Isernia – Meeting internaz. di Bioetica della biosfera.
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AmbientMente/4.
Meeting internazionale di Bioetica della biosfera.
promosso dall’Istituto Italiano di Bioetica-sez. Campania, in collaborazione con il CIRB-Napoli, FNOMCeO, Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri, UEMS
Isernia, Biblioteca Comunale
Venerdì 19 giugno 2015, ore 16-19
Sabato 20 giugno 2015, ore 9-13 e 16-18
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Quale bellezza salverà il cosmo?
Profili estetici
della Bioetica ambientale
Manifesto per la discussione
(a cura di Pasquale Giustiniani)
Nel famoso romanzo di Fëdor Mihajlovič Dostoevskij, Ippolit – un ateo diciottenne roso dalla tisi -, all’interno di un salotto in cui sta parlando di donne, domanda al principe-idiota Myskin: “È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la ‘bellezza’?” (L’idiota, Garzanti, Milano 1978, 378). E subito dopo, passando dal tono interrogativo a quello assertivo, trova la giustificazione di questi giocosi pensieri nel fatto che il principe è innamorato. Raccomandando al principe di non arrossire di questo suo innamoramento, Ippolit ritorna, subito dopo, al punto di domanda: quale bellezza salverà il mondo? Un idiota non è in grado di rispondere alla domanda. Ma neppure lo è il lettore, posto di fronte a una sorta d’indovinello, rimasto a mezz’aria, la cui soluzione sarebbe troppo facile se ascritta – come pure interpretano alcuni – al fatto che in quel salotto c’erano delle donne, oppure a un’irruzione del divino nel tempo, o anche a un gesto performativo di amore interspecifico. Anselm Grun (Bellezza: una nuova spiritualità della gioia di vivere, Vier Turne Verlag 2014), scioglie a suo modo quell’enigma, ricordando che il grande romanziere russo andava, almeno una volta l’anno, a vedere l’icona della Madonna di Raffaello, quasi alla ricerca di un accadere – una sorta d’irruzione dell’eterna bellezza nel tempo -, mediante l’aprirsi del velo dell’icona, raffigurante la Donna bella e vestita di sole. Su questa linea, anche il cardinale Martini, in una sua Lettera pastorale alla Diocesi di Milano (C.M. Martini, Quale bellezza salverà il mondo?, Introduzione di Marco Vergottini e un testo di Michele Ainis, RCS Mediagroup, Milano 2013), suggeriva di affidarsi, perciò, alla bellezza che salva, stabilendo un’analogia tra il silenzio del protagonista de L’idiota e quello di Gesù di fronte alla domanda di Pilato circa il “Che cos’ è la verità” (cf Gv 18,38). Il silenzio di fronte alla domanda sulla verità è simile a quello di chi ascolta la domanda sulla bellezza. Un silenzio non paralizzante, ma performativo, in quanto pone chi dovrebbe rispondere (ognuno di noi) nella condizione di chi è chiamato a passare dal pulchrum al divinum ed al religiosum, dal quotidiano e dal culturale ordinario al possibile accadere della salute e, forse, della salvezza. Quel silenzio getta, insomma, un ponte tra reale e simbolico, con la necessità della polivalenza, ovvero dell’attraversamento di più funzioni, più valori, più acquisizioni, a loro volta qualificate dai chiaroscuri delle valenze positive e negative degli esseri che abitano il cosmo e della stessa acqua. Il tra dice sempre attraversamento, sta tra due campate, è come il gancio tra due mondi, permette doppia cittadinanza sulla terra e nel cielo. Il tra che correla dimensioni, nel nostro caso storico-culturale, giuridico-politico, filosofico-biologico…, in sintesi un tra bio-etico, che collega vie parallele, chiamati a incontrarsi, almeno prospetticamente.
