Intervista al Cardinale Ruini
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Camillo Ruini, classe 1931, sacerdote a ventitré anni, vescovo, poi cardinale, presidente della Cei per 16 anni, dal 1991 al 2007. Una vita per la Chiesa. Eppure la sua vocazione somiglia più a quelle dei seminaristi di oggi, che del passato. Sassuolo, provincia di Reggio Emilia, anni Trenta: una famiglia borghese, una dinastia di medici. Credenti, ma non ferventi praticanti. Il ragazzo Ruini legge a 13 anni, nella Vulgata, in latino, i Vangeli. Ne resta affascinato. A sedici anni entra nell’Azione Cattolica. Poi improvvisamente sceglie, sarà sacerdote. I genitori ostili a quell’idea, e angosciati: si aspettavano un medico, o una laurea, una sicura professione. E invece prevale la seduzione di una fede liberamente riscoperta, e difesa in appassionate discussioni, al liceo, con il professore di filosofia.
Fai il conto: aveva 14 anni alla fine della guerra, entrava in Ac nel 1947. Anni pesanti. Cosa ricorda, di quell’alba della Repubblica? «In Emilia, negli anni 1944-46, il clima da guerra civile. Dieci preti assassinati in pochi mesi. Il dolore del vescovo di Reggio, Socche, contro questa strage, il suo pastorale battuto contro il pavimento del Duomo, nel grido: “Basta!”». In questo clima a 18 anni Ruini decide che con Dio vuole mettere tutto se stesso in gioco. Laureato alla Gregoriana, ordinato, torna a Reggio a insegnare filosofia e teologia.
È il 1983, quando viene nominato vescovo ausiliare della città da Giovanni Paolo II. «Il ricordo che ho di lui è prima di tutto quello di un uomo che sembrava vivere sempre al cospetto di Dio; nel pregare come nel fare, Dio c’entrava sempre per lui, non era mai estraneo alla realtà. Mi colpiva la passione con cui stava ad ascoltare chi aveva davanti, nel desiderio di capire; e quanto poco invece amava ascoltarsi e compiacersi di sé. Mi sbalordiva la sua sollecitudine pastorale, l’attenzione alle parrocchie di Roma e a ogni uomo. Come quando, già malato, lo vidi salutare tutti, uno per uno, 600 malati dell’Unitalsi».
Sedici anni alla guida della Chiesa italiana. Quale impronta pensa di avere lasciato? «Io mi ritengo solo un interprete fedele della volontà del Papa, prima di Giovanni Paolo II, poi di Benedetto XVI. In questo senso, ciò che spero di aver trasmesso è la certezza che la secolarizzazione non è l’ultima parola sul cristianesimo, e che la fede in Cristo conserva intatta la sua giovinezza e la sua verità. Quindi ho desiderato una fede rispettosa, ma non timida; fondata nella carità, ma ben ferma nella verità – verità non posseduta, ma ricevuta in dono. Una fede che parla, che si manifesta nell’arena pubblica».
“Inculturazione della fede”, è un concetto cardine del Progetto culturale. Perché? «Più esattamente, evangelizzazione della cultura e inculturazione della fede. Perché la fede cristiana non è mai esistita “nuda”, ma si è incarnata di volta in volta nelle culture dei popoli convertiti. La storia d’Italia è anche duemila anni di storia di fede cristiana incarnata. Ma, come già notava il Concilio Vaticano II, nella modernità i mutamenti sono sempre più rapidi; e il cristianesimo non vuole né deve fermare, ma orientare questi mutamenti».
La “sfida educativa” è un altro tema su cui lei insiste. Recentemente il cardinale Bagnasco ha parlato di un «disastro antropologico» di natura educativa. L’analisi è la stessa? «Sì. Condivido questa preoccupazione, alla prima origine della quale vedo un oscuramento dell’orizzonte antropologico; oscuramento che consiste nel mettere in discussione la differenza qualitativa fra l’uomo e il resto dei viventi. Ma noi non siamo riducibili alla natura. L’uomo è intelligenza e libertà, e dunque responsabilità. Senza di ciò, non avrebbe senso la croce di Cristo».
Se le chiedessero lo stato di salute della fede in Italia? «La situazione non è facile, benché sia migliore che nel resto dell’Occidente. Confrontandoci con il Nord dell’Europa, credo sia stata giusta la scelta di reagire con energia alla secolarizzazione e di mantenere salda la tradizione. C’è in Italia uno “zoccolo duro” della fede che permane; il problema è la trasmissione della fede ai giovani. È questa la grande sfida».
E l’Italia, Eminenza? Per l’Italia lei non è preoccupato? «Lo sono prima ancora per l’Europa. Che ha perso la sua centralità economica e politica nel mondo, ma non può rinunciare alla sua vitalità spirituale e culturale. E questo è possibile solo superando ciò che Benedetto XVI ha chiamato un “odio di se stessa” dell’Europa; è possibile, inoltre, invertendo l’attuale trend demografico. Questo non significa affatto evocare uno scontro fra civiltà, ma avere coscienza della propria missione: l’Europa deve ricordarsi di essere la patria di quell’umanesimo cristiano che ha messo al suo centro l’uomo».
E quanto all’Italia invece, in questi giorni tumultuosi? «Anche l’Italia ha prima di tutto una vocazione, che è quella indicata da Giovanni Paolo II nel ’94, al tempo della grande preghiera per la nostra Nazione: la vocazione di mantenere vivo, per l’intera Europa, il patrimonio di fede e di cultura innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo. Poi ci sono le difficoltà contingenti, politiche e economiche, che ben conosciamo. Credo siano difficoltà superabili se si evitano le crisi istituzionali; e se ogni istituzione ha rispetto delle altre istituzioni. Quanto alla crisi economica, non dimentichiamo la solidità sostanziale mantenuta dal Paese in questo difficile periodo, solidità che fa sperare per il futuro. Senza però dimenticare che conseguenza inevitabile della globalizzazione è la redistribuzione delle risorse con quello che era il terzo mondo, cosa che non lascerà intatti i nostri tenori di vita occidentali. E tuttavia io sono ottimista per l’Italia: se smettessimo di autoflagellarci e autocommiserarci potremmo guardare realisticamente ai problemi, per risolverli».
L’ottimismo di chi ha visto molto, anche il peggio, e ha più degli altri memoria. Di chi con i suoi anni può dire: passeremo anche questo momento. Oggi, per il cardinale sono ottanta. In buona salute: molto da lavorare, un libro da scrivere. Sveglia alle 6.30, alle 7.15 dice Messa, ogni mattina. Nessun rimpianto, Eminenza? Rifarebbe tutto? Ride: «Ma certo che no. Vorrei non rifare i miei peccati, non ripetere gli errori. Ma in un bilancio, io devo dire grazie. Grazie a Dio, per ottant’anni passati, bene o male, a servirlo».
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