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La pazienza del seminatore

7 Luglio 2017 | Filed under: Senza categoria
     

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C’è modo e modo di seminare

 «Due parole per dirvi dove siete capitati. Questo non è un “gruppo”, concetto che ha già in sé un’idea di chiusura; ci piace piuttosto definirlo uno “spazio” per lo scambio di esperienze, un luogo aperto, senza barriere, dove le persone possono entrare ed uscire a piacimento, dove possono venire una volta e non tornare mai più o piuttosto decidere di fermarsi e tornare ogni volta; in questo senso vige la norma dell’assoluta libertà… ma non è che qui non ci siano regole, anzi! Ne condividiamo alcune molto precise che ci aiutano ad agevolare la comunicazione fra noi…».

Mentre Maura ripassa le regole del nostro scambio a beneficio di tutti, muovo lo sguardo sui volti intorno a me. Mi colpisce Nicola che porta con disinvoltura gli occhiali da sole a specchio. La stanza in realtà non è affatto luminosa e la curiosità di sapere cosa si nasconda dietro quelle lenti mi distrae per un attimo. Poi sento Maura e mi concentro su di lei.

«Oggi ascolteremo un’altra storia del vangelo… Chi di voi un po’ ne sa di vita contadina?». Nel silenzio che segue, noto un guizzo di luce sugli occhiali di Nicola. Ha cambiato posizione. Si è raddrizzato sulla sedia e ascolta attento, il corpo protratto in avanti. «Questa è la storia di un contadino di tanti, tanti anni fa», prosegue Maura, «quando le macchine automatizzate non c’erano e tutto il lavoro nei campi era fatto di gesti semplici e tradizionali. La scena è questa, vi faccio vedere…».

Si alza veloce e continua a parlare: «Ecco: c’è questo contadino che sta seminando e fa esattamente così: prende manciate di seme dalla sacca stracolma che porta a tracolla e, camminando, sparge il seme ovunque, compiendo un gesto perfetto, ampio, regolare, elegante… in questo modo…». Maura si sposta, tagliando di traverso con lunghi passi decisi, il cerchio delle sedie. La sua mano compie larghi movimenti. Il pugno si apre e una pioggia abbondante di invisibili, piccoli chicchi si sparge tutt’intorno, cadendoci addosso.

Poi torna indietro e ripete la semina nell’altra direzione. Resto incantata dalla potenza evocativa del gesto. Seduta fra noi di nuovo prosegue il racconto: «La storia va avanti e spiega che una parte di semi finisce sulla terra dura e battuta della strada, una parte finisce fra i sassi e i rovi al margine del campo e soltanto una parte cade sul terreno arato del campo. Il seme sulla strada non attecchisce e finisce per essere mangiato dagli uccelli e dagli animali.

Quello fra le spine ed i sassi trova modo di attecchire, ma cresce a stento e con fatica, soffocato da erbacce e pietre. Alla fine matura male e marcisce presto… soltanto il seme sul terreno buono si sviluppa bene e porta il suo frutto… Allora mi e vi chiedo: ma che modo di lavorare è mai questo? Questo contadino è capace o no? Un bravo contadino, farebbe così o piuttosto butterebbe il seme solo nei solchi, per essere certo dei risultati?».

Fuori di metafora

 Leone interviene subito: «Be’, ma è come la Parola che viene diffusa anche negli ambienti dove potrebbe non crescere affatto. Comunque nel terreno sassoso il risultato è certamente molto più importante; dove il terreno è più accidentato anche una sola spiga è di grandissima importanza, no?». «E in fondo», aggiunge un anonimo amico del tè «dove c’è fallimento per la semina e per il contadino, il racconto dice che c’è un nutrimento per altri: insetti o uccellini; quello che rimane in terra porta frutto in ogni caso: non c’è nulla di sprecato, tutto torna semplicemente alla natura e si trasforma in altro. Io questa storia non la conosco, ma mi sembra molto positiva».

Qualcosa però non va. Come un banco di nebbia fitta, cala il silenzio sul cerchio dei presenti. Le parole si sono perdute e la discussione stenta a partire. Guardo Maura. È concentratissima. Cerca la domanda giusta per far circolare più liberamente le voci. Poi spalanca gli occhi e chiede: «Sentite, ma se ognuno di noi dovesse pensare al proprio terreno, che terreno sarebbe?». L’interrogativo annaffia la semina appena compiuta. Nel mistero delle profondità di ognuno, percepisco piccole radici prendere forma. La nebbia si alza e le parole ritrovano la strada per raccontarsi.

«Io mi sento il terreno con i sassi, perché la mia vita è stata dura da sempre», dice Rosaria. «Finiva un problema e ne cominciava un altro. Non sono mai stata un terreno curato, ordinato. Però non saprei dire che significa questa storia». «Io sono un terreno fertile, ma selettivo», si espone Gabriele. «Non tutto in me potrebbe attecchire. Comunque mi chiedo che senso abbia far crescere una pianta che è destinata a seccarsi…».

