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II digiuno e l’astinenza nell’esperienza storica della Chiesa

25 Febbraio 2016 | Filed under: Catechesi Liturgica, Quaresima
     

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II digiuno nell’esempio e nella parola di Gesù

Il digiuno dei cristiani trova il suo mo­dello e il suo significato nuovo e origina­le in Gesù.

E vero che il Maestro non impone in modo esplicito ai discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e di astinenza. Ma ricorda la necessità del digiuno per lottare contro il maligno e durante tutta la sua vita, in alcuni momenti particolarmente significativi, ne mette in luce l’importanza e ne indica lo spirito e lo stile secondo cui viverlo. Quaranta giorni di digiuno precedono il combattimento spirituale delle “tentazioni”, che Gesù affronta nel deserto e che supera con la ferma adesione alla parola di Dio: «Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (Mt 4,4). Con il suo digiuno Gesù si prepara a compiere la sua missione di salvezza in filiale obbedienza al Padre e in servizio d’amore agli uomi­ni.

Riprendendo la pratica e il valore del digiuno in uso presso il popolo di Israele, Gesù ne afferma con forza il significato es­senzialmente interiore e religioso, e rifiuta pertanto gli atteggiamenti puramente este­riori e “ipocriti” (cf Mt 6,1-6.16-18): digiuno, preghiera ed elemosina sono un atto di offerta e di amore al Padre «che è nel segreto» e «che vede nel segreto» (Mt 6,18). Sono un aspetto essenziale della sequela di Cristo da parte dei discepoli.

Quando gli viene domandato per quale motivo i suoi discepoli non praticano le forme di digiuno che sono in uso presso taluni ambienti del giudaismo del tempo, Gesù risponde: «Finché [gli invitati alle noz­ze] hanno lo sposo con loro, non possono digiunare» (Mc 2,19). La pratica penitenziale del digiuno non è adatta a manifestare la gioia della comunione sponsale dei discepo­li con Gesù. Ma egli subito aggiunge: «Ver­ranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno» (Mc 2,20). In queste parole la Chiesa trova il fondamento dell’in­vito al digiuno come segno di partecipazione dei discepoli all’evento doloroso della passione e della morte del Signore, e come forma di culto spirituale e di vigilante attesa, che si fa particolarmente intensa nella cele­brazione del Triduo della Santa Pasqua.

Il riferimento a Cristo e alla sua morte e risurrezione è essenziale e decisivo per defi­nire il senso cristiano del digiuno e dell’asti­nenza, come di ogni altra forma di mortifi­cazione: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). È infatti nella sequela di Cristo e nella conformità con la sua croce gloriosa che il cristiano trova la propria identità e la forza per accogliere e vivere con frutto la penitenza.

la prassi penitenziale nell’Antico Testamento

La pratica del digiuno, così come quella dell’elemosina e della preghiera, non è una novità portata da Gesù: egli rimanda all’esperienza religiosa del popolo d’Israele, dove il digiuno è praticato come momento di professione di fede nell’unico vero Dio, fonte di ogni bene, e come elemento neces­sario per superare le prove alle quali sono sottoposte la fede e la fiducia nel Signore. Mosè ed Elia si astengono dal cibo per prepararsi all’incontro con Dio. La co­scienza del peccato, il dolore e il pentimen­to, la conversione e l’espiazione, pur mani­festandosi in molteplici modi, trovano nel digiuno la loro espressione più naturale e immediata . Le celebrazioni penitenziali, in tempo di gravi calamità e nei momenti decisivi dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo, comportano anche l’indizione di un solenne digiuno per l’intera comunità. A rendere più intensa l’implorazione della preghiera, Israele ricorre alla prostrazione fisica che segue alla rinuncia del cibo. Privandosi del cibo, alcuni protagonisti della storia del popolo d’Israele riconoscono i limiti della loro forza umana e si appellano alla forza di Dio, che solo li può salvare.

E tuttavia anche nelle pratiche di digiuno, come in ogni espressione della religiosità, sipossono annidare molte insidie: l’autocom­piacimento, la pretesa di rivendicare diritti di fronte a Dio, l’illusione di esimersi con un dovere cultuale dai più stringenti doveri verso il prossimo. Per questo il profeta de­nuncia la falsità del formalismo e predica il vero digiuno che il Signore vuole: «Scioglie­re le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spez­zare ogni giogo… Dividere il pane con l’affa­mato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7). C’è dunque un intimo legame fra il digiu­no e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, l’esercizio della carità fraterna e la lotta con­tro l’ingiustizia: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con là giustizia» (Tob 12,8). (Pubblicato)

 

La vita nuova secondo lo Spirito

4 Per il cristiano la mortificazione non è mai fine a sé stessa né si configura come semplice strumento di controllo di sé, ma rappresenta la via necessaria per partecipa­re alla morte gloriosa di Cristo: in questa morte egli viene inserito con il Battesimo e dal Battesimo riceve il dono e il compito di esprimerla nella vita morale (cf Rm 6,3-4), in una condotta che comporta il dominio su tutto ciò che è segno e frutto del male: «fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria» (Col 3,5).

