Il Vangelo, nelle visioni della mistica M. Valtorta
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Dal “Poema dell’Uomo Dio”
di Maria Valtorta
Ancora la sinagoga di Nazaret, in giorno di sabato, però. Gesù ha letto l’apologo contro Abimelec e termina con le parole: «Esca la lui un fuoco e divori i cedri del Libano». Poi rende al sinagogo il rotolo. «Il resto non lo leggi? Bene sarebbe per far comprendere l’apologo» dice il sinagogo.
«Non occorre. Il tempo di Abimelec è molto lontano. Io applico al momento di ora l’apologo antico. Udite, genti di Nazaret. Voi già sapete, per istruzione del vostro sinagogo, il quale fu istruito a suo tempo da un rabbi, e questo da un altro ancora, e così via da secoli, e sempre con lo stesso metodo e con le stesse conclusioni, le applicazioni dell’apologo contro Abimelec. Da Me sentirete un’altra applicazione.
E vi prego, del resto, di saper usare della vostra intelligenza e non essere come corde appoggiate sulle carrucole del pozzo, che finché non sono logore vanno dalla carrucola all’acqua, dall’acqua alla carrucola senza mai poter cambiare. L’uomo non è un canapo obbligato, né un arnese meccanico. L’uomo è dotato di un cervello intelligente e lo deve saper usare di suo, a seconda dei bisogni e delle circostanze. Perché, se la lettera della parola è eterna, le circostanze cambiano.
Miseri quei maestri che non sanno saper volere la fatica e la soddisfazione di estrarre volta per volta l’insegnamento nuovo, ossia lo spirito che le parole antiche e sapienti contengono sempre. Saranno simili a echi che non possono che ripetere, magari dieci e dieci volte, una sola parola, senza mettervene pur una di loro.
Gli alberi, ossia l’umanità raffigurata nel bosco dove sono radunate tutte le specie di piante, di arbusti e di erbe, sentono il bisogno di essere condotti da uno che si aggravi di tutte le glorie ma anche, ed è peso ben maggiore, di tutti i gravami dell’autorità, dell’essere il responsabile della felicità o infelicità dei sudditi, il responsabile presso i sudditi, presso i popoli vicini e, ciò che è tremendo, presso Dio. Perché le corone o le preminenze sociali, quali che siano, sono date dagli uomini, è vero, ma permesse da Dio, senza la quale condiscendenza nessuna forza umana può imporsi. Cosa che spiega gli impensabili e improvvisi mutamenti di dinastie che parevano eterne, e di potenze che parevano intoccabili, e che, quando passarono la misura nell’essere punizioni ai popoli o prova dei popoli, furono rovesciate dagli stessi, per permesso di Dio, divenendo nulla, polvere, talora fango di bassa cloaca.
Ho detto: i popoli sentono il bisogno di eleggersi uno che si aggravi di tutte le responsabilità verso i sudditi, verso le nazioni vicine e verso Dio, ciò che è più tremendo di tutto. Perché, se il giudizio della storia è tremendo, e invano cercano interessi di popoli di mutarlo, perché eventi e popoli futuri lo renderanno alla sua prima tremenda verità, ancor peggio è il giudizio di Dio, il quale non subisce pressioni da chicchessia, e non è soggetto a mutamenti di umore e di giudizio, come troppo spesso gli uomini lo sono, e tanto meno è soggetto a errori di giudizio.
Occorrerebbe perciò che gli eletti ad essere capi di popoli e creatori di storia agissero con la giustizia eroica propria dei santi, per non essere infamati nei secoli futuri e puniti da Dio nei secoli dei secoli.
Ma torniamo all’apologo di Abimelec. Gli alberi dunque vollero eleggersi un re e andarono dall’ulivo. Ma questo, albero sacro e consacrato ad usi soprannaturali, per l’olio che arde davanti al Signore ed è parte preponderante nelle decime e nei sacrifizi, che presta il suo liquido a formare il balsamo santo per l’unzione dell’altare, dei sacerdoti e dei re, e scende con proprietà direi quasi taumaturgiche nei corpi o sui corpi malati, rispose: “Come posso io mancare alla mia vocazione santa e soprannaturale per avvilirmi in cose della terra?”.
Oh! La dolce risposta dell’ulivo! Perché mai non è imparata e praticata da tutti coloro che Dio elegge a santa missione, almeno da quelli, dico almeno? Perché in verità andrebbe detta da ogni uomo in risposta alle suggestioni del demonio, dato che ogni uomo è re e figlio di Dio, dotato di un’anima che tale lo fa, regale, figlialmente divino, chiamato a destino soprannaturale.
