Chiesa cattolica e popolo ebraico
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Sollecitata dal viaggio di papa Francesco in Israele, riscopro un libretto che giaceva da molto tempo intonso nei miei scaffali, “La terra d’Israele e il suo significato per i cristiani. Il punto di vista di un cattolico”, edito da Morcelliana nel lontano 1994 per la cura di Massimo Giuliani.
Il cattolico in questione è Pierre Lenhardt, della Congregazione di Nôtre Dame de Sion, che ha vissuto e insegnato a Gerusalemme, oltre che a Parigi e a Berlino, tra i più illustri studiosi della cultura talmudica. Il libro è stato scritto immediatamente dopo il riconoscimento dello Stato di Israele da parte della Chiesa di Roma e prende le mosse proprio da una riflessione sui termini dell’accordo stipulato tra Chiesa e Stato d’Israele per porre una domanda, io credo, ancora molto attuale e importante: qual è il significato che la terra d’Israele ha per i cattolici e qual è il rapporto tra questo significato e quello che la Terra d’Israele ha per gli ebrei?
Il ragionamento di Lenhardt si dipana così, in termini essenzialmente, anche se non esclusivamente, teologici, sull’immagine che le due religioni hanno della Città Santa di Gerusalemme e della Terra d’Israele, per arrivare a sostituire alla visione tradizionale della contrapposizione delle due religioni monoteiste nella Terra d’Israele quella di una centralità ebraica di Israele, da cui deriverebbe il valore che Gerusalemme e la Terra Santa hanno per i cristiani. Dietro quest’argomentazione è l’idea della permanenza del patto di elezione, il rifiuto della teoria della sostituzione, l’idea forte «dell’origine e della radice ebraica della Chiesa in Gesù Cristo».
Una riconsiderazione cattolica del significato che la Terra d’Israele ha per l’ebraismo, quindi, che si accompagna al rilievo dato dall’autore alle motivazioni teologiche e non solo politiche dell’accordo tra Stato d’Israele e Chiesa del 1993: un accordo che, sia da parte della Santa Sede che di Israele, si apriva sottolineando la «natura unica delle relazioni tra Chiesa cattolica e popolo ebraico», e il progresso «nella mutua comprensione e amicizia fra cattolici ed ebrei», nelle linee delle formulazioni più innovative della “Nostra Aetate”. Da parte ebraica, sottolineava Lenhardt, era la prima volta che l’unicità di tale relazione veniva affermata solennemente.
Il viaggio di papa Francesco si prospetta carico di attese e di speranze anche dal punto di vista più strettamente politico e può forse preludere a una valorizzazione del ruolo dei cristiani nel difficile processo di pacificazione tra israeliani e palestinesi. Una valorizzazione questa che, in un momento così difficile per le comunità cristiane in Asia e in Africa, può essere rilevante anche a livello più generale.
Che nello sfondo di tali problematiche, solitamente viste come esclusivamente politiche, si agitino reinterpretazioni teologiche e dottrinali, non può che essere un contributo al processo di pacificazione e amicizia tra le due religioni e fra Israele e Santa Sede. Dalle due parti, naturalmente, non solo da quella di una rivisitazione cattolica delle radici comuni.
Anna Foa
Avvenire
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