L’adesione a Cristo morto e risorto e la fedeltà al dono della vita nuova e della vera libertà esigono la lotta contro il pec­cato che inquina il cuore dell’uomo, e con­tro tutto ciò che al peccato conduce: di qui la necessità della rinuncia. «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gai 5,1). Consapevole di questa responsabilità, l’apostolo Paolo, .ad imitazione degli atleti che si preparano a gareggiare nello stadio, afferma senza timori: «Tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1 Cor 9,27).

L’impegno al dominio di sé e alla morti­ficazione è dunque parte integrante del­l’esperienza cristiana come tale e rientra nelle esigenze della vita nuova secondo lo Spirito: «Vi dico dunque: Camminate se­condo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne… Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazien­za, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gai 5,16.22).

In particolare, per il cristiano l’astinenza non nasce dal rifiuto di alcuni cibi come se fossero cattivi: egli accoglie l’insegnamen­to di Gesù, per il quale non esistono né cibi proibiti né osservanze di semplice purità legale: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Me 7,15). (Pubblicato)

 

La tradizione spirituale e pastorale della Chiesa

5 La dottrina e la pratica del digiuno e dell’astinenza, da sempre presenti nella vita della Chiesa, assumono una fisionomia più definita negli ambienti monastici del IV secolo, sia con la sottolineatura abituale del­la frugalità, sia con la privazione del cibo in determinati tempi dell’anno liturgico. Nel medesimo periodo, sotto l’influsso, degli usi monastici, le comunità ecclesiali delineano le forme concrete della prassi penitenziale.

La pratica antica del digiuno consiste nor­malmente nel consumare un solo pasto nel­la giornata, dopo il vespro, a cui fa seguito, abitualmente, la riunione serale per l’ascolto della parola di Dio e la preghiera comunita­ria. Si consolida, attraverso i secoli, l’usanza secondo cui quanto i cristiani risparmiano con il digiuno venga destinato per l’assi­stenza ai poveri ed agli ammalati. «Quanto sarebbe religioso il digiuno, se quello che spendi per il tuo banchetto lo inviassi ai poveri!» (9), esorta Sant’Ambrogio; e San­t’Agostino gli fa eco: «Diamo in elemosina quanto riceviamo dal digiuno e dall’astinen­za» (10).

Così l’astensione dal cibo è sempre unita all’ascolto e alla meditazione della parola di Dio, alla preghiera e all’amore generoso ver­so coloro che hanno bisogno. In questo sen­so San Pietro Crisologo afferma: «Queste tre còse, preghiera, digiuno, misericordia, sono .una cosa sola, e ricevono vita l’una dall’altra, fl digiuno è l’anima della preghiera e la miseri­còrdia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate.; Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, di­giuni Chi digiuna abbia misericordia» (11).    (Pubblicato)

Nel IV secolo prende corpo anche l’orga­nizzazione del tempo della Quaresima per i catecumeni e per i penitenti. Questo viene proposto e vissuto come cammino di prepa­razione alla rinascita pasquale nel Battésimo e nella Penitenza (12), e quindi è orientato verso il Triduo pasquale, centro e cardine dell’anno liturgico che celebra l’intera opera della redenzione e che costituisce l’itinerario privilegiato di fede della comunità cristiana (13). Per questo San Leone Magno può dire che il vero digiuno quaresimale consiste «nell’astenersi non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati» (14).

Durante l’epoca medioevale e moderna, la pratica penitenziale viene tenuta in gran­de considerazione, diventando oggetto di numerosi interventi normativi ed entrando a far parte delle osservanze religiose più comuni e diffuse tra il popolo cristiano.

I! Concilio e il rinnovamento della disciplina penitenziale

611 Concilio Vaticano II, nella sua finalità di cammino verso la santità e di “aggior­namento pastorale”, chiede che siano rinnovate le disposizioni della Chiesa sul digiuno e sull’astinenza. da chiarirne le motivazioni nel contesto attuale della vita cristiana personale e cómunitaria  .

Alla richièsta del Co’ricmo risponde Paolo VI con la Costituzione apostolica Paenitemini sulla disciplina penitenziale (17 febbraio 1966). In essa Viene richiamato in particolare il valore della penitenza come atteggiamen­to inferiore, come «atto religioso personale, che ha come termine l’amore’e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi» (16). Da questo valore fondamentale dipende l’autenticità di ogni forma peniten­ziale.

In questo contesto Paolo VI sollecita tutti a riscoprire e a vivere il collegamento’del digiuno e dell’astinenza con le altre forme di penitenza e soprattutto con le opere di cari­tà, di giustizia e di solidarietà: «Là dove è maggiore il benessere economico, si dovrà piuttosto dare testimonianza di ascesi, affin­chè i figli della Chiesa non siano coinvolti dallo spirito del “mondo”, e si dovrà dare nello stesso tempo una testimonianza di carità verso i fratelli che soffrono nella po­vertà e nella fame, oltre ogni barriera di nazioni e di continenti. Nei paesi invece dove il tenore di vita è più disagiato, sarà più accetto al Padre e più utile alle membra del Corpo di Cristo che i cristiani – mentre cercano con ogni mezzo di promuovere una migliore giustizia sociale – offrano, nella preghiera, la loro sofferenza al Signore, in intima unione con i dolori di Cristo» (17).


     

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