Ha un’anima che è un altare e una casa. L’altare di Dio, la casa dove il Padre dei Cieli scende a ricevere amore e riverenza dal figlio e suddito. Ogni uomo ha un’anima, ed ogni anima essendo altare fa dell’uomo che la contiene un sacerdote, custode dell’altare, ed è detto nel Levitico: “Il Sacerdote non si contamini”. L’uomo dunque avrebbe il dovere di rispondere alle tentazioni del demonio, del mondo e della carne: “Posso io cessare di essere spirituale per occuparmi di cose materiali e peccaminose?”.
Gli alberi andarono allora dal fico, invitandolo a regnare su loro. Ma il fico rispose: “Come posso io rinunziare alla mia dolcezza ed ai miei soavissimi frutti per divenire vostro re?”.
Molti si volgono a colui che è dolce per averlo re. Non tanto per ammirazione della sua dolcezza quanto perché sperano che per essere molto dolce finisca col diventare un re da burla, dal quale si possa attendere ogni consenso e sul quale permettersi ogni licenza. Ma la dolcezza non è debolezza. È bontà. Giusta. Intelligente. Ferma.
Non scambiate mai la dolcezza con la debolezza.
La prima è virtù, la seconda è difetto. E appunto essendo virtù comunica a chi la possiede una dirittura di coscienza che gli permette di resistere alle sollecitazioni e seduzioni umane, intese a piegarlo verso i loro interessi, che non sono gli interessi di Dio, rimanendo fedele al suo destino, ad ogni costo. Il dolce di spirito non ribatterà mai con asprezza le rampogne altrui, non respingerà mai con durezza chi lo reclama. Ma però, con perdoni e sorriso, dirà sempre:
“Fratello, lasciami alla mia dolce sorte. Io sono qui per consolarti ed aiutarti, ma non posso divenire re, quale tu pensi, perché di un’unica regalità mi curo e preoccupo, per l’anima mia e per l’anima tua: di quella spirituale”.
Gli alberi andarono dalla vite a chiederle di essere il loro re. Ma la vite rispose: “Come posso io rinunciare ad essere allegrezza e forza per venire a regnare su voi?”.
L’essere re, e per le responsabilità e per i rimorsi, perché più raro di diamante nero è il re che non pecca e non si crea rimorsi, porta sempre a cupezze di spirito. La potenza seduce finché splende come un faro da lontano, ma quando la si è raggiunta si vede che non è che un lume di lucciola e non di stella.
E anche: la potenza non è che una forza legata dai mille canapi dei mille interessi che si agitano intorno ad un re. Interessi di cortigiani, interessi di alleati, interessi personali e di parentele. Quanti re giurano a se stessi, mentre l’olio li consacra: “Io sarò imparziale”, e poi non sanno esserlo?
Come un albero potente che non si ribella al primo abbraccio dell’edera molle e sottile dicendo: “È tanto esile che non mi può nuocere” e anzi si compiace di esserne inghirlandato e di esserne il protettore che la sorregge nel suo salire, così sovente, potrei dire sempre, il re cede al primo abbraccio di un interesse cortigiano, alleato, personale o di parentela che a lui si volge, e si compiace di esserne il munifico protettore.
“È tanto poca cosa!” dice anche se la coscienza gli grida: “Bada!”. E pensa non possa nuocergli né nel potere, né nel buon nome.
Anche l’albero crede così. Ma viene il giorno che, ramo dopo ramo, crescendo in robustezza e in lunghezza, crescendo nella voracità di suggere linfe del suolo e salire alla conquista di luce e di sole, l’edera abbraccia tutto l’albero potente, lo soverchia, lo soffoca, l’uccide. Ed era tanto esile! E lui era tanto forte! Anche per i re, è così. Un primo compromesso con la propria missione, una prima alzata di spalle alla voce della propria coscienza, perché le lodi sono dolci, perché l’aria di protettore ricercato piace, e viene il momento in cui il re non regna, ma regnano gli interessi altrui e lo imprigionano, lo imbavagliano fino a soffocarlo e lo sopprimono se, divenuti più forte di lui, vedono che egli non si affretta a morire.
Anche l’uomo comune, sempre un re nello spirito, si perde se accetta regalità minori per superbia, per avidità. E perde la sua serenità spirituale che gli viene dall’unione con Dio. Perché il demonio, il mondo e la carne possono dare un illusorio potere e godere, ma a costo della allegrezza spirituale che viene dall’unione con Dio.
