Iniziare alla preghiera oggi
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“La preghiera non si riduce allo spontaneo manifestarsi di un impulso interiore: per pregare, bisogna volerlo. Non basta neppure sapere quel che le Scritture rivelano sulla preghiera: è necessario anche imparare a pregare. È attraverso una trasmissione vivente (la sacra Tradizione) che lo Spirito Santo insegna a pregare ai figli di Dio, nella Chiesa ‘che crede e che prega’ (Dei Verbum 8)”.
Così il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2650) ci introduce al cuore del problema concernente l’educazione alla preghiera cristiana ricordando il dato elementare che, come la fede viene suscitata dallo Spirito nell’alveo di una traditio, di un processo di trasmissione (“Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”: 1Cor 15,3)1, così è anche per la preghiera, che è l’espressione della fede, la sua eloquenza (il NT parla di oratio fidei: Gc 5,15).
È esattamente questa parádosis, questa traditio, che rispetta e onora ciò che fede e preghiera sono: un dono che viene da Dio, o meglio, la risposta al dono di Dio che è il Figlio Gesù Cristo2. Del resto, già i vangeli attestano la comprensione della preghiera come elemento che può essere trasmesso e insegnato: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (Lc 11,1).
Prendendo dunque spunto dalle parole del Catechismo iniziamo la nostra riflessione sull’educazione alla preghiera cogliendo alcune dimensioni costitutive della preghiera che rappresentano anche delle difficoltà in ordine all’educazione alla preghiera. Parlando degli ostacoli che rendono tortuoso il cammino di iniziazione alla preghiera si paleseranno di conseguenza anche le priorità da accordare in questa operazione.
1) La preghiera cristiana come sforzo e fatica
Una prima grande difficoltà della preghiera è costituita dal fatto che essa non è uno spontaneo moto dell’animo, ma è opera che chiede sforzo e costa fatica. L’introduzione alla preghiera si deve dunque scontrare con l’ostacolo costituito dall’assunzione della fatica come elemento necessario per una pratica di preghiera. Iniziare alla fatica in tempi in cui imperversano i demoni della facilità e dell’immediatezza è certamente problematico. Al tempo stesso questo è un punto ineliminabile del programma di iniziazione alla preghiera.
Da sempre infatti la tradizione cristiana ha affermato che la preghiera è ascesi, fatica, lavoro, sforzo. Un detto dei padri del deserto è significativo: “I fratelli chiesero al padre Agatone: ‘Padre, nella vita spirituale quale virtù richiede maggiore fatica?’ Dice loro: ‘Perdonatemi, ma penso che non vi sia fatica così grande come pregare Dio. Infatti, quando l’uomo vuole pregare, i nemici cercano di impedirlo, ben sapendo che da nulla sono così ostacolati come dalla preghiera. Qualsiasi opera l’uomo intraprenda, se persevera in essa, possederà la quiete. La preghiera, invece, richiede lotta fino all’ultimo respiro’”.
Questo aspetto “ascetico” della preghiera cristiana (e sottolineo: cristiana; non mi riferisco qui all’esperienza di preghiera in altre religioni) si radica nel fatto che essa non coincide con una preghiera naturale o con l’innato senso di autotrascendimento dell’uomo o con un vago senso religioso.
Il pregare cristiano, che si innesta, per mezzo della fede e per l’azione dello Spirito santo, nel pregare di Gesù Cristo, il Figlio unigenito che ha rivelato il volto del Padre (cf. Gv 1,18), non è riducibile allo spontaneismo. Proprio perché relazionale e dialogica, proprio perché apertura all’Altro divino, la preghiera cristiana non può essere semplicemente slancio spontaneo del cuore o espressione del sentimento che abita nell’uomo.
La voce di due grandi teologi e uomini di preghiera del secolo scorso ci viene in aiuto. Ha scritto Dietrich Bonhoeffer: “‘Imparare a pregare’: è un’espressione che ci sembra contraddittoria. Noi diremmo piuttosto: o il nostro cuore sovrabbonda al punto tale che da se stesso comincia a pregare, o diversamente non imparerà mai a pregare. Ma è un errore pericoloso, in verità oggi molto diffuso tra i cristiani, il pensare che l’uomo possa naturalmente pregare”.
E Romano Guardini: “La preghiera che sgorga da un impulso interiore sembra, tutto sommato, costituire soltanto un’eccezione. Chi volesse soltanto su di essa edificare la propria vita religiosa finirebbe probabilmente col non pregare più, farebbe come chi volesse regolarsi in tutto secondo l’ispirazione e l’esperienza vissuta e fare a meno dell’ordine, della disciplina e del lavoro. Una vita simile sarebbe affidata al caso. Sarebbe governata soltanto dal piacere, diverrebbe arbitraria a fantastica e tutto ciò che chiamiamo serietà, responsabilità, sicurezza scomparirebbe.
Altrettanto accadrebbe di una preghiera che volesse affidarsi soltanto alla spontaneità interiore. Chi medita onestamente e sinceramente sui propri rapporti con Dio si accorgerà presto che la preghiera non è soltanto un’espressione spontanea del nostro intimo, ma che essa è anche e anzitutto un servizio compiuto nella fedeltà e nell’obbedienza. Così bisogna volerla e praticarla”.
