6 novembre – Anniversario della beatificazione di “Mamma Rosa”
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COME UN FIORE DI CAMPO
Non aveva che diciannove anni, Rosa, quando un fatto cambiò per sempre la direzione della sua vita.
Quarta di sette figli, viveva coi genitori a Marola, un minuscolo paese alla periferia di Vicenza.
Era l’autunno del 1885 e come ogni anno il paese, coi suoi ottocento abitanti circa, si preparava ad affrontare l’inverno. Le provviste di cibo raccolte durante l’estate venivano diligentemente accantonate nelle dispense delle case. Le donne facevano l’inventario degli abiti invernali e, se necessario, si mettevano a confezionarne con ago e filo di nuovi.
Anche Rosa, sarta esperta, si adoperava a cucire maglioni, sciarpe, cappelli. E lo faceva non soltanto per sé, i suoi fratelli, le sue sorelle, i suoi genitori. Ma anche per i vicini. Così gli avevano insegnato fin da piccola, così il suo cuore generoso gli suggeriva di fare.
Fra questi, in un gruppo di case rustiche denominato Castello, c’era la famiglia di Carlo Barban. Sposato con Stella Fattori, aveva due bambine, Chiara e Italia, rispettivamente di quattordici e quattro mesi. In casa abitava anche l’anziano nonno, infermo, padre di Carlo, e il fratello di quest’ultimo, minorenne e celibe.
Accadde che Stella si ammalò di un morbo inesorabile. Provò a combattere, a resistere, ma non ce la fece. Morì in pochi giorni, lasciando il marito in una grande disperazione.
Rosa fu colpita da questa morte, dal dolore di Carlo, dal suo smarrimento di fronte alla possibilità di dover affrontare il resto dell’esistenza da solo, con due figlie piccole, un padre anziano e ammalato, un fratello ancora troppo giovane per assumersi delle responsabilità. Fu colpita a tal punto che sentì dentro di sé una profonda compassione e, insieme un’ispirazione, seguendo la quale la sua vita cambiò. E cambiò per sempre.
Sarà lei stessa, tempo dopo, a raccontare cosa le accadde: «Sentii subito l’ispirazione di Dio di offrirmi alle due povere orfanelle, perché mi facevano tanta pietà, e anche per dare una mano ai tre uomini, poveri e bisognosi».
Non sapeva esattamente dove quell’ispirazione l’avrebbe portata. Non fece calcoli ne progetti. Semplicemente, nei giorni seguenti, uscì di casa e andò a bussare alla porta di Carlo. Si offrì di curare le due bambine e, insieme, la casa, il riassetto delle stanze, la cucina, le pulizie.
Carlo, come la maggior parte degli abitanti di Marola, era contadino. Usciva presto al mattino e tornava quando già era buio. Senza la generosità di Rosa non avrebbe potuto continuare nel suo lavoro. Rosa, come un angelo caduto da chissà quale cielo, fece sì che tutto in quella famiglia continuasse come sempre.
Arrivava presto al mattino, si prendeva cura delle bambine mentre Carlo andava al lavoro. Accudiva il nonno e si interessava del fratello di Carlo. Quest’ultimo, quando la sera tornava a casa, trovava la cena pronta, la casa pulita, i letti rifatti. Insomma, trovava tutto in ordine.
Scrisse Romana Rompato, poetessa coetanea di Rosa e che, come lei, nacque in una famiglia povera e numerosa: «Rosa sapeva che Carlo e il fratello Clemente sarebbero rincasati molto tempo dopo l’Ave Maria e che nella povera cucina avrebbero trovato il buio e il disordine». Quando i due entravano in casa Rosa «accendeva il lume ad olio e metteva al fuoco la cena. E intanto che il latte bolliva e la polenta si abbrustoliva alla brace, la giovinetta si dava intorno a spazzare, a spolverare, e riordinare l’acquaio, la credenza, la tavola. Poi, risaliva alle camerette del primo piano, e preparava ogni cosa per la notte, chiudeva le imposte, non senza aver tracciato un segno di croce sulla culla delle bimbe, ed aver riacceso il lumino ad olio davanti all’immagine del Sacro Cuore». E ancora: «Ridiscesa in cucina, correva a rimestare la pappa nel pentolino e a preparare il latte nel poppatoio, la cena frugale ai tre uomini stanchi. Sorridendo raccomandava al vecchio quanto sarebbe stato necessario, il giorno seguente, per la cura delle due orfanelle e della casa, assicurando che sarebbe ritornata l’indomani mattina, dopo la Messa. Infine, raccolta in un fagotto la biancheria da lavare e da raccomodare e salutato il caro paziente vecchietto, tornava a notte ormai inoltrata alla casetta paterna per dormirvi».
Così per tre mesi. Tre mesi di lavoro dedicati interamente ai vicini.
Perché lo fece?