Allegrezza e forza dei poveri di spirito, ben meritate che l’uomo sappia dire: “E come posso accettare di divenire re nella parte inferiore se, venendo ad alleanza con voi, io perdo forza e allegrezza interna e il Cielo e la sua regalità vera?”. E possono anche dire, questi beati poveri di spirito che hanno solo la mira di possedere il Regno dei Cieli e sprezzano ogni altra ricchezza che quel regno non sia, e possono anche dire: “E come possiamo venire meno alla nostra missione, che è quella di maturare succhi fortificatori e di allegrezza per questa umanità sorella, che vive nell’arido deserto della animalità e che ha bisogno di essere dissetata per non morire, per essere nutrita di succhi vitali come un bimbo privo di nutrice?
Noi siamo le nutrici dell’umanità che ha perduto il seno di Dio, che erra sterile e malata, che giungerebbe alla disperata morte, ai neri scetticismi, se non trovasse noi che, con l’allegra operosità dei liberi da ogni laccio terreno, li facessimo persuasi che vi è una Vita, una Gioia, una Libertà, una Pace. Non possiamo rinunciare a questa carità per un interesse meschino”.
Gli alberi andarono allora dallo spino. Questo non li respinse. Ma impose patti severi: “Se mi volete per re, venite sotto di me. Ma se non lo volete fare, dopo avermi eletto, io farò di ogni spino tormento acceso e arderò tutti voi, anche i cedri del Libano”.
Ecco le regalità che il mondo accetta per vere! La prepotenza e la ferocia sono, per l’umanità corrotta, scambiate per vera regalità, mentre la mitezza e la bontà vengono prese per stoltezza e bassi sentimenti. L’uomo non si sottomette al Bene ma si sottomette al Male. Ne è sedotto. E conseguentemente ne è arso. Questo è l’apologo di Abimelec.
Ma Io ora ve ne propongo un altro. Non lontano e per fatti lontani. Ma vicino e presente.
Gli animali pensarono di eleggersi un re. Ed essendo astuti pensarono di eleggersi uno che non desse timore di essere forte o feroce. Scartarono dunque il leone e tutti i felini. Dissero di non volere le rostrate aquile né nessun altro uccello di rapina. Diffidarono del cavallo che con rapidità poteva raggiungerli e vedere le loro azioni; e ancor più diffidarono dell’asino di cui sapevano la pazienza ma anche le subite furie e i potenti zoccoli. Inorridirono di avere per re la scimmia perché troppo intelligente e vendicativa.
Con la scusa che il serpente si era prestato a satana per sedurre l’uomo, dissero di non volerlo a re nonostante i suoi vaghi colori e l’eleganza delle sue mosse. In realtà non lo vollero perché ne conoscevano il silenzioso incedere, il forte potere dei suoi muscoli, il tremendo agire del suo veleno. Darsi come re un toro o altro animale munito di aguzze corna? Ohibò! “Anche il diavolo le ha” dissero. Ma pensavano: “Se ci ribelliamo, un giorno esso ci stermina con le sue corna”.
Scansa e scansa, videro un agnelletto grasso e bianco saltabeccare allegro su un prato verde, dando musate alla tonda mammella materna. Non aveva corna, ma aveva occhi miti come un cielo d’aprile. Era mansueto e semplice. Di tutto era contento. E dell’acqua di un piccolo rio dove beveva tuffando il musetto rosato; e dei fioretti dai diversi sapori che appagano l’occhio e il palato; e dell’erba folta in cui era bello giacere quando era sazio; e delle nuvole che parevano altri agnellini che scorrazzassero su quei prati azzurri, lassù, e lo invitassero a giocare correndo sul prato come esse nel cielo; e, soprattutto, delle carezze della mamma che ancora gli permetteva qualche tiepida succhiata leccandogli intanto il vello bianco con la sua rosea lingua; e dell’ovile sicuro e riparato dai venti, della lettiera ben soffice e fragrante, nella quale era dolce dormire presso la madre.
“È di facile accontentatura. È senza armi né veleno. È ingenuo. Facciamolo re”. E tale lo fecero. E se ne gloriavano perché era bello e buono, ammirato dai popoli vicini, amato dai sudditi per la sua paziente mansuetudine.
Passò del tempo e l’agnello divenne montone e disse: “Ora è tempo che io realmente governi. Ora ho il pieno possesso della cognizione della mia missione. Il volere di Dio, che ha permesso che io fossi eletto re, mi ha poi formato a questa missione, dandomi capacità di regnare. È dunque giusto che io la eserciti in modo perfetto, anche per non trascurare i doni di Dio”.