- In tal modo, l’interrogativo sulla bellezza diviene, in qualche modo, contiguo a quello sulla verità e sul bene, chiamando in causa quei saperi “molli” che sono la filosofia, la teologia, la scienza dell’educazione e, in generale, i saperi umanistici (significativamente presenti nella seconda parte del neologismo bio-ethics). A loro volta, i saperi “duri” (quelli che hanno a che fare con la progettazione, il calcolo, la misurazione dei fenomeni biologici e tecnologici, come ricorda il termine bios) ribadiscono che ogni riflessione sul vero, sul bene e sul bello, avendo, come suo correlato, un organo della percezione (ad esempio, un cervello), non potrà che comportare una disamina di tipo fisiologico, percettivo, biochimico, ormonale… dell’organo neuro-percettivo, e inoltre non può non presupporre che questi fenomeni – solitamente chiamati fruizione e sentimento del bello – siano da considerare come degli “epifenomeni” percettivi di qualche cosa di più profondo. Ragionando nei termini tipici di un Meeting di bioetica della biosfera – qual è quello di AmbientaMente – se ne può dedurre che se certamente non possiamo vivere senza pane e senz’acqua, senz’aria e senz’energia (con il rischio, in poche decadi, di una estinzione di Sapiens sapiens), bisognerà anche riconoscere che non potremmo esistere senza bellezza, ovvero senza la trasformazione e riqualificazione, noetica e simbolica, di tutti questi “elementi” di ciò che chiamiamo ancora, evocando ordine e armonia, cosmo.
- Già. Ma che cos’è esattamente la bellezza, come hanno domandato e vanno domandando i teorici del giudizio estetico? E che cosa può comportare tutto questo sul piano delle scienze umane e delle scienze sperimentali? Il bello è qualcosa più che l’estetico. Possiede, forse, una dimensione etica, simbolica, religiosa, anzi è un modo di stare al mondo, fruendo del cosmo e dei suoi beni? Quando osserviamo un volto, un’opera d’arte, o un’immagine della natura, o quando siamo fruitori dell’ambiente nel suo complesso o in una sua parte… in che senso diciamo di essere di fronte a qualcosa di bello? Siamo di fronte o dentro, e con quale componente psico-somatica vi siamo prevalentemente? Se giudichiamo, come spesso ci accade, una cosa del mondo bella e attraente, esattamente cos’è che stiamo guardando o valutando come piacevole o sgradevole, buona o cattiva, salutifera o patologica? Sembrano apparentemente, queste, delle domande soltanto filosofiche, ma, grazie alla prospettiva bioetica, possono diventare domande di etica della biosfera, soltanto che si valutino, come invitano a fare oggi le ecofemministe, altri profili contigui e non sempre immediatamente evidenti.
- Proprio questo invita a fare il Meeting del 2015, mettendo a tema i “profili estetici della bioetica ambientale”. Tali profili richiedono non soltanto argomenti razionali, ma anche, forse maggiormente, intuizione, emozione, sfere inconsce, coscienze liminali, aperture al simbolico e al segnico. Non sempre la letteratura bioetica e ambientale si è aperta a queste prospettive. Anzi, come ha scritto Marti Kheel, “Quello che sembra mancare nella maggior parte della letteratura sull’etica ambientale (e sull’etica in generale) è l’aperto riconoscimento che non potremmo neanche iniziare a discutere della questione etica se non ammettessimo che c’è un qualcosa che ci sta a cuore, che ci fa provare emozioni” (Marti Kheel, La liberazione della natura. Una questione circolare, in Donne, ambiente e animali non-umani. Riflessioni bioetiche al femminile, a cura di Carla Fralli-Matteo Andreozzi-Adele Tiengo, Edizioni Universitarie di Lettere Economia e Diritto, Milano 2014, 165-183, qui 177).
- Le “ragioni del cuore” e le “le emozioni”, le “intuizioni” e le percezioni estetiche, i sogni e la realtà fantasticata possono/debbono associarsi alle “buone ragioni coerenti e argomentate”, nel tracciare sentieri in questa direzione. L’intuizione e l’emozione, infatti, se armonicamente associate alle argomentazioni razionali, potrebbero consentire di utilizzare l’occhio amoroso, come lo chiamano M. Frye e Karen J. Warren: un occhio che non è invasivo (come a lungo è avvenuto nel saccheggio e nella depredazione dei beni ambientali); non è coercitivo (come spesso è accaduto nella gestione degli animali non umani e dei sistemi biotici vegetativi). Un occhio che, insomma, non annette l’altro da sé (sia in senso antropico che animalista e vegetale), ma sa muoversi antropicamente nella complessità, generando, ad esempio, ora un’etica della cura, ora un’etica della partnership. Quest’ultima, in particolare “afferma che il bene più grande per le comunità di esseri umani e non-umani consiste in una vitale e reciproca interdipendenza” (Carolyn Merchant, Un’etica della partnership, in Donne, ambiente e animali non-umani, cit., 87-110, qui 87).
