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È un tempo di trasformazioni radicali

13 Agosto 2018 | Filed under: Attualità
     

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È indispensabile segnalare, sia pure in modo sommario, alcuni cambi di paradigma socio-culturale. Il primo riguarda lo stesso concetto di cultura che non ha più l’originaria accezione intellettuale illuministica di aristocrazia delle arti, scienze e pensiero, ma ha assunto caratteri antropologici trasversali a tutti i settori del pensare e agire umano, recuperando l’antica categoria di paideia e humanitas, i due termini che indicavano nella classicità la cultura (vocabolo allora ignoto se non per l’“agri-cultura”). Per questo il perimetro del concetto è molto ampio e coinvolge, ad esempio, la cultura industriale, contadina, di massa, femminile, giovanile e così via.
Essa si esprime, poi, oltre che nelle civiltà nazionali e continentali, anche in linguaggi comuni e universali, veri e propri nuovi “esperanto”, come la musica, lo sport, la moda, i media. Conseguenza evidente è nel fenomeno del multiculturalismo, che è però un concetto statico di pura e semplice coesistenza tra etnie e civiltà differenti: più significativo è quando diventa interculturalità, categoria più dinamica che suppone un’interazione forte con cui le identità entrano in dialogo, sia pure faticoso, tra loro.
Questo incontro è favorito dall’urbanesimo sempre più dominante. Al dato positivo dell’osmosi tra le culture si associano alcuni corollari problematici tra loro antitetici. Da un lato, il sincretismo o il “politeismo dei valori” che incrina i canoni identitari e gli stessi codici etici personali; d’altro lato, la reazione dei fondamentalismi, dei nazionalismi, dei sovranismi, dei populismi, dei localismi (tant’è vero che ora si parla di “glocalizzazione” che sta minando l’ancora dominante globalizzazione).
L’erosione delle identità culturali, morali e spirituali e la stessa fragilità dei nuovi modelli etico-sociali e politici, la mutevolezza e l’accelerazione dei fenomeni, la loro fluidità quasi aeriforme (codificata ormai nella simbologia della “liquidità” prospettata da Bauman) incidono evidentemente anche sull’antropologia.
Il tema è ovviamente complesso e ammette molteplici analisi ed esiti. Indichiamo solo il fenomeno dell’io frammentato, legato al primato delle emozioni, a ciò che è più immediato e gratificante, all’accumulo lineare di cose più che all’approfondimento dei significati. La società, infatti, cerca di soddisfare tutti i bisogni ma spegne i grandi desideri ed elude i progetti a più largo respiro, creando così uno stato di frustrazione e soprattutto la sfiducia in un futuro.
La vita personale è sazia di consumi eppur vuota, stinta e talora persino spiritualmente estinta. Fiorisce, così, il narcisismo, ossia l’autoreferenzialità che ha vari emblemi simbolici come il selfie, la cuffia auricolare, o anche il “branco” omologato, la discoteca o l’esteriorità corporea.
Ma si ha anche la deriva antitetica del rigetto radicale espresso attraverso la protesta fine a se stessa, il bullismo, la violenza verbale sulle bacheche informatiche o l’indifferenza generalizzata ma anche con la caduta nelle tossicodipendenze o con gli stessi suicidi in giovane età. Si configura, quindi, un nuovo fenotipo di società.
Per tentare un’esemplificazione significativa – rimandando per il resto alla sterminata documentazione sociologica elaborata in modo continuo – proponiamo una sintesi attraverso una battuta del filosofo Paul Ricoeur: «Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Domina, infatti, il primato dello strumento rispetto al significato, soprattutto se ultimo e globale.
Pensiamo alla prevalenza della tecnica (la cosiddetta “tecnocrazia”) sulla scienza; oppure al dominio della finanza sull’economia; all’aumento di capitale più che all’investimento produttivo e lavorativo; all’eccesso di specializzazione e all’assenza di sintesi, in tutti i campi del sapere, compresa la teologia; alla mera gestione dello Stato rispetto alla vera progettualità politica; alla strumentazione virtuale della comunicazione che sostituisce l’incontro personale; alla riduzione dei rapporti alla mera sessualità che emargina e alla fine elide l’eros e l’amore; all’eccesso religioso devozionale che intisichisce anziché alimentare la fede autentica e così via.
Un altro esempio “sociale” (ma nel senso di social) che anticipa il discorso più specifico, che svolgeremo successivamente, è quello espresso da un asserto da tempo formalizzato: «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», asserto che coinvolge un tema fondamentale come quello di verità (e anche di “natura umana”).
Il filosofo Maurizio Ferraris, studiandone gli esiti sociali nel saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino 2017), commentava: «Frase potente e promettente questa sul primato dell’interpretazione, perché offre in premio la più bella delle illusioni: quella di avere sempre ragione, indipendentemente da qualunque smentita».
Si pensi al fatto che ora i politici più potenti impugnano senza esitazione le loro interpretazioni e postverità come strumenti di governo, le fanno proliferare così da renderle apparentemente “vere”. Ferraris concludeva: «Che cosa potrà mai essere un mondo o anche semplicemente una democrazia in cui si accetti la regola che non ci sono fatti ma solo interpretazioni?».
Soprattutto quando queste fake news sono frutto di una manovra ingannatrice ramificata lungo le arterie virtuali della rete informatica? Infine affrontiamo solo con un’evocazione la questione religiosa. La “secolarità” è un valore tipico del cristianesimo sulla base dell’assioma evangelico «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», ma anche della stessa Incarnazione che non cancella la sarx per una gnosi spiritualistica.
Proprio per questo ogni teocrazia o ierocrazia non è cristiana, come non lo è il fondamentalismo sacrale, nonostante le ricorrenti tentazioni in tal senso. C’è, però, anche un “secolarismo” o “secolarizzazione”, fenomeno ampiamente studiato (si veda, ad esempio, l’imponente e famoso saggio L’età secolare di Charles Taylor, del 2007) che si oppone nettamente a una coesistenza e convivenza con la religione.
E questo avviene attraverso vari percorsi: ne facciamo emergere due più sottili (la persecuzione esplicita è, certo, più evidente ma è presente in ambiti circoscritti). Il primo è il cosiddetto “apateismo”, cioè l’apatia religiosa e l’indifferenza morale per le quali che Dio esista o meno è del tutto irrilevante, così come nebbiose, intercambiabili e soggettive sono le categorie etiche.
È ciò che è ben descritto da papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «Il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio. Il reale cede posto all’apparenza… Si ha l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite» (n. 62).
Il pontefice introduce anche il secondo percorso connettendolo al precedente: «Esso tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo; con la negazione di ogni trascendenza ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, dando luogo a un disorientamento generalizzato» (n. 64).
Concludendo è, però, importante ribadire che l’attenzione ai cambi di paradigma socio-culturali non dev’essere mai né un atto di mera esecrazione, né la tentazione di ritirarsi in oasi sacrali, risalendo nostalgicamente a un passato mitizzato.
Il mondo in cui ora viviamo è ricco di fermenti e di sfide rivolte alla fede, ma è anche dotato di grandi risorse umane e spirituali delle quali i giovani sono spesso portatori: basti solo citare la solidarietà vissuta, il volontariato, l’universalismo, l’anelito di libertà, la vittoria su molte malattie, il progresso straordinario della scienza, l’autenticità testimoniale richiesta dai giovani alle religioni e alla politica e così via. Ma questo è un altro capitolo molto importante da scrivere in parallelo a quello finora abbozzato.
Gianfranco Ravasi


     

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