E vedendo sudditi che facevano cose contrarie alla onestà dei costumi, o alla carità, alla dolcezza, alla lealtà, alla morigeratezza, all’ubbidienza, al rispetto, alla prudenza, e così via, alzò la voce per ammonire. I sudditi si risero del suo belato saggio e dolce che non spauriva come il ruggito dei felini, né come lo strido degli avvoltoi quando si calano rapidi sulla preda, né come il sibilo del serpente e neppure come l’abbaiata del cane che incute timore.
L’agnello divenuto montone non si limitò più a belare. Ma andò dai colpevoli per ricondurli al loro dovere. Ma il serpente gli sgusciò fra le zampe. L’aquila si elevò a volo lasciandolo in asso. I felini con una zampata lo scansarono minacciando: “Vedi che cosa c’è nella zampa felpata che per ora ti scansa soltanto? Artigli”. I cavalli, e tutti i corridori in genere, si dettero a giostrare al galoppo intorno a lui, deridendolo. E i forti elefanti o altri pachidermi, con un urto del muso, lo gettarono qua e là, mentre le scimmie, dall’alto degli alberi, lo bersagliarono di proiettili.
L’agnello divenuto montone si inquietò, infine, e disse: “Non volevo usare né le mie corna né la mia forza. Perché io pure ho una forza in questo collo, e sarà presa a modello per abbattere ostacoli di guerra. Non volevo usarla perché preferisco usare amore e persuasione. Ma posto che non vi piegate con queste armi, ecco che userò la forza, perché se voi mancate al vostro dovere verso me e Dio, io non voglio mancare al mio dovere verso Dio e voi. Qui sono stato messo per guidarvi alla Giustizia e al Bene, da voi e da Dio. E qui voglio che Giustizia e Bene, ossia Ordine regnino”.
E punì con le corna, leggermente perché era buono, un testardo botolo che continuava a molestare i vicini, e poi, col collo fortissimo, sfondò la porta della tana dove un ingordo ed egoista porco aveva accumulato cibarie a scapito degli altri, e pure abbatté il cespuglio di liane eletto da due lussuriosi scimmiotti per i loro illeciti amori.
“Questo re si è fatto troppo forte. Vuole realmente regnare lui. Vuole proprio che si viva da saggi. Ciò non ci va a genio. Bisogna detronizzarlo” decisero.
Ma un astuto scimmiotto consigliò: “Non facciamolo altro che con l’apparenza di un motivo giusto. Altrimenti faremo brutta figura presso i popoli e saremo invisi a Dio. Spiamo dunque ogni azione dell’agnello divenuto montone per poterlo accusare con una parvenza di giustizia”.
“Ci penso io” disse il serpente. “Ed io pure” disse la scimmia. Uno strisciando fra le erbe, l’altra stando sull’alto delle piante, non persero mai di vista l’agnello divenuto montone, e ogni sera, quando lui si ritirava per riposare dalle fatiche della missione, e per meditare sulle misure da adottare e le parole da usare per domare la ribellione e vincere i peccati dei sudditi, questi, meno qualche raro onesto e fedele, si riunivano per ascoltare il rapporto delle due spie e dei due traditori. Perché tali erano anche.
Il serpente diceva al suo re: “Ti seguo perché ti amo e se vedessi che sei assalito voglio potere difenderti”.
La scimmia diceva al suo re: “Come ti ammiro! Ti voglio aiutare. Guarda, da qua io vedo che oltre quel prato si sta peccando. Corri!”; e poi diceva ai compagni: “Anche oggi ha preso parte al banchetto di alcuni peccatori. Ha finto di andare là per convertirli, ma poi, in realtà, è stato complice dei loro bagordi”.
E il serpente riferiva: “È andato fino fuori dal suo popolo, avvicinando farfalle, mosconi e viscidi lumaconi. È un infedele. Commercia con stranieri immondi”.
Così parlavano alle spalle dell’innocente, credendo che costui ignorasse. Ma lo spirito del Signore, che lo aveva formato alla sua missione, lo illuminava anche sulle congiure dei sudditi. Avrebbe potuto fuggire sdegnato, maledicendoli. Ma l’agnello era dolce ed umile di cuore. Amava. Aveva il torto di amare. E aveva quello anche più grande di perseverare, amando e perdonando, nella sua missione, a costo della morte, per compiere la volontà di Dio. Oh! che torti questi presso gli uomini! Imperdonabili! E tanto lo erano che a lui procurarono condanna.
