruire più nulla.

 Nel punto dove mi pare di sostare particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari. Dovrebbe essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta un trapezio tan­to strano da parere un triangolo acuto smusso nel vertice. Nel lato più lungo: la base del triangolo, vi è un fabbricato largo e,basso. Il più largo del paese. Di fuori è un muragliene liscio e nudo sul quale si aprono appena due portoni, ora ben serrati. Dentro invece, nel suo largo quadrato, si aprono molte finestre al primo piano; mentre sotto vi sono porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle vasche per abbeverare cavalli e altri animali. Alle rustiche colonne dei portici sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi è una vasta tettoia per ricoverare mandrie e cavalcature. Comprendo che è l’albergo di Betlemme.

Sugli altri due lati uguali sono case e casette, quali prece­dute e quali no da un poco d’orto, perché fra esse vi è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col retro della casa sulla piazza. Sull’altro lato più stretto, fronteggiante il caravanser­raglio, un’unica casetta dalla scaletta esterna che entra a metà fac­ciata nelle camere del piano abitato. Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie, data l’ora.

Vedo aumentare la luce notturna piovente dal cielo pieno di stelle,  così belle nel cielo orientale,  così vive e  grandi  che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento. .Alzo lo sguardo per com­prendere la fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E le altre paiono eclissarsi e farle largo come ancelle al passare della regina, tanto il suo splendore le soverchia e an­nulla.

Dal globo, che pare un enorme zaffiro pallido acceso inter­namente da un sole, parte una scia nella quale, al predominante colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei topazi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali,   i   sanguigni  bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste. Tutte le pietre pre­ziose della terra sono in quella scia che spazza il cielo con un moto veloce e ondulante come fosse viva. Ma il colore che pre­domina è quello piovente dal globo della stella: il paradisiaco co­lore di pallido zaffiro che scende a fare di argento azzurro le case, le vie, il suolo di Betlemme, culla del Salvatore.

Non è più la povera città, per noi meno di un paese rurale. E’ una fantastica città di fiabe in cui tutto è d’argento. E l’acqua delle fonti e delle vasche è di liquido diamante.

Con un più vivo raggiare di splendori la stella si ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della piazzetta. Né i suoi abitanti, né i betlemmiti la vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera  i suoi palpiti di luce e la sua coda vibra e ondeggia più forte   tracciando quasi dei semicerchi nel cielo, che si accende tutto per questa rete d’astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che splendono tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a comunicare loro una parola di gioia. La casetta è tutta bagnata da questo fuoco liquido di gemme.

Il tetto della breve terrazza, la scaletta di pietra scura, la pic­cola porta, tutto è come un blocco di puro argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna reggia della terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per ricevere il passo degli angeli, fatta per esser usata dalla Madre che è Madre di Dio. I suoi piccoli piedi di Vergine Immacolata possono posarsi su quel candido splendore, i suoi piccoli piedi destinati a posarsi sui gra­dini del trono di Dio.Ma la Vergine non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell’anima ha splendori che superano gli splendori di cui la stella decora le cose.

Dalla via maestra si avanza una cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e cammelli cavalcati o por­tanti il loro carico. Il suono degli zpccoli fa un rumore di acqua che frusci e schiaffeggi le pietre di un torrente. Giun­ti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto il rag­gio della stella, è fantastica di splendore. I finimenti delle ricchissime cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i ba­gagli, tutto splende unendo e ravvivando il suo splendore di me­tallo, di cuoio, di seta, di gemma, di pelame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano e ridono le bocche perché un altro splendore si è acceso nei cuori: quello di una gioia soprannaturale.

Mentre i servi si avviano verso il caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle rispettive cavalcature che un servo subito conduce altrove, e a piedi vanno verso la casa. E si prostrano, fronte a terra, a baciare la polvere. Sono tre potenti. Lo dicono le vesti ricchissime. Uno, di pelle molta scura sceso da un cammello, si avvolge tutto in uno sciamma di candida seta splendente, stretto alla fronte ed alla vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o una spada dal­l’elsa tempestata di gemme.

Gli altri, scesi da due splendidi cavalli, sono vestiti l’uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui predomina il color giallo, fatto quest’abito come un lun­go domino ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di filigrana d’oro tanto sono trapunti di ricami in oro. Il terzo ha una camicia setosa che sbuffa da larghe e lunghe brache strette al piede e si avvolge in uno scialle finissimo, che pare un giardino fiorito tanto sono vivi i fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante  trattenuto da una catenella tutta a castoni di diamanti.

Dopo avere venerato la casa dove è il Salvatore, si rialzano e vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno bussato e fatto aprire. E qui cessa la visione. Che riprende, tre ore dopo, con la scena dell’adorazione dei Magi a Gesù.

E’ giorno, ora. Un bel sole splende nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la scaletta della piccola casa. Entra. Esce. Torna all’albergo. Escono i tre Savi seguiti ognuno dal proprio servo. Traver­sano la piazza. I rari passanti si volgono a guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con solennità. Fra l’en­trata del servo e quella dei tre è passato un buon quarto d’ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di prepararsi a ri­cevere gli ospiti.

Questi sono ancor più riccamente vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un gran pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha il turbante.

I servi portano l’uno un cofano tutto intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il secondo un lavora-tissimo calice, coperto da un ancor più lavorato coperchio tutto d’oro; il terzo una specie di anfora larga e bassa, pure in oro, e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al vertice porta un brillante. Devono essere pesanti, perché i servi li portano con fatica, specie quello del cofano.

I tre montano la scala ed entrano. Entrano in una stanza che va dalla strada al dietro della casa. Si vede l’orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste sbirciano coloro che sono i proprietari : un uomo, una donna e tre o quattro fra giovinetti e bimbi.