- La constatazione dell’interdipendenza riguarda non soltanto i bio-sistemi nel sistema generale, ma anche le discipline che di ciò s’interessano. Esse – dalla filosofia al diritto, dalla teologia all’etica, dall’architettura alla biologia, dalla medicina alla simbolica del sacro… – si accorgono di concorrere ad un’unica costruzione in cui, dal primo all’ultimo piano dell’edificio cosmico, vi è un richiamarsi reciproco, che rinvia come a un “fondamento”, ovvero a una struttura di base che accompagna la fruizione da ogni punto di vista e che rende “piacevole” o “sgradevole” la singola percezione o lo stesso stare al mondo. È per questa via che si riesce a guardare più all’appartenenza degli uomini alla terra, anziché dell’appartenenza della terra agli uomini. È per la medesima via, per esempio in campo giuridico, che un bene “naturale” può diventare più rilevante di un interesse da tutelare. La terra diviene, in tal modo, il luogo dove si definiscono i confini, dove accade un lavoro che la rende feconda, dove viene alla luce un’energia che illumina gli stessi scambi che avvengono nella biosfera (soprattutto gli scambi mediati dall’evoluzione industriale e dalle tecnologie).
- Ma tutto questo per esser lasciato essere, o anche lasciato accadere, chiede come una “ribellione della natura”. Se Max Horkheimer, già nel 1947, auspicava appunto la “ribellione” della natura (allora sinonimo di ambiente e biosfera), era allo scopo di farle ri-acquisire lingua e voce e render note le proprie “sofferenze” (M. Horkheimer, The Eclipse of Reason, Oxford University Press, New York 1947; traduzione di Elena Veccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969). Per lasciar realizzare questo scopo, oggi non sembrano più sufficienti l’arte, la letteratura, la filosofia, la bioetica… Per cercare di lasciar esprimere il significato profondo delle cose e del bios, bisogna probabilmente ri-apprendere l’ascolto. Come ascoltare, anche per via percettivo-estetica e fruitiva, il fruscio delle foglie, la crescita di un pioppo, il grido di un deserto senz’acqua, il lamento di un animale destinato alla sperimentazione, il grido muto di un bambino immigrato morto su un barcone al largo del Mediterraneo? Una nuova relazione tra i micro-sistemi nel bio-sistema sembra davvero necessaria per il futuro benessere delle persone e del mondo nel quale gli esseri umani vivono, come vanno suggerendo le nuove scienze dell’ecologia, della teoria del caos e delle complessità, della natura come “attrice”.
- Ne risultano coinvolti non soltanto i teorici dell’ecologia e della bioetica ambientale, ma gli stessi micro-sistemi antropici e animali; e, forse, perfino le zone soggette a marea, le dune di sabbia, i sistemi idrogeologici, le cinture di verde intorno alle città, i parchi cittadini…. Un coro di cose inerti e viventi a vario grado, che canta della “importanza del sole, della luna e delle stelle…, delle nuvole, della pioggia e dei fiumi, degli oceani e delle foreste, delle creature e dell’erba vegetale” (Ian L. McHarg, Design with Nature, John Wiley & sons, New York 1969). Ci sembra che tutto questo chiami coralmente in causa speculativi e pratici, ingegneri e architetti, biologi e ingegneri, filosofi e giuristi, eticisti ed economisti, ma anche poeti e cultori delle arti belle. Ma, insieme, chiama in causa quella che Cheryll Burgess denomina “critica letteraria ecologica”, la quale non può non allargare l’attenzione estetica dal testo letterario alla comunità culturale, e, ancora più ampiamente, al potere ideologico e al potere politico, al potere normativo e al potere di governamentalità pastorale (cf S. Iovino,Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Prefazione di Cheryll Glotfelty, con un testo di Scott Slovic, Ambiente, Milano 2006).
- In ogni caso, il progressivo de-centramento dell’essere umano rispetto alla “natura” – ormai in atto – non dovrà comportare anche la modificazione delle tradizionali nozioni di bellezza, di fruizione piacevole del mondo, di giudizio estetico? Ecco perché ci si domanda perché mai l’estetica dovrebbe occuparsi principalmente, se non esclusivamente, dell’arte. E di conseguenza, si spinge l’attenzione, dall’arte, e dal “discorso” che se ne fa, verso la percezione, domandandosi se debba prevalere, dal punto di vista antropico, l’uti o il frui. Quali sono i criteri – sostenibili ed eco-compatibili – per spostare la discussione dal bello al più generale coinvolgimento corporeo ed emozionale dell’essere umano nel proprio micro-ambiente e nella biosfera? Lavorando su questa, e simili domande, si elabora la possibilità di una “estetica ecologica”, in grado di comprendere (anche criticamente) il processo di estetizzazione diffusa che, secondo qualche interprete, conferisce alla nostra società postmoderna il carattere di una “messa in scena” (cf Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, traduzione e cura di Tonino Griffero, Marinotti, Milano 2010). Non a caso la percettologia, che ne consegue, s’interessa ai modi in cui la realtà (anche il mondo vegetale e non umano) ci appare e influenza i nostri stati d’animo (atmosfere), a cui corrisponde un “lavoro estetico” (che coinvolge non soltanto i teorici e gli speculativi, ma anche gli esperti di agricoltura e di allevamento, i city designer e i progettisiti di città e insediamenti abitativi), in quanto ogni agire tecnico e scientifico diviene un modo con cui si possono generare professionalmente tali atmosfere (con non pochi riverberi sui processi, spesso occulti, di manipolazione politica, mediatica, pubblicitaria… della sensibilità umana).