“Sia ucciso per essere liberati dalla sua oppressione”. E il serpente si incaricò di ucciderlo perché è sempre il serpente il traditore…
Questo è l’altro apologo. A te capirlo, popolo di Nazaret! Io, per l’amore che a te mi lega, ti auguro di rimanere almeno al grado di popolo ostile, e non oltre. L’amor della terra in cui venni bambino, in cui crebbi amandovi e avendo amore, mi fa dire a voi tutti: “Non siete più ostili. Non fate che la storia dica: ‘Da Nazaret venne il suo traditore e i suoi giudici iniqui’ ”.
Addio. Siate retti nel giudicare e costanti nel volere. La prima cosa tutti voi, miei concittadini. La seconda quelli fra voi che non sono disturbati da pensieri disonesti. Io vado… La pace sia con voi».
E Gesù, fra un silenzio penoso, rotto solo da due o tre voci che lo approvano, esce, mesto, a capo chino, dalla sinagoga di Nazaret.
È seguito dagli apostoli. In coda a tutti sono i figli d’Alfeo. E i loro occhi non sono certo gli occhi di un agnello mansueto… Guardano severamente la folla ostile, e Giuda Taddeo non esita a piantarsi ritto di fronte al fratello Simone e a dirgli: «Credevo di avere un fratello più onesto e di carattere più forte».
Simone china il capo e tace. Ma l’altro fratello, spalleggiato da altri di Nazaret, dice: «Vergognati di offendere il fratello maggiore!».
«No. Mi vergogno di voi. Tutti voi. Non matrigna. Ma matrigna depravata è questa Nazaret per il Messia. Però udite la mia profezia. Piangerete tante lacrime da alimentare una fonte, ma non serviranno a lavare dai libri della storia il nome vero di questa città e di voi. Sapete quale è? “Stoltezza”. Addio».
Giacomo aggiunge un saluto più ampio con augurare luce di sapienza. Ed escono insieme ad Alfeo di Sara e a due giovanotti che, se ben li ravviso, sono i due asinai che scortarono gli asinelli usati per andare incontro a Giovanna di Cusa morente.
La folla, rimasta interdetta, mormora: «Ma da dove mai costui ha tanta sapienza?».
«E i miracoli donde li fa? Perché farli, li fa. Tutta la Palestina ne parla».
«Non è il Figlio di Giuseppe il legnaiolo? Tutti Lo abbiamo visto, al banco del fabbro di Nazaret, fare tavole e letti, e aggiustare ruote e serrature. Non è neppure andato a scuola, e solo sua Madre gli fu Maestra».
«Uno scandalo anche questo che nostro padre ha criticato» dice Giuseppe d’Alfeo.
«Ma anche i tuoi fratelli finirono la scuola con Maria di Giuseppe».
«Eh! Mio padre fu debole presso la moglie…» risponde ancora Giuseppe.
«Anche il fratello di tuo padre, allora?».
«Anche».
«Ma è proprio il figlio del legnaiuolo?».
«E non lo vedi?».
«Oh! Tanti si assomigliano! Io penso che sia uno che si dice tale ma non lo è».
«E dove è allora Gesù di Giuseppe?»
«Ti pare che sua Madre non Lo conosca?».
«Qui ci sono i suoi fratelli e le sue sorelle, e tutti Lo dicono parente. Non è forse vero, voi due?».
I due anziani figli di Alfeo annuiscono.
«Allora è divenuto folle o indemoniato, perché ciò che dice non può venire da un operaio».
«Bisognerebbe non ascoltarlo. La sua pretesa dottrina è delirio o possessione»…
… Gesù è fermo sulla piazza in attesa di Alfeo di Sara che parla con un uomo. E, mentre attende, uno degli asinai che era rimasto presso la porta della sinagoga gli riporta le calunnie dette nella stessa.
«Non te ne addolorare. Un profeta generalmente non è onorato dalla sua patria e dalla sua casa. L’uomo è tanto stolto che crede che per essere profeti occorre essere quasi fuori della vita. E i concittadini e i famigliari più di tutti conoscono e ricordano l’umanità del loro concittadino e parente. Ma la verità trionferà sempre. Ed ora ti saluto. La pace sia con te».
«Grazie, Maestro, di avere guarito mia madre».
«Lo meritavi perché hai saputo credere. È inerte il mio potere qui, perché qui non c’è Fede.
Andiamo, amici. Domani all’alba partiremo».
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