La famiglia ferita: separati e divorziati
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Quale processo di guarigione? Le persone provate da questo genere di sofferenza possono innescare un processo, per passare da una condizione di smarrimento a uno stato di positivo riorientamento della propria vita. Tale cambiamento non può che essere l’esito di un attraversamento doloroso di tappe ineliminabili, ma soprattutto, per chi crede, è il frutto di una sinergia tra la persona umana e lo Spirito di Dio, ricreatore, Dominum et vivifìcantem.
Dopo una crisi devastante, la capacità di di-scernere e di ri-disegna-re la propria vita, con nuove coordinate, è frutto della libertà dell’uomo, illuminata, corroborata e sospinta dall’azione della grazia. L’affermazione trova riscontro nell’esperienza: dinanzi a un certo “evento doloroso”, due persone possono reagire in maniera differente, addirittura opposta e raggiungere due esiti di vita completamente diversi. E ciò dipende in gran parte dal coraggio e dalla sincerità con cui si affronta la realtà, dall’orizzonte motivazionale e/o di fede, dal senso critico che fa riconoscere gli errori e le fragilità proprie e dell’altro, ma anche dalla capacità di chiedere e ricevere aiuto.
Vivere il cambiamento come sfida, considerare l’ostacolo come superabile, coltivare la fiducia nella vita, rafforzare relazioni positive, fare appello alla creatività e alla propria capacità di re-inventare l’esistenza, costituiscono i presupposti per non farsi atterrare dal dolore e per risalire la china, trovando nuove ragioni di vita, attingendo la forza nella fede in Dio, in sé stessi, negli altri. Da ogni evento, anche il più doloroso, è possibile trarre occasioni di crescita per acquisire sempre più quella sapienza, che è la capacità di attraversare l’esistenza e leggere gli eventi, attribuendo a ogni cosa il senso relativo rispetto all’Assoluto. È così che emerge il disegno di Dio, pur in mezzo alle disavventure, un mosaico fatto di tasselli variegati.
I possibili esiti positivi sono sì frutto delle risorse di ciascuno, ma anche dello spazio che i soggetti lasciano al Signore perché possa, con la sua presenza efficace, potenziare il dinamismo antropologico. Vale l’espressione attribuita a sant’Ignazio: «Fate come se tutto dipendesse da voi e, allo stesso tempo, fate come se tutto dipendesse da Dio». Dunque né protagonismo solo umano, né quietismo passivo: sinergia è il termine esatto. La speranza cristiana non è attesa vaga di qualche cosa; è, piuttosto, credere con tutti sé stessi in qualcuno: «In te, Signore, noi speriamo» (Sai 33,22); è abbandonarsi a Cristo senza riserve con la certezza che «chiunque spera in lui non resta deluso» (Sal 25,3).
La fede cristiana non è l’esaltazione della forza e della sicurezza, ma una sorta di apologie della debolezza che trova nel Servo sofferen-te, nel Crocifisso-Risorto, le ragioni della speranza, visto che«egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza!» (Eb 5,2). Per questo Paolo dichiara: «Di lui mi vanterò. Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze» (2Cor 12,5). L’Apostolo ha piena consapevolezza della fragilità radicale dell’uomo, come anche della potenza straordinaria dellagrazia: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Egli giunge a esclamare, in modo paradossale: Coppia in crisi: le separazioni e i divorzi lasciano sempre ferite aperte.
«Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. […] Quando sono debole, è allora che sono forte!» (2Cor 12,9-10).
Riconoscere la condizione di fragilità dinanzi a eventi drammatici non deve condurre a vivere “da morti”, a piombare in uno stato depressivo o, viceversa, a tuffarsi nell’attivismo più sfrenato e/o nel divertimento smodato. Ogni avvenimento negativo porta in sé una valenza misteriosa di fecondità, che si evidenzia col trascorrere del tempo: si possono acquisire criteri di lettura diversi per leggere lo stesso evento e scoprirvi degli aspetti inediti. La preghiera di essere liberati
dalla sofferenza è quella che per prima fiorisce sulle labbra di chi è nella prova, è legittima ma non è l’unica, né la più perfetta. Gesù insegna qual è la via più conducente alla comunione col Padre: «Padre, se è possibile allontana da me questo calice» (cf Me 14,36; Gv 18,11), «però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39).
Lo spezzarsi di un rapporto di coppia implica una seria elaborazione di un dolore, che la maggior parte degli psicologi definiscono un lutto vero e proprio, che implica l’elaborazione della perdita della persona amata. Pertanto l’aiuto necessario per attraversare tale tunnel doloroso non può essere attinto solo alla dimensione di fede (preghiera personale, accompagnamento spirituale, partecipazione alla vita sacramentale ed ecclesiale). C’è anche l’esigenza di un sostegno psicologico; le scienze umane possono offrire un contributo enorme alla ripresa dei soggetti: i due generi di aiuto sono compatibili perché complementari. Le 5 fasi da attraversare, come nel lutto, sono: 1. il rifiuto; 2. la rivolta; 3. il patteggiamento; 4. la depressione; 5. l’accettazione (cosa diversa dalla rassegnazione).
Più consapevolmente si attraversano queste tappe, più sarà effettiva la ripresa e l’apertura a nuove possibilità di realizzazione sia interiori, ma anche relazionali e lavorative. Accade sovente che l’esperienza della prova, nel labirinto dei perché, costituisca un vero e proprio appuntamento con Dio. Può succedere sia che alcuni molto credenti si allontanino, sia che altri, lontani, non praticanti, si avvicinino. La comunità cristiana deve mostrarsi attenta e aperta dinanzi agli uni e agli altri, pronta a lasciarsi coinvolgere nella preghiera, nella prossimità non giudicante, compassionevole e concreta. Da questa vicinanza molte volte dipende la “piega” che assumono le esistenze provate da crisi di coppia: la Chiesa ha una sua precisa e grave responsabilità in tali situazioni. (Continua)
Ina Siviglia
(Vita pastorale)
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