- Il mondo reale sembra ormai altrettanto vero quanto i mondi dell’arte; e non è semplicemente una “favola” – come pure hanno sostenute alcune estetiche moderne, che hanno ridotto il mondo a un’interpretazione di esso –. Se tutto il percepire viene ridotto a un circolo infinito d’interpretazioni, infatti, verrebbe a cadere il presupposto percettivo della fruizione del bello: ognuno potrebbe agire a modo proprio, pensare ciò che vuole e proiettarlo nel mondo esterno, perché la realtà non sarebbe costituita da fatti, ma solo da interpretazioni. Ma se tutto fosse “interpretazione” perché, allora, quando ci si sente male e non si sta in benessere, si continua ad andare dal medico e dallo psicoterapeuta e non dal filosofo dell’arte? In medicina, la specializzazione della “semiotica medica” insegna ancora a riconoscere i sintomi di una malattia, semplicemente osservando il paziente: questo suppone che non tutto è fruizione soggettiva, ma esiste un dato “oggettivo” che coinvolge l’apprensione dei sensi, differente dal giudizio, in parte soggettivo, dell’intelletto di fronte al vero, al bene e al bello. Certo, sul piano antropico, ci si può continuare a chiedere se le differenze psico-percettive tra soggetti percipienti hanno un fondamento “naturale” (peraltro influenzato da ormoni e processi biochimici), oppure sono il frutto di una modificazione profonda esercitata dai condizionamenti ambientali, educativi e culturali. Sul piano scientifico e medico, questo significa adoperarsi per l’integrazione delle politiche di salute con quelle di sostenibilità ambientale. Se la maggior parte delle cause (o concause) di morte dipende dall’ambiente, dagli stili di vita, dall’alimentazione non equilibrata, dai comportamenti, liberamente scelti o imposti, appare indubbio lo stretto rapporto tra degrado ambientale, rischi per la salute e capacità di gestire lo sviluppo. Quali misure appaiono prioritarie per migliorare l’ambiente e per informare le autorità e le popolazioni delle conseguenze sanitarie delle politiche di sviluppo? Se ormai non è possibile considerare la sostenibilità soltanto da un punto di vista medico, economico o ecologico, ma ormai anche estetico, cosa ne consegue su questioni come integrazione economica ed ecologica, equità intergenerazionale e intra-generazionale? Come valutare i diversi approcci economici alle questioni ambientali (economia ambientale neo-classica ed economia ecologica) e quale ri-configurazione avranno le nozioni di sostenibilità forte e debole, incommensurabilità e commensurabilità, neutralità etica o accettazione di diversi valori?
- Chissà che non convenga incamminarsi più decisamente verso una simbolica ambientale. Di fronte a questo termine peculiare – “simbolo”, in grado davvero – grazie alla sua potenzialità di riunificare mondi e sensi distanti – di “far cose con le parole” (potenzialità performativa del simbolo) e di elevare e trasformare il soggetto nel suo contesto vitale (potenzialità perlocutiva del simbolo); di fronte a questo veicolo linguistico e iconico verso un mondo altro che, in esso e per esso, si fa presente ed accade mediante la medesima parola simbolica (potenzialità ontologica e metafisica del simbolo); di fronte a questa moneta con due versi, entrambi costitutivi del senso unitario (potenzialità unificatrice e, insieme, distinguente del simbolo), non è mai sufficiente una ragione argomentativa, deduttiva o induttiva che sia (cf Twining-D. Miers, Come far cose con regole. Interpretazione e applicazione del diritto, traduzione di C. Garbarino, presentazione di R. Guastino, A. Giuffré, Milano 1990).
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