 «Io mi sono sempre sentito un terreno fertile», ribatte Fabrizio, «ma poi sono cominciate a crescere le spine: niente sbocchi per il lavoro ed una grande solitudine. Ora è come se fosse cresciuta intorno a me una staccionata di rovi, impossibile passare oltre». «Io per fortuna, riesco a sentirmi sempre fertile. La fede amalgama il mio terreno e mi aiuta tanto», dice con un sospiro Nunziato.

Azzurro profondo

 Una voce si alza alla mia destra. Mi volto e vedo Nicola. Gli occhiali a specchio appoggiati alla fronte rivelano, nella cornice del volto segnato, i suoi occhi. Sono di un turchese puro ed intensissimo, come non ho mai visto. Tutto quell’azzurro, chissà perché, mi turba. Poi lo ascolto e comprendo: «Io mi sento un terreno indurito dalle sofferenze, anche se capisco che tutto nella mia vita deve avere un senso. Mi sono indurito perché ero troppo aperto, prima. Gli altri ne hanno approfittato, per questo poi mi sono chiuso.

 Sono cresciuto in orfanotrofio, eppure ero un bimbo contento; invece mi prendevano in giro per questo. Ho vissuto cose brutte e non riesco nemmeno più a ricordarle: mi dovevo proteggere e le ho cancellate… Lo psicologo mi ha spiegato che mi sono come “seccato”, che mi sono inaridito proprio per questo…». Guardo le sue lenti a specchio. Mi viene da pensare che gli occhi sono sul serio la porta del cuore: dovremmo davvero riflettere su noi stessi, prima di “sfondare” gli sguardi altrui. «Riguardo alla storia, penso che questo contadino stia sbagliando! Di campagna ne so! Posso assicurarvi che prima di seminare, si prepara il terreno!».

Un’altra voce affaticata fa eco a Nicola, è Tomislaw: «Il mio è terreno cementato, dove non cresce più nulla. Io però continuo a seminare ugualmente, con la speranza che qualcosa, prima o poi, riesca a nascere. Magari ci vorrà un miracolo. Ma penso che sia meglio sprecare un po’ di seme, piuttosto che non seminare per niente! Perché in realtà ogni pezzo di terra è vita e merita di essere seminata comunque». «Ma allora il seme cos’è, secondo voi?», chiede Maura. Dal cerchio esplode una primavera di piccoli germogli… «Il seme è il senso della vita». «Il futuro nutrimento del contadino».

 «È la speranza». «Il lavoro». «La rinascita». «Il cambiamento». «Un domani più roseo …». «D’accordo allora, ma se il seme è tutto questo: perché seminare anche nei terreni più induriti?». Rosaria prende la parola: «Certo, Nicola ha ragione. Il contadino dovrebbe togliere spine e sassi, ma in realtà ognuno di noi dovrebbe lavorare per primo la sua terra. La prima contadina di me sono io! Ad esempio, io non dico “Dio fammi questo!” o “Dio dammi quello!”. Io dico “Signore, illuminami” oppure “Signore, aprimi la strada che così poi ci cammino”.

 Nella mia vita – c’ho le prove! – Dio esiste, perché quando l’ho invocato così, Lui ha fatto e mi ha anche detto: “Visto? Ho fatto come mi hai chiesto!”. E poi è vero che vale sempre la pena di seminare, perché le cose cambiano, tutto può cambiare, quindi bisogna aver la forza di aspettare. A me è successo: ad un certo punto della mia vita mi son guardata indietro e ho detto: ma come sono stata fortunata a non voler morire anni fa! Perché c’ho pensato sul serio di uccidermi, sapete? Ma guarda che fortuna ho avuto a non averlo fatto! Perché dopo tutto è cambiato e ora vivo serena…».

«Secondo me, siamo tutti contadini gli uni per gli altri», interviene Nunziato, «anzi, a volte il dolore che magari un altro ti provoca, diventa come il solco del contadino che ara la tua terra e poi qualcun altro ancora passa e butta il seme. Va a finire che la pianta buona cresce esattamente lì… Dunque in sostanza siamo tutti contadini e tutti terreni sui quali vale sempre la pena di seminare… Pensate: io a casa ho un muretto e, tra le fessure di quel muro, hanno il coraggio di crescerci le piantine…». «Ah! Ma certo!», esclama Gabriele con tono esperto, «quelle si chiamano “piante pioniere”! Me l’hanno insegnato al corso per giardinieri!».

 Improvvisamente vedo i nostri amici per ciò che sono: soggetti coraggiosi come gli antichi pionieri. Gente che della propria vita ha avuto la forza di esplorare anche i luoghi più impervi e sconosciuti, i più bui e i più deserti. Uomini e donne che hanno l’ardore di continuare a crescere e a fiorire, nonostante tutto. Fra i saluti, colgo quello di Nicola: «Adesso devo proprio andare, ma mi è piaciuto… tornerò…». Il pomeriggio del tè non è mai stato così incredibilmente azzurro.

 

Caritas diocesana di Bologna


     

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