L’abbiamo detto. Rosa agì perché sentì compassione, ispirata nel profondo del suo cuore. Tuttavia, ancora non sapeva fino a cosa esattamente quell’ispirazione l’avrebbe portata. Fino a dove, quella compassione che le scoppiò in petto, l’avrebbe condotta.
Lo scoprì poco dopo.
Una scoperta alla quale si abbandonò docilmente e che le cambiò per sempre la vita, che da quel giorno divenne avventurosa, a tratti anche amara.
Accadde che Carlo, nel mese di febbraio dell’anno seguente, si recò a casa dei genitori di Rosa. Andò lì per avanzare una richiesta precisa: chiedere Rosa in moglie. Evidentemente colpito dalla sua dedizione, pensò che fosse un buon partito per sé e per tutti loro.
I genitori non dissero di no. Tuttavia mancava ancora il parere di Rosa. Cosa avrebbe detto? Già, perché un conto è rassettare casa di persone estranee perché mossi a compassione a seguito di una tragedia familiare. Un altro è dedicare a questi estranei la propria intera esistenza.
Rosa era una bella ragazza. Aveva avuto alcune proposte di fidanzamento ma aveva sempre declinato. Di Carlo, probabilmente, non era innamorata. Il matrimonio era un’ipotesi che non rifiutava a priori, seppure ad esso non vi aveva ancora pensato.
La proposta di Carlo la soprese. Quando i genitori gliene parlarono non rispose subito. Chiese del tempo per pensarci. Voleva pregarci sopra. Voleva riflettere. Voleva confrontarsi col suo confessore e anche con Dio.
Era questa la strada che Lui aveva pensato per lei? Era per portarla al matrimonio con Carlo che Lui le aveva fatto scoppiare il cuore di compassione il giorno in cui Stella morì?
Rispondere non era facile. Pregò. Fece silenzio, Si confrontò. Ascoltò il suo cuore. E alla fine capì una cosa: sposarsi con Carlo sarebbe stato un sacrificio. Un sacrificio che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita.
Voleva farlo questo sacrificio? Avrebbe detto sì?
La risposta la prese da sola, anche se in molti le consigliarono di accettare. La prese da sola perché sentì dentro di sé che quella proposta di matrimonio era suggerita da Dio. Né più né meno. Sentì che poteva dire di no, certo, che era libera, ma nello stesso tempo che se avrebbe detto di sì quel sacrificio sarebbe stato gradito in cielo. Per questo, e per nessun altro motivo, accettò. E si promise al vedovo Carlo.
Fu un atto eroico. Così lo interpretò anche tutta la comunità di Marola.
Scriverà più tardi Bernardino, uno dei figli che nasceranno dal matrimonio fra Carlo e Rosa: «Mio padre rimase vedovo a ventisette anni. È stato un atto eroico sposarlo, per testimonianza di tutti. Rosa, dopo aver ascoltato la messa, andava ogni giorno ad accudire la casa di lui, vedovo, le due bambine e i tre uomini. Il parroco del paese l’ha consigliata a sposare il vedovo. Anche altri le diedero lo stesso consiglio. “Voglio educare le bambine come voglio io”, diceva. Non so come si preparò alle nozze. Portò in dote venticinque lire. Tutti dicevano che era un matrimonio eroico. Prima aveva avuto altri inviti che aveva sempre rifiutato anche se migliori».
In paese tutti avevano chiara una cosa: quel matrimonio non faceva gola a nessuno. Qualsiasi ragazza si sarebbe mantenuta alla larga da Carlo, dalla sua famiglia. Non così fece Rosa.
Ascoltò il suo cuore. Ascoltò Dio.
Dirà Pietro Carta, amico di famiglia: «Fu proprio per compassione verso le due orfanelle che accettò la proposta di Carlo».
Il fidanzamento fu molto breve. Durò appena tre mesi.
Il 5 maggio 1886 i due si accostarono all’altare. Come corredo Rosa portò pochi vestiti e la biancheria che già aveva.
Il viaggio di nozze fu fatto al santuario di Monte Berico, a meno di dieci chilometri di distanza.
Più volte alcuni amici la fermarono per strada e le chiesero perché l’avesse fatto. Rispondeva: «Il Signore stesso mi ha messa su questa strada, ed io mi sono lasciata condurre da Lui. Io mi sono sposata proprio per sacrificarmi. Ho sposato il vedovo Carlo per pietà delle sue tenere figlie; per poter allevare queste piccole orfane. L’ho fatto proprio per amor loro, perché era la volontà di Dio. Io sapevo fare la sarta e quindi avrei preparato loro dei graziosi vestitini. Così avrei fatto ad esse da mamma e sarebbero cresciute bene, perché mi ero proposto di educarle per il Signore, come intendevo io».
Rosa sposò Carlo, dunque, perché sentì che era volontà di Dio. Lo sposò sacrificandosi. E mai avrebbe immaginato tutto ciò che questo sacrificio avrebbe generato nella sua vita, i fatti davvero straordinari che le accaddero da quel sì in avanti.
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