La preghiera cristiana è “seconda” rispetto alla parola che Dio ha rivolto all’uomo per primo, è risposta al Dio che gli ha parlato rivelandosi, e dunque comporta un lavoro di apertura relazionale, di ascolto, di conoscenza. Senza questo lavoro, la preghiera resta esposta all’individualismo esasperato di oggi e rischia le derive del soggettivismo, dell’emozionale, dello psicologismo.
2) L’arte dell’ascolto
L’iniziazione alla preghiera implica l’educazione all’ascolto. Se il Dio biblico è il Dio che parla, il credente è colui che ascolta. Ascoltare significa fare spazio alla presenza di un Altro ed entrare nella relazione di filialità con il Padre nel Figlio Gesù Cristo per mezzo dello Spirito. E questo significa che un’adeguata educazione alla preghiera dovrà far spazio al silenzio.
E proprio per questo il silenzio dovrebbe abitare, nei tempi opportuni, la liturgia (“Per promuovere la partecipazione attiva … si osservi, a tempo debito, il sacro silenzio”: Sacrosanctum Concilium 30), dove appare chiaramente che il silenzio non è una pura passività, ma un’attività, un’azione interiore e comune (assembleare) al tempo stesso, è anch’esso “liturgia”. Il silenzio, che spesso è al cuore della ricerca spirituale di molte persone che si volgono ad esperienze religiose orientali o esoteriche, ha tutto il suo spazio nella preghiera cristiana.
Esso non è ricerca di tranquillità psicologica, ma abbandono radicale dell’orante alla Parola che non cessa di chiamarlo al dono di sé. Esso dunque esige un lavoro, una fatica, così come l’accoglienza della Parola. Solo grazie al silenzio il credente può essere educato a cercare e trovare il Signore non solo fuori di lui, ma in lui, a dare corpo all’esperienza dell’inabitazione della vita divina in lui (Gv 14,23) e a praticare la liturgia interiore, la santificazione della presenza di Cristo nel suo cuore (1Pt 3,15), a cogliere il proprio corpo come tempio di Dio (1Cor 3,16-17; 2Cor 6,16).
L’ascolto dev’essere considerato un caposaldo dell’educazione alla preghiera cristiana che non è un monologo autocentrato, ma ricerca di una relazione e di un dialogo con Colui che ha parlato per primo e che solo attraverso l’ascolto è possibile conoscere e amare.
3) L’interiorità
La preghiera ha bisogno di una vita interiore. Occorre pertanto, nel lavoro di educazione alla preghiera, favorire l’instaurarsi nella persona di una dialogicità interiore, della capacità di pensare e riflettere, di attenzione e concentrazione, di porsi domande, di creare ponti tra esteriorità e interiorità. Se la preghiera è “giudicare e decidere con Dio” (come suggerisce il termine ebraico per “preghiera”, tefillah), essa chiede all’uomo di sviluppare i movimenti umanissimi di riflessione, di conoscenza di sé, di lucidità e vigilanza per giungere anche al discernimento di sé e della realtà.
Nessuna fretta di insegnare forme o metodi di preghiera: più urgente e importante è educare l’umanità della persona a conoscersi e pensarsi davanti a Dio. Del resto, questo è l’insegnamento che ancora una volta ci proviene dai Salmi: in essi, l’orante pensa la propria vita, in situazioni determinate, davanti a Dio, per arrivare a vivere in obbedienza alla volontà di Dio, per integrare nella fede situazioni drammatiche ed esperienze dolorose.
In tempi segnati dal primato dell’esteriorità e dell’apparire, di colonizzazione dell’interiorità, di esibizione della sfera interiore e di pornografia dell’anima, è importante accordare spazio e peso alla vita interiore, all’“uomo nascosto del cuore” di cui parla la prima lettera di Pietro (3,4), alle umanissime dimensioni che consentono alla preghiera di svilupparsi come manifestazione di una persona unita e integrata.
4) La dimensione comunitaria e storica
Un ultimo aspetto che va posto chiaramente in luce, soprattutto in questi tempi di individualismo esasperato, di narcisismo e di ricerche spirituali che nient’altro sono se non celebrazioni del sé, è che la preghiera cristiana chiama ad uscire da sé per vivere nella giustizia e nell’amore nella storia e nella compagnia degli uomini. Nessun ripiegamento intimistico, nessuna evasione dalle responsabilità storiche ed esistenziali: la preghiera non è nido, tana, rifugio, luogo di benessere personale.
L’uomo che prega è anche l’uomo che sceglie e che paga in prima persona il prezzo delle sue scelte fatte in conformità alla parola di Dio ascoltata, meditata e divenuta luce per il suo cammino. La preghiera anche personale avviene sempre nell’alveo dell’alleanza, dunque nella grande compagnia della chiesa tutta, così come nella preghiera la persona, portando tutta se stessa, vi porta anche le sue relazioni, le condizioni storiche in cui vive, vi porta il suo mondo. E al mondo e alla vita la preghiera rimanda il credente con il compito di illuminarli con la luce della volontà di Dio.
Luciano Manicardi – LeP
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