Maria è seduta col Bambino in grembo ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si’inchina quando vede entrare i tre Magi. E’ tutta vestita di bianco. Così bella nella sua semplice veste candida che la copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce bionde, nel viso che l’emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che sorridono con dolcezza, nella bocca che s’apre al saluto : « Dio sia con voi », che i tre si arrestano un istante colpiti. Poi pro­cedono e le si prostrano ai piedi. E la pregano di sedere.

Essi no, non siedono, per quanto Ella li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui calcagni. Dietro a loro, pure in ginocchio, sono i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti a loro i tre oggetti che portavano, e at­tendono.

I  tre Savi contemplano il Bambino, che mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e robusto. Egli sta se­duto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta con una vocina di uccellino. E’ vestito tutto di bianco come la Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto semplice :  una tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e sopratutto la bellissima faccina nella quale splendono gli occhi azzurro cupi, e la bocca fa le fos­sette ai lati ridendo e scoprendo i primi dentini minuti. I riccio­lini sembrano una polvere d’oro tanto sono splendenti e vaporosi.

II  più vecchio dei Savi parla per tutti. Spiega a Maria   che essi hanno visto, una notte del passato dicembre, accendersi una nuova stella nel ciclo, di inusitato splendore. Mai le carte   del cielo avevano portato quell’astro e parlato di esso. Il suo nome non era conosciuto, perché essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, essa era fiorita per dire agli uomini una verità be­nedetta, un segreto di Dio. Ma gli uomini non le avevano fatto caso, perché avevano l’anima confitta nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere le parole che Egli traccia, ne  sia  in  eterno  benedetto, con  astri  di  fuoco  sulla volta dei cieli.

Essi l’avevano vista e si erano sforzati a capirne la voce. Per­dendo contenti il poco sonno che concedevano alle loro membra, dimenticando il cibo, s’erano sprofondati nello studio dello zo­diaco. E le congiunzioni degli astri, il tempo, la stagione, il cal­colo delle ore passate e delle combinazioni astronomiche avevano a loro detto il nome e il segreto della stella. Il suo nome : « Mes­sia ». Il suo segreto :  « Essere il Messia venuto al mondo ». E si erano partiti per adorarlo.   Ognuno   all’insaputa dell’altro.   Per monti e deserti, per valli e fiumi, viaggiando la notte erano ve­nuti verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per ognuno, da tre punti diversi della terra *, andava in tal senso. E si erano trovati poi oltre il Mar Morto. Il volere di Dio li aveva riuniti là, ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno parlasse la sua lingua, e intendendo e potendo parlare la lingua del Paese per un miracolo dell’Eterno.

E insieme erano andati a Gerusalemme, perché il Messia do­veva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed essi avevano sentito fran­gersi di dolore il loro cuore e si erano esaminati per sapere se avevano demeritato di Dio. Ma avendoli rassicurati la coscienza, sì erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il nato Re dei giudei che essi erano venuti ad adorare. E il re, convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove poteva nascere il Messia. Ed essi avevano risposto : « A Betlemme di Giuda. »

Ed essi erano venuti verso Betlemme e la stella era riap­parsa ai loro occhi,5 lasciata la Città Santa, e la sera avanti aveva aumentato gli splendori; il cielo era tutto un incendio, e poi si era fermata, adunando tutta la luce delle altre stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso esser lì il Nato Divino. Ed ora lo adoravano, offrendo i loro poveri6 doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe cessato di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo Nato di cui vedevano la santa Umanità. Dopo sarebbero tornati a riferire al re Erode perché egli desiderava adorarlo esso pure.

 

«Ecco intanto l’oro come a re si conviene possedere, ecco l’incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio e della carne e della vita umana conoscerà l’amarezza e la legge inevitabile del morire. Il nostro amore vorrebbe non dirle, queste parole, e pensarlo eterno anche con la carne come eterno è lo Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime, non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e perciò dovrà, per salvare la terra, levare su Sé il male della terra, di cui uno dei castighi è la morte.

 

Questa resina è per quell’ora. Perché le carni che son sante non conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla loro risurrezione. E per questo nostro dono Egli di noi si ricordi, e salvi i suoi servi dando loro il suo Regno. » Per intanto, per esserne santificati, Ella, la Madre, dia il suo Par­golo « al nostro amore. Che baciando i suoi piedi scenda in noi benedizione celeste. »

 

Maria, che ha superato lo sgomento suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della funebre evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle braccia del più vec­chio, che lo bacia e ne è accarezzato, e poi lo passa agli altri due. Gesù sorride e scherza colle catenelle e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un arcobaleno battendo sul brillante del coperchio della mirra.

Poi i tre rendono a Maria il Bambino e si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il più giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da quella casa. Lacrime di emo­zione sono negli occhi. Infine si dirigono all’uscita, accompagnati da Maria e Giuseppe.

 

Il Bambino ha voluto scendere e dare la manina al più vec­chio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il passetto ancora incerto dell’infante e ride picchiando i piedini sulla stri­scia che il sole fa sul pavimento.

 

Giunti alla   soglia  – non si deve dimenticare   che la stanza era lunga quanto la casa – i tre si accomiatano inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di Gesù. Maria, curva sul Piccino, gli prende la manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di ogni singolo Mago. E’ già un segno di crocetracciato dalle ditine di Gesù, guidate da Maria.

 

Poi i tre scendono la scala. La carovana è già lì pronta che at­tende. Le borchie dei cavalli splendono al sole del tramonto. La gente si è affollata sulla piazzetta a vedere l’insolito spettacolo.

 

Gesù ride battendo le manine. La Mamma lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché non caschi. Giuseppe è sceso con i tre e regge ad ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello.

 

Ora servi e padroni sono tutti a cavallo. L’ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul collo della cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina. Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un gesto di addio e di benedizione.


     

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