A proposito di “laicità” – 1° parte
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Fare chiarezza sul significato del temine “laico”, usato e abusato oggi giorni da giornali e tv, in politica quanti in ambito sociale ed ecclesiale, può servire a coglierne il significato più profondo in un momento come l’attuale in cui la laicità di tutti – credenti e non credenti – è messa alla prova. Quel che è certo è che da essa dipende, in una certa misura, il fururo della nostra società e della stessa Chiesa.
Si parla tanto, oggi, di laicità: ma chi è il laico?1 C’è un significato comune dietro gli usi e gli abusi che si fanno di questo termine in contesti del tutto differenti? Si sente dire spesso che alle contrapposizioni ideologiche di una volta si è ormai sostituita quella tra laici e cattolici (G. Rusconi). Si da per scontato, così, che un laico non possa essere un cattolico. Eppure, storicamente, la qualifica di laico indicava precisamente coloro che, anche se privi dell’ordine sacerdotale, erano pur sempre a pieno titolo membri della Chiesa.
Ma anche intendendo per laico il non cattolico, il significato del termine rimane aperto a una gamma vastissima di sfumature. C’è chi, come Gianni Vattimo, si dice laico in contrasto con la Chiesa istituzionale, ma personalmente “crede di credere”; c’è chi, all’opposto, come i cosiddetti “atei devoti”, fa consistere la propria laicità nella mancanza di fede, anche se si trova in linea con le posizioni culturali della gerarchia cattolica; c’è chi, come era il caso di Norberto Bobbio, pur dichiarandosi estraneo sia alla fede che all’istituzione ecclesiastica, non si sente in conflitto con esse; c’è infine chi, come Carlo Augusto Viano, ritiene sua missione combattere ogni religione e, a maggior ragione, il cattolicesimo.
Chi è, a questo punto, il laico? Forse, il modo migliore di fare un po’ di chiarezza è quello di partire dall’originario significato del termine, per cui “laico è il membro del popolo di Dio che non è chierico” (L. F. Pizzolato). Quest’antica accezione permane ancora nella Lumen Gentium dove laici vengono definiti “tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa” (n. 31).
Il laico è, dunque, colui che “manca” di qualcosa: così, per esempio, tra i membri del Consiglio superiore della magistratura, si distinguono i membri “togati”, che sono magistrati, da quelli “laici”, che non lo sono. Quanto alla laicità, essa è la presa di coscienza di questo “non essere”, di questo “non avere” e l’atteggiamento che ne consegue.
Laico, in questo senso, è chi, rendendosi conto dei propri limiti e dei propri vuoti, rinunzia ad assolutizzare la propria posizione e, proprio per questo, è disponibile ad ascoltare, a lasciarsi inquietare e mettere in discussione, perché, più alla radice, è capace di percepire l'”altro” non come una minaccia alla propria integrità e sicurezza, bensì come un potenziale arricchimento.
In questa prospettiva, la laicità si contrappone non alla religiosità o, più specificamente, a un’appartenenza ecclesiale, ma al cieco dogmatismo e a ogni forma di autoreferenzialità e di chiusura. Da qui, l’abissale distanza che separa la laicità non solo dal fondamentalismo religioso – sia esso islamico, indù, ebraico o cristiano -, ma anche da quel fondamentalismo rovesciato e non meno fanatico che assume le forme del laicismo.
Giuseppe Savagnone
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